Rispetto ai Mondiali sono più “democratici”. Francia insegna

Caro Fatto, ho letto il pezzo di Beccantini che indicava la Francia come la Nazionale più forte, ed ero pure d’accordo. Non è andata benissimo. Però mi sembra un bell’Europeo: che ne pensate?

Gianni Bartolacci

 

Gentile Gianni, proprio così. La Francia era la mia favorita davanti al Belgio. Fuori, senza se e senza ma. Fuori dopo l’Olanda, che inventò il calcio totale e in materia di “suicidi” potrebbe scrivere un libro: se si punta una pistola alla tempia, perché mai gli avversari non dovrebbero premere il grilletto? E dopo la Croazia, seconda in Russia, la Croazia di Luka Modric, 35 anni suonati, un’idea di calcio che unisce ed esalta oltre i risultati (e le raffiche della Spagna). Quando si ghigliottina un re, come hanno fatto i golpisti di Vladimir Petkovic, la storia impazzisce. E a Versailles ne sanno qualcosa. Siamo appena agli ottavi e già sono usciti i campioni del mondo (la Francia di Kylian Mbappé, mais oui) e i campioni d’Europa (il Portogallo di Cristiano Ronaldo). Un quarto sarà fra Repubblica Ceca e Danimarca, che, perso Christian Eriksen, dal suo cuore ha ricavato i battiti delle favole. La squadra del giorno è la Svizzera: stordita dall’Italia a Roma – Italia che poi ha sofferto l’Austria a Wembley – avrebbe meritato di liquidare Sua Arroganza ben prima dei rigori. Gli Europei sono, per tradizione, più democratici dei Mondiali. L’albo d’oro racconta di dieci regine in 15 edizioni: Germania e Spagna (3); Francia (2); Unione Sovietica, Italia, Cecoslovacchia, Olanda, Danimarca, Grecia e Portogallo (1). Il Mondiale, viceversa, è molto più tirchio: Brasile (5); Germania e Italia (4); Argentina, Francia e Uruguay (2); Inghilterra e Spagna (1). Ricapitolando: otto padroni nell’arco di 21 rodei.

La Grecia del 2004, più ancora che la Danimarca del 1992, fissò i confini della svolta. Inoltre: nel trasloco dai gironi agli atti unici cambia la vita, non semplicemente la formula. Le rimonte crepitano, i gol pure, siamo alla fine di una stagione zavorrata dalla pandemia, gli eroi sono stremati. Anche per questo, l’umiltà diventa virtù preziosa. Come il talento. E che gran ressa, allo sportello del destino: in coda, persino una nuvola azzurra.

Roberto Beccantini

Movida nei centri storici: la libertà vale più del “decoro”

Una volta Enrico Brizzi ha scritto che da ragazzino gli piacevano molto i graffiti; ma che poi aveva cambiato idea: era cresciuto e aveva cominciato a dover pagare il condominio tutte le volte che bisognava ripulire i muri… La frase ci è venuta in mente in questi giorni a proposito del dibattito sulla cosiddetta movida e nel quale abbiamo deciso di intervenire perché ha ormai assunto toni quasi grotteschi, con descrizioni delle nostre città che sembrano uscite da un foglio reazionario degli anni Cinquanta. Masse di capelloni depravati e fuori controllo, eccitate dall’abuso dell’alcol e dall’effetto di sostanze stupefacenti, disturbano il riposo delle oneste famiglie mettendo musica a volumi impossibili nel cuore della notte destinata al riposo degli operosi lavoratori. Questi giovinastri urlano, vomitano, pisciano sotto il cielo stellato esponendo le pudenda, fanno sesso nella pubblica via. Sapesse, “non c’è più morale contessa”.

Ora noi, come Enrico Brizzi, siamo entrati da tempo nell’epoca della vita in cui si paga il condominio e la notte non la si trascorre più fuori a tirare l’alba con gli amici (ahinoi), però nonostante l’età della ragione ci rendiamo conto di alcune cose. La prima è che non risponde al vero che i centri delle nostre città sono diventati lupanari a disposizione di giovinastri debosciati, dediti a orge e baccanali di ogni sorta. La seconda è che ove episodi di schiamazzi e degrado si verificano, sono a disposizione dei cittadini che li subiscono diversi strumenti (legittimi) di difesa. Non siamo certi che l’allarme decenza giustifichi gli accenti apocalittici sopra accennati che si possono leggere in prima pagina sul “giornale della sera”, nume tutelare del decoro.

In nome di questo supposto allarme il Comune di Firenze (governato da un partito diciamo di sinistra, il Pd) ha appena disposto il divieto di stazionamento e il divieto di consumo di bevande alcoliche, salvo quello effettuato al banco o ai tavoli dei locali, in sei aree del centro storico considerate più a rischio assembramenti nei giorni di giovedì, venerdì e sabato. Ciò significa che queste sei zone del centro sono accessibili ai residenti e ai clienti dei ristoranti e dei bar. Noi eravamo rimasti alla Costituzione secondo la quale ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza. Qui non è chiaro se l’ordinanza di Nardella sia anti-assembramenti (motivi di salute) o anti-movida (motivi di sicurezza, sic). Ma comunque sia resta il fatto che nei giorni stabiliti dall’ordinanza, di fatto viene istituito un “dazio” per “stazionare” in una parte del territorio, che dovrebbe essere accessibile a tutti, sempre. Non è un caso che sia consentito accedere solo a chi paga, in quanto cliente: il centro di Firenze, come tante volte ha scritto Tomaso Montanari sul nostro giornale, è da tempo diventato una Disneyland monumentale, popolata dai clienti dei B&B e pochi milionari, un paradiso dello shopping per turisti. Dunque non dovrebbe stupire il numero chiuso in nome della pubblica decenza. E quindi, che fare? Maurizio Viroli ha scritto qualche giorno fa su queste pagine che “la città non è una oggetto da consumare o una merce da vendere. È un bene da rispettare. La Repubblica non può e non deve arrendersi a chi vuole farla da padrone negli spazi pubblici, non importa se sono imprenditori o popolani”. In linea di principio è vero: ricordiamoci però che sono i cittadini i titolari dei diritti e dei doveri. Non i consumatori che pagano.

 

Caro ambasciatore, sui dossier Roma-Parigi il fatto ha ragione

Gentile direttore, l’ambasciatore di Francia Christian Masset, nel rispondere a un articolo del Fatto (“Gli interessi strategici. Come e perché Roma sta stracciando Parigi”) affronta due tra i tanti esempi citati dal giornalista, Stellantis ed Euronext, nel tentativo di confutarne la tesi sulla preminenza degli interessi francesi su quelli italiani in una serie di operazioni finanziarie e produttive.

Su Stellantis scrive di “alleanza equilibrata nella governance”, di peso azionario equale tra i due Paesi e di “fusione”. Nulla delle tre cose risponde al vero: non si tratta di una fusione, ma di una vendita di Fca a Psa, come risulta dal prospetto depositato dalle due Case automobilistiche per le rispettive assemblee, Fca viene infatti definita parte venditrice e Psa parte acquirente; la governance non è affatto equilibrata visto che alla parte francese spetta indicare 6 componenti il cda su 11, il Ceo, il vicepresidente oltre al rappresentante sindacale; mentre nell’assetto azionario non sfugge come il governo francese abbia aumentato la sua quota dopo la nascita di Stellantis, cosa non prevista né annunciata nei prospetti dell’accordo. Lo stesso dicasi per Euronext in cui la presenza italiana nella governance è del tutto ininfluente limitandosi al presidente del Comitato di sorveglianza. È infatti sempre più evidente come si tratti di un progetto francese e a chiara guida transalpina. Lo stesso ambasciatore, sul Fatto, ricorda che solo il 26% degli attivi è sviluppato in Francia mentre l’Italia, come evidenziato più volte dall’ad di Euronext, pesa più del 40% in termine di fatturato e probabilmente molto di più in termini di utili. Ebbene a pochi mesi dal passaggio di Borsa Italiana a Euronext, già sentiamo parlare dall’ad del gruppo di licenziamenti in Italia per poter attuare il piano di tagli annunciato agli azionisti per far approvare la fusione. L’ambasciatore francese parla di importanti risvolti occupazionali per l’Italia. Per ora abbiamo sentito parlare solo di licenziamenti per un’azienda in utile. A oggi, al 40% del peso italiano in termine di fatturato non corrisponde un analogo peso in termine di management di prima linea e di investimenti per l’Italia. Ha ragione l’ambasciatore: la Francia fa i suoi interessi e, dal suo punto di vista, fa bene. L’Italia invece non tutela l’interesse nazionale e il nostro sistema economico proprio come emerge dai due casi posti a giustificazione della sua tesi; figuriamoci negli altri!

In entrambe le operazioni, Fratelli d’Italia ha fatto una operazione-verità che ha portato governo e sindacati ad alzare il livello di allarme sulle conseguenze economiche e sociali per il Paese, come ormai è evidente a tutti. Abbiamo anche apprezzato il tentativo del nuovo esecutivo di recuperare spazio per gli interessi italiani sia per quanto riguarda gli investimenti di Stellantis, a fronte del grande supporto pubblico già ottenuto, che il mantenimento di produzione e occupazione in Italia, così come il tentativo di recuperare posizioni nella governance e di tutelare gli interessi nazionali nella vendita di Borsa Italiana a Euronext. È indiscutibile come la Francia abbia saputo tutelare i propri interessi a spese dell’Italia. Peraltro, anche per le altre operazioni citate dal Fatto (da Tim a Fincantieri, dalle banche al “lusso”) è consolidata la consapevolezza di come l’Italia sia stata “espropriata” di asset fondamentali. Fratelli d’Italia ritiene importante che si sviluppino progetti comuni tra le imprese dei due Paesi, soprattutto in questa fase della globalizzazione in cui occorre far emergere “campioni europei” capaci di competere a livello mondiale, ma a condizioni di effettiva parità e a beneficio di entrambi i sistemi. Su questo vigileremo in ogni momento.

 

 

Licenziamenti sbloccati e sindacati paralizzati

Licenziamenti sbloccati, sindacati paralizzati. Il governo ha stabilito che da domani sarà di nuovo consentita alle imprese la rescissione dei rapporti contrattuali a tempo indeterminato, con l’eccezione temporanea di alcuni (pochi) settori in grossa crisi: le pressioni dei confederali su Draghi hanno portato a una sorta di gentlemen agreement con Confindustria non è chiaro quanto vincolante.

Non voglio fare l’uccello del malaugurio e non mi lancio in previsioni sul numero di lettere di licenziamento che fioccheranno in Italia a partire dal 1º luglio 2021: nell’ordine delle decine o delle centinaia di migliaia? Troveremo di sicuro interpreti compiacenti delle statistiche, pronti a segnalare un incremento simultaneo dei contratti a termine, magari nelle stesse aziende che si libereranno dell’onere del “posto fisso”. Esulteranno per la crescita accelerata del Pil chiudendo un occhio sull’estensione delle fasce di precariato; come se non si trattasse di uno dei fattori di fragilità del nostro sistema economico oltre che di un moltiplicatore dell’iniquità sociale.

I giornali padronali hanno preferito minimizzare questa vittoria confindustriale ponendo l’accento sullo “sblocco selettivo dei licenziamenti”, limitandosi a piccoli richiami in prima pagina. Pazienza se si tratta di una notizia che inciderà drammaticamente sul destino di molte famiglie. C’è da stupirsene? Sono gli stessi giornali che hanno accreditato la leggenda della difficoltà a reperire manodopera per via delle masse di fannulloni che approfitterebbero del Reddito di cittadinanza. Pd e Leu hanno digerito la decisione di Draghi, non a caso rinviata fino all’ultimo giorno utile, fingendo di accontentarsi del “buon compromesso”. Il M5S, già tra i sostenitori del condono fiscale, si limita a protestare per la sospensione del Cashback, eludendo il nodo dei licenziamenti, a conferma della sua recente vocazione “liberale e moderata” in materia di lavoro. Quelli che ne escono pubblicamente bastonati sono i sindacati confederali. Con il senno di poi, le manifestazioni di piazza convocate sabato scorso, risultano poco più che un atto dovuto. Del resto la Cisl, un mese fa, aveva rintuzzato la proposta di sciopero generale lanciata da Landini contro la riforma del codice degli appalti. E sempre la Cisl ha lasciato intendere la volontà di non ostacolare la scelta di Draghi. Col risultato che si giunge allo sblocco dei licenziamenti senza che il governo nemmeno abbia sentito il dovere di presentare prima la riforma degli ammortizzatori sociali, benché promessa fin dal marzo scorso.

Profonde sono le ragioni che ostacolano la formazione di un blocco sociale in grado di mobilitarsi a tutela del lavoro dipendente. L’unità sindacale è solo un lontano ricordo. Venute meno le distinzioni ideologiche storicamente alla base delle tre confederazioni, prevalgono logiche di autoconservazione d’apparato. Starsene separati, a troppi conviene, anche se le motivazioni sono assai poco nobili. Ma oggi c’è di più. Cgil, Cisl e Uil debbono fare i conti con l’inedito radicamento di un sindacalismo di base dai mille risvolti – anche ambigui – in settori come la logistica, l’agricoltura, i servizi, i trasporti. Dove i subappalti e il caporalato provocano contrapposizioni fra lavoratori tutelati e non, o addirittura affiliazioni di natura etnica. Per certi versi la galassia dei vari Cobas e dell’Usb ricorda l’anarco-sindacalismo di un secolo fa, sebbene l’intensità del conflitto sociale sia oggi di gran lunga attenuata. I confederali, Cgil compresa, vivono il sindacalismo autonomo solo come una minaccia. Spesso, per malinteso senso di appartenenza culturale, hanno tollerato pseudo-cooperative di sinistra dedite allo sfruttamento dei loro finti soci. O hanno firmato contratti aziendali che garantiscono l’assunzione dei propri iscritti tagliando fuori gli altri. Rivalità e settarismo spinti fino allo scontro personale hanno impedito perfino un’azione unitaria di fronte ai recenti episodi di violenza anti-operaia a Tavazzano e Biandrate. Se Landini, o chi per esso, non troverà il coraggio di fare il primo passo in direzione del dialogo – per quanto difficile – con i rappresentanti del lavoro più sfruttato e meno tutelato, la lacerazione renderà impotente l’insieme del mondo sindacale.

L’esito del lungo incontro governo-sindacati, convocato a meno di 36 ore dal “liberi tutti”, pare comportare lievi miglioramenti di sostanza e un “avviso comune” con Confindustria sull’uso della Cig in alternativa ai licenziamenti. Come che sia, i sindacati si trovano nell’angolo, penalizzati anche da una sinistra che ha rinunciato a rappresentare il lavoro dipendente. È un caso da manuale il sostegno annunciato dal bolognese Claudio Levorato, presidente di Manutencoop, al candidato sindaco della destra. Era fra i protagonisti della cooperazione rossa. Una lezione anche per il sindacato.

 

L’idea di Spofford Seltz, il tir che va contromano e la scuola d’arti marziali

E adesso, per la serie “Un’altra divertente rubrica per il programma tv che in Rai non mi fanno fare dal 2001 perché sono criminoso e invece Fiorello no”, Arrangiate fresche.

Scambiare una casa e arrivare a ottenere una graffetta. Spofford Seltz è uno dei canadesi più conosciuti al mondo dopo la Ted Talk del 2006 in cui raccontava la riuscita di un suo esperimento bizzarro: scambiare la sua casa di campagna con altri oggetti di valore via via decrescente, arrivando infine a ottenere una graffetta. Ci riuscì nel giro di un anno, attraverso 7 scambi: partì dal barattare la casa con tre trattori, che poi barattò con una motoslitta, che poi barattò con un generatore di corrente, che poi barattò con una palla di vetro dove nevica se la capovolgi (con dentro un’immagine di Lady Diana), che poi barattò con una penna con sopra Lady Diana che diventa nuda se la capovolgi, che poi barattò con un fornellino da campeggio, che infine barattò con una graffetta. Nella Ted Talk, Seltz racconta di essere stato molto gratificato dall’entusiasmo delle persone che seguivano la sua avventura, più di 5 milioni di follower, con i quali condivideva la storia di ogni scambio. Molti volevano contribuire al progetto: magari non avevano oggetti da barattare, ma gli proponevano un passaggio da un posto all’altro per andare a fare i suoi scambi, oppure gli offrivano lo spazio di un garage per conservare un oggetto ottenuto attraverso la catena di baratti. Seltz ha detto di sperare che sempre più persone decidano di intraprendere iniziative simili perché “tutti hanno una casa o un appartamento da scambiare” e questo tipo di baratto “è un po’ come mandare in tilt il capitalismo”.

Contromano su una ciclabile, multato autista di un Tir. Un mezzo pesante, adibito al trasporto di merci, ha percorso circa un chilometro in contromano sulla ciclabile di Fregene. È avvenuto nel pomeriggio di venerdì 25 giugno. Secondo quanto riferito dalla Questura, l’autista, diretto verso la Francia, nei pressi della biforcazione tra Fregene e Maccarese ha sbagliato strada e, resosi conto dell’errore, ha effettuato dapprima una retromarcia, poi un’inversione a “U” e infine ha percorso circa un chilometro sulla ciclabile a velocità sostenuta. “Solo la prontezza dei ciclisti in transito in quel momento – sottolinea la polizia – ha scongiurato tragiche conseguenze”. Il mezzo sarebbe riuscito a fuggire se non fosse stato costretto allo stop da una Range Rover parcheggiata sulla ciclabile. Nei confronti del conducente sono scattati il ritiro della patente di guida, il fermo amministrativo del mezzo per tre mesi, una sanzione amministrativa di 8.186 euro, e un meritato scapaccione.

Cina. A fuoco scuola di arti marziali. Diciotto ragazzi hanno perso la vita e altre 16 persone sono rimaste ferite in seguito all’incendio che si è sviluppato in una scuola di arti marziali nel centro della Cina. Lo hanno annunciato le autorità locali. Il responsabile della struttura, che si trova nella provincia di Henan, è stato arrestato. Secondo testimoni, alcuni suoi colpi di karate, sferrati per scommessa contro una barra di ferro retta da due assistenti, avrebbe sprigionato le scintille che hanno appiccato il fuoco alle pareti di paglia del locale, incenerendolo in due secondi.

Nicola è tornato a casa. Nicola, il bimbo di due anni ritrovato vivo nei boschi di Palazzuolo sul Senio dove era scomparso per quasi due giorni, è stato dimesso dall’ospedale pediatrico Meyer di Firenze dove era stato ricoverato in osservazione. Un anno fa, anche il fratellino si era allontanato, perdendosi nei boschi. Tornato a casa coi due figli, una nuova sorpresa attendeva il papà: è scomparsa la moglie.

 

Il “ritmo bestiale” dei ministri di Mario

 

• Esiste insomma nel Pd un altro Pd che minaccia la scissione dal governo come Conte minaccia la scissione da Grillo. È la cellula spin off, la brigata Piketty. E continua a straparlare. A Draghi preferisce “Forza Mao”.
Il Foglio

• Lo sfaldamento dei Cinque stelle fa sì che l’unico punto vero di stabilità forte del Paese è il governo di unità nazionale (…). Questo governo ha impresso al cambiamento un ritmo bestiale, Draghi lo impersonifica in casa e fuori, la squadra dei ministri lavora bene insieme.
Roberto Napoletano, il Quotidiano del sud

• “Io consegnerei anche nella prossima legislatura le chiavi di Palazzo Chigi a Draghi o al premier draghiano che verrà dopo di lui (…), è l’unico modo per preservare la coalizione e metterla al riparo da fughe, defezioni, scissioni. (…) Naturalmente, il governo in questione sarà più marcatamente di centrodestra e con molti ministri riconducibili a quell’area”.
Intervista a Paolo Mieli, Il giornale

• Matteo Salvini angelo custode di Mario Draghi. Lui non arriva a definirsi in questi termini, ma poco ci manca.
La Stampa

Cupio dissolvi: quanti stanno con il comico?

Nessun dubbio che se oggi Beppe Grillo potesse tornare indietro si guarderebbe bene dal chiedere a Giuseppe Conte di occuparsi dei 5Stelle. Eppure, nella foto del marzo scorso che li ritrae sulla spiaggia di Marina di Bibbona, seduti l’uno accanto all’altro, non si vede affatto l’ex premier che punta una pistola contro il Fondatore minacciandolo se non gli cede la guida del M5S. Infatti, come si tende a dimenticare, è stato il Fondatore a chiedere all’ex premier il favore di prendersi in carico la gatta da pelare di un Movimento piuttosto spaccato e allo sbando. E di grazia, cosa spinse l’Elevato a interpellare calorosamente il professore avvocato (in questa storia i titoli abbondano), non esattamente un suo discepolo o un suo sodale? Oppure qualcuno, nella moltitudine dei beneficiati, che gli doveva sempiterna gratitudine per averlo portato in Parlamento con soltanto i voti dei parenti stretti? Risposta semplice, semplice: Grillo puntava, giustamente, alla popolarità di Conte. Che non è una postilla in uno statuto, e che poco ha a che fare con le suscettibilità personali (’a mmmia, dicono in Sicilia, a Genova non sappiamo).

Infatti, il consenso non è un’opinione, meno che mai uno scatto umorale, bensì un dato numerico. Nel caso di Conte, una cifra stabile che tuttora lo mantiene ai primissimi posti nei sondaggi sulla popolarità dei leader politici, pur non essendo egli (ancora) il capo di un partito. E pur avendo abbandonato ormai da quattro mesi Palazzo Chigi (circostanza che secondo gli esperti del ramo lo avrebbe destinato all’inevitabile oblio). Comprensibile, dunque, che Grillo abbia pensato a Conte non solo come personaggio di indiscussa esperienza e autorevolezza, ma come collettore di consensi in grado di rivitalizzare e rilanciare un simbolo che malgrado i tanti problemi conserva la fiducia del 15-16% degli elettori. Senza contare che la visione moderata (ma non molle) dell’ex presidente del Consiglio sembra in sintonia più con gli orientamenti di centrosinistra maturati in questi anni nel M5S di governo che con le pulsioni radicali e populiste delle origini. Per questi motivi, Conte ha perfettamente ragione quando dice che, con tutta la buona volontà, non intende fare il prestanome di Grillo. E neppure, riteniamo, il prestavoti a Grillo. Ieri, Grillo se n’è reso conto e ha emesso il suo verdetto: facciamo a meno di Conte e della sua popolarità, facciamo da noi. Quanti nel Movimento, nei gruppi parlamentari, tra gli elettori saranno disposti a seguirlo in questo cupio dissolvi?

Eni depositò una email fasulla. Il legale ai pm: “Lo sapevamo”

Ex vicepresidente del Csm, scomparso nel 2019, Carlo Federico Grosso è stato tra i più noti penalisti italiani. Nel giugno 2017, viene sentito come persona informata sui fatti dalla Procura di Milano. Il procuratore aggiunto Laura Pedio e il sostituto Paolo Storari stanno indagando sul depistaggio ordito dall’ex legale di Eni, Piero Amara, il quale, corrompendo l’ex pm di Siracusa Giancarlo Longo, aveva fatto istruire un fascicolo farlocco su un inesistente complotto ai danni dell’amministratore delegato del colosso petrolifero, Claudio Descalzi. Operazione finalizzata, secondo l’accusa, a indebolire il processo in cui Descalzi era imputato a Milano, con l’accusa di corruzione internazionale, per l’acquisto del giacimento petrolifero nigeriano Opl 245. Tra gli imputati c’era anche l’ex funzionario Eni Vincenzo Armanna che, a sua volta, era stato sentito come testimone proprio nel fascicolo inventato da Amara e creato dal pm Longo. Armanna e Descalzi il 17 marzo 2021 sono stati assolti in primo grado dall’accusa di corruzione.

Ma perché Grosso viene sentito in Procura? Con il collega Nerio Diodà, del collegio difensivo Eni, il 6 marzo 2017 aveva depositato alla Procura di Milano una email firmata da Armanna. Depositandola, i due avvocati avevano spiegato che “Eni non è in grado di valutare né se si tratti di documenti autentici né se, ammesso che siano autentici, gli stessi riportino fatti corrispondenti o meno a verità”. Però la depositano, “nell’ambito di un rapporto istituzionale di lealtà e collaborazione” con la Procura. Che cosa c’è scritto in questa email? Armanna vi sostiene che il suo avvocato, Luca Santa Maria – che aveva appena rinunciato al mandato, essendosi rifiutato di depositare a Milano gli atti del fascicolo di Siracusa come chiesto dal suo cliente – in passato l’aveva spinto a rendere dichiarazioni false, a Milano, contro Descalzi e l’Eni. Non solo, in questa condotta si era anche fatto portatore delle “istanze” del pm Fabio De Pasquale, in cambio di un trattamento di favore da parte del magistrato milanese. In altre parole: Santa Maria si sarebbe macchiato di “infedele patrocinio” e De Pasquale non sarebbe stato corretto. Armanna però non invia la email a Grosso. La invia al suo codifensore, Fabrizio Siggia, che lo assisteva con Santa Maria e poi — sostenendo di averlo fatto per errore — all’avvocato Giuseppe Lipera che, a sua volta, la gira a Grosso.

Armanna, Lipera, Amara, l’ex capo dell’ufficio legale di Eni Massimo Mantovani, più altre tre persone, sono ora accusate di aver concorso nella calunnia di Santa Maria: il contenuto della email di Armanna era infatti falso e, secondo l’accusa, mirava da un lato a “far cadere le accuse che” lo stesso Armanna “aveva formulato nei confronti dei vertici Eni nel processo Eni-Nigeria” e, dall’altro, a “creare le condizioni per un procedimento disciplinare nei confronti di De Pasquale”. Ecco la versione di Grosso dinanzi alla Procura. Spiega di aver sentito Lipera, per telefono, una sola volta in vita sua. E di essere stato avvertito della vicenda da un altro avvocato dell’Eni, Mario Maspero, il quale, pur essendo estraneo ai fascicoli di Milano e Siracusa, il 28 febbraio 2017 l’ha chiamato sul suo cellulare: “Mi ha detto che un certo avocato Lipera gli avrebbe fatto sapere di avere la disponibilità di qualcosa che poteva interessarmi (…). Ho telefonata a Lipera (…) che mi ha detto (…) che aveva ricevuto una lettera da tale Armanna (…) una lettera molto strana che poteva essere di mio interesse senza specificare altro (…). Mi chiese se poteva mandarmela, niente di più”. Dopo averla ricevuta, Grosso fa una supposizione che rivela ai pm di Milano: “La mail sembrava inserita ad arte, c’era qualcosa che non quadrava e non mi convinceva. Dopo averla letta sono rimasto sbalordito perché era un attacco di Armanna al suo avvocato Santa Maria e alla Procura di Milano (…). Ho pensato o che la email fosse materialmente falsa o che il contenuto non fosse vero o che la mail fosse stata costruita ad hoc o che Armanna avesse potuto dire cose non vere perché è strano che un avvocato si comporti nel modo descritto da Armanna”. A quel punto, il capo dell’ufficio legale Eni, Marco Bollini, al quale spiega che pensava di “depostarla alla Procura di Milano proprio perché non si capiva cosa fosse e nello spirito di massima lealtà” con i magistrati. E così avviene. “Anche l’avvocato Diodà – continua Grosso – era d’accordo sulla necessità di depositarla in Procura ed era molto sorpreso e non capiva per quale motivo ci fosse stata data”. Grosso sostiene che una spiegazione è riuscito a darsela tempo dopo, leggendo gli atti del fascicolo di Siracusa: “Ho appreso che Massimo Gaboardi (uno degli imputati per il depistaggio, difeso da Lipera, anch’egli accusato della calunnia a Santa Maria, ndr) aveva utilizzato quella email per chiedere l’astensione di De Pasquale nel procedimento di Siracusa. Ho pensato che la trasmissione della email a me poteva essere destinata a indurmi ad assumere inziative analoghe nel processo Nigeria e che volevano utilizzare me per ottenere quel risultato. Forse (Lipera e Gaboardi, ndr) volevano strumentalizzarci per ottenere l’estromissione di De Pasquale. Preciso che si tratta di una mia supposizione (…) priva di riscontro”. Ma allora perché non chiese a Lipera il motivo dell’invio di quella email? Grosso spiega che non è suo costume chiedere cose che non gli vengono dette. Riteneva sufficiente depositarla ai pm, che avrebbero indagato.

La Procura gli fa notare che, in quella forma, non era possibile alcuna indagine e che il fascicolo viene infatti aperto soltanto dopo la denuncia di Santa Maria. Grosso spiega allora che l’avevano depositata spinti da una “preoccupazione”. Quale? Non ricorda. O forse sì: per evitare l’accusa di non averla depositata. “Avete considerato la possibilità che il contenuto della email potesse tornarvi utile nel procedimento Nigeria”, chiede la Procura? “Non abbiamo mai pensato che quella email potesse avere un contenuto vero – risponde Grosso – perché mai un avvocato e la Procura avrebbero potuto comportarsi in quel modo”.

Il leghista alla consigliera Svp: “Perché sei in pigiama?”. E scoppia la crisi in Regione

Doveva essere una formalità, il solito rito della “staffetta” di metà legislatura: il presidente della provincia di Bolzano, l’esponente della Südtiroler Volkspartei, Arno Kompatscher, avrebbe dovuto passare la mano a quello della Provincia di Trento, il leghista Maurizio Fugatti, per guidare la Regione Trentino Alto Adige. E invece venerdì non è andata così. La maggioranza composta da Svp e Lega si è spaccata e la “staffetta” è saltata. Perché? A causa di un presunto pigiama. O meglio, a causa di un’offesa rivolta dal consigliere regionale leghista Denis Paoli alla collega della Süd-Tiroler Freiheit, Myriam Atz Tammerle, sui suoi indumenti: “Ma come ti vesti? Non siamo mica a un pigiama party, si vesta in una maniera un po’ più seria!”. Un attacco inaccettabile per la consigliera e per tutto il gruppo autonomista che ha deciso di uscire in massa dall’aula e far mancare il numero legale non votando Fugatti alla presidenza della Regione.

Tutto saltato e formalmente rinviato al prossimo 7 luglio, ma qualcuno, nel mondo dell’Svp, fa balenare la possibilità di un altro incidente che faccia saltare ancora l’elezione di Fugatti visto che i rapporti con la Lega sono logori da tempo. Uno scontro istituzionale arrivato fino a via Bellerio. I consiglieri dell’Svp pretendono le scuse pubbliche del Carroccio: “Quelle parole sono un errore – ha detto il capogruppo dell’Svp, Gherard Lanz – non si devono usare argomentazioni così per rivolgersi a qualcuno. Paoli deve chiedere scusa non solo alla consigliera Atz Tammerle, ma anche a tutto il consiglio perché quelle parole non possono trovare spazio in un’istituzione”. Ma la Lega non ha alcuna intenzione di scusarsi: il deputato Diego Binelli al Corriere del Trentino ha spiegato che sono state le “minoranze” ad aver “mancato di rispetto alle istituzioni”.

Quella della “staffetta” sembra ormai essere una maledizione per il presidente della provincia di Trento leghista. Il 20 marzo era già saltata una prima volta per un altro caso di sessismo in salsa leghista. In quel caso, il consigliere del Carroccio Alessandro Savoi aveva scritto un post su Facebook per accusare due colleghe passate con Fratelli d’Italia: “Le troie restano troie”. La situazione si è sbloccata solo a inizio giugno quando Savoi ha lasciato l’ufficio di presidenza. Adesso il nuovo round. E il 7 luglio potrebbe riservare nuove sorprese.

Gratteri denuncia: “Un perito al bar con un arrestato”

Un perito delle intercettazioni sorpreso a conversare al bar con un imputato. Ma anche periti che, prima hanno chiesto al Tribunale di Vibo Valentia una proroga di 24 mesi, e poi hanno accettato incarichi in altri processi dai difensori degli stessi imputati di Rinascita-Scott. “Sono quelli che non avevano tempo per fare le consulenze di Rinascita-Scott”, la denuncia di Nicola Gratteri. È durato 10 minuti l’intervento del procuratore di Catanzaro, che ha chiesto al giudice Brigida Cavasino di incaricare nuovi periti: “Il 1° giugno il pm Annamaria Frustaci ha notato che il perito Nardone era seduto al bar con il detenuto agli arresti domiciliari Mario Artusa. All’arrivo della Frustaci, il perito si levava di scatto e scappava. Fermato, non forniva alcuna giustificazione”.

Gratteri, poi, ha segnalato un’altra anomalia: un post su Fb del consulente informatico Antonello Elia che ha pubblicato una foto che lo ritrae assieme al perito Walter Vercillo e all’avvocato Antonietta De Nicolò Gigliotti, impegnato nel processo “Rinascita-Scott”.