Macron si sfila da Centrafrica e Sahel: restare non conviene

Siamo a un punto di svolta? A qualche settimana di intervallo, due pilastri della presenza francese nel continente africano hanno cominciato a vacillare. A fine aprile, la Francia ha sospeso la cooperazione militare e gli aiuti al budget alla Repubblica Centrafricana, paese i cui dirigenti sono stati a lungo messi al potere o allontanati in funzione degli interessi di Parigi. Poi, il 10 giugno scorso, Emmanuel Macron ha annunciato “la fine dell’operazione Barkhane come missione esterna” e la sua trasformazione in “operazione di supporto, sostegno e cooperazione con gli eserciti dei paesi della regione che lo desiderano”.

Le modalità per il ritiro dei 5.100 soldati francesi mobilitati nella regione del Sahel attraverso l’operazione Barkhane, la più importante a livello militare all’estero della Francia dopo la guerra d’Algeria, dovrebbero essere chiarite entro fine mese. I due annunci, sulla Repubblica Centrafricana e sul Sahel, non sono stati realmente una sorpresa. Dalla fine dell’operazione Sangaris nella Repubblica Centrafricana, nell’ottobre 2016, Parigi non ha mai mostrato interesse a mantenere una presenza forte in questo paese segnato dalle violenze (l’ultima coalizione formata da gruppi armati, la Coalizione dei patrioti per il cambiamento-Cpc, ha preso le armi nel dicembre 2020 per rovesciare il presidente Faustin-Archange Touadéra). A sua volta, il graduale ridimensionamento dell’operazione Barkhane era stato più volte annunciato e regolarmente rinviato. I due gesti forti, a distanza di poco tempo, confermano la nuovo politica del’Eliseo in Africa. Un “Afghanistan alla francese”: così è stata spesso definita l’operazione Barkhane, lanciata nel 2014 per lottare contro i gruppi jihadisti nel Sahel. Già nel dicembre 2020, il capo di stato maggiore delle forze armate, François Lecointre, parlava di parziale ritiro delle truppe francesi. Ma bisognava trovare un modo per farlo evitando di dare l’impressione di aver fallito: i gruppi armati jihadisti sono più numerosi e potenti oggi che nel 2014 e i civili, nigeriani e maliani, sono vittime più che mai di violenze.

Le autorità maliane hanno inconsapevolmente offerto a Parigi una buona opportunità per annunciare l’atteso ritiro: con metodi poco costituzionali, il colonnello Assimi Goïta ha preso il potere il 24 maggio scorso (diventando presidente di transizione), nove mesi dopo il precedente colpo di Stato contro il presidente Ibrahim Boubakar Keïta. Emmanuel Macron ha afferrato la palla al balzo: “Non resterò al fianco di un paese che non ha legittimità democratica né di transizione”, ha detto il presidente al Journal du dimanche. La fine della cooperazione militare bilaterale con la Repubblica Centrafricana, anche se meno spettacolare (solo una manciata di operatori era ancora distaccata presso il ministero della Difesa centrafricano), ha seguito la stessa logica: la volontà di disimpegnarsi nelle “guerre impossibili da vincere”. La Repubblica Centrafricana non è il Sahel. I gruppi armati che operano qui non sono jihadisti e hanno metodi diversi. Ma anche qui le truppe francesi si sono trovate a combattere una guerra asimmetrica, impossibile da vincere, contro avversari numerosi e frammentati, che possono contare su un certo appoggio popolare.

Per giustificare il progressivo ritiro di Barkhane, Macron ha detto che “le operazioni esterne, che coinvolgono più di cinquemila uomini da diversi anni, non sono più adatte alla realtà degli scontri”. Come nel Sahel, la Francia aveva da guadagnare poco militarmente nella Repubblica Centrafricana, ma molto da perdere in termini di immagine. Negli anni era salito un certo risentimento nei confronti di soldati giudicati impotenti e loro stessi a volte colpevoli di violenze. La presa di distanza da Bangui conferma un’altra tendenza di fondo: il graduale disimpegno della diplomazia francese dall’Africa centrale, con la sola eccezione del Ruanda. “Si conferma, malgrado le visite a Bangui del novembre e dicembre 2018 dei ministri francesi degli Esteri e della Difesa, una generale impressione di ‘discreta indifferenza’ strategica nei confronti dell’Africa Centrale”, notava già nel 2019 lo storico e antropologo François Gaulme in una nota del’Ifri, l’Istituto francese per le relazioni internazionali. Il ritiro graduale dell’operazione Barkhane passerà per la chiusura delle basi militari francesi nel nord del Mali e il ridispiegamento delle truppe rimanenti in Niger e nel Ciad.

Se questo piano si conferma, si confermerà anche una terza opzione adottata dalla diplomazia francese: riaffermare la propria cooperazione politica e militare con capi di Stato e di governo ritenuti sufficientemente franco-compatibili e, se necessario, condannare pubblicamente gli altri. Maliani e centrafricani ne hanno pagato le conseguenze. Al di là delle ragioni militari che hanno determinato la sospensione della cooperazione con questi due paesi, esistono anche ragioni politiche, che si possono riassumere con due espressioni: “sentimento anti-francese” e “influenza russa”.Il presidente centrafricano Faustin-Archange Touadéra e il suo entourage sono stati pubblicamente accusati da Emmanuel Macron di aver alimentato un sentimento anti-francese nella Repubblica centrafricana e aver permesso la “presenza di mercenari predatori russi ai vertici dello stato”. In Mali, e più in generale nel Sahel, questo “sentimento anti-francese” si manifesta nella forma di una critica all’imperialismo e al neocolonialismo incarnato dalla presenza militare francese. A Bamako o a Ouagadougou, in Burkina Faso, centinaia, talvolta migliaia di manifestanti si radunano regolarmente dal 2019 al grido di “Abbasso la Francia” o “Stop Barkhane”. I capi di stato di questi paesi sono accusati da Parigi di non difendere il partner francese. Invece in Ciad sono state di recente bruciate alcune bandiere francesi, ma le proteste non sono importanti come nell’Africa occidentale. Le autorità ciadiane inoltre sono considerate “franco-compatibili”: a differenza delle nuove autorità maliane, non sono sospettate di voler aprire il dialogo con i gruppi jihadisti, né di aprire la porta a leader religiosi sospettati di professare un “Islam radicale”.

Questa convergenza di vedute con N’Djamena, così come la presenza chiave dell’esercito ciadiano nelle operazioni congiunte contro i gruppi jihadisti nel Sahel, spiega in parte perché la Francia ha avallato il colpo di Stato di fine aprile del figlio del defunto presidente Idriss Déby. Il 10 giugno, Macron ha ribadito che il dialogo con i jihadisti rappresenta per lui una “linea rossa”: “Come spiegare ai genitori di un soldato francese che loro figlio è caduto in battaglia al fianco di un esercito che negozia con gli assalitori. Questa ambiguità esiste, e fintanto che non è risolta, non posso riprendere le operazioni congiunte e non lo farò”. Si conferma in questo modo la tendenza della politica africana di Macron, destinata essenzialmente a un pubblico francese. Secondo il ricercatore Yvan Guichaoua, della Brussel School of International Studies, nella politica africana di Macron esiste “una sorta di recupero delle questioni di politica interna e politica estera” dovuto alla “nostra incapacità di pensare che uno Stato possa essere costituito in modo diverso dal nostro”. Il riferimento del presidente francese ai “genitori di un soldato francese” caduto sul campo di battaglia, ci ricorda anche che Macron, malgrado prenda decisioni che non sempre piacciono allo stato maggiore delle forze armate, si preoccupa di non urtare la sensibilità dei membri di alto livello dell’esercito, con il quale non sempre ha mantenuto buoni rapporti (e che lo ha mostrato anche di recente attraverso dei manifesti febbrili sulla presunta “disgregazione” della Francia). Ciò spiega di certo anche perché, nell’attesa questione delle scuse ai sopravvissuti del genocidio dei Tutsi in Ruanda, Macron è rimasto molto cauto quando si è trattato di parlare del ruolo che aveva svolto l’esercito francese.

Traduzione di Luana De Micco

Malta ora scopre il lato spiacevole del boom della “finanza digitale”

M alta ha scommesso il suo futuro sul fintech, il settore all’incrocio tra finanza e tecnologie digitali. Intelligenza artificiale, servizi bancari, gioco online (iGaming), blockchain, criptovalute sono stati i motori di un percorso di crescita che negli ultimi anni ha attratto nell’arcipelago al centro del Mediterraneo migliaia di giovani altamente qualificati da ogni parte del mondo e oggi valgono un quinto del Pil. Dall’ingresso nella Ue nel 2004, il Pil di Malta è più che raddoppiato. Prima della pandemia, l’economia isolana era cresciuta del 6,7% nel 2018, quinto anno consecutivo con aumenti oltre il 5%.

La corsa disordinata allo sviluppo, però, da medicina si è trasformata in veleno. Da anni, con un’accelerazione dopo il 16 ottobre 2017, quando la giornalista Daphne Caruana Galizia fu fatta saltare in aria per le sue indagini sulle mazzette al governo isolano, la comunità internazionale ha criticato la politica maltese per le falle nei controlli finanziari, la vendita di passaporti a ricchi stranieri, il lassismo contro la corruzione. Le lacune mostrate da Malta nella governance dei controlli sulla nuova frontiera finanziaria ora rischiano di costare carissimo al Paese più piccolo dell’Ue: mercoledì 23 giugno l’isola è stata inserita nella lista grigia degli Stati “inaffidabili” dalla Task force intergovernativa di azione finanziaria (Fatf), l’organismo di vigilanza mondiale contro il riciclaggio di denaro e il finanziamento del terrorismo. Se La Valletta non rimedierà al più presto per uscire dall’elenco di “monitoraggio rafforzato” della Fatf, le ricadute per la sua economia potrebbero essere devastanti.

La Task force di azione finanziaria (Fatf), istituita nel 1989 dal G-7, è un organismo intergovernativo che protegge il sistema finanziario globale contro il riciclaggio e il finanziamento del terrorismo. Dal 2000 pubblica periodicamente elenchi di Paesi carenti sull’antiriciclaggio. A febbraio, erano 19 gli Stati che la Fatf aveva posto in lista grigia, tra i quali Zimbabwe, Siria, Panama, Myanmar e Albania, e due nella lista nera, Iran e Corea del Nord. Finire elencati tra i “cattivi” sulla lavagna della Fatf non è indolore: il “greylisting” costa in media ai Paesi castigati un calo degli afflussi di capitali pari al 7,6% del Pil, una riduzione degli investimenti diretti esteri del 3% e un taglio agli altri flussi finanziari del 3,6%.

Lo spiega uno studio pubblicato il 27 maggio dal Fondo monetario internazionale che ha analizzato l’impatto sui flussi finanziari verso 89 Paesi emergenti e in via di sviluppo finiti nella lista grigia tra 2000 e 2017: per questo gli Stati sotto esame cooperano con la Fatf per uscire al più presto dall’elenco dei discoli. Ma all’Islanda, il Paese che ci ha messo meno tempo, è servito comunque un anno per venirne fuori.

Il primo ministro maltese Robert Abela sostiene che la decisione del cane da guardia dell’antiriciclaggio globale è stata “ingiusta”: “Rimaniamo impegnati a fare tutte le riforme necessarie per preservare l’interesse nazionale. Non saremo mai poco collaborativi o ostruzionisti, ma intensificheremo la nostra determinazione a combattere il riciclaggio di denaro e il finanziamento del terrorismo internazionale”, ha promesso Abela. Il fatto è che ormai Malta è divenuta un hub globale per il gioco online e la distributed ledger technology. Nel 2018 il Paese ha lanciato l’Autorità maltese per l’innovazione digitale (Mdia), un’agenzia governativa di sviluppo che ha puntato a ottenere il riconoscimento globale come “isola blockchain”. Nello stesso anno, molti tra i maggiori exchange, le piattaforme di scambio di criptoasset, iniziarono a operare a Malta senza licenza, grazie al “regime transitorio” in vigore all’epoca, trasformando il Paese nel “selvaggio West” del mondo cripto. Secondo un’inchiesta del quotidiano Times of Malta, dagli albori dei criptoasset, quando i controlli erano deboli, dall’isola sono passate transazioni sulle valute digitali per 60 miliardi di euro. I flussi e l’assenza di controlli misero in allarme la Commissione Ue e a luglio 2018 La Valletta approvò leggi sul settore. Ma l’impulso statale per attrarre piattaforme digitali e l’alto volume di operazioni – peraltro pari ad appena il 2% globale – sono stati considerati “problematici” dalla Fatf.

Il vero boom negli ultimi anni però è stato generato dall’industria dei giochi, grazie allo sviluppo dell’iGaming, con Malta divenuta in pochissimi anni un centro di eccellenza globale del settore. Il valore aggiunto lordo annuale generato da questo comparto è cresciuto del 263,7% tra il 2011 e il 2019, quando il gioco online rappresentava il 12,4% del Pil rispetto al 7% del 2011. Prima della pandemia, nell’isola erano attive 294 società del settore che trainavano anche i servizi finanziari e assicurativi, l’immobiliare, l’Ict. La crescita dell’occupazione nel comparto è stata impressionante, con la forza lavoro aumentata di quasi tre volte da 3.240 addetti nel 2011 ai 9.120 del 2019, pari al 3,7% di tutti gli occupati di Malta rispetto all’1,9% nel 2011. A giugno 2019, prima della crisi innescata dal Covid, il 68,6% di questi lavoratori erano cittadini comunitari e di Paesi terzi. Si era arrivati addirittura alla carenza cronica di competenze nell’iGaming: secondo l’Autorità maltese per il gioco (Mga), a fine 2018 il settore cercava invano 730 specialisti, il 9% della sua forza lavoro. Poi la pandemia ha spinto molti lavoratori stranieri a lasciare il Paese.

Proprio i giochi, che richiedono strumenti e piattaforme di pagamento online, hanno dato nuova linfa ai servizi finanziari dell’isola dopo 20 anni di crescita ininterrotta spinta dalla fiscalità di vantaggio. Dal 2011 al 2019 la finanza maltese si è evoluta nel fintech e ha segnato una crescita del valore aggiunto lordo del 44%, rappresentando il 77,8% del totale dei nuovi investimenti diretti esteri (Ide) nel 2018 e oltre il 97% dello stock di Ide, con un peso del 5,5% sul Pil che sale al 9% coi settori ancillari. La forza lavoro del settore è cresciuta del 28,1% dal 2011 al 2019, fino a rappresentare il 4,8% degli occupati totali del Paese.

Sotto la supervisione della Fatf, tocca ora alla Valletta dimostrare che Malta è matura per rimettere ordine nel proprio percorso di sviluppo finanziario. Solo così il pharmakon della tecnologia, da veleno, potrà tornare medicina.

La “app” non ti riconosce? Perdi la disoccupazione

La storia è paradossale e divertente, ma anche terribile a ben guardarla. La settimana scorsa, negli Stati Uniti, molti cittadini hanno protestato sui social network perché non riuscivano ad accedere al sistema per ricevere le loro indennità di disoccupazione. In pratica, l’applicazione incaricata di autenticarli con il riconoscimento facciale semplicemente non li riconosceva. A raccontarlo è Motherboard che ha tracciato le proteste online e ha raccolto anche le repliche dell’amministratore delegato dell’azienda, lo stesso che per settimane aveva propagandato un rischio miliardario di frode sull’elargizione delle indennità.

La app ID.me per il riconoscimento ricorre a una confronto tra informazioni biometriche e documenti ufficiali per confermare che chi accede sia davvero chi afferma di essere. Le denunce del problema sono aumentate dopo che la Axios ha pubblicato un articolo sulle minacce di frode legate alle indennità di disoccupazione basato sulle statistiche fornite proprio da ID.me.

Secondo le testimonianze, il sistema avrebbe avuto grosse difficoltà a identificare persone che avevano effettivamente diritto all’indennità e in molti hanno sottolineato che – come peraltro dimostrato da diversi studi fino ad oggi – i modelli di riconoscimento facciale siano meno accurati nel riconoscere donne e persone di colore.

Da lì, quindi, domande in attesa, rallentamenti nelle ulteriori verifiche, ritardi nel riconoscimento del sussidio. “In California – scrive Motherboard – 1,4 milioni di account di beneficiari di disoccupazione sono stati improvvisamente sospesi a Capodanno e ai beneficiari è stato richiesto di verificare nuovamente la propria identità, processo che molti hanno trovato difficile e li ha portati ad aspettare settimane per riattivare i propri account”. Situazioni simili si sono registrate in Colorado, Florida, North Carolina, Pennsylvania, Arizona.

Blake Hall, Ceo di ID.me, ha replicato che gli algoritmi utilizzati hanno un’efficacia del 99,9% e che non esiste alcuna relazione tra il tono della pelle e il fallimento di Face Match, perché la comparazione verrebbe fatta con il documento d’identità fornito. Il problema, secondo Hall, starebbe nell’incapacità degli utenti di utilizzarlo correttamente.

Quale che sia il motivo, però, le dichiarazioni del Ceo nelle settimane precedenti alla polemica hanno acuito le proteste. Secondo il sito d’inchiesta, almeno 21 stati utilizzano ID.me per evitare richieste fraudolente di benefici e la diffusione della tecnologia avrebbe coinciso con un “aggressivo blitz mediatico da parte di Hall”, che “ha alimentato i timori sulla crisi della disoccupazione fraudolenta utilizzando alcune statistiche fluide”.

Da febbraio, aveva diffuso numeri secondo cui le truffe in corso erano costate al Paese tra i 200 e i 400 miliardi di dollari. “Poiché abbiamo selezionato i ricorrenti esistenti in più stati, abbiamo avuto più dati – ha spiegato – A giugno, ho stimato la perdita di oltre 400 miliardi di dollari in linea con le stime passate”. Salvo però non rispondere alle domande su come quei dati siano stati calcolati.

Il Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti ha affermato che tra marzo e ottobre 2020 ha scoperto solo 5,6 miliardi di dollari in pagamenti di disoccupazione potenzialmente fraudolenti, mentre secondo i dati più attuali le perdite sarebbero in realtà più elevate. L’agenzia ha stimato che sarebbero “nell’ordine delle decine di miliardi di dollari”.

Nudi per pagare le bollette: il Covid fa esplodere Onlyfans

La pandemia è un mostro a tre teste che ha consumato salute, lavoro, istruzione. In poco meno di un anno la realtà come era conosciuta si è capovolta. Ognuno ha fatto ciò che ha potuto, chi non ha trovato alternative ha cercato delle scorciatoie e magari ha scoperto di poter guadagnare davvero tanto.

Lulumiss ha poco più di 18 anni, è americana ed ha un fisico minuto. L’eyeliner è lungo ai lati degli occhi, ha movenze feline e il modo in cui è vestita ricorda un personaggio dei manga giapponesi. Su Tik Tok – il social cinese fino a poco tempo fa regno dei ragazzini e oggi invece preso d’assalto da enormi quantità di adulti – pubblicizza il suo canale su OnlyFans. Lo fa con sapienza, uno slalom tra le regole rigide della piattaforma che potrebbe bannarla al primo accenno di nudità: Lulumiss utilizza tutti gli escamotage grafici per evitare che algoritmi e moderatori si accorgano di cosa stia parlando. Musichetta, ammiccamenti, occhiolini e frasi in sovrimpressione “Quando avresti voglia di…. ma sai che non è ancora ora. Ma che dite, lo carico un nuovo video su OF solo per voi? Seguitemi!”. È solo una della schiera di ragazze ormai assorbite dalla piattaforma. Lo spiega in un altro video su Tik Tok: “Ero una cameriera, guadagnavo 1.050 dollari al mese. Poi il Covid ha decimato i clienti, la tavola calda in cui lavoravo ha chiuso, io sono stata mandata a casa. Ma adesso guadagno anche 3mila e faccio come mi pare!!!”

OnlyFansè una piattaforma per la pubblicazione di contenuti a pagamento. Chiunque può aprire un account e pubblicare, ma gli utenti possono raggiungerli solo se si abbonano mensilmente al profilo. Sempre pagando possono riceverne anche altri in privato, in base a richiesta e tariffa del titolare del profilo. In pratica, il sito nasce con l’idea di permettere ai vip e ai personaggi famosi di avere contatti diretti e privati con i loro fan e soprattutto di monetizzare questo rapporto senza intermediari, concedendo l’accesso a contenuti esclusivi e su richiesta. Molti, in verità, lo fanno. Soprattutto con la pandemia, tantissimi personal trainer o esperti, hanno aperto uno spazio su OnlyFans per quelle prestazioni che non erano più in grado di fornire nella realtà. Negli anni, però, dalla sua fondazione nel 2016 rapidamente è diventata anche la piattaforma di sfogo per la pornografia più o meno amatoriale. In un primo momento, l’azienda aveva anche provato a frenare quella che considerava una deriva, poi ha di fatto lasciato correre.

Ad oggi, Onlyfans, conta 120 milioni di utenti, cento milioni in più del periodo pre-pandemia. Più connessione, maggiore ricerca di intrattenimento online, boom di contatti sui social network e quindi maggiore pubblicità alla piattaforma stessa hanno contribuito a farla entrare nell’abc del bagaglio social di ogni utente. Anche per questo momento d’oro la società pare stia pensando di vendere azioni a nuovi investitori. Secondo i documenti depositati alla Companies House inglese la scorsa settimana, Fenix ​​International – che è la società madre con sede nel Regno Unito – ha aumentato il numero di azioni da 100 a 1 milione e secondo i rumors riportati dal Financial Times e da Bloomberg, il management starebbe discutendo se “allargare la proprietà”.

I fan, mediamente, per abbonarsi ai contenuti di un utente pagano tra le 5 e le 50 sterline al mese, la piattaforma si tiene il 20 per cento di tutte le operazioni. Ad aprile OnlyFans aveva rivelato un aumento delle transizioni di sette volte per un volume di 1,7 miliardi di sterline. Un bel traguardo per un’azienda fondata in famiglia da Tim Stokely e da suo padre Guy, un ex banchiere di investimenti Barclays, e che ora prevede utili ante imposte di oltre 300 milioni di sterline nell’esercizio finanziario fino a novembre. L’anno scorso ha distribuito 20 milioni di sterline di dividendi, andati per lo più a Radvinsky, il proprietario di MyFreeCam, dunque un “barone” del porno, che ne ha acquisito il 75% nel 2018.

Gli utenti arrivano per lo più dall’America Latina e l’Europa continentale. Nel 2020 e fino a novembre, i ricavi erano cresciuti di oltre sette volte a 283,5 milioni di sterline, mentre l’utile ante imposte è passato da 6 milioni a 53 milioni di sterline, secondo i documenti aziendali. Numeri e stime che fanno pensare che potrebbe avere una valutazione multimiliardaria se decidesse di quotarsi in Borsa.

A fine 2020 però, OnlyFans si è trovato nel mezzo di una protesta dei suoi stessi utenti. Sulla piattaforma, improvvisamente, sbarca l’ex volto della Disney, oggi attrice e cantante, Bella Thorne. Lo annuncia sui social e i suoi follower, 2 milioni circa, si inscrivono in massa perché credono che lì venderà i suoi nudi. Invece, le foto che elargirà a circa 200 dollari, sono tutt’altro che erotiche. In pochissimo tempo OnlyFans viene inondata di richieste di risarcimento da parte degli utenti e come reazione (nonostante la società abbia smentito il collegamento) la piattaforma prima inserisce nuove regole e fissa dei paletti sugli importi che gli utenti possono addebitare per le foto, poi rallenta i tempi di pagamento: non più a una settimana dall’introito, ma dopo un mese. L’azienda è così costretta a fare i conti con l’identità che la piattaforma ha assunto e che a lungo ha finto di non vedere. Allontanare la reputazione che si è fatta in questi anni, anche in vista di una quotazione, non è così facile. Tanto che i sex workers che la animano e che, nel periodo del Covid, l’hanno avuta come unica fonte di guadagno possibile, iniziano una protesta. “Non abbiamo bisogno di celebrità main stream per normalizzare i lavoratori del sesso – spiega la pornostar Lucie Bee in una intervista – Questa industria è piena di persone e abbiamo solo bisogno di normalizzare i volti di coloro che già sono su questa piattaforma. Non si rendono conto del danno che fanno in sole 24 o 48 ore nella nostra community”.

Oggi, il timore dei lavoratori del sesso è infatti che all’improvviso OnlyFans, anche nell’ottica di allargarsi a nuovi investitori, li censuri. “Molti vip e influencer stanno entrando in questo mondo, adiacente a quello dei sex worker – dice Bee – Loro possono interromperlo domani e tornare alle loro vite e starebbero benissimo. Noi invece non abbiamo scelta, questo è il nostro lavoro, serve a pagare le bollette e provvedere alle nostre famiglie”. La piattaforma è in sostanza di fronte a un bivio: provare a diventare mainstream con personaggi che poco abbiano a che fare con il mondo del sesso o continuare a cavalcare quello che finora è stato il suo principale motore.

“In termini di economia di scala, Only Fans ha le potenzialità per aprirsi a nuove aree geografiche e nuovi tipi di contenuti – scrive Karl Njeim per il progetto Digital Initiative della Harvard Business School – . In effetti, è già globale ed ha anche contenuti non erotici: alcuni personal trainer, influencer e celebrità la utilizzano per condividere prodotti esclusivi e avere il controllo della loro immagine”. In termini di sostenibilità, però, è difficile prevedere se questa crescita, alimentata dalla pandemia, sia destinata a durare. “Con più celebrità e influencer che accedono al sito, possiamo aspettarci una certa crescita; tuttavia, realisticamente, non sarà così importante come quella osservata durante la pandemia” conclude Njeim.

Nel mezzo, restano le giovani donne che hanno deciso di farne una professione. “Vendo foto dei miei piedi e dei miei nudi. E posso pagarmi gli studi. Non capisco perché nel 2021 è vista ancora così male – dice su Tiktok una ragazza italiana @becca_worldvision – La maggior parte delle critiche, poi, arrivano da uomini. Non capisco perché non va bene se guadagno vendendo contenuti: devo per forza spaccarmi la schiena?”.

“Fare il bagno al largo per vedere da lontano gli ombrelloni”

Ascolto un antico successo di Bruno Martino, bravissimo cantante che ce l’aveva sempre con l’estate: “Odio l’estate, tornerà un altro inverno. Cadranno mille petali di rose. La neve coprirà tutte le cose e il cuore un po’ di pace troverà”. Devo essere sincera io la penso un po’ come lui. A parte il piacere di qualche bagno, restare inerte con la sabbia tra le dita dei piedi nudi, il sapore di sale, la solitudine dei miei pensieri, osservo l’orizzonte e sento la necessità di allontanarmi da questa spiaggia. Mi guardo intorno e visualizzo orrendi corpi nudi, che per legge non dovrebbero andare al mare, a meno di indossare mute da subacquei o attrezzature da palombari. Qualcuno dirà, trasferiteli in montagna!

Ma anche lì, malgrado gli scarponi, giacche a vento e tutone, qualche piccola parte dei loro corpi può spuntare fuori all’improvviso. Io non lo posso tollerare. Famiglie intere di pachidermi ustionati, perché notoriamente il sole i ricchi li abbronza e i poveri li brucia, gonfi di birre e timballi, fritti misti del golfo, chissà quale, spaghetti alle vongole veraci che di verace non hanno niente, pesci pescati anticamente in qualche laguna del Laos, e successivamente geneticamente modificati da una ditta specializzata di Castrovillari. No, mi dispiace, io quest’anno al mare non ci posso andare, non c’è niente che mi attiri, a parte la simpatia di quei venditori ambulanti che avvolti da manti e da chincaglierie di ogni tipo, trascinano ceste di cocco fresco, avanzando con passo elegante e sorrisi pacificanti sulla spiaggia rovente. Uomini in frac, ma senza frac, che non vanno mai in vacanza, ma che vivono delle vacanze degli altri.

Qualcuno dirà “tu non ami la gente”! Come no, moltissimo, però per sicurezza mi tuffo e in apnea nuoto oltre le affollate gambone scalcianti, lasciando lontani gli ombrelloni oni oni dell’ennesima estate al mare.

 

Nissim, poesie semiserie. Dilettarsi con le parole (e coi nomi illustri) per scavare il senso profondo

Leggendo il librettino Il sasso di Einstein di Piero Nissim si viene presi in un gioco che sembra infantile (perché sembra lieto e si presenta apparentemente facile) e invece ha la complessità del miniaturista e l’accuratezza dell’intagliatore. Intendo dire che il gesto accurato e ripetitivo dell’artigiano sembra prevalere sullo slancio arrischiato del poeta.

Invece l’apparente ingenuità del bambino dotato, che gioca con le parole e le fa venir fuori in rima e in racconto, non è che la copertura (quasi sempre elegante, ma non sempre spensierata) di una storia più seria. Piero Nissim ci sta raccontando di un vivere e un cantare che, se vuoi, puoi farlo apparire spensierato (e come tale il lettore lo può raccogliere) ma in realtà si porta addosso e racconta una pena. Lo rivela la formula magica che Nissim ha inventato: la parola straniera (traduzione apparentemente giocosa del nome da cui l’autore prende lo spunto), il breve disegno del luogo e del tempo, e una sorta di morale, alla fine, o di rivelazione del senso del piccolo gioco.

Eppure, come mai c’è una lieve, diffusa malinconia, e un senso (un peso) del tempo in questo gioco allegro da ragazzini? Prendete la breve poesia tratta dal nome di Emily Dickinson, un solido nome anglosassone con cui non puoi giocare (tranne che traducendo “figlia di…”). Qui senti un legame forte con la poetessa-personaggio, una potente nostalgia che induce a rinunciare al gioco ma impedisce, anche, di escludere quel nome inadatto. Chi conosce il lavoro, scritto, cantato e suonato di Piero Nissim, sa che queste “rinunce” non ricorrono spesso, perché Nissim non rinuncia mai, e pazienza se la rima del poemetto rimane in sospeso e la melodia resta incompiuta. La storia di Nissim (persona, famiglia, popolo) richiede di non rinunciare perché la presenza sul posto (l’ostinata testimonianza) conta più di un dettaglio.

Detto ciò, quasi tutti i dettagli delle 48 brevi e belle poesie che sono, questa volta, il lavoro di Nissim, funzionano in modo rigoroso. Come se l’autore avesse trovato l’idea di far diventare poemetto l’insieme del suo lavoro, e non tante costruzioni abili e argute su un nome e una storia che esistono già.

Nissim chiama in causa Danilo Dolci e senti subito la sorpresa: le mani buone e rozze di un contadino (che in altri tempi era un architetto), che si è messo a organizzare i contadini dei latifondi abbandonati perché lavorino a rovescio (cioè per propria volontà e senza paga ) e vengono tutti denunciati perché è reato.

La poesia di Nissim entra nel teatro dell’assurdo e la sua missione si allarga, e il suo impegno di poeta civile entra nella memoria italiana.

 

Lavorare nei musei a 4 euro l’ora: il contratto dei “vigilantes” si fa strada nei Comuni

Carlo lavora al museo civico della sua città da più di dieci anni. Nonostante una laurea in beni culturali, pur di non cambiare Paese o settore, lavorava come custode, e non con il contratto di settore (Federculture) ma il contratto Multiservizi, pensato per le ditte di pulizia e le mense scolastiche, ma divenuto già dalla fine degli anni 90 il più diffuso nel settore dei beni culturali (musei, archivi, biblioteche…). Adesso però la situazione è peggiorata: con l’ultimo appalto la cooperativa entrante ha vinto proponendo il contratto per i servizi fiduciari e associati (S.A.F.I), proprio della vigilanza privata, non più 7 ma 4,20 euro l’ora per la stessa mansione.

Quello di Carlo è un nome di fantasia, ma non lo è la storia. Il contratto dei servizi fiduciari si sta estendendo a velocità preoccupante nei luoghi della cultura. E la pandemia, con il crollo dei visitatori, ha imposto un’ulteriore accelerazione. Seppur ancora marginale (secondo i dati raccolti dall’associazione Mi Riconosci nel 2019, era applicato nel 2,5% dei casi, mentre il Multiservizi copriva il 24% delle risposte), tutte le evidenze indicano una crescita del fenomeno. Nei Musei di Milano è arrivato nel 2017, prima utilizzato dal “Sole 24 ore Cultura”, che adoperò il personale di SecurItalia per le sue mostre, poi dal Comune con un appalto del 2018: il lavoratori furono inquadrati con compensi che partivano da 3,5 euro l’ora. È applicato in sempre più musei di Roma, dal MAXXI a Palazzo Barberini. A Trieste, dove il nuovo contratto è stato imposto nel 2020, l’intero Comitato paritetico per la cooperazione sociale ha alzato la voce contro il bando che permette all’azienda di proporre un ribasso fino al 25% rispetto alla già limitata base economica precedente, passando alle vie legali. Sui social è rimbalzato di recente il caso del Museo San Domenico di Forlì: 9 lavoratori coinvolti nel cambio di contratto forzoso che, dopo una lunga mediazione sindacale, sono riusciti a ottenere per sé stessi la conferma del contratto precedente. Tutti i nuovi operatori saranno invece assunti con il contratto dei servizi fiduciari. “Se lo fa Forlì, le amministrazioni vicine prenderanno l’esempio. Sarebbe la fine di tutte le cooperative che hanno voluto evitare soluzioni al massimo ribasso”, spiega al Fatto uno dei lavoratori coinvolti. La giurisprudenza fatica a tenere il passo della politica locale. Nel 2019 il Tar di Milano, accogliendo un ricorso, spiegava che “il CCNL Vigilanza Privata e Servizi Fiduciari” (…) si applica al personale cui viene richiesto di effettuare attività di vigilanza e custodia in senso stretto, mentre la procedura di gara riguarda l’affidamento del diverso servizio di gestione integrata delle attività di prenotazione, biglietteria inviti, accreditamenti ed accoglienza” concludendo che “la stazione appaltante ha illegittimamente omesso di rilevare l’inidoneità/impertinenza del CCNL per i servizi fiduciari indicato dalle controinteressate”. Ma con i Comuni alla ricerca di fondi e risparmi, questo contratto sta diventando il nuovo standard al ribasso per gli operatori di musei, archivi e biblioteche. Dal Ministero non arriva alcuna spinta all’inversione di tendenza: anche per questo stamattina, 28 giugno, i lavoratori esternalizzati dei musei manifestano al Collegio Romano.

 

“Parigi non depreda l’Italia”, “No, fa solo i suoi interessi”

Nell’articolo “Gli interessi strategici. Come e perché Parigi sta stracciando Roma” (21 giugno), si afferma che la strategia della Francia sarebbe quella di cercare sistematicamente di appropriarsi degli interessi italiani senza reciprocità. Tuttavia, l’articolo oscura il fatto che queste operazioni sono, ben oltre i luoghi comuni, equilibrate e non menziona le operazioni effettuate da parte di imprese italiane.

Mi permetto di prendere soltanto due degli esempi citati: Stellantis ed Euronext, anche se altri esempi dell’articolo potrebbero essere commentati. Su Stellantis, si tratta di un’alleanza equilibrata nella governance –con un presidente italiano, un vice-presidente francese, e membri del board di diverse nazionalità – e negli assetti azionari dove i pesi dei due paesi sono uguali: questa fusione ha permesso a Stellantis di diventare il 4° gruppo mondiale nell’automobile, e al contrario di quanto affermato le autorità francesi non hanno parlato di rilocalizzare in Francia la produzione delle batterie elettriche italiane. Su Euronext, si tratta di un gruppo europeo. Quest’operazione ha permesso di creare il 1° gruppo nel mercato dei capitali dell’Eurozona. Riunisce le borse di Amsterdam, Bruxelles, Dublino, Lisbona, Milano, Oslo e Parigi, cioè di 7 Stati. È stata realizzata con due partner italiani, fra cui la Cdp, che avrà un ruolo importante nella governance. Come ha ricordato l’Ad, non c’è nessun paese che controlla gli altri in questa operazione, e la borsa francese non avrà più del 26% degli attivi. L’operazione avrà ricadute positive per tutte le imprese europee, nonché per l’Italia, sia a Milano che a Roma, in termini occupazionali.

Per dare una visione più fedele alla realtà degli equilibri nei rapporti tra Francia e Italia, si sarebbe potuto ricordare il peso degli investimenti italiani in Francia. Nel 2019, la Francia è stata il 1° paese di destinazione degli investimenti italiani in Europa (43% dei progetti italiani), seguita da Spagna e Germania. C’è stato un aumento del 26% di nuovi progetti di investimento italiani, che hanno creato o mantenuto quasi 2.200 posti di lavoro in Francia. E nel 2020, anno segnato dalla crisi economica e sanitaria, il bilancio degli investimenti italiani in Francia si attesta a circa 100 progetti confermati, permettendo all’Italia di consolidare la sua 2a posizione come investitore in Francia nell’Ue.

Questi dati dimostrano soprattutto che i ravvicinamenti tra aziende accadono quando c’è un progetto, una volontà e quando ci sono soprattutto dei vantaggi comuni, per crescere ed essere più forti insieme. Non sono assolutamente il risultato di una strategia che vorrebbe “stracciare” l’industria italiana, come lo sanno bene gli imprenditori italiani e francesi che lavorano insieme per fare crescere le loro realtà e creare lavoro.

 

Ringrazio l’Ambasciatore Masset per la sua cortese lettera di risposta, che mi permette di chiarire alcuni punti sollevati. La mia analisi non voleva suggerire l’esistenza di un rapporto predatorio francese nei confronti del sistema economico italiano. Il confronto era funzionale a sottolineare le diversità esistenti fra i due sistemi nel presidiare i reciproci interessi nazionali sui temi industriali strategici. L’articolo celebrava il sistema istituzionale francese come un modello da cui imparare. I rilievi dell’Ambasciatore sui casi Stellantis ed Euronext, non eliminano del tutto le preoccupazioni sulle ricadute future degli accordi rispetto alle attività italiane. A prescindere dal maggior peso francese nel management operativo e dalla presenza non corrisposta dello Stato francese nel capitale di Stellantis, rimangono incerti gli effetti sul sistema italiano delle sinergie annunciate dai rispettivi piani industriali. Ha ragione l’Ambasciatore a menzionare l’importanza dell’interscambio tra i due Paesi, anche rispetto agli investimenti italiani Oltralpe. Va però riconosciuto come non si verifichi una bi-univoca compenetrazione del capitale italiano in Francia per quanto riguarda cruciali attività sistemiche nei settori delle telecomunicazioni, dell’energia, dei media e dei servizi bancari. L’articolo condivide lo spirito di collaborazione fra i due Paesi attorno a progetti industriali che possano portare vantaggi comuni. Si pensi all’esempio di STMicroelectronics riportato nell’articolo, o alla collaborazione tra Naval e Fincantieri, oppure alla joint-venture ATR sui velivoli commerciali e le operazioni Telespazio e Thales Alenia Space. In questi casi l’equilibrio reciproco è stato propiziato e sostenuto da accordi paritetici, sia sul piano della governance che su quello delle attività produttive, tra realtà industriali a controllo pubblico. Questo metodo ha prodotto eccellenti risultati e forse potrebbe essere replicato più spesso.
Simone Gasperin

Draghi dice no all’Ue sulle banche: mica sarà populista?

AMario Draghi, è noto, la grande stampa perdona tutto. E per questo non stupisce che sia stata ignorata la freddezza con cui ha liquidato l’ennesimo flop dei negoziati sul completamento dell’Unione bancaria europea. “Meglio nessun accordo che uno con termini per noi inaccettabili”, ha detto il premier venerdì al termine dell’Eurosummit.

Ci si aspettava di trovare editoriali di fuoco sulla sconfitta dell’Italia, e invece nulla. Come cambiano le cose in poco tempo. A dicembre (governo Conte 2) sembrava il passo decisivo da far compiere all’Unione, imprescindibile. Il Parlamento italiano aveva perfino finto di considerarlo un prerequisito per dare l’ok alla riforma del Meccanismo europeo di stabilità (il Mes) – già decisa da almeno due anni (la famosa “logica di pacchetto”).

L’unione bancaria è un progetto nato dopo la crisi dell’euro, un decennio fa, e racchiude tutte le storture del processo di integrazione europea e gli stereotipi che lo accompagnano. I primi due tasselli, la vigilanza unica e un sistema di “risoluzione” comune sono stati raggiunti, il primo già ai tempi del governo Letta (2013), che lo salutò con entusiasmo. I risparmiatori italiani hanno potuto solo prendere atto che la stagione dei salvataggi pubblici era finita quando il governo Renzi ha maldestramente mandato in risoluzione Etruria&C. previa tosatura degli obbligazionisti. Prima della stretta, Germania e Francia avevano già soccorso le proprie banche, anche indirettamente tramite i programmi di salvataggio della Grecia verso cui erano esposte.

Manca l’ultimo tassello: l’assicurazione comune sui depositi (Edis), indispensabile per condividere i costi delle eventuali crisi. Germania&C., però, non ne vogliono sapere, lo considerano un aiuto ai risparmiatori italiani, a meno di imporre condizioni “inaccettabili” (il tetto ai titoli di Stato in pancia alle banche o altre amenità). Nemmeno la crisi Covid ha cambiato le cose. Se va bene se ne riparla dopo le elezioni tedesche di settembre o nel 2022. Non c’è fretta, perché non serve a Berlino e così nemmeno a Roma. Draghi ha detto un’ovvietà sacrosanta e nessuno ha fiatato. Bene così. Pensate, però, se l’avesse detta Di Maio…

“Ma che è ’na stalla?” Le vacanze intelligenti della porchetta

 

Bocciati

Covid Smeralda. Tre locali della Costa più esclusiva della Sardegna sono finiti nel mirino dei pm, nell’ambito dell’inchiesta della procura di Tempio Pausania sui contagi Covid, della scorsa estate: il Billionaire e il Phi Beach a Porto Cervo e il Country Club a Porto Rotondo. Un avviso di garanzia è stato notificato agli amministratori delle tre discoteche. L’allora direttore del Billio è accusato di epidemia colposa (gli altri per lesioni colpose). Il virus si sarebbe diffuso, spiegano i magistrati, perché venivano messi a disposizione dei lavoratori alloggi con stanze letto e servizi igienici in comune, anche tra dipendenti che avevano contratto il Covid. Non sarebbero state segnalate all’Asl le positività di alcuni camerieri e baristi. In particolare, quando una dipendente è risultata positiva non si sarebbe proceduto ad un’immediata sanificazione del locale. Alle cubiste sarebbe stata data la direttiva di non indossare le mascherine. Ma quindi non è vero che “Il boss ha sempre ragione, anche quando ha torto”…

Fame, I wanna eat forever. Noi siamo nati a Mantova, una delle province con maggior numero di maiali in relazione ad abitanti, e dunque la notizia che segue ci ha colpito particolarmente. Una statua in onore della porchetta è stata posta la settimana scorsa in Piazza San Giovanni della Malva, a Trastevere. Il pregevole manufatto fa parte del progetto “Piazze Romane”, promosso dal I Municipio in collaborazione con la Rufa, la Rome University of Fine Arts (ve lo ricordate Saranno famosi?) per valorizzare il made in Italy, anche dal punto di vista culinario. La statua della porchetta, firmata dallo scultore Amedeo Longo, ha fatto incazzare tutti, dagli animalisti ai residenti. E dopo giorni di polemiche l’opera d’arte (che ha pure un titolo “Dal panino si va in piazza”) è stata vandalizzata dagli animalisti. Infine è stata rimossa, ma solo per essere restaurata e poi reinstallata. Anche perché pare ci siano Comuni italiani che chiedono di poter ospitare l’opera d’arte.. Noi qui vogliamo solo chiedere ai responsabili del Municipio I di Roma di far riparare i condizionatori per riprendersi dalla botta di calore che li deve avere colpiti a tradimento. Alternativamente possono riguardare le Vacanze intelligenti di Alberto Sordi e Anna Longhi che alla Biennale, davanti all’installazione con pecore viventi, si domandano: “Ma che è ‘na stalla?”.

Non classificati

Please, Madame. Gianni Morandi, in un’intervista al Giornale, interviene nel caso di Madame, che si era lamentata sui social dell’eccessiva attenzione di un fan mentre mangiava con i genitori. Dice il saggio Morandi: “Capisco Madame, la capisco. Sono cose un po’ vere quelle che dice. Ma bisogna tenere botta. Talvolta ti disturbano ma fa parte del gioco. E poi bisogna sempre pensare che magari un giorno potrebbe dispiacerti se non ti venissero più a cercare. Comunque De Gregori descrisse questa situazione nel brano ‘Guarda che non sono io’. Ricordo che una volta ero a tavola con Lucio Battisti. Una signora ci vede e si avvicina per chiederci un autografo. Lucio le disse: ‘Ma non vede che stiamo mangiando?’. La signora ci rimase male e anche io…”. Va detto che almeno per ora questa signorina così assertiva non sembra fare lo stesso concorso di De Gregori e nemmeno di Battisti.

In ginocchio da te. I giocatori della Nazionale sabato non si sono inginocchiati, nonostante l’indignazione dello stagno di Twitter e il pensoso monito del segretario del Pd. La cosa deve averli mandati completamente in tilt, visto che il Capitano Chiellini è riuscito a dire: “Non c’è stata nessuna richiesta da parte dell’Austria, quando invece capiterà e gli avversari ci chiederanno di inginocchiarci lo faremo per solidarietà e sensibilità verso l’altra squadra. Cercheremo di combattere il nazismo in altri modi”. Il poveretto è stato subissato di insulti: qualcuno lo aveva scambiato per LeBron James.