Lega, verifiche dei pm sui soldi dei parlamentari

Inseguire soldi e incarichi: pubblici o meno. Sul tavolo la Lega di Matteo Salvini. Chiusa la pratica della fondazione regionale Lombardia film commission (Lfc) con le condanne dei commercialisti del partito, la Procura di Milano ora punta a capire come e perché è nata la nuova Lega. Nuove verifiche, dunque. Nel mirino ci sono anche i soldi dati dai politici “padani” al partito per riempire le casse nell’anno cruciale della vita del Carroccio, quando Salvini, da nuovo segretario federale, pianifica il passaggio dalla Bad company della vecchia Lega alla Newco progettata dai suoi fedelissimi: il tesoriere Giulio Centemero e i commercialisti Andrea Manzoni e Alberto Di Rubba.

Siamo nel 2017, e dopo che a gennaio il tesoriere Centemero con una lunga email ha illustrato modi e tempi dei nuovi “veicoli” per evitare i sequestri imminenti da parte della Procura di Genova che indaga sui 49 milioni di rimborsi pubblici spariti, il capo delle finanze leghiste (non indagato) è di nuovo alla tastiera. È il 4 giugno, a settembre i sequestri da parte del Tribunale diventeranno eseguibili. I conti sono bloccati e a marzo 2018 si andrà a votare per le Politiche. Il tempo corre. Centemero scrive a Elena Paglialonga (non indagata), che lavora presso la segreteria di Matteo Salvini. “Ciao Super Elena – scrive Centemero – per quanto riguarda il prestito dei parlamentari che (…) non è cumulato con le erogazioni liberali mensili che vengono normalmente erogate, i parlamentari dovranno effettuare un bonifico a un conto dedicato che stiamo aprendo (lunedì o martedì avremo l’Iban) con la causale finanziamento infruttifero. Aspetto news per gli appuntamenti”. L’email, considerata fondamentale dagli investigatori per disegnare la fotografia di quel decisivo anno leghista, è contenuta negli atti della Procura di Genova poi trasmessi ai colleghi di Milano che hanno indagato sul caso Lfc. L’indagine milanese ha già portato a due condanne con rito abbreviato a carico dei due contabili della Lega: Di Rubba 5 anni e Manzoni 4 anni e 4 mesi. Del resto, scrive la Guardia di finanza, “dalle email intercorse tra Manzoni, Di Rubba, Centemero e altri politici è emersa la circostanza che gli eletti della Lega erogano in momenti vicini alle elezioni dei cosiddetti prestiti infruttiferi o erogazioni liberali di 15mila o 20mila euro al partito ”. Tutto avviene nel 2017 e non a caso. Che questo sia l’anno dove molto di poco chiaro accade, lo dimostrano gli interrogatori del commercialista Michele Scillieri, che per il caso Lfc ha patteggiato 3 anni e 4 mesi. I pm di Milano gli chiedono conto degli accordi intercorsi con Manzoni per domiciliare la nuova Lega nel suo studio di via Privata delle stelline 1, a Milano. Sul tavolo ci sono due fatture, una delle quali, da 17mila euro, pagata dalla società leghista Pontidafin a Scillieri. Spiega il maggiore della Guardia di finanza, Felice Salsano, presente all’interrogatorio: “Il 5 ottobre 2017 Scillieri fattura 17mila euro a Pontidafin, cinque giorni dopo la Lega per Salvini premier sposta la sede nello studio di Scillieri”. Il commercialista però non si smuove, sfiorando, a dire dei pm, la “reticenza” e spiegando che quei 17mila euro sono il prezzo di un’auto venduta e non la ricompensa, come sospetta la Procura, per aver domiciliato nel suo studio la nuova Lega. Vengono così in aiuto le parole dei magistrati per capire quanto la domiciliazione sia un dato cruciale anche per le nuove indagini. Dice l’aggiunto Eugenio Fusco: “La storia del partito lei non la può minimizzare perché la domiciliazione presso di lei è studiata a tavolino. Loro non vogliono domiciliarla a Bergamo, ma in un posto diverso. Per una roba del genere magari non si muove Salvini, ma si muove Centemero (…). Sullo sfondo già c’era il problema dei sequestri. Il 4 settembre 2017 i giudici decidono sull’aggredibilità. C’è un warning sui soldi della Lega. Il 10 ottobre si fa l’atto del notaio, siete andati proprio come fulmini”. Scillieri conferma in parte. Spiega di non aver mai parlato con Manzoni prima del 10 ottobre, quando il contabile di Salvini, che si trova dal notaio con Centemero, lo chiama per aver l’ok alla domiciliazione. Dice Scillieri: “Manzoni mi chiese se, visto che stavano costituendo una nuova entità politica, poteva essere per me un problema domiciliarla, perché doveva essere un’entità che non doveva avere a che fare con la vecchia Lega”. Il pm Stefano Civardi aggiunge: “Le ricordo che il 10 ottobre dal notaio c’erano Matteo Salvini, Giancarlo Giorgetti, Lorenzo Fontana e Giulio Centemero. È difficile pensare che uno smuova il gotha della politica italiana e lombarda in attesa di una risposta del dottor Scillieri”. Salsano legge poi una chat tra Manzoni e Di Rubba dell’8 agosto 2017. Scrive Di Rubba: “Scollo (Scillieri, ndr) ok per sede Lega lo vediamo venerdì pomeriggio a Clusone”. Appare chiaro che gli accordi vengono presi prima del 10 ottobre, visto che già a gennaio Centemero nella sua email illustra i “veicoli” allegando una bozza di statuto. A giugno poi annuncia l’apertura di un conto per traghettare il denaro dei politici leghisti al partito. A ottobre, subito dopo la sentenza del Tribunale di Genova che conferma il sequestro dei 49 chiesto da pm, il nuovo “veicolo” scritto mesi prima da Centemero nasce negli uffici milanesi di Scillieri.

Poco prima del 2017, scrive la Gdf, la Lega paga fatture ai vari imprenditori di riferimento. Parte di quel denaro sarà bonificato da un Iban della Lega. “Conto – scrive la Finanza – che sarà destinatario di un giroconto da 54mila euro da Sparkasse ove sono stati accreditati parte dei fondi illeciti provenienti dal reato di truffa aggravata”. Altri conti mostrano movimenti di denaro per pagare i fornitori, tra cui l’imprenditore Francesco Barachetti (imputato a Milano per concorso in peculato rispetto a Lfc), che sarà pagato per circa 66mila euro da Pontidafin con denaro bonificato sul conto della società leghista da un altro conto del partito dove, scrive la Gdf, “sono stati accreditati parte dei fondi illeciti provenienti dal reato di truffa aggravata” e cioè parte dei 49 milioni di rimborsi elettorali scomparsi.

Alzano, il Covid nell’ospedale 12 giorni prima della chiusura

Il virus era già entrato da un pezzo nell’ospedale Pesenti Fenaroli di Alzano Lombardo (Bergamo). Almeno dodici giorni prima di domenica 23 febbraio 2020, quando di fronte ai primi casi confermati, l’allora direttore medico, Giuseppe Marzulli, chiuse il Pronto soccorso, che poche ore dopo riaprì senza adeguata sanificazione, perché così avevano deciso le autorità sanitarie bergamasche e lombarde. Erano i giorni terribili in cui la Lombardia e l’Italia scoprivano l’epidemia, che in realtà era in corso da tempo. In quel weekend, dopo i contagi scoperti a Codogno (Lodi) e a Vo’ Euganeo (Padova), il governo di Giuseppe Conte ordinava le prime zone rosse in 10 comuni del Lodigiano e nel piccolo centro veneto. Invece ad Alzano e a Nembro, nella Bergamasca, la zona rossa non arrivò mai: il governo che l’aveva decisa ritirò i militari già inviati sul posto, la Regione Lombardia si girò dall’altra parte e la Confindustria diffuse lo spot “Bergamo is running” contro eventuali chiusure. Intanto, in quel piccolo ospedale, si infettavano decine di persone e molte non ne uscirono vive.

Alzano e la Val Seriana si trasformarono nel più grave focolaio dell’Europa occidentale: la provincia di Bergamo registrerà migliaia di morti, nei primi 40 giorni della prima ondata il 568% in più rispetto alla media del quinquennio precedente e ben oltre i decessi ufficialmente attribuiti al Covid-19. Nessun’altra area del Paese ha mai avuto dati peggiori.

I primi accertamenti dei consulenti nominati dalla Procura di Bergamo confermano che i contagi all’ospedale di Alzano risalgono “almeno all’11 febbraio”, prima del 23 ma anche prima della famosa trasferta a Milano di circa 40 mila tifosi dell’Atalanta, che, ignari del virus, il 19 invasero San Siro per il match di Champions League contro il Valencia a San Siro. E potrebbero essere ulteriormente retrodatati.

Per Alzano sono indagati per epidemia colposa l’ex dg della Sanità lombarda Luigi Cajazzo, l’allora vice Marco Salmoiraghi, la dirigente dell’assessorato Aida Andreassi e gli ex dirigenti della Asst di Bergamo Francesco Locati e Roberto Cosentina; gli ultimi due anche per falso sulle misure adottate e sulla sanificazione.

Il Fatto Quotidiano avanza da tempo l’ipotesi che le infezioni nell’ospedale di Alzano fossero in corso ben prima del 23 febbraio, sulla base dei numeri e delle notizie circa l’aumento delle polmoniti e delle radiografie al torace ampiamente documentate già a gennaio 2020, e delle testimonianze raccolte dal Comitato dei familiari delle vittime “Noi denunceremo”. Il virus, come si ricorderà, quasi nessuno lo cercava. L’ultima circolare del ministero della Salute, che il 27 gennaio aveva ribaltato la precedente sulla base delle contraddittorie indicazioni dell’Oms, prescriveva i tamponi solo a chi avesse avuto rapporti con la Cina o con persone provenienti da lì. L’attenzione era tutta sugli aeroporti benché il virus fosse già stato individuato in Francia e in Germania. Domani il Procuratore di Bergamo, Antonio Chiappani, farà il punto con gli investigatori della Gdf e i suoi esperti: il microbiologo dell’Università di Padova Andrea Crisanti, il medico legale Ernesto D’Aloja e l’ex direttore della Asl di Padova, Daniele Donati.

Secondo le prime conclusioni al 23 febbraio si contavano 42 contagiati accertati tra i soli dipendenti dell’ospedale di Alzano, poco meno di un terzo del totale. E all’interno del nosocomio il virus circolava a velocità maggiore rispetto al territorio, dove comunque era piuttosto avanti e ai primi di marzo, quando la zona rossa per Alzano e Nembro fu sollecitata dal Comitato tecnico scientifico, probabilmente era già tardi. Conte decise poi di chiudere parzialmente tutta la Lombardia e altre province. Ora potrebbe aggravarsi la posizione degli indagati e i magistrati valutano le posizioni dei dirigenti del ministero della Salute, fin qui sentiti come testimoni.

È chiaro infatti che le conseguenze dell’epidemia, nella Bergamasca più che altrove, furono drammatiche anche per la mancanza di indicazioni nazionali e regionali adeguate su sorveglianza epidemiologica, tamponi, dispositivi di protezione, valutazione del rischio nelle strutture sanitarie, percorsi separati negli ospedali, stanze di isolamento, censimento delle terapie intensive e altro. È noto che il piano pandemico antinfluenzale, non aggiornato dal 2006, non fu applicato: sebbene l’Oms fin da 5 gennaio avesse richiamato gli Stati membri alle misure antinfluenzali, il ministro Roberto Speranza e i dirigenti della Salute affermano che non trattandosi di virus influenzale non poteva trovare applicazione. Né furono rispolverate le misure adottate nel 2002/’03 per la prima Sars e nel 2012 per la Mers.

Il ministero ritiene di aver fatto il possibile; i magistrati sono convinti di aver individuato gravi ritardi e carenze. Sorveglianza e tracciamento dei casi, per dirne una, cominciarono solo dopo Codogno, ma non c’è dubbio che la Regione Veneto si comportò meglio della Lombardia nella gestione di Vo’ e dell’ospedale di Schiavonia. Che fu chiuso sul serio.

Vaccini, giugno senza “spallata”. E a luglio è in arrivo una frenata

La comunicazione ufficiale alle Regioni sulla quantità di vaccini a disposizione nel mese di luglio ancora non c’è. “Noi aspettiamo i numeri – dice Raffaele Donini, nella doppia veste di assessore alla Salute dell’Emilia-Romagna e coordinatore della commissione Sanità della Conferenza delle Regioni –. Se il taglio alle forniture è del 5%, come ci ha assicurato il generale Figliuolo, allora la situazione è gestibile, in caso contrario saremmo in difficoltà. Anche in Emilia-Romagna abbiamo già fatto i conti. Se le consegne dovessero subire tagli maggiori avremmo problemi ad assicurare le prime dosi”.

Donini si fa portavoce della preoccupazione di quasi tutte le Regioni. Preoccupazione che riguarda soprattutto l’approvvigionamento di Pfizer che, come Moderna, è destinato alle persone sotto i 60 anni di età. In base all’ultimo comunicato del commissario all’emergenza, in luglio sono previste 12,1 milioni di dosi di Pfizer e 2,4 di Moderna. Dovrebbero assicurare anche la vaccinazione eterologa per tutti coloro che, under 60, hanno fatto come prima dose il vaccino di AstraZeneca.

Non è proprio così. Quel 5% in meno calcolato da Figliuolo per la Campania si traduce nel 20% in meno di Pfizer. Cosa che compromette la possibilità di vaccinare chi deve ancora iniziare il ciclo. “Allo stato attuale – spiegano i collaboratori del presidente Vincenzo De Luca –, dopo i primi giorni di luglio siamo in grado di garantire solo i richiami. E partiamo da una situazione di svantaggio, perché mancano all’appello 250 mila dosi che non abbiamo ricevuto. In giugno Figliuolo ha cercato di riequilibrare. Ma i conti ancora non tornano”.

Campania ed Emilia-Romagna non sono casi isolati. Il presidente del Piemonte, Alberto Cirio, ha previsto un ammanco, per il prossimo mese, di 162 mila dosi. Nelle ultime settimane ha sempre superato il target giornaliero per tenere a pieno regime la macchina vaccinale e ha garantito prime dosi e richiami. Ma Cirio e Figliuolo si sono accordati per sentirsi d’ora in avanti due volte alla settimana per verificare le criticità.

La Lombardia, a sua volta, vorrebbe mantenere il ritmo dell’ultimo periodo: una media di 730 mila somministrazioni alla settimana. Per raggiungere l’obiettivo, può giocare sui tempi tra prima e seconda dose, allungandoli, portandoli da 35 a 40 giorni. Ma i margini di manovra si fermano qui.

C’è poi il Lazio, dove mancano – parola dell’assessore alla Salute Alessio D’Amato – 100 mila dosi di Pfizer per coprire il fabbisogno delle prenotazioni. “Su luglio gli scarichi sono quattro, uno alla settimana da circa 196 mila dosi l’uno – dice D’Amato –. In giugno eravamo in media a 300 mila a settimana”. Così, ecco lo slittamento a dopo Ferragosto delle vaccinazioni tra i 12 e i 16 anni e il posticipo di una settimana per tutti quelli che hanno già la prenotazione in mano.

A farne le spese, ovunque, saranno proprio i più giovani, dai 50 anni in giù. Soprattutto trentenni, ventenni, teenager che devono ancora fare la prima dose. In Lombardia, per esempio, prendendo in considerazione la platea delle persone che hanno aderito alla campagna di vaccinazione, tra gli over 60 quasi tutti hanno ricevuto la prima somministrazione, tra i 50 e i 59 anni il 97%.

Nel frattempo la “spallata” di giugno promessa dal Commissario Figliuolo non c’è stata. Certo, le Regioni sono riuscite a superare quasi sempre le 500 mila somministrazioni giornaliere. Ma il tetto del milione auspicato dal commissario non è stato raggiunto.

Mascherina all’aperto solo in campania

Nel giorno in cui, ieri, nel resto d’Italia decade l’obbligo di indossare le mascherine all’aperto, in Campania l’obbligo permane fino
al 31 luglio a seguito di un’ordinanza emessa dalla Regione Campania. E il governatore Vincenzo De Luca attacca: “Speranza e Figliuolo si dimettano. Questa cosa delle mascherine è diventata come una battaglia di civiltà. Abbiamo tolto le mascherine, sento dire. Imbecille, hai tolto un elemento di protezione per te, per i tuoi figli
e per i tuoi familiari”.

Beppe resta spiazzato, ma i big fanno muro: “Deve prenderne atto”

Un contropiede così dall’avvocato non se lo aspettava, neppure lui. Così in una sera di fine giugno, Beppe Grillo, il Garante e fondatore, quello che la politica l’ha sempre addentata e spesso indirizzata a colpi di blitz e proclami imprevisti, rimane spiazzato. Prevedeva di rispondere, a prescindere, alla conferenza stampa di Giuseppe Conte, con cui si era lasciato domenica con una brutta telefonata. Un colloquio in cui l’ex premier gli aveva urlato le sue verità, molto meno controllato del consueto, e che non aveva risolto proprio nulla. Ma alle 18.30 di un torrido giovedì, Grillo non sa come reagire all’ex premier che con frasi e modi da legale di alto censo ha ributtato la palla nel suo campo, mettendolo di fronte al peggiore dei bivi: se accettare la votazione sul web del nuovo Statuto contiano, piegando il capo a una probabilissima sconfitta (sconfessione) per mano degli iscritti, oppure dire no al codice dei codici per il Movimento, al voto sulla piattaforma, alla democrazia diretta. E il primo ex inquisitore si dovrebbe macchiare di eresia, pur di non cedere il passo a Conte.

Enigma mica piccolo, per il Grillo che ha la tentazione di rispondere a botta calda, con un video. E di rispondere male. Ma i collaboratori più stretti e una lunga teoria di big gli chiedono di non farlo, di aspettare, di non imboccare la via delle scontro finale. Provano a placare il Garante. Ancora offeso con Conte, accusato di aver ignorato le sue telefonate, persino di non averlo voluto incontrare. E poi Grillo, assicurano, aveva già mollato più di qualcosa nelle scorse ore. “Beppe ha rinunciato ai poteri su nomine, comunicazione e referenti regionali” soffiavano ieri dal suo giro. Ha capito, e questo lo dicono più o meno tutti, di aver forzato la mano nel discorso davanti ai parlamentari di giovedì scorso.

Così è, o almeno era pronto a lasciare all’avvocato piena libertà di costruirsi la sua segretaria. Con due vicepresidenti, il contiano doc Stefano Patuanelli e l’ex capo che va tenuto dentro per mille motivi, Luigi Di Maio. Più una serie di comitati ristretti, in cui sarebbero previsti tra gli altri la sindaca di Torino Chiara Appendino, la viceministra al Mise Alessandra Todde e un altro fedelissimo di Conte, Mario Turco. Adesso però Grillo deve decidere come e soprattutto cosa a rispondere all’ex premier. La serata balla su quello, sulla sua eventuale replica tramite video o post. Dall’entourage di Grillo filtra un balletto di conferme e smentite, sintesi fedelissimo del caos imperante nel Movimento “delle contraddizioni e delle ambiguità” per adoperare un’immagine contiana. Di sicuro c’è la lettura diffusa tra i parlamentari: “Per Beppe dire no adesso è complicatissimo, come può rifiutare un voto?”. Una votazione che, da vecchio ma ancora vigente Statuto, va convocata dal reggente Vito Crimi, teoricamente senza dover rendere conto a nessuno. Ma è chiaro che la partita ormai è un’altra, con quasi tutto il Movimento che ora invoca una tregua, una pace anche finta, pur di evitare il baratro. I contiani, che hanno ripreso colore, sentono aria di punto della vittoria: “Ora Grillo deve prendere atto della situazione, non può fare altrimenti”. Gli altri, big compresi, invocano l’accordo.

Di Maio parla quasi da catechista: “Stiamo remando tutti nella stessa direzione, il Movimento è pronto a evolversi, coraggio, confido nell’intesa”. Roberto Fico a In Onda invece giura: “Non credo che Conte sia democristiano, un ulteriore passo e saremo più forti di prima”. Però alla fine la palla sta sempre lì, in casa del Garante che proprio non si può marcare. Cosa deciderà? Un 5Stelle che lo conosce molto bene riassume: “C’è una piccola possibilità di arrivare a un’intesa”. Ossia di convincere Grillo, quello che ha ancora l’ultima parola. E che potendo se la terrebbe, a vita.

Le urne senza Rousseau con il nodo dell’affluenza

Giuseppe Conte chiede una resa dei conti online: che siano gli iscritti del M5S a decidere che ne sarà della sua leadership e della sua proposta di Statuto. La richiesta è certo anomala – come del resto tutta la vicenda – se si pensa che Conte non è iscritto al Movimento e che il popolo 5Stelle si troverebbe a scegliere tra l’ex premier e il fondatore. Ma come funzionerebbe la votazione?

Lo Statuto del Movimento approvato a febbraio ha eliminatola figura del Capo politico, prevedendo un Comitato direttivo collegiale, il quale ad oggi è incaricato di indire le consultazioni (in sua assenza, procede il Garante). Al momento non c’è alcun Comitato direttivo in carica, ma le sue funzioni sono ricoperte da Vito Crimi, membro anziano del Consiglio di garanzia. In ogni caso, il referendum su Conte sarebbe una votazione particolare, non potendo gli iscritti investirlo direttamente del mandato di Capo politico.

La modifica dello Statuto, poi, segue un iter ancora diverso. In questo caso a esprimersi – su indicazione del solito Vito Crimi – dovrebbe essere l’Assemblea degli iscritti (una platea più ristretta, soprattutto per alcuni vincoli sulla longevità dell’iscrizione) e la procedura è un po’ meno snella, perché richiede la maggioranza assoluta degli iscritti, con poi una eventuale seconda votazione senza quorum per validare le novità dello Statuto. È questa la procedura che il Movimento ha seguito lo scorso febbraio, quando ha cambiato le regole interne relative proprio alla leadership: questa volta, se si arrivasse al voto, è facile immaginare a una consultazione meno elaborata nella forma e più legata alla sostanza dello scontro in atto.

E se urne (digitali) saranno, gli attivisti 5Stelle non utilizzerebbero più Rousseau. Dopo estenuanti trattative e battaglie giuridiche, il M5S ha ottenuto da Davide Casaleggio gli elenchi degli iscritti: una prima tranche, quella relativa agli utenti, è stata consegnata, mentre l’associazione adesso completerà il passaggio di ulteriori dati relativi, per esempio, ai candidati a passate elezioni o a chi si è proposto per un lavoro nel Movimento.

Oggi quindi il M5S dispone almeno degli elenchi degli iscritti e potrebbe incignare la piattaforma SkyVote Cloud, cui si è rivolta per le future consultazioni. Ma ieri Conte ha anche sottolineato il desiderio di conquistare un mandato pieno: “Non mi accontenterò di una risicata maggioranza, mi metto in discussione”. Ergo: la sfida è ricevere il via libera degli iscritti con ampio margine, senza speculare su quesiti tendenziosi o su una bassa affluenza. I precedenti, da un lato, sono rassicuranti, nel senso che il “Non Statuto” del 2016 fu festeggiato dal 90 per cento dei votanti mentre a febbraio le modifiche sono state approvate dall’80 per cento. Cinque anni fa, però, a cliccare furono 80 mila persone, otto volte tanto quelle che si sono espresse nel febbraio 2021. La missione di Conte, dunque, sarà portare nuovo entusiasmo a chi si è allontanato.

Conte, l’ultima sfida a Grillo: “Voto degli iscritti sullo Statuto”

Il tempo di fare ritorno a casa, 800 metri in linea d’aria dal Tempio di Adriano dove ha appena dettato a Beppe Grillo le sue condizioni per diventare capo dei 5Stelle, e Giuseppe Conte si rende conto che c’è una cosa da chiarire: “Questo non è un ultimatum”, dice, ben consapevole che chiamare gli iscritti a scegliere tra lui e il fondatore – oggi come oggi – è un po’ come obbligare un bambino a rispondere al quesito ancestrale: “Vuoi più bene alla mamma o al papà?”. Ha deciso di invocare il voto della base sul nuovo statuto che ha scritto, quello che il garante ha riempito di correzioni a penna rossa e che per lui, invece, è il “punto fermo” per diventare il leader del Movimento. Una sfida, un rischio calcolato: “Come fa Grillo a dire di no a una consultazione del genere? – ragionano – Gli si rivolterebbero tutti contro”.

Ma Giuseppe Conte sa anche che non può tirare troppo la corda: “Io sto tendendo la mano a Beppe, ho bisogno del suo appoggio”, ripete ai suoi. Nessuno si salva da solo, nemmeno in questa storia, e l’ex premier ha deciso di lavare i panni sporchi davanti a tutti. Deve riprendersi l’autorevolezza che lo show del garante, giovedì scorso, di fronte ai parlamentari, gli ha sfregiato a suon di sfottò e imitazioni. Deve riannodare il “vincolo di fiducia” che si è sfilacciato e per farlo, dice, serve “trasparenza anche in questo momento di difficoltà”. Per questo rimette in fila quello che è accaduto negli ultimi mesi. Da quel 4 febbraio quando, appena lasciato Palazzo Chigi, allestì un improvvisato tavolino in piazza Colonna e da lì pronunciò il suo “ci sono e ci sarò”. Ammette adesso che non aveva bene idea di cosa fare, allora. Ma Grillo pochi giorni dopo lo chiamò per offrirgli in dote la sua creatura: offerta, ricorda Conte, formalizzata di fronte a una manciata di testimoni di peso, gli esponenti più in vista dei Cinque Stelle, riuniti a pranzo sulla terrazza dell’hotel Forum l’ultima domenica di febbraio. “Potevo prendermi tutto quel giorno”, è un po’ il senso del racconto dell’ex premier, che invece ricorda come rifiutò una “investitura a freddo” e si mise “a studiare” il modo di “ristrutturare” l’architettura M5S. È qui, ammette, che “è emerso l’equivoco di fondo”. Ovvero che Grillo, alla casa 5Stelle, voleva solo dare “un’imbiancata”.

Non entra nel merito, Conte, degli incontri di questi mesi, delle email e delle telefonate – l’ultima, violentissima, domenica – tra lui e il fondatore. Né tantomeno ammette quello che in molti adesso gli contestano: aver coinvolto “Beppe” solo all’ultimo, aver lasciato troppe chiamate senza risposta. Non vuole neanche le scuse per le “battute irriverenti” e “corrive” che il garante ha pronunciato in assemblea. Dice solo: “Io, il mio, l’ho fatto”. Tradotto, non ha intenzione di cedere su altro. Ha già accolto, racconta, molti dei rilievi che il fondatore ha sollevato. Ha risolto i guai con Davide Casaleggio. Perfino Rocco Casalino, il guru della comunicazione che l’altro giorno Grillo ha messo all’indice (“Deve parlare anche con me!”) ieri non si è fatto vedere, ha preferito sparire, lasciando il palco senza scenografie, senza musica, senza le luci che in questa stessa sala – un anno e mezzo fa – accarezzavano Luigi Di Maio mentre si sfilava la cravatta da capo politico. Più mediazione di così, è la sintesi, non si può chiedere. Quelle che oggi consegnerà a Beppe Grillo e Vito Crimi sono le “condizioni imprescindibili per il mio impegno personale”. Tocca alla comunità 5Stelle, ora, “assumersi la responsabilità delle proprie scelte”, a cominciare da suo “padre” che deve decidere una volta per tutte se essere “generoso” o “padrone”. Che poi significa ammettere che, per fare i capi, serve “un impegno costante e continuo” e non ci si può limitare a fare “telefonate a distanza, per raccogliere frammenti”. Dentro o fuori, il pallone è già bucato.

L’alternativa qual è?

Ieri Conte ha ributtato la palla nel campo di Grillo, ma con dentro una bomba a orologeria che ha già iniziato a ticchettare: quella della democrazia diretta, cioè del voto degli iscritti ai 5Stelle pro o contro il suo progetto di rifondazione del Movimento. È stata un’operazione di chiarezza davanti a tutti gli italiani: a quelli che ancora votano M5S (e sono tanti, a dispetto dei santi), a quelli che non li votano più ma si astengono in attesa di un nuovo motivo valido per farlo (e sono altrettanti), a quelli che non li hanno mai votati ma potrebbero cominciare a farlo se nascesse una cosa nuova, e a quelli che mai li voterebbero. Nessuno d’ora in poi potrà dire di non aver capito le ragioni dello scontro fra i due Giuseppe in quello che resta in Parlamento il partito di maggioranza relativa. Qualcuno aveva tentato di immiserirlo a una lite da portineria: uno che sbeffeggia, l’altro che fa l’offeso, prende cappello e pretende le scuse. Ecco: nulla di tutto questo. La questione non è personale: è politica, anche se il rapporto umano fra Conte e Grillo al momento è ai minimi storici e non sarà facile ricostruirlo.

Bene ha fatto l’ex premier a chiarire che non c’è alcun golpe o complotto per sfilare a Grillo la sua creatura, ma l’esigenza di tracciare i confini delle funzioni dell’uno e dell’altro nel movimento che lo stesso Grillo ha chiesto a Conte di ricostruire su basi nuove. Il capo fa il capo e il garante fa il garante, ma il garante conterà sempre più del capo perché il suo mandato è a vita e perché conserva il potere di proporre agli iscritti di sfiduciare l’altro. Fermo restando che il garante è anche il fondatore e qualunque sua sortita avrà un peso infinitamente superiore a quello codificato da qualsiasi regola statutaria. Quella di Conte non è una pretesa prevaricatrice, ma il minimo sindacale delle garanzie per poter avviare il percorso di “riossigenazione”. Un’avventura che, a giudicare dallo zoccolo duro tuttora legato al “marchio” (15-17%), dalla breve distanza dai tre partiti maggiori e dalle attese che Conte suscita nel Paese, può ancora riportare il M5S in cima al podio. Tutto ora dipende dall’intelligenza e dalla generosità di Grillo, che della prima abbonda e della seconda difetta. Ma le parole ferme e al contempo distensive pronunciate ieri dall’ex premier costringono il fondatore a scegliere, e in breve tempo. Se salta la leadership Conte, l’alternativa qual è? Dov’è un altro capo in grado di risollevare i 5S dopo un eventuale no a (o di) Conte? E soprattutto: come potrebbe il teorico della democrazia diretta negare agl’iscritti il diritto di voto sul progetto di Conte? Dopo mesi di battaglia politica e legale, Conte ha restituito al M5S la lista degli iscritti sequestrata da Casaleggio jr.. E ora Grillo che fa: li tratta da soprammobili?

Tutte selfie e lamentele: che stress le ferie italiane

Si ride amaro con A Venezia con un piccione in testa. Storia tragicomica degli italiani in ferie. Il volume di Giuseppe Culicchia, in libreria per Solferino, è un censimento impietoso dei vizi nazionali sotto l’ombrellone. A cominciare da una tara ineludibile: “Abbiamo ridotto il mondo a uno sfondo per i nostri selfie, e pazienza se a un certo punto abbiamo dovuto farceli con tanto di mascherina. Da anni, ormai, viviamo per postare sui social le immagini dei luoghi dove siamo andati in vacanza o dei ristoranti dove abbiamo mangiato o delle città d’arte dove abbiamo passato il weekend”.

Sì, perché ormai “la vita vale la pena di essere vissuta solo per mostrare ad altri esseri viventi di essere andati in vacanza”. I più temerari, per non sentirsi esclusi dalla festa, si imbucano con “un selfie in tenuta balneare millantando di trovarsi a Bali mentre in effetti sono in un’ansa del Po o del Tevere, o se va bene coi piedi a mollo nel Trasimeno”. Il bestiario che ne consegue è degno dei film di Vanzina (“Un giorno saranno studiati dagli antropologi e considerati quasi alla stregua di documentari”). Non appena sale la colonnina di mercurio ecco un esercito di replicanti con maglietta a sfondo sessuale, pantaloni a pinocchietto, marsupio e telefono cellulare con suoneria assordante. Molti, forse per addestrarsi al bagnasciuga, non esitano a sfilare già in città con bermuda e infradito. Seguire le orde dei vacanzieri in transumanza non è tanto vagliarli alla prova costume quanto evitare gli schizzi del malcostume. Fior da fiore: “Quando l’italiano si ferma in Autogrill per usare il bagno, segue le elementari precauzioni igieniche: non alza la tavoletta e non tira l’acqua”; L’italiano in albergo ruba le ciabatte di spugna, l’accappatoio e la federa del cuscino supplementare, oltre va da sé ai prodotti per l’igiene che trova in bagno. Dopodiché, si lamenta quasi sempre della qualità della colazione: Certo che per ‘ste due fette biscottate e un po’ di marmellata sono dei ladri”.Prima ancora di crogiolarsi al sole come un merluzzo in padella, stretto tra esodo e controesodo, l’italiano medio si fa riconoscere lungo il viaggio: “Quando s’imbatte in un incidente, impreca per via della coda che si è inevitabilmente formata, anche perché tutti gli automobilisti che lo precedono rallentano più del necessario per guardare bene la scena dello schianto; poi però anche lui rallenta a sua volta più del necessario”. Il rapporto con l’automobile è sempre molto intimo. Tanti si prodigano per riuscire a parcheggiarla direttamente in spiaggia, “certi nostri litorali sono non di rado ornati da lunghe teorie di lamiere”. A onor del vero, i nostri vacanzieri sono sì carnefici ma anche vittime, in una spirale che mescola i ruoli di continuo.

Raggiungere le località di villeggiatura spesso si rivela un calvario. Non è raro arrivare in aeroporto e scoprire che è in corso uno sciopero. Nemmeno chi sceglie i binari ha vita facile, visti i leggendari ritardi soprattutto estivi di innumerevoli treni sempre a rischio di possibile soppressione. Mai cantare vittoria una volta saliti a bordo: “Chiunque usi viaggiare con Trenitalia sa bene che sia sui Frecciarossa sia sui Frecciabianca e spesso sui treni cosiddetti veloci regionali, che in realtà sono lentissimi perché fanno un mucchio di fermate, il sistema che regola le temperature all’interno delle carrozze o non funziona, per cui si muore dal caldo, oppure funziona ma solo a livelli polari”. Pochi sono i passeggeri che non portano al guinzaglio il loro trolley, “più che una valigia con le ruote, a tutti gli effetti un corpo contundente”. I marciapiedi delle stazioni e i tratti in pavé come le hall degli alberghi e i corridoi degli aeroporti sono attraversati da un rombo minaccioso, il tipico rumore “della mandria di italiani armati di trolley”. Ma è fuori dai patri confini che il bestiario offre il peggio. Due classici: linguaggio gestuale per interloquire e ricerca spasmodica di un ristorante tricolore. Prendiamo una meta gettonatissima come Ibiza.

Culicchia affila la sua vena sardonica: “Quando l’italiano va a Ibiza pensa solo a tre cose: bere, farsi e scopare, non necessariamente in quest’ordine, che poi sono le stesse identiche cose a cui pensa quando è in Italia, solo che a Ibiza si fa proprio solo quello, mentre in Italia c’è tutto un corollario di rotture e complicazioni, dallo studio al lavoro passando per la famiglia e le bollette da pagare”. Ma il vero lasciapassare perché una vacanza possa dirsi davvero riuscita è lamentarsene come una tortura, esibire sì un’abbronzatura integrale ma condita da una compiaciuta autocommiserazione: “Lo stress è quasi una moda, guai a non dirsi stressati: specie di ritorno dalle vacanze che in teoria avrebbero dovuto alleviare proprio lo stress”.

L’Italia Sacra cade in rovina: Aversa, il furto dei capolavori

Invidio davvero il ministro Dario Franceschini. Invidio la sua capacità di dormire la notte, e di rilasciare di giorno, ai tanti fogli compiacenti e anzi genuflessi, interviste trionfalistiche sui meravigliosi successi del suo ministero. Eppure, Franceschini ha una responsabilità immensa: quella di aver puntato tutto sulla valorizzazione economica di pochi grandi musei redditizi, condannando a morte tutto il meraviglioso patrimonio del nostro Paese. A cominciare dalle antiche chiese, ridotte ormai a carne da cannone.

Dalla metà degli anni venti del Seicento, il cistercense Ferdinando Ughelli iniziò a lavorare al suo capolavoro erudito, una sorta di “geografia e storia” delle diocesi italiane che uscì infine in nove monumentali volumi, tra il 1643 e il 1662. Le biblioteche, gli archivi e le chiese, con le loro iscrizioni e i loro monumenti visivi, avevano alimentato quello straordinario ritratto dell’Italia Sacra: geniale fin dal titolo. Oggi, dopo quasi quattro secoli, mentre brancoliamo in un Alzheimer collettivo che ci strappa via ogni giorno un brandello di storia e memoria, l’Italia Sacra materiale che Ughelli (ma anche solo la generazione dei nostri genitori) aveva conosciuto si va inesorabilmente sgretolando. In un terribile silenzio.

Prendiamo un solo caso: la Maddalena di Aversa. Fondata nel 1269 come chiesa di un ospedale per i lebbrosi, il complesso che la ospita si trasformò nel Quattrocento in convento francescano, e nell’Ottocento in manicomio, le “Reali case de’ matti”. Ma i matti siamo noi, direbbe De Gregori: noi che oggi lasciamo la chiesa nella condizione documentata in queste foto diffuse dall’associazione “in Octabo”, che le ha commentate così: “Tutti sapete in quali condizioni di abbandono e degrado versi tutto il complesso, ma queste foto denunciano un grave pericolo per il nostro patrimonio artistico. Come vedete la statua di San Paolo che era collocata nella nicchia a destra non c’è più, è adagiata a terra supina poco più avanti. È evidente che qualcuno ha cominciato a smontare l’altare per trafugarlo quando ci saranno le condizioni favorevoli, magari approfittando delle vacanze estive durante le quali la città si svuota. Dobbiamo impedirlo con ogni mezzo, si tratta di un vero capolavoro, opera di Giovanni da Nola e Giovan Domenico D’Auria. Abbiamo allertato chi di dovere ai massimi livelli, ma sta a ognuno di noi cittadini vigilare perché questo scempio non avvenga. All’erta”. Riccardo Naldi, professore di Storia dell’arte moderna all’Orientale e tra i massimi studiosi della magnifica stagione della scultura rinascimentale napoletana, mi ha scritto: “Oggetto a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso di sistematiche spoliazioni, la chiesa ormai si presenta come un vero e proprio scenario di guerra. Il tetto in legno è completamente crollato; l’edificio è a cielo aperto. Per puro miracolo, grazie al fatto che hanno coperture in muratura, sono rimasti in piedi l’atrio e il presbiterio della chiesa, che conservano alcuni capolavori della scultura del Cinquecento. Nell’atrio vi sono dei sepolcri; nel presbiterio una pala d’altare. È ormai da tempo che le autorità competenti sono informate di questa situazione; ma, purtroppo, niente è stato fatto”.

Siamo nello stesso Paese che continua a organizzare mostre? Che spende 18 milioni di euro pubblici per l’Arena del Colosseo? Che gioisce dei 6,675 milioni (su 248!) assegnati alla “cultura” dal Pnrr, che poi sono tutti per il turismo, per pericolose “riqualificazioni” di borghi, per “messe in sicurezza antisismiche” solo per gli edifici ecclesiastici (per regalare un po’ di soldi alla Cei)? Un Paese che rimuove la vera urgenza culturale: mettere in sicurezza uno sterminato patrimonio culturale abbandonato alla rovina ed esposto a saccheggi e rapine di ogni tipo.

Non c’è regione d’Italia, neanche quelle del ricco Nord, che non sia costellata di antiche chiese in abbandono. Per rendersene conto basta farsi un giro su uno dei siti o dei profili degli appassionati di Urban exploration (Urbex), l’attività di esplorazione e fotografia dei siti abbandonati. Per esempio, quello, curatissimo e dunque davvero inquietante, di Ascosi Lasciti, dove un’intera sezione è dedicata alle “Aree sacre: chiese, conventi e cimiteri abbandonati”. Dalla rete, questo singolare genere sta transitando sul mercato editoriale tradizionale: del 2020 è, per esempio, Chiese abbandonate. Luoghi di culto in rovina, un libro fotografico di Francis Meslet che ritrae e commenta 37 chiese in rovina in tutta Europa, di cui due in Piemonte, due in Liguria, quattro in Lombardia, una in Trentino, una a Venezia, una in Umbria. Gallerie di immagini che dovrebbero pur scuotere chi, di tutto questo, ha la responsabilità. Ma basterebbe anche Wikipedia: che raccoglie sotto la voce “Chiese sconsacrate” una impressionante rassegna di disastri.

Un rosario di sconfitte, di morti annunciate. Di recuperi ancora possibili: cominciando dalle statue di Aversa, vi imploro…

Un laser contro i droni: è questa l’arma del futuro

Primi test con successo in Israele per un innovativo sistema laser aereo in grado di distruggere l’aviazione più letale di questi anni a basso costo: i droni. Come parte dei test, il laser ha colpito diversi velivoli senza equipaggio che volavano a varie altitudini e distanze diverse. Il sistema è stato sviluppato da Ebit Systems e i test sono stati eseguiti in coordinamento con l’IAF e l’Amministrazione per lo sviluppo delle armi e le infrastrutture tecnologiche del ministero della Difesa (MAFAT). La guerra in Libano del 2006 portò allo sviluppo tecnologico che pochi anni dopo diede vita all’Iron Dome, il sistema antimissile particolarmente efficiente ma che ha un costo elevato (50.000 dollari ogni colpo). Di qui l’esigenza di trovare un sistema alternativo e a un costo minore. Il progetto prevede un laser aereo, sviluppato dalla Elbit per i droni, e un laser terrestre sviluppato dalla Rafael Advanced Weapons Systems per i missili. L’intercettazione utilizzando un sistema laser aereo ad alta potenza presenta molti vantaggi, oltre al risparmio, la capacità di intercettare minacce provenienti da lunghe distanze, operando a grandi altitudini senza restrizioni legate a condizioni meteorologiche, fornendo così una zona protetta su vaste aree. Secondo il capo del MAFAT, il generale Yaniv Rotem, il completamento dei prototipi richiederà tre-quattro anni, e spera che per allora possa essere implementato il primo sistema per la difesa delle comunità vicine al confine di Gaza, le più bersagliate dai missili di Hamas. Il sistema, ha spiegato Rotem, è completamente automatizzato: “È un sistema ottico molto avanzato, con capacità di monitoraggio e intelligenza artificiale. Non appena un bersaglio si sposta in un’area di interesse, il sistema lo aggancia. Questo sistema sarà montato su aerei. In seguito, riducendo le sue dimensioni, potrebbe essere montato anche su altre piattaforme”, cioè su basi mobili a terra. I droni, ha aggiunto Rotem, restano l’obiettivo principale ma i laser potranno intercettare anche missili in arrivo da Paesi nemici come l’Iran, “il nostro obiettivo è che il sistema abbia la capacità di intercettare bersagli a distanze di centinaia di chilometri entro un decennio”.