“Padre padrone”. L’avvocato adesso prepara le truppe

Non se l’aspettava. Per lo meno non così. E alla fine decide di non parlare, non subito, non dopo tutto questo. Però ormai sa che l’altro, il Garante che gli voleva affidare tutto, il Beppe Grillo che il 28 febbraio su una terrazza romana gli disse “il M5S è casa tua” con il casco da simil-astronauta e il sorriso bonario, non è un interlocutore. Grillo è un nemico. Anche se proprio così dritto, Giuseppe Conte non riesce a scandirlo, almeno non pubblicamente. E dire che fino al primo pomeriggio si era mostrato fiducioso. Il passare delle ore senza che arrivasse una risposta del Garante alla sua proposta, quella di votare sul web il nuovo Statuto, era parso un buon segnale, a lui e a tanti 5Stelle. E invece no, Grillo stava solo limando quella scomunica che aveva in testa già da lunedì sera, appena Conte aveva terminato la sua conferenza stampa a Roma.

Un calcio in faccia all’ex premier, che la sua rabbia non vuole mostrarla. Ma l’amarezza trapela, comunque. “Grillo ha scelto di fare il padre-padrone della sua creatura” dice ai suoi, riprendendo un’immagine già adoperata nella conferenza stampa di due giorni fa, in cui aveva posto al fondatore diversi bivi, compreso quello tra l’essere un genitore generoso o padrone. E Grillo ha scelto, non come sperava l’ex premier. Amareggiato, anzi molto di più. Però nei colloqui privati lo rivendica: “Tutto questo è la riprova che l’attuale Statuto necessitava di un deciso salto di qualità in termini di democrazia diretta. Ed è per questa ragione che ho lavorato per quattro mesi a un progetto politico serio e credibile”. Invano, perché poi è arrivato il Garante, il distruttore. E adesso c’è solo il disappunto del giro ristretto dell’ex premier. Quello del portavoce Rocco Casalino, che aveva disertato la conferenza stampa per sminare possibili, nuove polemiche sul suo ruolo. E quello dei tanti parlamentari che ora si chiedono cosa fare, e soprattutto cosa farà lui, Conte. Fonti trasversali nel M5S sostengono: “Ora l’obiettivo di Giuseppe è far uscire a breve alcune decine di parlamentari dal Movimento”. Secondo un contiano, “potremmo arrivare a 120- anche 150 eletti”. Troppi, secondo alcuni. Ma nel giro dell’avvocato c’è fiducia. “In Parlamento c’è fermento, molti eletti i si stanno facendo sentire”. E d’altronde ieri “Conte ha passato tutto il giorno al telefono”. Tradotto, i soldati i per provare a costruire qualcosa di suo o almeno nell’attesa per mettere paura a Grillo potrebbero esserci, o trovarsi. Anche se alcuni contiani suggeriscono di andare piano. E di aspettare, i passi falsi del Garante. Perché il Grillo che invoca nuove urne sulla piattaforma Rousseau, quella di Davide Casaleggio, dovrà superare le riserve dei big, anche quelli non di rito contiano, e soprattutto mille problemi tecnici. Dall’ostilità del comitato di garanzia, cioè di Vito Crimi e Roberta Lombardi, nei confronti di Rousseau, a tanti nodi burocratici e legali.

L’avvocato allora potrebbe attenderlo lì, al varco. “Giuseppe potrebbe mettersi nella posizione di chi aspetta che lo vengano a implorare, non è mica così impossibile” ragiona un grillino dei piani alti. Ma come uscirne? Una primissima ipotesi nei conversari di ieri è quella di una sorta di segreteria di garanzia, un organo collegiale che farebbe da corona e contrappeso di Conte. Ma servirebbe molto di più, per rimettere a posto le cose. Ammesso che l’avvocato voglia ancora riprendersi il Movimento.

Conticidio bis. Il vaffa di Grillo a Conte. Ora il risiko del governo

Sullo sfondo ci sono il pianoforte e le pile di libri accatastate nel signorile soggiorno inondato dalla luce del tardo pomeriggio. I fogli del nuovo Statuto, marchiati dalla scritta “bozza”, Beppe Grillo li ha appoggiati addosso a sé, fino a coprirsi la bocca. Li cinge con le braccia abbronzate: “È roba mia”, dicono gli occhi del fondatore del Movimento. Ventiquattro ore prima, Giuseppe Conte gli aveva chiesto di scegliere se diventare un “genitore generoso” oppure no. Lui ha scelto di continuare a fare il padre padrone. Talmente padrone da riavvolgere il nastro a quattro mesi fa, infischiandosene di tutto quello che è accaduto nel mezzo: non solo non accetta la sfida che l’ex premier gli ha lanciato – votare lo statuto che supera la diarchia tra capo politico e garante –, ma richiama le truppe all’ovile: si voterà l’organo di 5 persone che la base aveva scelto prima che Grillo stesso decidesse di affidare i 5Stelle a Conte. E il voto si terrà nientemeno che su Rousseau, la piattaforma contro cui l’ex premier ha ingaggiato, a nome del Movimento, una battaglia legale durata settimane, conclusa con la vittoria del reggente Vito Crimi, che ha tolto a Davide Casaleggio la potestà sui dati degli iscritti.

Se il progetto di Grillo sarà realizzabile, è ancora tutto da capire (ne parliamo qui in basso, ndr). Ma, vada come vada, il post con cui ieri ha rifiutato la proposta di Conte, di fatto chiude per sempre ogni possibile punto d’incontro tra lui e l’ex premier. Non è stato, dunque, semplicemente uno sfogo quello con cui, la settimana scorsa, ha inveito contro l’aspirante capo che parla in “avvocatese”, “non ha visione” e da solo non va da nessuna parte. No. Anzi, a freddo Grillo è ancora più violento. Non è bastato che ieri sera, dopo la conferenza stampa di Conte, i suoi consiglieri gli impedissero di mettere nero su bianco reazioni avventate. Ci ha dormito su e quei consiglieri li ha descritti come “tossicodipendenti”, convinti che bastasse ingoiare la pillola di Conte per sentirsi “più potenti di quello che in realtà si è davvero”. Lui non la ingoia perché ha capito che non ha “né visione politica, né capacità manageriali. Non ha esperienza di organizzazioni, né capacità di innovazione”. Va oltre, Grillo: “Non possiamo lasciare che un movimento nato per diffondere la democrazia diretta e partecipata si trasformi in un partito unipersonale governato da uno statuto seicentesco”. Chiedeva filiere separate, Conte, con poteri esecutivi, di controllo e di garanzia. Ma per Grillo è solo un “principe azzurro” che ha illuso il Movimento di poterlo salvare.

Finisce così, malissimo, la storia d’amore tra i due Beppe. E si presta a molteplici letture. La prima, tanto basica quanto efficace, la dà un deputato di rango: “È stata una guerra tra maschi alfa: ma se ti metti a fare la gara con Beppe a chi ce l’ha più lungo, vince sempre lui”. Col senno di poi, ragionano in diversi, l’affronto di lunedì pomeriggio era intollerabile per Grillo. Sfidarlo di fronte agli attivisti, credere di avere in mano le redini del suo giocattolo: decisamente troppo, per uno come lui che ha concesso un ruolo da comprimario soltanto a Gianroberto Casaleggio.

Ma di mezzo c’è anche il ruolo che il Movimento avrà nella maggioranza che sostiene il governo Draghi. Il filo diretto tra il presidente del Consiglio e il fondatore M5S – principale sponsor del sì dei 5 Stelle al suo governo – non si è mai interrotto. E anche le critiche che, durante l’assemblea con i parlamentari, sono state rivolte all’indirizzo del ministro Cingolani (“Se va avanti così finisce in un bagno di sangue”) non hanno in realtà compromesso il loro dialogo sui temi della transizione energetica. Non è un mistero, tra l’altro, che nelle intenzioni di Giuseppe Conte ci fosse quella di cominciare a farsi sentire in maniera un po’ più incisiva nella larghissima coalizione di governo dove il Movimento – per usare un eufemismo – non tocca palla e nemmeno se ne lamenta, basti pensare alla recentissima abolizione del cashback. Eppure, la lettura – che pure trova spazio in alcuni settori “contiani” dei gruppi parlamentari – di uno stop a Conte per timore delle conseguenze sul governo, contrasta (e non poco) con gli effetti perversi della manovra di Grillo: ovvero, che a occupare i 5 posti del comitato direttivo di prossima elezione finiscano i più fieri oppositori di questo governo, tra cui alcuni – come il senatore Nicola Morra – che sono stati fatti fuori dal Movimento (senza esserne ancora formalmente espulsi) per aver detto no alla fiducia all’ex governatore della Bce. Ci sarà ampio materiale, un domani, per un altro post di benservito.

Lasciatelo solo

Se Grillo voleva distruggere Conte, è riuscito nell’impresa di rafforzarlo ancor di più. Se invece voleva distruggere i 5Stelle, è riuscito nella missione di annientare se stesso, o quel poco che ne resta. Basta leggere i commenti al suo ultimo post su Facebook, che lui crede visionario e invece è soltanto delirante: era da quando l’Innominabile annunciò trionfante il ritiro delle sue ministre dal governo Conte che non si riscontrava una tale unanimità di vaffanculo. Che, per un esperto del ramo, dovrebbe essere motivo di riflessione. Ma purtroppo Beppe non riflette più. Fino a qualche tempo fa, ci inviava delle lettere firmate “Beppe Grillo e il suo neurologo”. Poi, tragicamente, il suo neurologo morì. E se ne sente la mancanza. Barricato nel suo bunker, in piena sindrome di Ceausescu, l’Elevato si rimira allo specchio e si dice quanto è bravo. È come l’automobilista che imbocca l’autostrada in contromano e pensa che a sbagliare siano tutti gli altri. Scambia Draghi e Cingolani per grillini, cioè le allucinazioni per visioni. E ora, mentre il grillino Draghi straccia altre due bandiere dei 5Stelle e di Conte – il blocco dei licenziamenti e il cashback utilissimo per la transizione digitale, il sostegno al commercio e la lotta all’evasione – facendo felice la destra (soprattutto la Meloni, che però sta all’opposizione), lui tenta di abbattere l’unico leader che aiuterebbe il M5S a restare al governo con la schiena dritta. E spiana la strada allo smantellamento delle ultime conquiste superstiti: quelle sulla giustizia.

Del resto, come ha detto l’altro giorno alla Camera, i suoi ministri si sono girati i pollici per tre anni (infatti Bonafede e la Azzolina vivono sotto scorta). Sono Draghi&C. che hanno “visione”: non certo Conte, che un anno fa si inventò il primo lockdown d’Europa e un’altra cosetta come il Recovery Fund finanziato con Eurobond, costruendo il consenso per farlo approvare all’unanimità dal Consiglio dopo quattro giorni e quattro notti di battaglia. Quisquilie: tant’è che, per rendere meno “seicentesco” lo Statuto di Conte, Grillo pretendeva di guidare la politica estera del M5S, col decisivo argomento che conosce l’ambasciatore cinese. Il suo neurologo gli avrebbe spiegato la ridicola assurdità della pretesa. E anche il paradosso di essersi inimicato tutti gli amici e trasformato nell’idolo di tutti i nemici, ansiosi di liberarsi – tramite lui – di un movimento che con Conte minaccia di rinascere (leggere i giornaloni e la stampa di destra per credere). Ma purtroppo il neurologo non c’è più e non è stato sostituito. In compenso, nel bunker, torna Casaleggio jr., richiamato in servizio per apparecchiare l’elezione di un Comitato direttivo di cinque membri.

Cinque vittime sacrificali votate al sadomasochismo che si stenta a immaginare chi possano essere. Potrebbero pure candidarsi i fuorusciti in attesa di espulsione, tipo Lezzi, Morra, Laricchia &C. Che però avevano lasciato i gruppi parlamentari in polemica contro l’ingresso del M5S nel governo Draghi imposto proprio da Grillo e osteggiato proprio da Casaleggio (che, fra l’altro, si oppone a qualunque deroga al limite dei due mandati). Un altro paradosso da neurologo: per sbarrare la strada a Conte, che ancora l’altroieri ha ribadito il sostegno a Draghi (ma da posizioni critiche e mature), il Visionario Elevato farebbe eleggere un Direttorio di nemici assatanati del governo col potere di sfiduciarlo. Ma è improbabile che l’elezione su Rousseau possa mai avvenire. Carente di neurologi, Grillo lo è anche di avvocati. Altrimenti qualcuno gli avrebbe spiegato che quella non è più la piattaforma del M5S (che ne ha un’altra) e soprattutto che Casaleggio – salvo commettere reati – non può violare l’ordine del Garante della Privacy di non trattare i dati degl’iscritti, dopo averli consegnati al legittimo titolare: il reggente Vito Crimi.

Ora, siccome il partito di maggioranza relativa in Parlamento non può restare senza guida alla vigilia di un autunno caldo a suon di licenziamenti e del rush finale per l’elezione del capo dello Stato, l’unica votazione che ha un senso è quella per il nuovo capo politico: da una parte Conte, sulla base del suo Statuto e della sua Carta dei Valori, che vanno subito resi pubblici; dall’altra Grillo o chi per lui (se mai troverà un essere senziente disposto a fargli da prestanome), sulla base del suo post di ieri. Così finalmente saranno gli iscritti, davanti a un’alternativa chiara e netta senza più quesiti suggestivi, a decidere se i 5Stelle devono vivere con Conte o morire con Grillo. Del quale resta da capire se sia ancora lucido o irrimediabilmente bollito, e soprattutto quale delle due alternative sia la peggiore. Se è lucido, sta lavorando scientemente per il re di Prussia e dunque va messo in condizione di non nuocere. Se invece è bollito, sta lavorando inconsapevolmente per il re di Prussia e dunque va messo in condizione di non nuocere. Come? Lasciandolo solo, cioè nella condizione che ormai predilige, convinto – come Cesare secondo Plutarco – che sia “meglio essere primo in un villaggio che secondo a Roma”. Ma qui il villaggio ha le dimensioni di una delle sue ville. E i padri padroni sono tali finché i figli diventano adulti, escono di casa e iniziano a camminare con le proprie gambe. Nel governo, in Parlamento, nelle Regioni, nei Comuni e fra gli iscritti ci sono decine di migliaia di figli di Grillo ormai maggiorenni che sanno cosa devono fare.

Faccia da poker, Roma e cravatte: identikit di Draghi

Poker “Non sai mai cosa pensi dietro quella faccia da poker” (Carsten Brzeski, capoeconomista della banca olandese ING a The Wall Street Journal). “La sua mimica facciale in pubblico ha poche varianti. È capace di sedere per un’ora senza muovere un muscolo della faccia, immobile come una statua. In trent’anni di carriera Draghi ha perso pubblicamente il controllo forse solo una volta. È stato quando nel 2015, durante una conferenza stampa della Bce a Francoforte, un’attivista di un movimento denominato Blockupy saltò sul tavolo e gli lanciò in faccia dei coriandoli. Le foto ritraggono Draghi che si copre il viso incrociando le braccia, il volto segnato da una smorfia di stupore. Ma fu un attimo. Bloccata l’attivista, dopo una breve interruzione della conferenza stampa, riprese a leggere il suo discorso come se nulla fosse accaduto. E al giornalista francese che gli chiedeva come avesse fatto a mantenere il suo aplomb rispose con un commento liquidatorio: ‘Si dia lei la risposta’”.

Enigma “Draghi è un enigma” (Financial Times).

Golf “Se deve andare a vedere la Roma, la sua squadra del cuore, va in curva, gioca a tennis in circoli quasi popolari, scia e fa roccia a Cortina, ma non passeggia mai sul corso dove tutti vanno a farsi vedere; inoltre, negli ultimi anni ha scoperto il golf”.

Cappotti Indossa solo cravatte Hermès. Porta abiti sempre dello stesso colore, blu scuro. Non ama i cappotti.

Pigro Tommaso Padoa-Schioppa: “È come quegli ufficiali di stato maggiore, intelligenti ma pigri e per questo adatti a incarichi di vertice”.

Sei “Mario non era un primo della classe, era uno da sei, sei e mezzo” (ricordo di un compagno del Massimo).

Tesi Nella tesi di laurea, intitolata Integrazione economica e variazioni dei tassi di cambio, Draghi bocciava senza appello il Piano Werner, cioè il primo tentativo di creare una moneta unica europea.

Critiche Dopo il whatever it takes, il corrispondente del Financial Times da Francoforte, Michael Steen, attaccava Draghi con domande sgradite durante le conferenze stampa, sostenendo che non fossero stati chiariti né la normativa né i parametri che regolavano il piano di intervento sui titoli di Stato dei paesi in difficoltà. Nel 2014, Draghi fa Steen capo della Comunicazione della Bce. Le critiche cesseranno.

Ufficio L’ufficio di governatore della Banca d’Italia che gli lasciò Fazio: una scrivania progettata da Gaetano Koch e appartenuta a Luigi Einaudi, tappeti sul parquet, quadri antichi alle pareti, il vecchio divano marrone di Guido Carli. Draghi disse: “Tranne la scrivania di Einaudi, vorrei cambiare tutto”, incluso il San Sebastiano trafitto che per anni aveva fatto mostra di sé dietro la postazione del governatore. La stanza fu riarredata con pezzi di Poltrona Frau e di Gae Aulenti. I quadri furono sostituiti.

Solo La prima volta a Palazzo Koch come governatore, al commesso che voleva prendergli la borsa: “Grazie, faccio da solo”.

Riunioni Prima decisione da governatore di Bankitalia: accorciare la durata delle riunioni.

Occupazione “La piena occupazione non è un mezzo per accrescere la produzione, bensì un fine in sé, una questione di dignità della persona. La politica economica deve agire per conseguirla” (Draghi, intervenendo a un convegno su Federico Caffè).

Tagli Al termine del mandato di Draghi, la Banca d’Italia aveva 36 sedi e 1.500 dipendenti in meno.

Notizie tratte da: Marco Cecchini L’enigma Draghi Fazi, 240 pagine, € 18.

 

“Mentre passiamo bruciando”: ritratto della generazione che voleva tutto

Cosa resterà degli anni Settanta? Prova a dare una risposta Raffaella Battaglini, apprezzata autrice di testi per il teatro, qui alla terza prova come romanziera in Mentre passiamo bruciando (Castelvecchi), titolo suggestivo ma soprattutto perfetto per la fotografia di quella generazione così difficile da immortalare, tanto è stata tutto il contrario di tutto. Della trama diremo il necessario: a distanza di anni una giornalista indaga sulla morte di Laura, una giovane donna uccisa a Padova nel 1981, anno che simbolicamente chiude il decennio di fuoco. Ma il crimine è solo l’occasione narrativa per convocare le numerosissime voci narranti che affollano il romanzo, a cui l’autrice assegna il compito di ricostruire la complessità ideologica e sentimentale di quegli anni e dei loro protagonisti: qualcuno è finito in banca, qualcun altro in galera e non si sa quale è il destino peggiore. C’è la politica naturalmente (e i suoi strascichi giudiziari, come il processo del 7 aprile) ma c’è anche tutto il resto, il vissuto di una generazione invischiata in idee talvolta lucide, talvolta confuse, talvolta davvero politiche, talvolta soltanto pretestuose; c’è l’amore, in multiformi declinazioni; c’è il femminismo; ci sono il cinema e i libri di un decennio che ha dato più di quanto non sia rimasto sedimentato.

Ogni testimone racconta un pezzo di storia, collettiva e individuale: ne viene fuori un ritratto articolato, denso di sfumature perfettamente distinguibili nella “nebbia di massa”, per nulla compiaciuto e di grande potenza letteraria. La distanza temporale consente a Battaglini il lusso della sincerità, feroce e tenera come sempre accade quando ci si volta indietro per osservare la giovinezza. “Quando parlo di noi, mi riferisco al gruppo di persone che frequentava la casa (quella del delitto, ndr) in quel periodo così cruciale per la nostra generazione – periodo che in quell’inizio del nuovo decennio si stava concludendo: e inesorabilmente e misteriosamente come mutano i tempi, andava cambiando di segno, per trasformarsi infine nel suo opposto”. Quello che è venuto dopo non conoscerà più il noi: i frutti avvelenati del riflusso si vedono ancora oggi. Volevamo tutto, non è rimasto nulla.

Italia-Belgio, partiamo sfavoriti (e non è male)

Quando si dice il destino: con il Belgio, all’Europeo del 2016, nacque il “Contismo”, branca del sapere filosofico-calcistico. Antonio Conte era il Ct, si giocava a Lione, fu il battesimo: 2-0, acuti di Emanuele Giaccherini, detto Giaccherinho, e Graziano Pellé. Reduci dal campo, tre: Leonardo Bonucci, Ciro Immobile e Giorgio Chiellini, infortunato. Tra i nostri rivali, addirittura dieci: da Romelu Lukaku e Kevin De Bruyne a Eden Hazard. Proprio De Bruyne ed Eden sono usciti mezzo rotti dal wrestling con il Portogallo di Cristiano. Non recuperassero in tempo, dopo i centimetri “varisti” della rete di Marko Arnautovic sarebbe l’ennesima botta di sedere. Perché stiamo parlando dell’uomo-squadra (De Bruyne) e dell’uomo-fantasia (Eden), fratello di Thorgan, autore del gol che ha fulminato i campioni. Monaco, venerdì ore 21. Si profila un quarto di altissima nobiltà, il Belgio è primo nella classifica Fifa (e secondo nella mia griglia, dietro alla Francia). La Nazionale-famiglia di Roberto Mancini è reduce dalla vittoria sull’Austria, 2-1 sabato a Wembley, traccia diretta e ruspante di come e quanto cambi l’umore dai materassi dei gironi alle trappole delle gare secche. Prova ne sia l’Olanda, tre successi su tre e, ops, il suicidio con i cechi. Gli Azzurri partono sfavoriti e questo potrebbe rivelarsi un vantaggio. Hanno scoperto la sofferenza, hanno trovato in Federico Chiesa e Matteo Pessina eccellenti alternative agli alti e bassi dei titolari (Marco Verratti, Nicolò Barella, Domenico Berardi, Lorenzo Insigne). Non abbiamo fuoriclasse alla De Bruyne, dettaglio che da un lato ci penalizza e dall’altro ci tranquillizza, nel senso che, al netto delle gerarchie di base, non dovremo mai rimproverarci di aver trascurato un Leo Messi. Roberto Martinez, spagnolo, ha “studiato” in Premier: vinse, con il Wigan, la Coppa d’Inghilterra del 2013, soffiandola proprio al Manchester City di Mancini, poi esonerato. Si ciba di un calcio pratico che ha nei fratelli Hazard il piatto forte a sinistra, in De Bruyne l’interruttore, in Lukaku il centravanti capace di far reparto da solo, anche (o soprattutto) in versione Laocoonte avvinghiato ai serpenti. La difesa è aggirabile in velocità, dote che l’ultimo Leonardo Spinazzola ha innalzato a specialità della casa. A caccia di uno slogan seducente, ancorché dozzinale, potremmo dire: il gioco dell’Italia contro le giocate del Belgio, terzo agli ultimi Mondiali in Russia (fra parentesi). Il disco dell’estate è diventato Chiesa. Spacca le partite. Subito o part-time, alla Douglas Costa (o, per i nostalgici, alla José Altafini)? Il sentimento popolare non ha dubbi: subito. Corre, la memoria, a staffette che fecero la storia. Calma.

Chanel nº 5 l’odore degli imperi

Come si sa, in questo 2021 ricorre il centenario di Chanel N° 5, il profumo di geniale composizione che decretò la fortuna di Coco Chanel e si incise a fuoco nell’immaginario mondiale come simbolo della Parigi degli anni ’20. Un libro meraviglioso dello storico dell’Est europeo Karl Schlögel, Il profumo degli imperi. Chanel N° 5 e Mosca Rossa: la storia del XX secolo in due profumi (Rizzoli, traduzione di Roberta Zuppet), spiega come quel prodotto dell’ingegno, zuppa straordinaria di olî essenziali e composti chimici, si pianti al crocevia della Storia del Novecento.

La Russia degli zar aveva una straordinaria industria profumiera: la nobiltà necessitava di rinforzare il suo status rispetto alla grandezza francese anche mediante la presa di distanza dall’olezzante popolo. Nel Paese di più grande cultura olfattiva, in cui arrivavano le spezie della Via della Seta e si levavano i fumi dell’incenso e della mirra dalle cattedrali ortodosse, dove anche il paesaggio partecipava con effluvi di boschi gonfi di resine e giardini subtropicali della costa del Mar Nero, si impose la tecnica dei profumieri francesi. I saponifici russi scoprirono l’enfleurage di Grasse.

Nella fabbrica russa Rallet andò a lavorare l’apprendista Ernest Beaux, nato a Mosca e tornato in Russia nel 1902 dopo la formazione in Francia; sarà lui a inventare Bouquet di Napoleon nel 1912 e, l’anno dopo, Bouquet de l’Imperatrice Caterina II, per il trecentesimo anniversario della dinastia Romanov. La Rallet, fornitrice ufficiale dell’Imperatore, dopo la rivoluzione diventò “Saponificio statale numero 4”, mentre la Brokar, produttrice di saponi, sarà nazionalizzata e da essa uscirà il più popolare profumo russo, Mosca Rossa.

Ora, immaginate l’odore che dovevano avere le strade e gli edifici occupati durante la Rivoluzione del 1917; raffiguratevi al naso il panorama degli odori che mutano nel momento in cui nei palazzi dell’aristocrazia e della borghesia russa, prima abitati dai nobili e nei piani bassi dalla servitù, si trasferiscono intere famiglie di operai e contadini, fino a 60 persone, e le case diventano kommunalka, appartamenti collettivi.

Dai mobili e dai tendaggi impregnati di profumi francesi e del fumo dei sigari ora emana il lezzo della povertà. Le zuppe di cavolo esalano vapori addosso alle specchiere accarezzate dagli effluvi del potere decaduto. La Rivoluzione è anche una rivoluzione olfattiva. L’antagonismo tra sporcizia e pulizia penetra nel discorso pubblico, ma a parti rovesciate: “la purezza cristallina del partito” bolscevico vinceva sulla “putrida intellighenzia borghese”, dedita all’ozio e alla mollezza dei profumi. Le donne di ferro dell’élite comunista, che prima indossavano profumi di Houbigant e di Bourjois (come Aleksandra Kollontaj, intellettuale e funzionaria di Lenin), ora indossano le fragranze bolscevizzate: Spiga dorata, Spartachiade, All’erta, e, appunto, Mosca Rossa.

Ernest Beaux nel 1921 è a Grasse, dove grazie all’intercessione di un nobile russo incontra Coco Chanel. Tra le 10 composizioni che le propone, lei sceglierà la numero 5, che nella piramide – gelsomino, rosa, ylang-ylang, zibetto, aldeidi – ricalca proprio Mosca Rossa inventato dal competitor Auguste Michel, che a sua volta l’aveva copiato dal Bouquet de l’Imperatrice di Beaux. L’assoluta novità della composizione numero 5 è la percentuale di aldeidi. Beaux voleva riprodurre l’odore della neve e dell’arida tundra polare, satura fino a 10 volte di più di aldeidi rispetto ai consueti paesaggi nevosi, che aveva respirato attraversando la penisola di Kola nel Circolo polare artico da soldato in guerra. Per le parigine e per i soldati americani che faranno la fila davanti al negozio di Chanel in rue Cambon 31 per comprarlo alle fidanzate, le aldeidi evocano le bollicine di champagne. Ciò che nelle intenzioni del creatore era l’epitome della guerra e del freddo ozonico del nord, finì per essere, nelle parole di Coco, “l’odore del letto, del latte, della donna”.

Intanto Mosca Rossa si diffondeva grazie al trust statale TeShe (che i francesi pronunciavano Tejé) amministrato da Polina Žemcužina, commissaria del popolo e responsabile dell’industria cosmetica sovietica, moglie del ministro degli Esteri Vjaceslav Molotov, autore del patto di non aggressione coi nazisti.

È un’ironia della Storia che Coco Chanel, antisemita, sarà accusata di collaborazionismo coi nazisti (sarà una lettera di Churchill ad aiutarla a superare il processo); nazisti le cui mogli indossavano un profumo parigino che nel Dna aveva i geni di Mosca Rossa, gloria della Russia di Lenin e Stalin.

Raccolte fondi fasulle: i furbi di Ascensione Planetaria&C.

Se ne aprono e chiudono in continuazione, specie su Gofundme. Personaggi noti e stampa le sponsorizzano senza preoccuparsi troppo della fondatezza delle cause e della reale destinazione dei fondi. I filoni sono svariati, e il più inquietante è quello che riguarda malattie e cure. Emblematica la storia di Paolo Palumbo, il giovane malato di Sla che lo scorso anno era ospite a Sanremo. Per lui è stata aperta una raccolta fondi su Gofundme nel 2019 dal fratello Rosario. Motivazione ufficiale: per le cure necessarie si deve ricorrere alla sperimentazione Brainstorm in Israele, obiettivo 900.000 euro. Vengono raccolti più di 140.000 euro (donano anche il Billionaire e il Cagliari Calcio) finché non arriva l’amara scoperta. Un’indagine della polizia postale di Oristano accerta che Paolo non ha mai avuto accesso a quel protocollo e lui e la sua famiglia stanno comunicando da mesi con un finto medico israeliano. La struttura israeliana smentisce di aver mai dato l’ok. Secondo l’Unione Sarda una email del finto medico israeliano sarebbe partita proprio da Oristano, la città di Paolo. Qualcuno sostiene che gli indagati siano proprio dei familiari di Paolo, ma il fratello Rosario al telefono smentisce: “A me non risulta. Noi siamo vittime di truffa”. Già, la domanda però è: visto che il destinatario della raccolta fondi è lo stesso malato, che interesse poteva avere un truffatore a fingersi medico? Sempre a proposito di malattie c’è la storia della showgirl Elenoire Ferruzzi: la tizia fino ad aprile si lamentava delle restrizioni, diceva che il Covid era un progetto politico, che la mascherina era inutile, vantava ricchezze inenarrabili e dileggiava quelli che si alzavano per andare a lavorare. Ad aprile si ammala di Covid. Finisce intubata. Tre mesi di ricovero al Sacco. Appena esce, parte la raccolta fondi “per aiutarla a risollevarsi”. Ma veniamo ad altre questioni per certi versi più spinose. Per esempio, le raccolte fondi in favore di minori protagonisti di eventi tragici. È il caso del figlio di Luana, la ragazza morta in una fabbrica tessile. O del piccolo Eitan, il bambino sopravvissuto alla tragedia della funivia. In entrambi i casi le raccolte sono state numerose e parallele, la nomina di un tutore definitivo non c’era ancora. Nessuno conosce con certezza il futuro di questi due bambini, il tenore di vita della famiglia che li crescerà (che potrebbe anche essere buono). Perché mai la questione economica dovrebbe diventare un tema a 24 ore dalla tragedia? E perché il figlio di Luana sì e i figli di tanti lavoratori anonimi no? Perché l’orfano Eitan sì e tanti altri orfani no? Perché del futuro di questi bambini si dovrebbero occupare i privati, anziché lo Stato? E ho più di una perplessità anche sulla raccolta fondi destinata a Malika, l’ormai famosa ragazza insultata e ripudiata dai genitori perché lesbica. La raccolta fondi (Aiutare mia cugina a costruirsi un futuro) parte su iniziativa di sua cugina, tale Yasmine, “con lo scopo di regalare a Malika il futuro che si merita”. Vengono raccolti 140.000 euro. Su Gofundme però c’è un’altra donazione (Un futuro per Malika) arrivata a 11.000 euro in cui si specifica “Gran parte del devoluto di questa campagna sarà destinato a enti che si occupano di accogliere le vittime di discriminazione”. Nessuno conosce cifre e destinatari, ma soprattutto viene da chiedersi perché una ragazza di 22 anni discriminata dalla famiglia avrebbe bisogno, come prima cosa, di 150 mila euro. Una ragazza la cui fidanzata è figlia di due professionisti più che benestanti, che aveva comunque un lavoro e che viveva ancora con i suoi per scelta (a 22 anni in tanti si mantengono da soli, discriminati o no). Perché nei confronti di una ragazza adulta, con un lavoro e una fidanzata in grado di darle una mano, che subisce una discriminazione così orrenda l’atteggiamento risarcitorio della società dovrebbe essere di tipo economico? E siamo alle solite: perché lei sì e altri no? Sono i media a rendere una vittima più risarcibile di altre? Perché se è così, basta l’interessamento di una D’Urso e c’è speranza anche per tal Valentina Selvatica Celeste che su Gofundme ha lanciato una campagna in suo favore: “Qui sulla Terra mi occupo di sostenere i piani di Ascensione Planetaria verso le frequenze d’Amore Infinito da cui tutti proveniamo. Per la mia sopravvivenza fisica faccio parte dei circuiti di libero scambio non monetario e di microeconomia circolare del dono. Ho aperto questo spazio per poter acquistare un minicamper puro o van”. Ecco, forse stiamo un po’ esagerando. Torniamo a considerare le donazioni una cosa seria e, soprattutto, domandiamoci se stiamo donando sulla scia di una necessità o sull’onda dell’emotività.

Blinken parla di Isis ma spara all’Iran

Gli attacchi statunitensi contro milizie filo-iraniane in Iraq e in Siria riverberano bagliori di guerra sull’incontro a Roma dei Paesi della coalizione anti-Isis e indicano le priorità degli Usa di Joe Biden nel Grande Medio Oriente: il contenimento dell’influenza di Teheran, anche come pegno d’alleanza all’Israele del dopo Netanyahu. La guerra a bassa intensità tra Usa e Iran è condotta, questa volta, con attacchi aerei e missilistici contro depositi di armamenti utilizzati da milizie filo-iraniane: una postazione serviva a lanciare e recuperare droni armati; un’altra era un centro logistico. Le azioni avrebbero fatto cinque vittime. Dall’Iraq, l’alleanza paramilitare irachena filo-iraniana Hashed al Shaabi minaccia vendetta. Non è la prima volta che Biden ordina bombardamenti di milizie-filoiraniane: era successo a fine febbraio. Adesso, gli attacchi suonano moniti al presidente eletto Ebrahim Raisi, un conservatore, con cui il negoziato per il ripristino dell’accordo sul nucleare denunciato nel 2018 da Donald Trump s’annuncia difficile.

Secondo fonti del Pentagono citate dai media Usa, i militari statunitensi sono allarmati perché il livello della minaccia rappresentata dalle milizie filo-iraniane in Iraq sta rapidamente crescendo. Unità specializzate nell’utilizzare armamenti sofisticati, inclusi i droni, hanno recentemente colpito alcuni fra i più sensibili obiettivi Usa nell’area, eludendo le difese statunitensi. E ciò mentre la situazione militare si sta deteriorando anche in Afghanistan: la visita a Washington nel fine settimana del presidente Ashraf Ghani è stata offuscata dalla pubblicazione di un rapporto dell’intelligence secondo cui il Paese potrebbe ricadere in mano ai talebani nel giro di sei mesi dopo il ritiro degli occidentali, previsto entro l’11 settembre, nel ventesimo anniversario degli attacchi all’America del 2001. Roma e l’Italia sono divenute, da domenica, centro nevralgico della politica estera Usa: il segretario di Stato Antony Blinken ha avuto incontri istituzionali e ha co-presieduto la riunione anti-Isis, prima di partecipare a Matera al G20 degli Esteri. Blinken ha pure avuto il primo contatto dell’Amministrazione Biden con il nuovo governo israeliano del dopo Netanyahu: con Yair Lapid, oggi ministro degli Esteri dello Stato ebraico, ha parlato dello spinoso dossier del nucleare iraniano. A Roma, Blinken ha rilevato “il forte legame tra Usa e Italia”, importante “per garantire la sicurezza transatlantica, per organizzare il sostegno al progresso in Libia e per affrontare le minacce condivise nel Mediterraneo e nel mondo.”

Tre fedelissimi di Sarkozy lanciano la sfida a Macron

“Tutti hanno capito che le Presidenziali sono una partita a tre”, ha detto Xavier Bertrand, domenica sera, fresco di vittoria alle Regionali: l’ex ministro del Lavoro di Sarkozy, era stato appena rieletto presidente della regione Hauts-de-France, ma già parlava da candidato all’Eliseo. Bertrand è stato riconfermato nella grande regione del Nord con il 52,3% dei voti, davanti al candidato del Rassemblement National (RN), Sébastien Chenu (25,6%). Nella stessa regione, Emmanuel Macron aveva schierato per il suo partito LaRem cinque ministri, tra cui il Guardasigilli Éric Dupont-Moretti, subendo al primo turno un’umiliante sconfitta. Lo scrutinio, segnato da un’astensione storica (65%), non era neanche finito che già si parlava d’Eliseo. E a destra si comincia a sperare: anche Valérie Pécresse e Laurent Wauquiez, a loro volta vicini a Sarkozy, sono stati riconfermati rispettivamente in Île- de-France, la regione di Parigi, e in Alvernia-Rodano, la regione di Lione. Pécresse con il 46% davanti all’ecologista Julien Bayou (33,6%), Wauquiez con il 55%, davanti a Fabienne Grébert, anche lei ecologista e alla testa di un’alleanza della gauche.

Il voto doveva essere un banco di prova per l’Eliseo: i sondaggi da mesi danno per scontato che nell’aprile 2022 si produrrà il replay del 2017, con una sfida a due Le Pen-Macron. Ma RN e LaRem, non riuscendo a ottenere nessuna regione, sono i grandi perdenti di questo scrutinio. RN ha perso anche in Provenza-Costa Azzurra, dove il suo candidato, Thierry Mariani, arrivato in testa al primo turno, è stato battuto da Renaud Muselier di LR, grazie a un “fronte repubblicano” compatto. L’alleanza della gauche ha conservato cinque regioni. Ma è la destra moderata a confermarsi prima forza nazionale, con il 38% dei voti e sette regioni: “La destra oggi è la sola forza d’alternanza”, ha detto Christian Jacob, presidente del partito Les Républicains. “Il risultato di questa sera mi dà la forza di rivolgermi a tutti i francesi”, ha ribadito Bertrand domenica sera, anticipando i temi della sua nuova campagna che prenderà il via già questa estate: sicurezza, lotta contro “l’odio della Francia”, attenzione per le classi medie e popolari. Ha anche invitato gli altri due “moschettieri” della destra, Pécresse e Wauquiez, a unirsi a lui per il 2022: “Sono convinto che una grande e bella squadra di Francia possa vincere”. Bertrand è già candidato e lo sarà comunque, indipendentemente dal risultato di eventuali primarie di partito in autunno. Vuole essere “il terzo uomo” nel duello per l’Eliseo e per ora i sondaggi lo danno favorito a destra: secondo l’Ipsos, in un confronto al primo turno con Macron (24-27%) e Le Pen (24-26%), Bertrand otterrebbe il 18-20%, meglio di Pécresse (12-13%) e Wauquiez (13%). Ieri ha anche incassato di persona le congratulazioni di Macron, che era in visita nella sua regione all’impianto Renault di Douai. Come Bertrand, anche Valérie Pécresse, ex ministra dell’Educazione e del Bilancio, aveva preso un rischio prima del voto, comunque ponderato: aveva detto che avrebbe lasciato la politica se non fosse stata rieletta alla regione. Ora avanza le sue pedine: “Sono una donna fiera di servire la mia regione e il mio Paese. Una squadra della destra e del centro è emersa nelle regioni. Abbiamo una grande responsabilità, farò la mia parte”. Dirà se sarà candidata solo dopo l’estate. Il nome di Wauquiez per l’Eliseo circola già da qualche tempo. Ora che l’ex ministro degli Esteri, oltre che segretario di LR per un breve periodo (nel 2018-19), ha tutte le carte in regola, il 6 luglio parteciperà all’ufficio politico del partito e incontrerà i suoi responsabili per sondare gli appoggi. Ci si aspetta da lui che dirà a breve se è candidato o no.