Trent’anni dopo, torna la magia di Miles Davis e la sua band

“Per me la musica e la vita sono una questione di stile”, diceva il grande Miles Davis, uno dei pochi jazzisti in grado di esprimere al meglio, anche dal punto di vista commerciale, il proprio potenziale artistico, e probabilmente l’ultimo ad avere anche un profilo di star dell’industria discografica mondiale. E non è un caso se in Francia, dove venne nominato Cavaliere della Legion d’Onore, si guadagnò il soprannome di “Picasso del Jazz”, accostato a un artista che dipingeva gli oggetti per come li pensava e non per come li vedeva: questione di stile.

Qualche sera prima di ricevere l’ambito riconoscimento, dall’allora ministro della Cultura Jack Lang, il 1º luglio 1991, e 90 giorni prima della sua morte, Miles Davis si era esibito nella serata di apertura dell’annuale Jazz à Vienne Festival, nel sud-est della Francia, con una formazione – il Miles Davis Group – che comprendeva il sassofonista Kenny Garrett, il batterista Ricky Wellman, il tastierista Deron Johnson, il bassista Richard Patterson e il “bassista solista” Joseph McCreary, Jr. quest’ultimo così soprannominato per via dell’accordatura del suo strumento di un’ottava più alta, che gli permetteva di emulare il suono di un chitarrista solista.

La registrazione di quella performance, che mette in mostra una band esperta, che suona una fusion ibrida fra jazz, funky e R&B, e che è rimasta a lungo inedita, viene pubblicata 30 anni più tardi, nell’ambito delle celebrazioni della Black Music, pubblicata dalla Rhino Records col titolo Merci Miles! Live at Vienne, con le note di copertina del produttore Ashley Kahn, e impreziosito da brani scritti da Prince per Davis nel 1988 e interpretazioni di canzoni di Michael Jackson e Cyndi Lauper.

Nel 1991, Miles Davis è il trombettista più celebre al mondo con ben cinque decenni di evoluzione musicale alle spalle, avendo trovato – da genio alchimista della musica qual era – il modo di combinare il jazz con l’R&B, il rock e il funk, in una sintesi teosofica, che ha plasmato il corso della musica pop e che ne ha alimentato la sua leggenda. Sebbene questa nuova registrazione nulla aggiunga allo sterminato catalogo del grande jazzman, quel che s’apprezza è il fatto che, anche se in condizioni di salute cagionevoli, Miles Davis guida la band con fare sorprendentemente energico e muscoloso. Ascoltandolo si nota che la band impiega qualche minuto prima di immettersi nel suo tipico groove ipnotico. Ma quando si entra nel vivo, e le dinamiche si intensificano man mano che Davis dialoga coi suoi musicisti e inizia a destreggiarsi, assumendo una posizione fetale, ogni assolo diventa fisico e la magia derivata si sprigiona con tutta la sua potenza.

“Io tra il piano dei Pink Floyd e Paul McCartney che canta”

“Una volta si chiamava Lo Scafandro, oggi è il Jolly. In quel locale di Portofino il barista Mauro, un romano, è da sempre anche il dj. Mi preparava cassette con le canzoni degli Abba, Giorgio Moroder, Julio Iglesias, Gipsy Kings, Patty Pravo, Loredana Berté. Il pop italiano di fine anni Ottanta, la disco continentale”. Il bambino Jack Savoretti passava le estati lì. “Mio padre lavorava, io ero con mia madre. Una donna bellissima, favolosa anche adesso, ogni sera è l’ultima ad andare a dormire. In quelle stagioni era una party girl, lo era stata pure nella Swinging London, da grande amica di Keith Richards. Ballava fino alle tre del mattino, allo Scafandro o all’ultimo bar di Portofino che restava aperto. Io morivo di sonno, protestavo, ma mi divertiva vederla scatenata in mezzo ai cugini. Alla fine mi rassegnavo e mi univo alla festa, con in mano una Coca offerta da Mauro”. Il ricordo di Jack non è solo una cartolina di famiglia “in nome di quelle vacanze leggendarie, come di quelle che torneremo a fare”. È diventato un album di recupero delle radici di un suono gioioso, meno rock e più morbido, insinuante e sexy, ostinatamente votato a creare “nostalgia ma non malinconia”, spiega.

Il titolo, Europiana è tutto un programma. Come in un rovesciamento di ruoli, ora Savoretti diventa il genitore che, stressato dai lockdown, inventa feste casalinghe per i suoi figli più grandi, Constance e Winter (che seguendo gli Europei è diventato un ultrà azzurro). La nuova arrivata ha tre mesi e si chiama Celeste (“perché l’estate scorsa a Formentera scrutavamo il cielo cercando stelle cadenti. Vedemmo un bolide di fuoco e mia moglie Jemma scoprì di essere incinta: per lei quella luce era l’anima della nostra bimba che si annunciava”). Come sia, “alla terza settimana chiusi in casa, Connie ci disse ‘Oh, oggi 800 morti’ con la noncuranza con cui ci avrebbe chiesto di passarle i corn flakes. Io e Jemma decidemmo di spegnere la tv e di mettere in pratica l’idea dei ‘Fabulous Fridays’ insieme ai ragazzi. Ogni settimana sceglievamo un tema per la festa, con musiche e costumi. C’era il venerdì di Grease, quello di West Side Story, quelli spagnolo, francese o messicano. Ballavamo tutti e quattro fino a notte. Finché Connie mi suggerì: ‘papà, perché non incidi un disco con pezzi divertenti come questi? La radio fa schifo, è piena di canzoni d’amore ma nessuna romantica!’ Così sono nati il brano Dancing on the living room e l’intero album Europiana”.

Dentro ci sono featuring illustri: Nile Rodgers degli Chic o John Oates, una metà della premiata ditta vintage Hall&Oates. “Mi sono sentito come Tarantino quando si mette in caccia della sua mitologia personale. L’unico che mi è sfuggito, per una questione di agende sfavorevoli, è Michael McDonald, l’ex leader dei Doobie Brothers”. Per alzare l’asticella, l’album è stato registrato a Abbey Road: “Sono stato machiavellico: in quegli studi c’è magia. I miei musicisti non hanno mai offerto performance così elevate. Io suono il piano con cui i Pink Floyd registrarono The Dark Side of the Moon, e dove Paul McCartney rieseguì per me Lady Madonna”, gongola Savoretti, che a proposito di nomi mirabolanti si mangia le mani per lo slittamento a settembre di un festival inglese dove il vecchio leone Van Morrison avrebbe aperta la serata proprio per Jack. “Era disponibile solo per giugno. Ma ho chiesto agli organizzatori di mandarmi il poster, perché rischio di non crederci neanch’io”. Jack s’illumina, al solo evocare i rockers dell’età dell’oro. “Però il post-pandemia potrà accendere nuove fonti di energia. Dopo ogni peste l’arte è tornata ad essere necessaria, per esprimere la liberazione dopo l’angoscia. Basta con la pochezza delle canzoni create dai produttori e non dagli autori. In radio sembrano tanti spot, pezzi costruiti per catturarti nei primi dieci secondi. Serve di più. Qui in Inghilterra mi chiedono dei Måneskin. Che sono stati bravi e furbi a usare l’Eurovision per spaccare. È una delle poche band che ha fatto tanta vera gavetta: questa dedizione alla fine premia”. Quanto a lui, “non vedo l’ora di tornare su un palco. I musicisti sono come i marinai. Non è solo questione di navigare. La nostra scelta di vita ci impone di mettere la barca in acqua per non impazzire. Io sono il capitano della mia ciurma. E a volte il mozzo”.

Tanti cari saluti alle… cartoline. I social le hanno soppiantate

Un fenomeno quasi estinto, di nicchia, da collezionismo pervicace. Oggi per questi scopi si usa WhatsApp, e le stories di Instagram. In tempo reale, senza attese, sorprese, sedimentazioni mentali. E dire che precorsero lo slang succinto dei tweet, un pugno di righe per fissare il ricordo di una villeggiatura o la sensazione di un attimo, inoltrandoli a parenti e amici. E risparmiare: non occorreva imbustarle, a differenza delle lettere, un’affrancatura e via.

Sono trascorsi poco più di 150 anni da quella che è ecumenicamente considerata la prima cartolina al mondo: la Correspondenz-Karte, emessa dalle poste imperiali austroungariche il primo ottobre del 1869. Nella nostra penisola avrebbe preso a diffondersi capillarmente cinque primavere più tardi.

Il primo autentico boom planetario ci fu in occasione dell’Esposizione universale di Parigi del 1889, quando ne vennero stampate a decine di migliaia, affrescate con la Tour Eiffel nuova di zecca.

La loro gloria sarebbe durata un secolo ancora, fino all’avvento dell’era digitale.

Un libro appena pubblicato da Il Saggiatore, Tanti cari saluti, scritto da un graphic designer del 1994, Lorenzo Marchionni, ne rinverdisce i fasti, riavvolgendo le bobine del mangianastri della memoria collettiva. In senso non solo metaforico, anche materiale: le cartoline illustrate del volume, realmente esistite e spedite, possono essere staccate lungo la linea tratteggiata sulla sinistra.

Una contro-epica, dal sapore trash, delle vacanze di massa dell’Italia del Secondo Novecento, imbucate attraverso quei rettangoli cartacei a fantasia. Scintillavano d’estate, trattenendola. “Baci dalla riviera”, “Ci rivediamo a settembre”. Pensieri estemporanei e alla buona; filosofia, poesia spicciola. Quel che contava era il significante, non il significato. Quante volte abbiamo vergato a matita o con una penna al capolinea frasi simili, stereotipate, negli spazi bianchi sul retro?

L’attenzione di chi le riceveva veniva catturata più che altro da certe grafiche ai confini del grottesco. Un’estetica che oggi non passerebbe. Parole d’ordine bizzarre e politicamente scorrettissime. L’erotismo pecoreccio e controriformista, il sessismo naïf e disarmante la fanno da padrone in questo viaggio in un passato così lontano e così vicino.

Esempio numero 1. C’è una ragazza sostanzialmente nuda, con giusto un melone (o una spugna, o un pompelmo gigante… non si capisce bene) a coprirle l’origine del creato. Lei è seduta sulla prua di una barchetta spiaggiata. E insinuante sillaba: “Ho bisogno di te. Raggiungimi a…” Gatteo Mare (Emilia-Romagna).

Esempio numero 2. Veduta sul lago di Garda dall’alto. Scontornate si stagliano due figure: la silhouette di di un uomo vestito di tutto punto, con la lingua penzoloni e quella di una giovane donna in topless. Slogan, triviale e ferale: “Qui la caccia è libera”. Siamo dalle parti delle commedie sexy di serie Z degli anni settanta.

Ecco un’altra cartolina agghiacciante quando voleva essere bollente. Si vede una sfilza di natiche femminili in tanga, sei per l’esattezza, più o meno abbronzate. Saluti dal Lido di Tarquinia per delle “Vacanze cul… turali a colori”. Oppure “Evviva il panorama della riviera adriatica”: zoom sotto l’ombelico, il paesaggio è pubico.

Un’invasione di oleografia porno. Sicilia. Una bionda senza nulla addosso, di trequarti sul bagnasciuga: “Toglietemi tutto, ma non la mia coppola”. Però non mancano i modelli più innocenti e salaci. Ambientazione, Pisa. Nel riquadro sulla gauche c’è Pinocchio che tocca la torre, ma quest’ultima frana… E al figlio di Geppetto non resta che darsela a gambe levate. Omaggio agli Ottanta, con annessa citazione di Quelli della notte di Renzo Arbore. “Di giorno la vita è una grande corrida”, con una spianata di ombrelloni avventizi sulla torrida spiaggia rocciosa; controcanto, “Ma la notte no!”, e una coppia stilizzata si promette una love story eterna al tramonto davanti al mare.

Questa è invece antica, un po’ rancida, da angiporto, in bianco e nero. Cinque uomini col cappello, più un bambino, che urinano all’aperto contro un muro nella postura degli autogrill. Sotto, una scritta nera: “Ecco gli effetti delle acque San Pellegrino”. E poi, tra le altre, un papa Wojtyla gigante come Godzilla e le cartoline-telegramma. “Destinazione, passione. Provenienza, ardore”. “Amatissima colombina mia, STOP. Si è spento il sole da quando non ci sei. STOP. Non vedo l’ora di tornare da te, STOP”.

Un vintage dell’anima, che fa tenerezza.

Eni, più foreste per inquinare Greenpeace: ecco il trucco

Tutelare le foreste per accumulare crediti sulle emissioni di CO2 e compensare il proprio inquinamento. Ma che succede se questo sistema, denominato Redd+, ha delle falle? Greenpeace, in un rapporto che abbiamo potuto leggere in anteprima e che sarà presentato oggi, analizza con Kelvin Mulungu, già ricercatore del dipartimento di agricoltura e risorse economiche dell’Università del Colorado, uno dei progetti in cui si è impegnata Eni in Zambia per raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione al 2050. Secondo lo studio The Luangwa Community Forests Project (Lcfp) la quantificazione di “foresta da salvare” ha basi scorrette: è sovrastimata la densità della popolazione, sovrastimato il rischio di deforestazione, sottostimati gli incendi. A fronte di un impegno dell’azienda minimo rispetto al suo fatturato.

I progetti REDD+ (Reduce Deforestation and Forest Degradation) sono riconosciuti dalla convenzione delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici come importanti per la sostenibilità ambientale. In pratica, permettono di acquistare certificati su tonnellate di emissioni risparmiate grazie alla protezione delle foreste. Si compra, di fatto, il diritto di continuare a emettere CO2. Greenpeace Italia ha però fatto analizzare il progetto zambiano, il maggiore al mondo sia per numero di beneficiari che per estensione, a cui partecipa anche Eni. Ha durata trentennale (2015-2045) e vede alla guida BioCarbon Partners (Bcp), una compagnia africana, e Verra, ovvero l’ente di certificazione internazionale che si occupa di verificare la correttezza dei progetti ma che, secondo gli ambientalisti, ha qualche criticità: “Si potrebbe pensare che un ente di verifica esterno sia super partes, se non fosse che ai piani alti di Verra sono seduti anche alcuni manager dei principali attori mondiali del comparto del petrolio e del gas, come Shell e Bp”. Il progetto, secondo le stime, permetterebbe di non immettere nell’atmosfera una media di 2,7 milioni di tonnellate di CO2 l’anno.

A novembre 2020, Eni ha acquistato crediti di carbonio per compensare emissioni per 1,5 milioni di tonnellate di CO2, il 3,75% del suo obiettivo per il 2050 (40 milioni di tonnellate). Ma c’è, spiega la Ong, “un netto divario tra le promesse di riduzione di emissioni e la realtà”. Per calcolare il tasso ipotetico di deforestazione e le emissioni che tale deforestazione avrebbe causato, infatti, si traccia uno “scenario di base”, un’area il più possibile simile a quella utilizzata dal progetto. Basta però sbagliare i calcoli per avere scenari più o meno favorevoli.

Stando ai documenti del Lcfp, ad esempio, la densità di popolazione è la più importante causa di deforestazione: più cresce, più alberi per l’agricoltura vengono tagliati. “Ignorando per un attimo le altre possibili cause di deforestazione (dall’espansione industriale all’urbanizzazione) – si legge – è evidente l’elevata differenza di densità tra l’area del progetto (2,75 abitanti per chilometro quadrato) e quella di riferimento (29,6)”. In pratica, secondo il rapporto, i calcoli proiettano sul 2045 la stessa evoluzione del periodo 1985-2015 e non tengono conto delle differenze e del fatto che le attività antropiche principali (così come di contenimento della deforestazione) avverranno nel prossimo decennio.

Viene così sovrastimato, secondo il rapporto, anche il tasso di deforestazione, più alto di quanto riportano tutti gli studi di settore in Zambia. Il progetto parla del 2,5%, mentre uno studio Fao del 2020 segnala un valore dello 0,42%. Appaiono invece sottostimati i rischi di incendio, vera e propria minaccia per i Redd+ a causa del carbonio che rilascerebbero nell’atmosfera. “Il rischio ignora l’incremento degli incendi nelle foreste di miombo (tipiche dell’area) causato da siccità e cambiamento climatico”. Si stima che gli incendi contribuiscano fino al 12,6% alle emissioni di CO2 in Africa meridionale e che ogni anno in Zambia circa il 25% della copertura totale del suolo sia distrutta da incendi. “Per questi motivi, risulta poco convincente il rischio appena al di sopra del minimo”. Inoltre, si pone la frequenza degli incendi a uno ogni 10-25 anni. “Diversi studi condotti sulla stessa tipologia di foresta mostrano incendi almeno una volta ogni anno e mezzo”. Uno studio proprio nella Provincia orientale dello Zambia riporta che “il 28% dell’area è bruciato ogni 1,6 anni, il 37% ogni 3,5 anni, il 14% ogni 7 anni e il 21% dell’area è bruciato ogni 14 anni”.

Lo studio critica poi il calcolo della capacità di immagazzinamento di carbonio delle foreste. “Se si prende in considerazione una media degli studi su foreste simili a quelle del Lcfp – si legge – il dato è di circa 108 tonnellate di CO2 per ettaro, la metà di quanto indicato dal partner di Eni (224). Questo significherebbe che il progetto finanziato da Eni starebbe considerando il doppio dei crediti di carbonio rispetto a quanto indicato dalla letteratura scientifica. Non sarebbe il primo caso: Virgin Atlantic, compagnia aerea britannica, nel 2018 ha preso le distanze da un progetto Redd+ in Cambogia a seguito di un report che ne mostrava i problemi.

Catastrofe Libano, stop ai sussidi per il carburante

Il Libano è ormai a un passo dalla catastrofe sociale. Il mese di giugno si chiude infatti con l’ennesima svalutazione della moneta e con la riduzione dei cruciali sussidi per il carburante. Sono i segnali più evidenti del collasso dell’economia del Paese un tempo noto come la Svizzera del Medio Oriente. Il motivo del taglio ai sussidi per l’acquisto della benzina è semplice e spaventoso allo stesso tempo: la mancanza di soldi nelle casse dello Stato. Per non svuotarle del tutto, il primo ministro dimissionario, Hassan Diab, si è trovato costretto a ricorrere a questa misura estremamente impopolare. Ma, del resto, stando così la situazione risulta impossibile mantenere interamente calmierato il prezzo della benzina.

La maggior parte della popolazione già impoverita dall’aumento esponenziale dell’inflazione, della disoccupazione e dal taglio dei salari, nelle scorse settimane aveva già dovuto affrontare la riduzione della quantità giornaliera di benzina calmierata. L’immagine plastica di questa ennesima privazione sono le file chilometriche di auto davanti ai benzinai. Molti anziani sono stati colti da malore per le alte temperature mentre attendevano da ore il proprio turno alle pompe di benzina. C’è chi si è trovato addirittura costretto a trascorrere la notte in auto per non perdere il posto. Altri invece hanno abbandonato le proprie vetture in strada perché non possono permettersi di fare il pieno: il prezzo è raddoppiato rispetto a un mese fa. La decisione di ieri spingerà altre persone a dimenticarsi di possedere un’automobile. Il problema è che i mezzi pubblici sono di fatto inesistenti e così le piste ciclabili. Molta gente ha quindi rinunciato a mandare i figli a scuola o ad andare al lavoro. Sono inoltre aumentati i black-out, dato che le poche centrali elettriche locali funzionano soprattutto a combustibili fossili: a volte la corrente elettrica salta anche per 12 ore consecutive. La benzina non è l’unica cosa che manca in queste settimane. A causa della penuria di materiale sanitario gli ospedali stanno rimandando gli interventi chirurgici complessi e si occupano solo delle emergenze mentre nelle farmacie non si trovano quasi più le medicine più comuni. La campagna vaccinale contro il coronavirus è iniziata a febbraio ma sta proseguendo così a rilento che molte persone, dando fondo al proprio conto in banca, hanno deciso di acquistare le dosi sul mercato nero o si sono rivolte ai partiti politici, che in certi casi gestiscono direttamente le somministrazioni. Ma è proprio l’operato settario dei partiti ad aver portato il Paese nel baratro. I leader dei partiti di governo, gli stessi che hanno alimentato il lungo e sanguinoso conflitto civile, hanno sempre tentato di requisire i beni dello Stato per arricchire o aiutare la comunità religiosa di cui sono espressione: cristiana, sunnita, sciita, drusa. Nei giorni scorsi ci sono state proteste in tutta Beirut con i manifestanti che dopo aver bloccato le strade con immondizia e pneumatici, le hanno date alle fiamme.

Perfida Brexit: diritto a restare, gli europei persi nella burocrazia

La scadenza è oggi ed è senza appello: i cittadini europei residenti nel Regno Unito post Brexit hanno tempo fino alla mezzanotte per richiedere alla Pubblica amministrazione il settled status, cioè il riconoscimento del loro diritto a restare nel paese se possono dimostrare di essere residenti legalmente da almeno 5 anni, e il pre-settled se la residenza è inferiore a un quinquennio. Senza saranno considerati immigrati irregolari, perderanno il diritto di vivere e lavorare nel Regno Unito e saranno soggetti al rischio di rimpatrio. Non sono mancati casi clamorosi di errori burocratici, con imprenditori o accademici che si sono visti negare il permesso e hanno dovuto imbarcarsi in costosi ricorsi. Non basta: malgrado una ampia campagna informativa sia della Pubblica amministrazione britannica sia delle rappresentanze diplomatiche degli Stati membri che delle associazioni nate dopo il referendum per proteggere i diritti dei residenti europei, da 3Million a In Limbo a Settled, molti non hanno capito di dover fare richiesta: è il caso soprattutto di immigrati di lunga data, anziani o vulnerabili, che tuttora danno per scontati diritti saltati con Brexit, o di bambini i cui genitori o tutori legali non hanno capito che l’obbligo riguarda anche i minori, o di chi ha scoperto tardi di non avere il documento di identità necessario per la richiesta online ed è ora intrappolato in un labirinto burocratico di pratiche cartacee.

E poi c’è la massa delle domande presentate ma non ancora evase, circa 400 mila: un carico che ha sopraffatto l’amministrazione e che non verrà sbrigato prima di mesi. Su chi può dimostrare di aver presentato richiesta il governo non può intervenire, ma il problema è l’assenza di un documento fisico che provi i propri diritti, mai concesso malgrado le richieste. Si prevede quindi che la situazione di limbo burocratico in cui si troveranno centinaia di migliaia di richiedenti avrà comunque un impatto su lavoro e situazione abitativa.

“Catalogna, basta divisioni: sia ascoltata la voce di tutti”

“Negli ultimi quattro anni in Catalogna abbiamo avuto un blocco istituzionale; la rottura della convivenza; abbiamo perso la leadership economica in favore di Madrid; una parte importante delle imprese sono andate via; i molti tagli al welfare ci hanno messo a dura prova. Per questo il governo centrale ha voluto aprire una nuova tappa di dialogo con gli indulti ai nove leader catalani in prigione. Un passo necessario, ma non sufficiente. Speriamo ora che tutte le parti sappiano rispondere a questa sfida così importante per la Catalogna ma anche per tutta la Spagna”.

Alicia Romero, classe ’76, dall’età di 17 anni in politica, è la portavoce del gruppo dei Socialisti catalani al Parlamento della Comunità. È una dei pochi ad aver visitato i leader in prigione. “Sono andata a trovare Josep Rull a titolo personale. Siamo amici da tempo”, spiega. Il presidente regionale del partito (Psc), Salvador Illa che ha preso più voti alle elezioni di febbraio, l’ha scelta per la sua predisposizione al dialogo. “Credo sia imprescindibile parlare anche con chi si condivide poco”, dice, certa che “tra governo centrale e Generalitat si possa arrivare a un accordo, ma non su temi divisivi”.

Il premier Sanchez ha parlato di indulto ‘per la concordia’. Si è trattato anche di una strategia politica?

Dopo l’insuccesso della proclamazione unilaterale d’indipendenza e il dolore che questo ha provocato, alcuni leader catalani hanno messo da parte l’idea del separatismo e hanno iniziato una nuova riflessione. In questo senso, il tema dei detenuti ha guadagnato importanza. Ora questa argomentazione viene meno. Ma il motivo per cui il governo ha concesso gli indulti è il desiderio di iniziare una nuova stagione. E l’immagine più rappresentativa è la foto del Mobile Congress di Barcellona di domenica con il re Felipe, Sanchez, il presidente della Generalitat, Pere Aragonés, e la sindaca di Barcellona, Ada Colau.

Aragonés nel suo discorso d’investitura si è definito il presidente di tutti, ma dopo gli indulti ha detto che gli obiettivi sono l’amnistia e il referendum per l’indipendenza.

Dovrebbe rispondere Aragonés. Lui ha il diritto di rivendicare l’amnistia e il referendum, ma deve essere cosciente che il governo non glieli concederà mai perché vanno contro l’ordine costituzionale. Da un lato è vero che non siamo una colonia, dall’altro nessuno in Spagna ha messo in carcere qualcuno per le proprie idee. Ci auguriamo che Aragonés faccia la sua parte e rappresenti davvero un sol poble, anche chi non l’ha votato. Mi piacerebbe anche che si facesse autocritica ammettendo che nel 2017 si è rotta la convivenza, l’ordine costituzionale, lo Statuto di Catalogna e si è messo una parte contro l’altra.

Il Psc ora è il gruppo più numeroso nel Parlamento catalano. Potreste bloccare il voto per l’indipendenza.

Questo voto in Spagna non è possibile. Ma se fossimo chiamati a votare qualcosa, ci piacerebbe che fosse un accordo per costruire e non per distruggere. Perciò proponiamo un tavolo interno alla Catalogna per parlare dei temi che uniscono e non solo di quelli che dividono e che non sono richieste maggioritarie della società catalana. Un accordo da portare al governo centrale.

Intanto la Corte dei Conti va avanti e oggi reclama da Oriol Junqueras e Carles Puigdemont quasi 4 milioni di euro di fondi pubblici usati per promuovere il proces. Non proprio distensivo.

Si tratta del procedimento di un organo amministrativo. Vedremo che succede, non ci piace commentare questioni che non ci riguardano.

Cosa succederà invece con gli esiliati come Puigdemont?

Anche questo dovrebbe chiederlo a loro. Noi crediamo che dovrebbero tornare e assumersi le proprie responsabilità davanti alla giustizia come hanno fatto gli altri 9. Una di loro l’ha fatto: ha testimoniato al Tribunale supremo ed è libera. È una mia collega al Parlamento.

Come vede l’incontro tra Sanchez e Aragonés: l’uno pronto a parlare solo di economia e l’altro di referendum e indipendenza?

Per me la notizia è che si siano incontrati. So che sono due persone perbene che hanno un rapporto molto cordiale, sono convinta che sono aperti al dialogo su qualsiasi tema. In fondo, rappresentano la maggioranza degli spagnoli e la maggioranza dei catalani: sarà un vertice sicuramente fruttuoso.

Il quesito ridicolo sulle firme al Csm

Rispetto al terzo quesito (che comporta mancanza di buon senso, volendo scarcerare gli arrestati in flagranza di furto aggravato e impedire di mettere in carcere quelli man mano scoperti) e al quarto quesito (che è indecente volendo rendere eleggibili i delinquenti), il quinto quesito referendario fa quasi tenerezza per la sua totale inutilità.

Dice infatti il quinto quesito: Volete voi che sia abrogata la legge 24 marzo 1958, n. 195 (“Norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della Magistratura”), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni a esso successivamente apportate, all’articolo 25, comma 3 limitatamente a “unitamente a una lista di magistrati presentatori non inferiore a venticinque e non superiore a cinquanta. I magistrati presentatori non possono presentare più di una candidatura in ciascuno dei collegi di cui al comma 2 dell’articolo 23, né possono candidarsi a loro volta”?

Provo a spiegare di che si tratta. Il Consiglio Superiore della Magistratura è composto da 27 membri: tre componenti di diritto (il Presidente della Repubblica, il Primo Presidente della Corte suprema di cassazione e il Procuratore generale presso la stessa Corte), otto componenti eletti dal Parlamento in seduta comune fra professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati con almeno 15 anni di professione (ma al momento in cui la Costituzione fu approvata erano necessari anche 6 anni da procuratore legale per diventare avvocato, per complessivi 21 anni di professione) e sedici magistrati ordinari eletti da magistrati, con la maggioranza dei tre quinti dell’assemblea.

Nelle elezioni dei componenti magistrati del Consiglio Superiore della Magistratura la legge prevede tre collegi elettorali nazionali: uno per i giudici (nel quale si eleggono dieci componenti), uno per i magistrati del pubblico ministero (nel quale eleggere quattro componenti) e uno per i magistrati di legittimità, cioè della Corte suprema di cassazione e della Procura generale presso la stessa Corte (in cui eleggere due componenti). La norma di legge che si vorrebbe abrogare prevede che, per presentare una candidatura, occorrono non meno di venticinque e non più di cinquanta magistrati presentatori (fra i quali non vi può essere il candidato) che devono sottoscrivere la candidatura.

Secondo i promotori del referendum l’abrogazione delle firme di presentazione sarebbe lo strumento per debellare le correnti, cioè i diversi gruppi in cui al momento si articola l’Associazione nazionale magistrati, la quale raggruppa la stragrande maggioranza dei magistrati.

Con l’attuale sistema elettorale (con circa diecimila elettori, ognuno dei quali vota in ciascuno dei tre collegi, ricevendo quindi tre schede) per eleggere un giudice ci vogliono di solito circa cinquecento voti, per eleggere un magistrato del pubblico ministero un migliaio e per eleggere un magistrato di legittimità quasi duemila. Ovviamente, in relazione alla possibile dispersione dei voti, il quorum può abbassarsi se aumenta il numero dei candidati e alzarsi se tale numero si riduce, sempre che si tratti di candidati che riescano a ottenere un rilevante numero di voti.

Di fronte a un numero così elevato di voti necessario per l’elezione, il numero di presentatori di una candidatura (venticinque) è molto basso. Pensare che, per raccogliere venticinque firme di presentazione, ci vogliano le correnti è un’ingenuità. Qualunque magistrato che voglia candidarsi può trovare venticinque colleghi (su circa diecimila) disposti a sottoscrivere la candidatura, quantomeno fra i compagni d concorso o fra quelli in servizio nel suo stesso palazzo di giustizia, a titolo di cortesia personale e senza doversi rivolgere alle correnti. L’abrogazione della norma indicata non cambierebbe quindi nulla rispetto all’attuale situazione perché ciò che è difficile per essere eletti è ottenere i voti, non le firme di presentazione della candidatura.

L’abrogazione della disposizione avrà quale unica conseguenza che i candidati non dovranno cercare almeno 25 magistrati presentatori e che quindi ognuno dei candidati presenterà se stesso.

Diverso è il problema di ottenere i voti. Fino a questo momento le correnti continuano, pur in presenza di un crescente astensionismo, a essere il serbatoio di voti. Ci sono segnali di aggregazione che sembra anzi preludere a un bipolarismo in magistratura, eliminando sia i gruppi minori che candidati singoli. Ogni intervento su tutto ciò però deve riguardare il sistema elettorale e le norme di ordinamento giudiziario (alla base di uno sfrenato carrierismo contrario al dettato costituzionale, secondo il quale i magistrati si distinguono tra loro solo per differenti funzioni), ma non certo il numero di sottoscrizioni necessario per presentare ogni singola candidatura.

In altri termini, a un problema serio e grave (quale quello delle deviazioni emerse nelle attività associative e consiliari) si tenta di dare una risposta che non ha nulla a che vedere con tale problema e con le possibili soluzioni.

Peraltro si deve anche ricordare che, in qualche modo, gli organi disciplinari della magistratura sono intervenuti rispetto alle deviazioni. I procedimenti disciplinari sono in corso e uno di questi si è concluso in primo grado con la rimozione dall’ordine giudiziario dell’incolpato. A queste deviazioni avevano partecipato anche politici (agli incontri all’Hotel Champagne erano presenti anche due parlamentari), ma non consta che i probiviri o altri similari organi dei rispettivi partiti abbiano adottato una qualche iniziativa.

Quindi si tratta di un quesito referendario del tutto inutile rispetto ai problemi reali, il cui unico effetto, ove sia ammesso, sarà la spesa per le schede referendarie e per i compensi agli scrutatori.

Rispetto alle conseguenze (ove dovessero essere approvati) del terzo e quarto quesito referendario, il quinto quesito, essendo solo inutile fa, tuttavia, tirare un sospiro di sollievo, fermo restando la conferma che, nell’ipotesi migliore, i promotori di questo referendum non sanno quello che fanno e quindi, secondo il dettato evangelico, devono essere perdonati.

 

La7, il “terzo palo” della solita tv

Chissà se La7 è il terzo polo o il terzo palo (della Banda del Duopolio), forse non lo sapremo mai. Ma nell’incertezza, ragioni per festeggiare il suo ventennale non le mancano, e il modo che ha scelto per celebrarsi – La7 20 Un racconto italiano (immagini di repertorio scandite per cinque domeniche) – è senz’altro consono a una televisione fatta di parole e di idee – più parole che idee, ma questo è un altro discorso. Una storia esemplare e istruttiva, composta da due decenni ben distinti. Nel settembre 2001, La7 esordisce con la cronaca di un programma mai nato, il Fab Show strozzato nella culla prima della prima puntata, l’unico caso in cui fu fatale la paura non di fare flop, ma di fare il botto. Fabio Fazio e Gad Lerner come direttore del tg erano stati chiamati dalla Telecom controllata da Roberto Colaninno. “Abbiamo una televisione?”, si sarà chiesto Piero Fassino; ma prima di avere una risposta, Silvio Berlusconi vince le elezioni e Telecom passa nelle mani di Marco Tronchetti Provera con gran soddisfazione di B., chissà perché. Difficile pensare alle bollette telefoniche; più probabile il rientro della neonata La7 in un’orbita meno ostile al governo. Televisioni a orologeria, cose che accadono solo in Italia. La controprova arriva nel 2011, quando alla caduta di Silvio corrispondono l’arrivo di Mentana e la seconda vita della tv acquistata poi da Urbano Cairo, che la trasforma nell’attuale polifonia di talk e conduttori. E il futuro? Da quando controlla La7, le voci di una discesa in politica di Cairo si appoggiano all’idea che voglia ripercorrere le orme del suo maestro B., ma in realtà i due imperi editoriali sono complementari, l’equilibrio è perfetto. In quello di Silvio la parte alta (si fa per dire) è affidata alla carta stampata, mentre le tv si rivolgono alle grandi masse; per contro, i rotocalchi di Cairo si ispirano a Maria De Filippi, e invece La7 è diventata più radical-chic di Rai3. Cose che succedono solo in Italia, e dell’Italia dicono molto.

Mail box

 

Complimenti per il pezzo di Luca Sommi su Conte

Vorrei complimentarmi con Luca Sommi per la perfetta puntualità, chiarezza d’esposizione e precisione con cui ricorda, nel suo articolo del 28 giugno pubblicato sul Fatto, tutte le scelte operate dal governo Conte tra mille difficoltà e demagogiche opposizioni delle destre (compresa Italia Viva) supportate dall’eco assordante di stampa e tv associate. Sono le stesse cose che tutti noi ricordiamo e che spiegano il “mistero” della popolarità del presidente Conte. A parte qualche voce dissonante convinta di non essere un’appendice rotondeggiante del sottoventre maschile.

Gaetano Ghiraldi

 

Il problema non è Draghi o Grillo, ma gli italiani

Possibile che bisogna sentirsi dire da Biden, cattolico e non marxista, che i ricchi devono pagare più tasse, che le grandi multinazionali devono pagare il 25% di tasse e che per avere più lavoratori bisogna pagarli di più? E noi in Italia, sia marxisti che liberali, stiamo a “scimmiottare” analisi su un vanesio pieno di soldi abile come incantatore di serpenti a cui è saltato il senno della ragione e cerchiamo, per arginare Draghi, un moderato come Conte perché di meglio in giro non c’è nessuno? Ma possibile che non ci sia nessuno in grado di declinare le cose minime da fare (salario minimo, eliminazione prescrizione, rimodulazione aliquote Irpef, risoluzione llva, Alitalia) tanto per cominciare? Se è così vuol dire che il problema non è Grillo, Conte o Draghi bensì il “popolo” italiano, soprattutto i giovani che si sono addormentati in balia di quel poco di benessere che altri, quelli che si sono sacrificati negli anni passati, gli hanno procurato. Allora c’è poco da essere ottimisti perché il nostro Paese, più degli altri in Europa, è già immerso nel nuovo Medioevo dal quale uscire sarà sempre più difficile e tutti noi saremo condannati a sopravvivere, non a vivere!

Raffaele Fabbrocino

 

Beppe si comporta come il padre padrone dei 5S

Le ultime notizie del padre padrone del M5S mi lasciano tantissimo amareggiato, politicamente impotente nei confronti di un uomo (Grillo) che ha seri problemi familiari. Perché associare la politica in questa fase critica del Movimento a problemi personali? Come elettore del M5S chiedo a Grillo di fare un passo indietro, altrimenti per il Movimento è la fine.

Antonello Benizzi

 

Sono elettore del M5S, non condivido il fondatore

Come elettore dei 5Stelle, sono profondamente deluso dal comportamento di Grillo, lui si è sempre accanito contro Berlusconi definendolo “psiconano”, bene, lui si sta comportando alla stessa maniera, da psiconano e coglione, mentre il Berlusca era psiconano e furbo. Ecco la differenza dei due psiconani. Grazie: siete la mia compagnia quotidiana e come ex marinaio, anche il mio faro.

Elio Polcan

 

Cartabia esalta il ruolo degli agenti penitenziari

Marta Cartabia (mi vergogno di chiamarla ministro della Giustizia) ha commentato l’azione del Gip di Santa Maria Capua Vetere per esaltare il ruolo degli agenti di polizia penitenziaria che con il loro silenzio hanno coperto la “mattanza” in carcere. Tale Samuele Cimbriello, presunto garante dei diritti dei detenuti della Campania, si è speso in parole ancora più oscene. Ometto i commenti del Sappe, del Spp e della Uilpa. Salvini ha tanti reggicoda.

Giorgio Rinaldi

 

Salvini, dove sono finite le accise sulla benzina?

Vorrei capire come mai nessuno ricorda al signor Salvini che fine hanno fatto le accise sulla benzina, che ha sempre chiesto (agli altri) di abolire.

Gioafabbi

 

Festeggiamo la Nazionale ma rimangono i problemi

Sono davvero arrabbiata per il modo in cui si permette ai cittadini di viaggiare con i treni. Non è possibile che le linee italiane siano così obsolete e che la gente riempia le piazze solo per festeggiare la vittoria della Nazionale o della squadra del cuore. Quasi ogni settimana per ragioni di studio mi reco a Piacenza da Torino e ormai il rientro è diventato regolarmente un’incognita: ritardi, treni soppressi, affollatissimi, gente che viaggia in piedi, carrozze chiuse… ma dove siamo? Per quanto tempo ancora dovremo vivere come un Paese sottosviluppato? Com’è possibile che continuiamo a non renderci conto anche dell’aumento delle tariffe di gas e luce? Perché subiamo tutto questo e continuiamo a lavorare come muli da soma in silenzio? Dovremmo mandare in massa le nostre lamentele, ma purtroppo siamo italiani. La Nazionale prima di tutto!

Gaia Colosimo

 

I NOSTRI ERRORI

Nel mio libro I segreti del Conticidio (ed. Paperfirst) c’è un’imprecisione che correggerò appena possibile, cioè nella prossima ristampa. Il senatore di Italia Viva Francesco Bonifazi non è indagato per finanziamento illecito ai partiti nell’inchiesta della Procura di Firenze sulla Fondazione Open: è imputato per finanziamento illecito nel processo a Roma per i fondi del costruttore Luca Parnasi. Me ne scuso con l’interessato.

Marco Travaglio