Il premio idiota internazionale per euro 2020

Nell’epoca post-sessantottina, sull’onda del celebre slogan: una risata li seppellirà, ebbe grande successo in Francia il giornale satirico L’Idiot international. Mezzo secolo dopo, questa rubrichetta, in piena sintonia con la corrosiva testata ha deciso di istituire il premio “L’Idiota Internazionale”, conferendolo honoris causa all’Uefa e al suo presidente, Aleksander Ceferin. Motivazione: avere organizzato in tempi pandemici gli Europei di calcio itineranti, straordinario veicolo di contagio tra le nazioni e di fratellanza interstiziale. Promossa dai vertici del pallone per celebrare degnamente i 60 anni del torneo, la trovata potrebbe avere come effetto collaterale lo sterminio delle tifoserie, e contestualmente dei residenti a cui i fan si mescoleranno festosamente una volta rientrati in patria. Non c’è dubbio, una solenne idiozia per rendere questa edizione memorabile (e forse anche definitiva). Già si registra infatti un impressionante boom dei contagi tra i supporter della squadra finnica rientrati dalla Russia dove la variante Delta impazza. Anche la Danimarca è in allarme, dopo che una ventina di tifosi sono risultati positivi al termine della partita col Belgio. Mentre si è in attesa di notizie dallo stadio di Budapest, gremito all’inverosimile di sudati e discinti tifosi ungheresi che ieri hanno familiarizzato con gli amici cechi scambiandosi fluidi e lattine di birra (non invece con gli olandesi considerati portatori di contagiose teorie arcobaleno). Nel frattempo una vera e propria orgia di varianti potrebbe essere avvenuta ad Amsterdam dove c’erano 5 mila danesi presenti all’incontro con il Galles, a loro volta reduci dal Parken di Copenaghen. Il clou della Covid condivision è atteso a San Pietroburgo dove si giocherà il 3 luglio e, naturalmente, nella finale di Wembley fortemente voluta da quel Boris Johnson che dopo aver teorizzato che l’immunità di gregge avrebbe tenuto l’Inghilterra al sicuro, belando per poco non ci lasciava la pelle. Alla luce del successo virale dei rave party, delle spiagge ammucchiate e del prodigarsi di affermati leader politici tutti orgogliosi di avere imposto al governo la fine dell’odioso obbligo di mascherina agevolando gli affollatissimi festeggiamenti in piazza per gli Azzurri (al grido di “che ci frega del vaccino noi ci abbiamo Chiesa gol”), urge la creazione anche del premio “L’Idiota Nazionale”. Slogan: una risata ci seppellirà.

Morandi, quelle amnesie di Castellucci. L’autodifesa smontata punto per punto

Giovanni Castellucci ha rotto un lungo silenzio sul Ponte Morandi. Lo ha fatto con un’intervista sul Corriere della Sera, all’indomani della richiesta di rinvio a giudizio per i 43 morti di Genova. I due grandi nodi affrontati riguardano le manutenzioni (“Non è vero che sono calate”) e il presunto “vizio strutturale occulto”. A questa difesa “nel merito” si accompagna un avviso ai naviganti: ai vertici di Atlantia e alla famiglia Benetton. Cioè a chi, secondo la sua versione, ne avrebbe condiviso le scelte e oggi pensa di poterlo abbandonare al suo destino.

Tagli alla sicurezza

Cosa si può dire di fronte al fatto che la gestione pubblica ha investito nel Ponte Morandi il 98% di tutto ciò che è stato speso in interventi straordinari e il privato il 2%? È la prima domanda che gli viene fatta ed è la prima a essere aggirata: “Prima di tutto mi permetta di esprimere ancora il dolore per ciò che è successo: ai familiari rinnovo tutta la mia sincera vicinanza”. Qualcuno ricorderà il silenzio di Aspi nell’imminenza del disastro. E che Castellucci, da amministratore delegato, non si è mai scusato durante la prima conferenza stampa dopo il disastro. Non lo fa nemmeno ora, di fatto: il suo è un messaggio di cordoglio depurato da qualsiasi possibile assunzione di responsabilità (non necessariamente giudiziaria).

Più avanti il tema ritorna e il manager risponde così: “Non è vero (che le manutenzioni siano state tagliate, ndr) e i numeri pubblici lo dimostrano”. Quali siano questi numeri, però, non lo dice. Cita: “Tutor, asfalto drenante, cantieri notturni e tanto altro che ha ridotto i numeri sulla strada, circa 300 vittime ogni anno”. Castellucci, insomma, glissa sul dato complessivo più impressionante: sotto la gestione pubblica il viadotto Polcevera è costato in manutenzione straordinaria 24 milioni di euro, 1,3 milioni l’anno; dopo la privatizzazione, nei 19 anni dal 1999 al 2018, 470 mila euro, cioè 24mila euro l’anno. Meglio portare il discorso sull’asfalto drenante, insomma, che sugli stralli (i tiranti).

Il “vizio occulto”

È la grande carta della difesa: “Il difetto di costruzione era occulto”. Va detto che prima di questa tesi ne erano affiorate altre: un fulmine, la pioggia, il vento, una bobina caduta e (persino) un attentato. Castellucci cita en passant anche “la consulenza di una delle parti civili”, che in realtà affronta il tema dei difetti originari, ma li ritiene secondario rispetto alle responsabilità della concessionaria. Per i pm questa tesi ha le gambe corte per tre ragioni: il progettista Riccardo Morandi avvisò del degrado imprevisto la società già nel 1981; nel 1993 furono ristrutturati due delle tre strutture strallate, mentre la terza, intatta per i successivi 25 anni, è quella che ha ceduto; gli indagati fanno riferimento nelle intercettazioni a vizi strutturali, tra loro anche l’ex capo delle manutenzioni Michele Donferri Mitelli (“I cavi non sono iniettati”), braccio destro di Castellucci e anche uno dei “tecnici del 1993” autori della prima ristrutturazione. “Lo definimmo retrofitting, miglioramento – dice ancora Castellucci – perché non sapevamo del danno strutturale”. In un’intercettazione Donferri dice di essersi “inventato” il nome. L’obiettivo sarebbe stato quello di evitare di pronunciare la parola “manutenzione”, che non avrebbe permesso di scaricare i costi sugli utenti.

Gli avvertimenti

Anche Gianni Mion, il manager più fidato della famiglia Benetton, ammette intercettato che le manutenzioni “sono andate in calando”. Castellucci: “Le intercettazioni fatte su indagati o persone che potevano diventarlo, sono suscettibili di strumentalità per scagionarsi, accusare, compiacere, senza rispondere di quanto dichiarato”. Quanto alla politica del profitto: “Più in generale vorrei ricordare che i rapporti miei e dei miei manager con Edizioni Holding, con Gilberto Benetton (deceduto, ndr) l’ad Mion, il dg Bertazzo e con il Cda erano continui: mai una tensione su dividendi o manutenzioni”. Nessuno dei citati è indagato. Insomma, chi ha orecchie per intendere…

Salta il blocco dei licenziamenti. Draghi ferma pure il Cashback

La combo è figurativamente un altro schiaffo a quella che fu la maggioranza giallorosa e, in un caso, direttamente a Giuseppe Conte. S’intende la conferma arrivata ieri della fine del blocco generalizzato dei licenziamenti a fine giugno e la clamorosa novità della sospensione del cashback, il programma avviato col governo Conte-2 per incentivare i pagamenti elettronici, che sarebbe dovuto ripartire dal 1º luglio per un secondo ciclo: il premier Mario Draghi ne ha invece imposto la “sospensione” per sei mesi con la motivazione di “studiare dei correttivi per i diversi difetti della misura”.

Entrambe le decisioni sono state prese, o subite – dipende dai punti di vista – in meno di un’ora dalla cabina di regia dei capi delegazione della maggioranza ieri a Palazzo Chigi e iniziata alle 18.

La vera novità, come detto, è il blitz sul cashback, arrivato, non senza qualche dose di perfidia, proprio mentre il professore di Volturara Appula parlava al Tempio di Adriano. La misura, un pallino dell’ex premier, era da tempo nel mirino del centrodestra e, per la verità, anche in parte del Pd. Nonostante i dubbi, nessuno puntava allo stop subito, la decisione è stata una richiesta precisa di Draghi. A nulla è valsa la protesta, tra gli altri, del 5Stelle Stefano Patuanelli. Il premier l’ha motivata con l’esigenza di “migliorare” la misura, ma sono in pochi a credere che verrà ripristinata. L’operazione cashback (rimborsi fino a 150 euro ogni 6 mesi per chi paga con la carta) si fermerà così al 30 giugno con il pagamento delle somme accumulate con le transazioni delle carte di debito e credito e con il “superpremio” da 1.500 euro ai maggiori utilizzatori. Al netto dei difetti, l’adesione è stata massiccia: quasi 9 milioni di cittadini attraverso l’app “IO” per un totale di 795 milioni di transazioni. Il risparmio per lo Stato sarà sui 3 miliardi.

Sui licenziamenti arriva invece la conferma delle indiscrezioni: il decreto che andrà domani in Consiglio dei ministri sancirà la fine del blocco generalizzato – avviato a marzo 2020 e che scadrà a fine giugno (durerà fino a ottobre per i settori non coperti dagli ammortizzatori sociali ordinari, come i servizi, e le piccole imprese) – e sarà sostituito da una proroga “selettiva” per i settori più in crisi: il tessile e i comparti a esso collegati (calzaturiero, moda) che potranno beneficiare della “Cig Covid” gratuita. Per le aziende coinvolte nei tavoli di crisi aperti al ministero dello Sviluppo arriveranno altre 13 settimane di Cig straordinaria.

È, in sostanza, la linea portata alla riunione dal leghista Giancarlo Giorgetti e da Elena Bonetti (Iv). Il Pd, con il ministro del Lavoro Andrea Orlando e il 5Stelle Patuanelli insieme a Leu chiedevano una mini proroga generalizzata di due mesi. Mossa verso cui non era contraria neppure Forza Italia. Niente da fare. Draghi ha deciso di non seguire le richieste dei sindacati, che volevano la proroga fino a ottobre e minacciano la mobilitazione generale. Proprio per questo, il premier ha convocato per oggi alle 15 i leader di Cgil, Cisl e Uil.

Braccianti, migliaia in piazza per chiedere vaccino e diritti

Si fa presto a dire “vaccini per tutti senza limiti di età” quando non si tratta dei braccianti stranieri “invisibili” in attesa da mesi del rinnovo di permesso di soggiorno e tessera sanitaria. Ieri dalla Piana di Gioia Tauro sono partiti a centinaia i lavoratori extra-comunitari: a Reggio Calabria hanno scioperato e chiesto alla Prefettura di accelerare il rilascio dei documenti e soprattutto di includere tutti nella campagna di immunizzazione dal Covid. Domenica la Flai Cgil ha deciso di organizzare il corteo dopo l’ultima assemblea con gli operai agricoli occupati tra Taurianova, Rosarno e Gioia Tauro. Oggi – spiegano dal sindacato – nella zona sono impegnate circa tremila persone, ma in autunno saranno più che raddoppiate. Ma se la burocrazia è lenta con i permessi, diventa più complicato vaccinare tutti in tempo per il picco: “Abbiamo ritardi a volte di oltre tre anni – denuncia Jean René Bilongo della Flai –. Chi ha il permesso di soggiorno scaduto perde i suoi diritti. Abbiamo bisogno di mediatori culturali per la campagna vaccinale – aggiunge il sindacalista –. Queste persone lavorano dall’alba al tramonto, spesso anche nel fine settimana. A che ora e in che giorni dovrebbero essere vaccinate?”. A fine manifestazione, la Prefettura ha promesso un’accelerazione del rilascio di rinnovi e permessi. “Lo sciopero – ha ricordato Bilongo – arriva pochi giorni dopo la morte di Camara Fantamadi, ucciso da caldo e fatica dopo una giornata nei campi (nel Brindisino, ndr); questo sciopero è anche in suo nome”. I piani contro il caporalato stentano a decollare. Un anno fa, Teresa Bellanova, allora ministra dell’Agricoltura, annunciava la sanatoria per fare emergere i braccianti stranieri, che però non ha sortito l’effetto desiderato.

Roma, Michetti è professore solo a contratto. Si fregia del titolo: per la legge non può farlo

Enrico Michetti è stato imposto dalla Meloni agli alleati in forza dei suoi “titoli”, ma proprio su questi salta fuori la grana. A partire dal curriculum pubblicato sulla sua “Gazzetta Amministrativa”, il candidato del centrodestra si qualifica come “professore” senza esserlo, nonostante sia un delitto contro la fede pubblica. Da avvocato Michetti non può non conoscere l’art. 498 comma 2 del codice penale che punisce chi “si arroga dignità o gradi accademici”. Dal 2010 però ha sottoscritto nove protocolli di intesa tra la sua “Gazzetta” e i ministri Brunetta, Romani, Patroni Griffi, D’Alia, Madia e Lanzetta sempre con il titolo di ‘Prof’. L’Università di Cassino in realtà gli ha conferito solo contratti annuali di insegnamento. Michetti quindi è sì docente, ma del docente esistono qualifiche diverse e devono essere dichiarate. Lo asserisce il Consiglio di Stato nel 1985, rispondendo a una richiesta di parere del Miur: “Va garantito l’affidamento dei terzi, i quali devono essere posti in grado di discernere esattamente il ruolo di cui è investito chiunque si fregi del titolo di professore”. Lo ribadisce la Cassazione a Sezioni Unite, con la sentenza n.870/91, disponendo che “la dizione ‘Professore’ usata dai professori a contratto deve essere accompagnata dalla indicazione, senza abbreviazioni, ‘a contratto in …, presso la Facoltà di … o la Scuola di … per l’anno accademico …’” e ciò vuol dire che un professore a contratto mai, in nessuno spazio web, cartaceo o targa può usare l’abbreviazione ‘prof.’, riservata unicamente a professori ed ex professori ordinari. Lo ribadiscono ancora il Consiglio Universitario Nazionale e l’articolo 35 del Codice deontologico forense.

Michetti però si qualifica dappertutto come “prof.”. Addirittura ‘La Pulce e il Prof.’ è il titolo della sua prima rubrica su Radio Radio, alla quale deve la sua notorietà. Solo a pagina 12 del cv intestato al ‘Cav. Prof. Avv.’ il candidato alla resurrezione di Roma concede qualcosa al carattere provvisorio del suo titolo. A 10-11 pagine di distanza dall’intestazione si rivela per quel che è: un comune professore a contratto. Retribuito per questo, stando ai contratti di docenza, 1.390 euro e 20 centesimi l’anno a fronte di 42 ore di lezione. La baldanza nell’uso del titolo ha tratto in inganno perfino il Quirinale: nel 2017 Renzi candidò Michetti a Cavaliere della Repubblica. Nel decreto fu indicato come “professore”. A Mattarella, dunque, non è stato risparmiato l’oltraggio di premiare il prof. che non c’è mai stato.

Caos rifiuti, Raggi guarda in provincia. Ma il Pd si oppone

C’è una discarica alle porte di Roma che ha ancora spazio per 250mila tonnellate di rifiuti e che non può essere chiusa finché non sarà colma. Si trova ad Albano Laziale, a 25 km dal centro della Capitale. Virginia Raggi, in quanto sindaca della Città Metropolitana, sta studiando un’ordinanza che ne imponga la riapertura – dopo il rogo doloso del 2016 – e faccia stare tranquilli i romani fino al 2024. Ma alla Regione Lazio non sta bene. “Scelta non condivisa durante il vertice in Prefettura”, ha spiegato l’assessore regionale Massimiliano Valeriani, braccio destro politico di Nicola Zingaretti. Il governatore vorrebbe che la sindaca individuasse un sito all’interno del territorio comunale. Eppure, proprio la versione approvata in Giunta del piano regionale dei rifiuti non indicava questo tipo di obbligo, sopraggiunto solo dopo, sulla base di un emendamento dei consiglieri regionali delle province. La soluzione di Zingaretti? “Chiamiamo la Protezione civile”. Peccato che il problema sia lo smaltimento, non la raccolta.

Bologna, uccisa 16enne: coltellate a gola e torace

Era uscita domenica, ma non ha fatto ritorno a casa. Il cadavere di Chiara Gualzetti, 16 anni tra qualche settimana, è stato rinvenuto ai bordi di un bosco nel parco regionale dell’Abbazia di Monteveglio, nel Bolognese, a meno di un chilometro da casa. Sul corpo sono stati trovati numerosi segni di arma da taglio alla gola e al torace. Dopo l’esito negativo delle ricerche di ieri mattina, la scoperta è avvenuta nel pomeriggio. Gli inquirenti stanno accertando gli ultimi contatti avuti dalla ragazza: secondo le prima ricostruzioni, Chiara era uscita con un amico e un minorenne è stato iscritto sul registro degli indagati, motivo per il quale sull’omicidio sta indagando anche la Procura dei minori. A dare l’allarme era stato il padre che domenica, non vedendo sua figlia rientrare, aveva lanciato un appello sui social a cui hanno risposto decine di volontari: gli stessi che ieri hanno trovato il corpo della ragazza. Si cerca di capire anche a che ora Chiara sia morta, poiché la zona in cui è stata ritrovata è battuta da molti camminatori e domenica Monteveglio era molto frequentato.

Napoli, tramonta la candidatura di Maresca FI lo scarica e vira su Rastrelli (voluto da FdI)

Si sta liquefacendo come un ghiacciolo sotto il torrido sole di giugno, la candidatura del pm anticamorra Catello Maresca a sindaco di Napoli per la coalizione di centrodestra. Il magistrato in aspettativa sta pagando la sua indisponibilità ad accogliere i simboli di partito, mascherata sotto la volontà di rafforzare la natura civica della sua discesa in campo che invece cela la sua intenzione di tenere dentro la sua squadra pezzi di sinistra partenopea delusi da Luigi de Magistris e dal Pd, con la regia di Alessandro Nardi, l’uomo che gli sta componendo le liste dopo aver lavorato a lungo con il sindaco uscente.

E così Forza Italia gliel’ha giurata. Fulvio Martusciello, a nome del coordinamento cittadino, ha diffuso una dichiarazione per sottolineare l’allontanamento in corso. “Le dichiarazioni di Maresca fatte a più riprese rendono le distanze ormai incolmabili. Siamo certi che sull’unità del centrodestra la Lega (Matteo Salvini è il leader che ha accolto con maggiore entusiasmo la candidatura di Maresca, ndr) vorrà costruire con noi una alternativa di governo”, dice l’europarlamentare, che già guarda verso un altro nome. “Parte il confronto con Sergio Rastrelli e con le altre civiche e partiti di centrodestra”, ha aggiunto. Sergio Rastrelli, avvocato, è il figlio dell’ex governatore campano Antonio Rastrelli, ed è stato proposto nei giorni scorsi con forza da Giorgia Meloni in persona a nome di FdI.

Già domenica c’erano state le avvisaglie della frattura in atto, con la notizia dell’adesione al progetto civico di Maresca di Francesco Chirico, presidente della seconda municipalità di Napoli e arancione della prima ora: è membro del coordinamento nazionale di Dema, il movimento politico fondato e presieduto dal sindaco de Magistris, eletto da uno schieramento Dema-Verdi e sinistra. “Se Maresca continua a prendere questi trasformisti di De Magistris, sarà un De Magistris trasformato, null’altro”, secondo il coordinamento degli azzurri.

Oggi è previsto un tavolo del centrodestra e Maresca ha glissato la questione: “Aspettiamo serenamente”. Intanto il gioco di sponda per farlo fuori è iniziato. Rastrelli ha accolto l’apertura di Forza Italia e ha iniziato a parlare da candidato sindaco in pectore, auspicando che “le ragioni di aggregazione del centrodestra continuino a prevalere sulle possibili spinte di frammentazione tipiche della sinistra”. Un appello alla Lega a dialogare con lui.

La “mattanza” dei detenuti “Abbattiamoli come vitelli”

“Fu una orribile mattanza”, scrive il Gip Sergio Enea. Il 6 aprile 2020 fu un giorno di sangue e costole spezzate e torture in salsa ‘Diaz’, venti anni dopo. Fu un giorno di sospensione della democrazia e dei diritti dei detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) “sottoposti a violenze, intimidazioni e umiliazioni di indicibile gravità, senz’altro indegne per un Paese civile”. Picchiati con premeditazione, dopo perquisizioni nelle parti intime giustificate con la ricerca di microcellulari, da agenti di polizia penitenziaria coperti dai caschi e dalle mascherine. Agenti che poi lavorarono a inquinare le indagini falsificando informative, foto (per far apparire armi che non c’erano), video, nella speranza che sarebbero riusciti a occultare tutto.

Le 2.349 pagine delle misure cautelari notificate a 52 tra funzionari e agenti della polizia penitenziaria – 8 in carcere, 18 ai domiciliari, 3 obblighi di dimora, 23 sospensioni dal pubblico ufficio – accusati a vario titolo di tortura, lesioni aggravate, maltrattamenti aggravati, falso, calunnia, favoreggiamento, frode processuale e depistaggio, dipingono uno scenario da regime sudamericano. Quel giorno entrarono in azione 283 agenti di polizia penitenziaria. Fecero passare come “perquisizione”, secondo i pm, il pestaggio scientifico e organizzato di 292 detenuti del ‘Reparto Nilo’, trasferiti dalle celle alla sala ricreativa e poi fatti correre in mezzo a “corridoi umani” nei quali venivano percossi con schiaffi, calci e manganelli. Per gli inquirenti, fu una ritorsione per le rivolte del 9 marzo e del 5 aprile di detenuti preoccupati per i rischi del contagio a inizio pandemia, e per la scoperta di un caso di positività. Undici mesi di indagini della Procura sammaritana guidata da Maria Antonietta Troncone, tra intercettazioni, analisi della videosorveglianza interna e testimonianze di almeno 70 detenuti vittime dei pestaggi (uno era in carrozzella), hanno dimostrato “che nessun detenuto ha mai opposto resistenza alcuna all’attività di perquisizione” e l’unico loro sforzo fu quello di proteggersi dai colpi “fino a un vero e proprio linciaggio al suolo”. I video parlano da soli. Si vedono detenuti costretti a un “prolungato inginocchiamento” sotto i cazzotti. E parlano da soli anche i messaggi estrapolati dai cellulari degli indagati, prima e dopo la mattanza. “Li abbattiamo come i vitelli… si chiude il Reparto Nilo per sempre… spero che si pigliano tante di quelle mazzate i… 4 ore di inferno per loro… non si è salvato nessuno”. Non solo. Qualcuno si compiace: “Applauso finale ai colleghi di Santa Maria… aho ci siamo rifatti, 350 passati e ripassati… amo vinciut (abbiamo vinto, ndr)… Qualche ammaccato tra i detenuti, cose normali”. L’indagine ha affrontato anche la morte di un detenuto, avvenuta il 4 maggio. Schizofrenico, schiantato da un mix di oppiacei. “Non doveva stare in isolamento” secondo i pm, ma per il Gip fu un suicidio.

Il Sappe, sindacato della polizia penitenziaria, si dichiara “sorpreso da provvedimenti abnormi”. Anche il ministro di Giustizia, Marta Cartabia, ha rinnovato fiducia nel corpo di penitenziaria.

Referendum Giustizia: la base contro Matteo

La trovata di marketing è d’impatto: “Chi sbaglia paga! Firma anche tu”. Lo slogan della Lega per promuovere i sei referendum sulla giustizia con il Partito radicale e chiedere ai militanti di firmare a partire da venerdì 2 luglio è invitante. Soprattutto per quegli elettori leghisti che in questi anni hanno creduto alla retorica securitaria di Matteo Salvini basata sul principio della certezza della pena e del perseguimento dei reati della criminalità comune. Peccato che stavolta molti elettori del Carroccio non ci siano cascati. Hanno letto i quesiti – presentati non a caso con i radicali iper-garantisti – e non volevano credere ai propri occhi: oltre alla responsabilità civile dei magistrati e alla separazione delle carriere, infatti, i quesiti 3 e 4 vanno in senso opposto rispetto al messaggio “legge e ordine” su cui Salvini ha costruito il proprio successo politico. Come ha spiegato sul Fatto l’ex pm e consigliere del Csm Piercamillo Davigo, infatti, il quesito 3, eliminando il criterio della reiterazione del reato, ha un effetto esplosivo: di fatto abolisce la custodia cautelare per i criminali comuni (dagli scippatori ai ladri) ma anche per i reati dei colletti bianchi che commettono reati di corruzione, bancarotta, falso in bilancio e così via.

Quando se ne sono accorti, molti elettori leghisti provenienti da tutta Italia hanno preso d’assalto la bacheca di Salvini, le pagine della Lega e quelle di molti parlamentari e amministratori locali che hanno promosso i quesiti referendari. Sotto i post del segretario che ogni giorno pubblica per ricordare di presentarsi ai banchetti e firmare, per esempio, Evandro Z. dalla provincia di Venezia scrive: “Avrei un dubbio sulla custodia cautelare, oggi sono gli unici giorni che fanno i delinquenti, soprattutto i corrotti”. Ma la maggior parte dei commenti degli elettori leghisti sono più duri: “La bancarotta fraudolenta è un reato grave o una stupidaggine?” chiede ironicamente Tiziano G., mentre Michele R. evidenzia l’incoerenza di Salvini perché non è “vero” che con i referendum si “responsabilizzano i giudici affinché facciano il loro dovere” ovvero “non mettere delinquenti e spacciatori in libertà”. Angelo I. si ribella al proprio partito: “Io il quesito sulla custodia cautelare non lo firmerò”.

Ma c’è un altro quesito che ha provocato la rivolta degli elettori del Carroccio. È il numero 4 che propone l’abolizione della legge Severino che impone l’incandidabilità, l’ineleggibilità e la decadenza di cittadini e politici condannati in via definitiva. Un quesito, secondo molti, che interesserebbe direttamente Salvini imputato a Palermo per il caso Open Arms (rischia fino a 15 anni di carcere) ma che, come ha spiegato Davigo, rischia anche di aprire le porte del Parlamento a pregiudicati di ogni risma. Una soluzione che non piace per niente a molti elettori leghisti: “A voi serve solo quel referendum (quello sulla Severino, ndr) – scrive Marco F. sulla bacheca della pagina “Lega Noi con Salvini” – bravi tutti, complimenti!”. Antonella S. invece, sotto al post del coordinatore leghista in Lombardia Fabrizio Cecchetti, attacca: “La legge Severino è giusta e deve restare. Perché è stata inserita nel referendum? È la legge che impedisce ai condannati di entrare in Parlamento. Spiegazioni per favore”. Anche Grazie C. non è d’accordo: “La legge Severino non si dovrebbe toccare”, mentre Rino R. sostiene che il quesito sulla Severino “interessa solo a politici, magistrati e qualcuno coinvolto in dei processi penali” ma non “alla stragrandissima parte dei cittadini italiani”.

Infine, tra i commenti che vanno per la maggiore, ci sono anche molti elettori del Carroccio che protestano contro il capo per la decisione di promuovere i referendum e non fare le riforme della giustizia ora che la Lega è al governo. “Abbiate il coraggio di modificare le norme in Parlamento – scrive Antonio L. sotto la bacheca del braccio destro di Salvini in Lombardia, Paolo Grimoldi – mi sembra una sceneggiata, una presa per i fondelli”. Mentre la sentenza arriva da Alessio V. da Treviglio: “Ma lo sapete che siete al governo? Proponete qualcosa invece di promuovere referendum propagandistici, lo dico da vostro elettore”. Che ora farà più fatica a votare Lega.