Non solo Floyd: il razzismo contro i “neri” è sistematico

George Floyd è morto, viva George Floyd. Nel giugno 2020, dopo il decesso del giovane afroamericano, soffocato dalla stretta dell’agente di polizia Derek Chauvin, la risoluzione 43/1 delle Nazioni Unite diede mandato al proprio Ufficio per i Diritti umani, guidato dall’ex premier cilena Michelle Bachelet, di indagare su razzismo sistemico e violazioni dei diritti umani da parte di forze di polizia ai danni di africani e persone di discendenza africana. L’indagine, basata sul contributo di 340 esperti e testimoni di (solo) 16 Stati membri, organizzazioni intergovernative e non governative e agenzie dell’Onu, si è conclusa con un rapporto di 23 pagine, più 95 di atti, e questa sintesi raggelante: “La deumanizzazione delle persone di origine africana […] ha supportato e coltivato la tolleranza di discriminazione razziale, diseguaglianza e violenza”. Discriminazioni sistemiche con modalità e caratteristiche simili nei diversi Paesi. Per questo la Bachelet ha definito lo status quo ‘insostenibile’ e sollecitato una risposta: “Chiedo agli Stati di smetterla di negarlo e iniziare a smantellare il razzismo; di porre fine all’impunità e costruire fiducia; di ascoltare la voce delle persone di origine africana; di affrontare le eredità del passato e porvi rimedio”. Un appello globale che sollecita particolarmente Paesi con una forte comunità di origine africana, specie se eredità coloniale come il Regno Unito. Fra i 190 decessi valutati, oltre a quelli degli statunitensi Floyd e Brianna Taylor, c’è anche Kevin Clarke, 35 anni, una diagnosi di schizofrenia paranoica nel 2002, morto a Londra nel 2018 anche in conseguenza dell’uso, considerato ‘non appropriato’ da un collegio giudicante, di misure costrittive da parte della polizia. In un video lo si vede costretto a terra dagli agenti, mormorare “non respiro”, come Floyd due anni dopo, anche se i poliziotti non sono mai aggressivi. I parenti di queste vittime hanno dichiarato di sentirsi “costantemente traditi dal sistema”: spesso sono proprio loro “a dover lottare per avere giustizia”.

Fra le principali ragioni di allarme, l’eccesso di sorveglianza delle comunità nere, che le fa sentire minacciate anziché protette, e la ‘criminalizzazione dei giovani di origine africana.

Fuga dal virus e da Maduro. La grande onda venezuelana

“Non venite negli Stati Uniti”, ha detto solo qualche settimana fa la vicepresidente Kamala Harris nel tuo tour in Centro e Sudamerica. Il messaggio però non era rivolto a tutti i cittadini del sud del continente in difficoltà nei propri Paesi, desperados in cerca di fortuna negli Usa anche a costo di rischiare la vita. A fare eccezione sono i venezuelani, una carica di oltre 17mila persone solo da gennaio a oggi – dei 6 milioni in fuga da quando Nicolas Maduro ha preso il potere nel 2013 – che attraversano imperterrite il Rio Grande per baciare la terra americana e consegnarsi alle autorità cui chiedere asilo.

Sono banchieri, medici e ingegneri, in molti oppositori del regime, altri sfuggiti da fame e pandemia che hanno attaccato anche le rispettive nuove patrie dove esiliati avevano già trovato rifugio negli anni scorsi. Un numero record in fuga dal paese con le più grandi riserve di petrolio al mondo, messo in ginocchio dal regime e dalle sanzioni internazionali per cercare di punirlo.

Da diversi anni hanno lasciato una grande casa di proprietà e un lavoro solido, come Marianela Rojas, 54enne che l’agenzia Ap nel suo reportage ha incontrato mentre usciva dall’acqua per essere accolta dalla polizia di frontiera nella cittadina al confine di Del Rio. Marianela si era riciclata come insegnante di scuola elementare in Ecuador da qualche anno, ma quando con la pandemia anche quel lavoretto è venuto meno, ha deciso di ripartire – questa volta senza figli – per decidersi a superare la frontiera con gli States. “È finita, è tutto finito”, ha detto al telefono al suo nipotino a torso nudo dall’altra parte della videochiamata.

Solo a maggio come Marianela sono stati altri 7.483 i migranti venezuelani fermati alla frontiera tra Usa e Messico, il numero più alto dagli ultimi 14 anni: uno spostamento numericamente paragonabile soltanto alla fuga dal regime cubano di Fidel Castro di fine secolo scorso. Un mix di emigrazione politica e pandemica che ha colto alla sprovvista l’amministrazione Biden. Arrivano da ogni parte del mondo, compresi Uzbekistan e India. A differenza dei guatemaltechi a cui si riferiva Harris nel suo discorso, Marianela e i suoi concittadini non hanno bisogno di trascorrere mesi nella giungla, nascondersi sui treni per dormire o in campi di fortuna gestiti dai cartelli della droga diretti a Nord: i venezuelani impiegano appena quattro giorni a raggiungere gli Usa. “Sono decisamente pronti a questo viaggio”, ha spiegato Tiffany Burrow che gestisce il campo di Val Verde a Del Rio. “Qui possono mangiare, lavarsi e acquistare i biglietti dell’autobus per Miami o Houston”. Per 3 mila euro, infatti, volano prima a Città del Messico o a Cancun, dove in 45 mila negli ultimi mesi hanno soppiantato i turisti stranieri: secondo i dati degli Stati Uniti sono i venezuelani sono il 42% delle famiglie arrivate alla frontiera solo maggio, l’8% in più dell’altro picco di migranti alle porte degli Usa nel 2019.

Al confine i cittadini di Maduro chiedono asilo – “sono in grado di scrivere le loro richieste quasi a braccio, sono persone istruite, capaci di difendersi e raccontare la propria storia ai giudici”, spiega Jodi Goodwin, avvocato texano specializzato in immigrazione che rappresenta oltre un centinaio di loro – e una volta negli Usa se la cavano meglio degli atri migranti.

Tanto che Biden a marzo ha concesso lo status di protezione temporanea a 32 mila di loro perché possano lavorare legalmente sul suolo americano e respinto solo il 26% delle loro richieste d’asilo, contro l’80% di quelle di altre nazionalità, secondo il Transactional Records Access Clearinghouse della Syracuse University. E in più è ai venezuelani che l’amministrazione Biden ha destinato i maggiori privilegi proprio per il loro status economico e d’istruzione.

Per chi ancora attende risposta alla richiesta d’asilo, invece, ha ridato speranza di tornare in patria la nuova strategia Usa-Europa nei confronti di Maduro, sancita venerdì scorso da un comunicato congiunto in cui il segretario di Stato Antony Blinken e l’Alto rappresentante della politica estera Ue Josep Borrell, promettono la fine delle sanzioni al Venezuela in cambio della fine della persecuzione politica degli oppositori e libertà per i prigionieri politici. Il primo banco di prova saranno le Amministrative di novembre che Washington e Bruxelles vorrebbero secondo standard internazionali.

La palla ora sta a Maduro.

La paura si chiama “delta”

In Gran Bretagna nelle ultime 24 ore sono stati registrati 22.868 contagi, il numero più alto dallo scorso 30 gennaio. I dati del governo hanno anche riportato nello stesso giorno 3 decessi. La situazione è determinata dalla circolazione della variante Delta che si sta dimostrando più infettiva di quella inglese. Malgrado il quadro in evidente peggioramento, caratterizzato dall’aumento dei casi e dei ricoveri, Matt Hancock, il segretario alla Salute, ha affermato che il Regno Unito rimane “sulla strada” per la riapertura del 19 luglio. In Scozia è stato annunciato che le attuali regole di blocco rimarranno in vigore per altre 3 settimane, con la revoca di tutte le restrizioni legali entro il 19 agosto. È arrivato il punto di non ritorno. Le misure restrittive non sono più sostenibili. Cosa accade nell’altro Paese-modello per la vaccinazione? Israele, dopo aver rimosso quasi tutte le restrizioni, sta rilevando casi positivi anche fra vaccinati e focolai nella popolazione scolastica. Cosa accadrà in Italia, dove solo il 20% della popolazione è vaccinata? L’esperienza ci insegna che, anche in ritardo di qualche mese, l’Italia viene coinvolta dai fenomeni che si sono manifestati in altri Paesi europei. La variante Delta, già arrivata e presente nel 20% dei casi positivi, con quasi assoluta certezza, si diffonderà ulteriormente. La conseguenza potrebbe essere più grave di quanto sta accadendo in Gran Bretagna, perché la nostra copertura vaccinale è inferiore. È probabile che si assista a una nuova ondata, anche se di dimensioni contenute ma si allontanerà il giorno con decessi zero. Sarà l’ultima? Con ogni probabilità, no. Ormai sappiamo (lo avevamo previsto!) che il virus continuerà a mutare e la nostra corsa non potrà essere infinita. I vaccini sono un mezzo efficace e insostituibile oggi, ma presto potrebbero essere insufficienti o addirittura non efficaci. Dobbiamo puntare sulla terapia, ma non avverto impegni significativi in tal senso e credo si stia commettendo un errore che potremmo pagare molto caramente.

 

Giornalisti, né sconti né intimidazioni

Correva la metà degli anni Settanta. Una mattina Tommaso Giglio, il mitico direttore dell’Europeo, mi convocò nel suo ufficio. Giglio, ciociaro, aveva il viso di un Totò triste e perennemente corrucciato. Ma quella mattina la sua mascella era particolarmente contratta.

“E allora” disse “adesso prendiamo una smentita a ogni pezzo?”. Ero da cinque anni all’Europeo e quella era la prima smentita, querele non ne avevo avute mai.

Forse Giglio era eccessivo nel suo rigore, ma credo che al fondo avesse ragione. Per lui la credibilità del giornale era fondamentale. “L’ha scritto l’Europeo” doveva suonare come una sentenza della Cassazione. Per questo facevamo un giornale meno aggressivo dei concorrenti dell’Espresso, ma più attendibile.

Ma al di là dell’Europeo di quegli anni, il rigore ha, o dovrebbe avere, un ruolo centrale nel nostro mestiere. Che è un mestiere delicato. Più che una professione come un’altra dovrebbe essere una vocazione, solo un gradino sotto quella del medico o del magistrato. Noi andiamo a ficcare il naso nelle vite, nei panni e a volte nei letti altrui. Possiamo rovinare la reputazione di una persona senza motivo. La cosa è aggravata da quel micidiale istituto che si chiama ‘avviso di garanzia’. Lo vollero qualche decennio fa le sinistre e con le migliori intenzioni: se un cittadino è indagato è giusto che lo sappia per potersi difendere. Solo che, com’è noto, l’inferno è lastricato di buone intenzioni. Oggi basta essere raggiunti da un ‘avviso di garanzia’ per essere stritolati da quello che, non per nulla, si chiama il “tritacarne massmediatico”. Il principio, fondamentale in diritto, della presunzione di innocenza si trasforma di fatto in una “presunzione di colpevolezza” di cui non sono responsabili i magistrati, che applicano semplicemente la legge, ma i media, nel loro complesso, che sono lontanissimi da quel rigore predicato tanti anni fa da Tommaso Giglio. Ma qui si apre un altro discorso che non riguarda in particolare i giornalisti ma il nostro sistema giudiziario. L’abnorme lunghezza delle nostre procedure fa si che la presunzione di innocenza si trasformi, in virtù della prescrizione, in una sostanziale impunità anche per soggetti di cui la Cassazione ha accertato la colpevolezza (Berlusconi docet). Il vero e irrisolto problema della Giustizia italiana è l’estenuante lunghezza delle sue procedure, sia nel penale che nel civile. Avere giustizia, quando ci si arriva, dopo vent’anni, non è rendere giustizia.

Ma queste sono questioni che riguardano il nostro sistema giudiziario in generale e non il rapporto in particolare fra i giornalisti e la legge penale per i reati di diffamazione. Si dibatte in questi giorni fra Consulta, Corte europea dei Diritti dell’uomo e la corporazione dei giornalisti schierata a coorte in propria difesa, se sia giusto che il giornalista possa finire in carcere. Premettiamo che, a parte il caso di cui dirò, da che esiste la Repubblica nessun giornalista è mai andato in galera per un reato di diffamazione. Restiamo ai casi più recenti. Alessandro Sallusti, direttore all’epoca del Giornale, fu condannato all’arresto ai “domiciliari” (altra distinzione classista: ai “domiciliari” vengono mandati i vip di vario genere, per gli stracci va bene la galera, magari anche senza processo, “in galera subito e buttare via le chiavi” come affermò la “garantista” madama Santanchè) ma disse che preferiva fare il martire in gattabuia. Comunque fu immediatamente graziato dal presidente della Repubblica, il vituperatissimo Giorgio Napolitano. Lino Jannuzzi, un diffamatore seriale, fu condannato ai “domiciliari” per la reiterazione del reato. Venne infine graziato da un altro presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi. Siamo una casta privilegiata, inutile nasconderlo, ammanicata a quella politica che continuamente attacchiamo.

L’unico caso di un giornalista che abbia scontato per intero la condanna al carcere è quello di Giovannino Guareschi che, in un intricatissimo caso di politica internazionale (siamo nei primi anni 50), pubblicò, ritenendole in buona fede vere, due lettere apocrife di Alcide De Gasperi. Guareschi, coerente con se stesso come sempre, rinunciò all’appello e scontò 409 giorni di carcere.

Noi giornalisti, soprattutto quando facciamo i cronisti, possiamo sbagliare. A volte, diciamo così, legittimamente. Nei primi anni 90 ebbi un insidioso processo per una querela intentatami dal trio Ligresti-Cutrera-Brenta, “la banda di viale Elvezia”, che stava saccheggiando l’edilizia milanese. Su tre punti il giudice mi assolse con formula piena perché fu accertato che avevo scritto il vero, su un quarto punto mi assolse perché “le circostanze erano tali che il giornalista poteva essere tratto legittimamente in inganno” (come si chiami tecnicamente questa formula assolutoria non ricordo, chiedete a Travaglio).

Ci sono altri casi invece in cui diffamiamo, senza nocciolo di verità, per colpa nostra, perché non abbiamo controllato a dovere le fonti. Se la diffamazione è di “eccezionale gravità”, come prevede la norma attuale che si vorrebbe riformare, non vedo per quale ragione mai al giornalista dovrebbe essere risparmiato il carcere. Il giornalista è un cittadino come tutti gli altri e deve essere sottoposto alla legge come tutti gli altri, soprattutto se vogliamo continuare a fare la morale all’universo mondo.

Due riforme invece vanno fatte, questa volta a favore del giornalista. Noi siamo investiti di continuo da querele palesemente inconsistenti. Sono le cosiddette querele “temerarie”, a volte per milioni di euro. Ma benché si tratti di querele fasulle ci costringono, per difenderci, a perdere denari in avvocati e soprattutto tempo. Chi querela dovrebbe fare un deposito cauzionale pari a un decimo della somma richiesta. Secondo Travaglio e altri se il querelante perde la causa perderebbe anche quella somma che dovrebbe essere data al giornalista o al suo giornale. Questo, secondo me, non è giusto perché impedirebbe al cittadino che chiamiamo comune, che quei soldi non li ha, di ricorrere in giudizio anche quando sa di aver ragione. Il deposito, e l’ovvio pagamento delle spese legali, sarebbero un deterrente sufficiente.

L’altra questione che ci riguarda da vicino è la famigerata “continenza”. Se definisco “ladro” un ladro, che è accertato esser tale, posso essere condannato per diffamazione se non ho usato termini “continenti”. Ora, se io passo col rosso so di aver commesso un’infrazione, se uccido una persona so di aver commesso un omicidio, ma quali siano i termini “continenti” è cosa vaghissima per cui chi scrive anche il vero è costretto a camminare sulle uova. Questa sì è una discrezionalità che dovrebbe essere tolta al giudice.

Quindi, in definitiva, sì al carcere del giornalista quando la legge lo prevede, no alla filastrocca delle querele farlocche che i berluscones, e tutti i berluscones della terra, possono permettersi perché loro i soldi li hanno e noi, se abbiamo fatto con onestà il nostro mestiere, no.

 

MailBox

 

Ddl Zan, la Chiesa forse ha anche altri problemi

Con tutti i problemi gravi che deve affrontare il Vaticano: 1.000 cadaveri di bambini trovati quest’anno presso due scuole cattoliche in Canada, milioni di euro di richieste danni per i tanti reati sessuali commessi da religiosi cattolici pedofili in mezzo mondo, 4 miliardi di tasse arretrate dovute allo Stato italiano (confermato da una sentenza della Corte di Giustizia europea nel 2018), vari e continui scandali finanziari, forte calo di preti/suore e cattolici praticanti in ltalia… mi meraviglio che trovino il tempo per occuparsi anche del ddl Zan.

Claudio Trevisan

 

Tv e giornali cercano di tutelare il “sistema”

La sedicente “grande informazione” sembra perennemente protesa a un accanimento terapeutico su un paziente caduto, per far sì che non debba più potersi rialzare. Viene da chiedersi come sia possibile che, tanti professionisti di stampa e tv possano coalizzarsi senza bisogno di complotti organizzati, in una guerra a chiunque rappresenti una minaccia per la “comfort zone” del “sistema”? Forse, la natura umana che unisce la necessità del pane insieme alla voglia di companatico rimane l’unica spiegazione. Probabilmente a molti di questi lavoratori dell’informazione il pane e la discreta notorietà quotidiani rendono abbracciabile qualsivoglia linea editoriale. Solamente l’avvento di editori puri potrebbe sanare questa essenziale funzione democratica permettendo a ogni giornalista di esprimere liberamente il proprio talento. Discorso diverso per i giornalisti del Fatto i quali hanno la rara fortuna di poter svolgere una così delicata professione.

Giovanni Marini

 

Burocrazia: semplificare partendo dal linguaggio

Ho inoltrato, tramite Caf, la domanda di disoccupazione (Naspi), dopo che il mio contratto di lavoro a tempo determinato è scaduto. Sono andata a verificare sul sito Inps lo stato della mia domanda ed esce la seguente dicitura: “domanda sospesa in attesa d’istruttoria”. Mi sono documentata su Google e questa dicitura sta a significare, semplicemente, che la domanda non è stata ancora presa in carico dall’Istituto, e che non si trova, dunque, in lavorazione. Sarebbe bastato utilizzare un linguaggio più chiaro, più diretto e meno burocratico, ad esempio: “domanda non ancora in lavorazione”. La dicitura “sospensione”, infatti, fa pensare che ci siano dei problemi che impediscono il pagamento dell’indennità. Credo che la sburocratizzazione, di cui tanto e sempre si parla, debba iniziare proprio dal linguaggio, che dovrebbe essere chiaro e comprensibile per tutti i cittadini.

Giovanna Galasso

 

Flop dei cinema: è colpa dei film che non attirano

Confesso che sono rammaricato per l’articolo di Federico Pontiggia del 23 giugno scorso in cui si sottolinea come il cinema, dopo il Covid, non sia ripartito. È vero, nell’articolo sono riportati i dati Cinetel, però sarebbe stato corretto sottolineare che non c’è stato un film che invogliasse il pubblico a recarsi al cinema. Comprendo l’amore di Pontiggia per le piattaforme (e non perde occasione per sottolinearlo), ma il Cinema è cosa assai diversa da Sky e dalla fruizione televisiva. Il Cinema è una immersione profonda. Il Cinema è amore.

Elia lezzi

 

Contro la corruzione servirebbe un “323 ter”

Ai fine di contrastare il grave fenomeno della corruzione in Italia e di tutelare adeguatamente il patrimonio e l’imparzialità della Pubblica amministrazione probabilmente sarebbe opportuno introdurre nel codice penale vigente una nuova norma, cioè l’art. “323 ter ” (Possesso ingiustificato di valori da parte di un pubblico ufficiale) che preveda quanto segue: “Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che viene colto in possesso di denaro o di oggetti di valore dei quali non giustifichi la legittima provenienza è punito con la reclusione da uno a quattro anni”. Altresì, forse sarebbe utile procedere all’istituzione di una vera e propria “Direzione Nazionale contro la corruzione” che coordini le indagini di tipo penale svolte in Italia dalla magistratura relativamente ai reati di peculato, concussione, corruzione, induzione indebita a dare o promettere utilità e traffico di influenze illecite. Tale “Direzione Nazionale” potrebbe contribuire a rafforzare l’opera di contrasto nei confronti di questa significativa tipologia di delitti contro la Pubblica Amministrazione.

Pietro Semeraro

 

Non abbassare la guardia sulle lettere di Graviano

Vorrei tanto che non venisse abbassata l’attenzione su quel fatto della lettera del boss detenuto Graviano al ministro della Giustizia Cartabia. Il suo è probabilmente l’unico giornale che ne può e vuole parlarne. Perché gli altri probabilmente stanno insabbiando. Sarebbe importante sapere il contenuto di tale missiva. Tale vicenda non può finire nel dimenticatoio.

Bruno Maniga

Debito. Quei costosi titoli a 30 anni, ma l’errore del ’93 non fu quello

 

Gentile redazione, sono andata in pensione il 1° marzo 2009, dopo 40 anni di lavoro, e quando l’Inps mi ha liquidato il Tfr di circa 42 mila euro ho voluto investirlo in due Btp decennali, di cui uno al tasso di interesse del 3,75% e l’altro al 4,25%. Ogni tanto consultavo le quotazioni in Borsa dei vari titoli di Stato. Mi hanno colpito due di questi, che avevano un tasso di interesse molto elevato: uno al 9% che scadrà il 1° novembre 2023 e l’altro all’8,5% che scadrà il 22 dicembre 2023. La cosa mi ha molto incuriosita e quindi sono andata a visionare le pagine che riportano in dettaglio le informazioni su questi due titoli di Stato e con mio stupore sono venuta a conoscenza che la data di emissione risale addirittura al 1993 e che l’importo sottoscritto superava di poco 1 miliardo di lire ciascuno.

Quindi, mi sono chiesta, se per il bilancio dello Stato fosse così indispensabile emettere due titoli di Stato a quei tassi d’interesse così elevati, per una durata così lunga (trent’anni), anche se per importi molto modesti. I fortunati sottoscrittori si sono garantiti un’ottima rendita finanziari.

Se non erro, nel 1993 il dg del Tesoro era l’attuale premier Mario Draghi, che oggi parla di debito buono e di debito cattivo. Che ne pensa il giornale?

Michela

 

Gentile Michela, lo Stato emette titoli di debito per finanziare il deficit e rinnovare quelli a scadenza, ma anche per assorbire il risparmio fornendo al mercato un titolo sicuro. In questo modo cerca di costruire una curva dei tassi cosiddetta “risk free” allungando le scadenze. Ovviamente se lo si fa alla vigilia di una lunga discesa dei tassi la cosa si può rivelare un pessimo affare, con lo Stato costretto a pagare interessi più alti di quelli offerti dal mercato. Che i tassi scendono, però, lo si sa solo dopo che accade.

Era quindi necessario farlo nel 1993? Era l’anno seguente all’uscita dallo Sme, il sistema europeo di cambi semi-fissi che fu il padre dell’euro. I tassi erano alti per contenere la fuga di capitali e il crollo della lira, e l’emissione a 30 anni offriva un rendimento più basso di quella a 10 anni, che fino ad allora era la durata massima prevista. Insomma, ex post possiamo dire che fu un errore, ma in quel momento era una strategia razionale (oggi si fanno emissioni a 50 anni). A ogni modo, un errore assai meno grave della difesa a oltranza della lira.

Francesco Lenzi

Mancini stia attento, adesso Salvini tifa pure per gli Azzurri

L’imbarazzante harakiri di Beppe Grillo sta forse distraendo troppo molti di voi. Rischiate di non apprezzare appieno le ultime imprese di Matteo Salvini. Il Cazzaro Verde le sta sbagliando tutte con una propensione al ridicolo quasi commovente. Questa tendenza a non beccarne mezza, peraltro, caratterizza come per osmosi anche i suoi giannizzeri più fidati. Tipo quella lì, come si chiama? Ah sì: tal Maglie. Quando non è in tivù a bofonchiare contro tutti coloro che osano non essere meloniani o salviniani, la simpatica Maglie bivacca su Twitter. Il social che sta al web come Calenda alla politica. Una settimana fa la graziosa pasionaria di Salvini è riuscita a credere alla notizia secondo cui la Raggi avesse davvero intitolato una via a “C’è Ghevara” (scritto proprio così). Era una divertente boutade del mitico “Comune di Bugliano” (inesistente), ma lei c’è cascata mani e piedi. Roba da non uscire più di casa, ma da quelle parti se inanelli cazzate fa curriculum: è proprio un requisito per andare ospiti fissi da Porro.

Ma torniamo a Salvini. O a quel che politicamente ne resta. Giorni fa se l’è presa con De Luca sulla vicenda delle mascherine e ha tuonato che “adesso lo dirò a Draghi”. Salvini ha proprio il coraggio di una blatta afasica. È come quelli che a scuola non te lo dicono mai in faccia, ma fanno la spia e spifferano tutto al preside o ai genitori. Il ragazzo è però incontenibile, e giorni fa ha dimostrato di non avere ancora capito nulla sull’uso delle mascherine. Più o meno un anno fa si rifiutò di indossarla durante un simposio para-negazionista al Senato organizzato da Sgarbi e Siri (me cojoni!). Negli stessi giorni raccattò l’ennesima figura di palta da Floris, quando si stupì di non potersi togliere la mascherina mentre faceva i selfie (“ah no?”). Dopo 18 mesi di pandemia non ha imparato nulla. Pochi giorni fa, sullo stesso palco dell’altro genio contemporaneo Spirlì, Salvini si è nettato il sudore dal viso con la mascherina. Se l’è tolta e ha usato la parte esterna (quella che dovrebbe trattenere il Covid: genio al quadrato!) e ci si è pulito viso, guance, naso e fronte. Poi, dopo averla insozzata come meglio non poteva, l’ha rindossata come nulla fosse. Bella mossa, ma ho un rimpianto: già che c’era, poteva usare la mascherina anche per asciugarsi le ascelle e scozzarsi – con fare da maestro – gli zebedei.

Poi Salvini ne ha inventata un’altra. Ovviamente, da buon populista, l’uomo che sussurrava alla polenta taragna sta cercando di cavalcare in ogni modo i successi (per ora…) della Nazionale agli Europei. Di colpo è diventato un gran tifoso, anche se fino a qualche anno fa (ora lui e ora la Lega) tifava contro. Oppure esortava a fare un uso non proprio acconcio della bandiera. Coerente come Genny Migliore. Ora però Salvini è un grande fan dell’Italia. Dopo la vittoria con l’Austria ha postato un video in cui, sprezzante del patetico, esultava fantozzianamente ripetendo: “Sì sì sì, dai dai!”. Per l’occasione, chissà perché, sfoggiava pure la vocina di Ezio Greggio. Mancava solo che dicesse: “Le velineeeeee!”. Una pena senza fine. E pure un bel problema per Mancini, perché non appena Salvini sale sul carro sportivo del vincitore, quel carro comincia a perderle tutte. Un’altra “dote” in comune con il suo alter ego Renzi, che quando era premier ha ghiacciato non pochi campioni italici e che prese in giro Putin lasciandogli intendere che saremmo andati in Russia per vincere i Mondiali. Come no: infatti, di lì a poco, Ventura neanche ci ha fatto qualificare.

Matteo Salvini: più che un uomo, un disastro. Daje Matte’!

 

Governo dei migliori, guai a criticare pure i peggiori

Una lettera pubblica sottoscritta da più di 100 economisti che invita il governo a un supplemento di riflessione sulle nomine di cinque consulenti presso il Nucleo tecnico per il coordinamento della politica economica presso il Dipartimento di Programmazione Economica, diretto da Marco Leonardi di area Pd, ha suscitato una eclatante levata di scudi sui giornali (in particolare da parte di Antonio Polito sul Corriere) e sui social. Ecco che si svela la vile congiura delle élite della sinistra accademica! Sono pronte le liste di proscrizione!

Quello che suscita tanto scalpore è che la lettera fa riferimento alla “visione economica estremista” di alcuni dei nominati. La lettera oltre a rimarcare una scarsa attenzione all’equilibrio di genere e una ristretta copertura geografica (“tutti uomini operanti in Università e centri di ricerca del Nord”, un punto rilevato anche dalla Società Italiana di Economia che sottolinea, a questo proposito, come empowerment femminile e sviluppo del Mezzogiorno siano dimensioni fondamentali del Pnrr) segnala, in termini pacati, una serie di ulteriori criticità nella squadra dei cinque consulenti selezionati. Accanto a studiosi di riconosciuta competenza, nella cinquina figurano Carlo Stagnaro e Riccardo Puglisi, che seppur possono vantare specializzazione universitaria ed esperienze professionali e di ricerca (anche se non sono particolarmente saettanti in termini di pubblicazioni), sono molto più noti per le loro prese di posizione pubbliche. Per esempio, uno dei passatempi preferiti di Riccardo Puglisi è quello di fare puerili battutine su twitter per deridere le posizioni ‘stataliste’ di Mariana Mazzucato, che, di fatto, è stata la principale ispiratrice delle linee guida adottate dal nuovo programma Horizon Europe (2021-2027). Carlo Stagnaro invece è un ricercatore dell’Istituto Bruno Leoni. A questo proposito la preoccupazione della lettera è che le posizioni pubbliche di Stagnaro (in totale sintonia con la visione che emerge dal complesso della pubblicistica dell’ Istituto Bruno Leoni) suggeriscano una minimizzazione della questione del cambiamento climatico e dell’urgenza di adeguate politiche. Una posizione che risulta alquanto distante dalla filosofia alla base del Green Deal dell’Unione europea. Il punto di fondo è che siamo di fronte a nomine che hanno un importante risvolto politico e che si rifletteranno sulla capacità dell’Italia di implementare in modo credibile ed efficace il proprio Recovery Plan. Scegliere profili caratterizzati da queste punte di accanimento contro l’intervento dello stato in economia, soventemente espresse in modi e termini molto discutibili, per gestire il più grande piano di investimenti pubblici degli ultimi anni non sembra una grande idea. I critici della lettera hanno chiaramente la memoria corta e sembrano avere dimenticato il dibattito e le apprensioni sulle posizioni ‘no euro’ di Paolo Savona. Ora come allora erano disponibili profili molto meno controversi. Proprio per questo, la scelta di Puglisi e Stagnaro dovrebbe lasciare perplessi, a meno che, come nel caso di Savona, più che la nomina in sé, quello che premeva davvero fosse in realtà il messaggio politico che la sottendeva (in questo caso uno spostamento dell’agenda di politica economica del governo in senso neoliberale). Un punto che non si può criticare, pena essere tacciati di stalinismo.

 

 

Ermini e le sue incredibili affermazioni sul CSm

Era difficile immaginare che un vicepresidente del Csm potesse affermare: “È la stessa Costituzione a prevedere che la scelta del v.p. sia frutto di un accordo tra magistratura e politica visto che deve essere nominato un ‘laico’, eletto dal Parlamento dalla maggioranza dei componenti togati eletti dai magistrati”. Eppure è accaduto, perché questa è stata la risposta data dal vicepresidente David Ermini al giornalista Bianconi che gli chiedeva: “lei, come i suoi predecessori è stato eletto vicepresidente dal ‘sistema delle correnti’. Spera di essere l’ultimo scelto con quel metodo?”. La risposta di Ermini – che ha dell’incredibile – non è che un maldestro tentativo di giustificare quelle, per nulla trasparenti, modalità con le quali si è giunti alla sua elezione che ha trovato la genesi in un accordo improprio, fuori del Csm (in una cena) tra persone non legittimate in quanto estranee a tale organo (due politici: Lotti e Ferri, e un capocorrente dell’Anm, Luca Palamara). Ha aggiunto il vicepresidente che la magistratura e il Csm hanno “imboccato la strada del cambiamento morale e culturale”. Affermazione a dir poco discutibile per le seguenti ragioni: a) un inizio di cambiamento non poteva prescindere dalle dimissioni del vicepresidente, una volta disvelati dal Palamara e dalle sue chat i retroscena della nomina; b) non sembra che il Csm stia percorrendo la strada indicata da Ermini ove si consideri la recente decisione del Plenum – 9 voti a favore, 8 contro – di evitare il trasferimento di ufficio di uno storico esponente di Area (ex Csm) – già inflessibile braccio destro, nel settore disciplinare, del Pg della Cassazione Salvi – che aveva sferrato un pugno al viso della moglie spedendola in stato di choc all’ospedale in autoambulanza a seguito di un litigio. Molto si è discusso in Plenum – e ciò è sconcertante – sulla “non certa intenzionalità del gesto” (!), né si ha notizia dell’avvio, da parte di Salvi, di un procedimento disciplinare; c) molti magistrati hanno contestato a Salvi, ideologo di Md, di aver adottato una “generale direttiva assolutoria” che esclude come illecito disciplinare le “autopromozioni” dei magistrati. Sono, così, rimaste escluse dagli accertamenti le condotte di magistrati che, per come risulta dalle chat, si raccomandavano a Palamara. Direttiva discutibile poiché è scorretta la condotta di un magistrato che avvicini, nel corso di una procedura concorsuale cui partecipa un componente della Commissione per sostenere la sua posizione. Il riferimento dei magistrati era, sia allo stesso Salvi per l’improprio incontro, mai smentito, avuto con l’allora membro del Csm Luca Palamara, sia anche a Giuseppe Cascini – membro del Csm, toga storica di Md (ora Area) – il cui nome compariva, in più occasioni, nelle chat di Palamara con il quale – per sua stessa ammissione – era sorto un “legame di amicizia e solidarietà”. Ne è nata una polemica tra il magistrato Felice Lima e Cascini al quale il primo si è rivolto nei seguenti termini: “Hai scritto: ‘Appena arrivato al Consiglio ho ricevuto una tessera del Coni che mi autorizzava a entrare allo stadio (un benefit che ora è stato eliminato). Ho solo chiesto a Luca (che era appena cessato come componente del Csm) se era possibile portare mio figlio con me e se aveva un riferimento al Coni per chiedere’. Non c’era alcun bisogno di disturbare Palamara per questa cosa. Ti spiego come facciamo noi, le persone ‘normali’. Certo che è possibile portare tuo figlio allo stadio. Devi solo fare una banalissima cosa: comprargli un biglietto. Prendi lo stipendio di magistrato e circa 100.000 euro l’anno in più per il ruolo di Consigliere. Dovresti farcela a comprare un biglietto per lo stadio, senza chiedere ‘favori’ e senza lasciare affamata la tua famiglia”. Naturalmente, il Cascini siede ancora tra i giudici disciplinari del Csm. Dice, infine, Ermini: “La ministra Cartabia sta facendo un grande lavoro in questo campo” (riforma del sistema di nomina dei togati); è vero proprio il contrario, perché nella bozza di riforma rimane fermo il sistema elettorale e 60 anni di esperienza hanno dimostrato che nessun sistema elettorale può impedire alle correnti di occupare il Csm in quanto ciò può essere impedito solo dal sorteggio (quantomeno, integrato). La verità è che sia la politica sia l’Anm si oppongono a tale sistema di nomina che rappresenterebbe la fine del potere delle correnti, tant’è vero che il segretario generale dell’Anm continua ad affermare: “quali che siano le scelte del decisore politico, abbiamo, comunque, evidenziato l’esigenza di approntare accorgimenti per assicurare la presenza delle diverse sensibilità associative, anche minoritarie all’interno del Csm”, ove quelle che “pudicamente” vengono indicate come “sensibilità associative”, non sono altro che le correnti, centri di potere e di malcostume che hanno distrutto la credibilità della magistratura e del Csm.

 

Il boss della Spectre, i croccantini rarissimi e la clausola oscena

Finalmente, il boss della Spectre (Atlantia-Autostrade-Ponte Morandi-Mapuche) ha potuto ricompensare con speciali croccantini al gusto di topo (introvabili in occidente, dunque costosissimi) il persiano bianco dalla mente finanziaria raffinatissima che, già ideatore del sistema congegnato per garantire tariffe sempre crescenti (+27% dal 2009), e della clausola oscena che garantiva alla Spectre un indennizzo mostruoso anche in caso di revoca per colpa grave (tipo il crollo di un ponte con cadaveri per risparmiare sulla manutenzione, e reinvestire gli introiti in mega-feste, magari la sera stessa del crollo con cadaveri), il gatto diabolico, dicevo, la cui strategia passivo-aggressiva ha permesso che la vicenda si concludesse a tutto vantaggio dell’organizzazione. La strategia vittoriosa consisteva nel continuare a proporre assurdità (tipo la promessa di aumentare le manutenzioni del 40% al 2023) e nello spariglio continuo (ok all’ingresso di Cassa depositi e prestiti con scissione di Aspi da Atlantia, quotazione di Aspi, e trattativa sul prezzo dell’ingresso di Cdp e del valore di Autostrade; poi stop, cambiare l’operazione per le proteste dei fondi azionisti, così Cdp manda una bozza di accordo che prevede l’ingresso in Aspi e insieme la sua quotazione, sicché il prezzo l’avrebbe fatto direttamente la Borsa, e la Spectre ne sarebbe uscita senza perdite a bilancio, e perfino con una plusvalenza; poi stop, proporre di scindersi in due holding, di cui una avrebbe avuto in pancia Autostrade, così Cdp doveva pagare un prezzo di controllo per avere Aspi direttamente sul mercato; poi stop, avviare un processo competitivo per la vendita dell’intero 88% detenuto in Autostrade con un’asta internazionale aperta anche a Cdp; poi stop, non accettare l’Accordo con lo Stato, che sarebbe entrato con un aumento di capitale al 33% di Autostrade, un altro 22% sarebbe andato a investitori istituzionali, e Aspi sarebbe stata quotata, e rilanciare con la vendita dell’88% di Aspi a investitori interessati, oppure con la creazione di una newco con gli stessi soci di Atlantia, da chiamare Autostrade Concessioni e Costruzioni Spa, che avrebbe ricevuto prima il 55% di Aspi e poi il restante 33%, e sarebbe stata quotata in Borsa, permettendo ad Atlantia di uscire dal suo capitale; poi fare la voce grossa, denunciando alla Commissione europea le pressioni del governo italiano perché la ministra delle Infrastrutture De Micheli aveva vincolato all’ingresso di Cdp in Aspi il via libera del ministero, inserendo la cazzata direttamente nella concessione, all’articolo 10; poi far sapere di considerare inaccettabili le manleve legali chieste dal governo per firmare l’accordo; poi fare i pesci in barile sul nuovo piano tariffario vantaggioso per la nuova Aspi approvato dal ministero dei Trasporti, che prevedeva profitti elevati, affinché la buonuscita alla Spectre per farla uscire dal settore autostrade la pagassero gli automobilisti; infine rivedere una vecchia fiamma, Sylva, una sontuosa femmina di razza Savannah con cui il persiano folleggiò sul terrazzo di Casa Batlló la sera di una festa di San Jordi, affinché convincesse il padrone, Florentino Perez, a lanciare l’acquisto della quota di Atlantia in Aspi, o anche una consocietà insieme a Cdp, col risultato di riaprire la partita e scongiurare la revoca). In questo modo si è arrivati alla caduta del governo Conte. Macché pressioni internazionali: il persiano di Renzi e il persiano della Spectre sono cugini. Quante risate, adesso, fra il boss e il persiano, al ricordo che l’ultimatum del governo Conte scadeva il 30 giugno dell’anno scorso!