Goretzka, goal di genere: anche gli uomini sanno fare due cose per volta

 

Promossi

Il capitale (è) umano. La verità è che non li paghi abbastanza. Parafrasando una nota commedia americana, si entra facilmente nel dibattito che imperversa in questo inizio di estate post Covid: le difficoltà a reperire personale, nel settore della ristorazione e più in generale nei comparti che prevedono la stagionalità dell’impiego. In diversi hanno attribuito la responsabilità di questa latitanza della mano d’opera alla presenza di misure come il reddito di cittadinanza, che avrebbero consentito in particolar modo ai giovani di ricevere una cifra più o meno analoga a quella dello stipendio senza dover lavorare. Troppo selettivi, poco ambiziosi, pigri: sono queste le caratteristiche alla base della scarsa risposta dei giovani agli appelli di imprenditori in cerca di personale? Non la pensa affatto così Jacopo Ricci, chef e co-titolare del ristorante “Dopo lavoro ricreativo” a Frascati: “Io non ho avuto difficoltà a reperire le risorse. Se offri un contratto con tutti i contributi, tredicesima e quattordicesima comprese, non avrai problemi a trovare gente che voglia lavorare per te. La pandemia ha fatto venire a galla un sistema malato da anni. È un cane che si morde la coda: l’imprenditore offre poco, il lavoratore accetta svalutandosi. Ma qualcosa sta cambiando: la gente oggi preferisce un sussidio statale a una forma di schiavismo moderna”. Nel punto di vista di un giovane imprenditore appassionato e consapevole dell’importanza del capitale umano, appare subito chiaro quale sia il vero centro della questione: se il datore di lavoro non investe per nulla sul dipendente, o peggio ancora lo sfrutta, dal canto suo il dipendente non potrà investire su quell’offerta o su quel posto di lavoro. Un concetto elementare, eppure, tutt’altro che scontato, a giudicare dallo stupore generale. Aggiunge Ricci: “Il lavoro nobilita l’uomo solo quando gli restituisce dignità, quando non è degradante, quando non si trasforma in schiavismo”. Amen.

Voto 9

Multitasking, roba da maschi. Un luogo comune dice che gli uomini a differenza delle donne non siano capaci di fare due cose contemporaneamente. Beh, a smentire questo stereotipo ci ha pensato il calciatore tedesco Leon Goretzka. A sei minuti dalla fine della partita Germania-Ungheria, il centrocampista del Bayern Monaco ha segnato il goal che ha portato la sua squadra agli ottavi di finale, salvandola dall’eliminazione; ma non ha fatto solo questo. Nonostante la pressione agonistica, Goretzka non ha dimenticato i diritti civili, altra questione all’ordine del giorno. Monaco infatti, per la partita, avrebbe voluto illuminare l’Allianz Arena color arcobaleno, in sostegno dei diritti Lgbt e in polemica con l’ultima legge dell’Ungheria di Orban, ma la Uefa non l’ha permesso. Il calciatore, noto per essere uno dei pochi che nell’ambiente prendono posizioni nette, ha però tenuto a mente la questione, e, dopo aver segnato, ha esultato componendo un cuore con le mani. Un’ora dopo la partita ha postato su Facebook la bandiera arcobaleno, accompagnata dalla scritta “spread love”. Per riuscire a fare due cose insieme, dunque, non importa tanto il genere quanto la sensibilità a disposizione.

Voto 8

 

Abbuffarsi di partite (mediocri) in tivù: “Chi vuol guardare Svezia-Ucraina?”

Domanda semplice per risposta sincera: quanti di voi non chiuderanno occhio, stanotte, divorati dall’emozione di assistere domani all’ottavo di finale degli Europei tra Svezia e Ucraina? Aggiungendo notte insonne a notte insonne dopo quella della vigilia di Galles-Danimarca, altro ottavo di finale consumatosi sabato?

Ebbene sì. Poiché nel calcio a comandare è solo e soltanto il dio denaro, che tradotto significa giocare più partite per incassare più diritti televisivi, la grande Federazione europea (Uefa), imitando la Federazione mondiale (Fifa) e le stesse singole Federazioni nazionali (tipo Inghilterra, Spagna, Italia, Francia che viaggiano con maxi-tornei composti da 20 squadre), ha pensato bene di alzare a dismisura il numero delle nazioni partecipanti (da 16 a 24) aggiungendo 8 nazioni al solo scopo di farle sparire di scena dopo una lunga, barbosa e inutile fase eliminatoria.

Per chi non lo ricordasse, fino a 2 edizioni fa (l’Europeo 2012 giocato in Polonia e Ucraina) le nazioni ammesse alla fase finale erano 16: e nel 2012, a parte Polonia e Ucraina qualificate di diritto come paesi organizzatori, tra le restanti 14 c’erano 11 delle nazioni presenti negli ottavi anche a Euro 2020 (Germania, Olanda, Spagna, Italia, Inghilterra, Danimarca, Francia, Svezia, Croazia, Repubblica Ceca e Portogallo) più Russia, Grecia e Irlanda sostituite oggi da Belgio, Austria e Svizzera. In soldoni: le 36 (diconsi trentasei) partite giocate nella fase eliminatoria sono servite solo a eliminare Macedonia del Nord, Slovacchia, Turchia, Finlandia, Polonia, Ungheria, Russia e Scozia e a riportare le contendenti a 16, per cominciare dal punto in cui si cominciava prima. Non il massimo.

Ma questo è niente in confronto al mondiale che ci aspetta in Qatar l’anno prossimo: oltre i match nel “forno” a 40 gradi, in stadi costruiti col sacrificio della vita di schiavi-operai (medaglia al petto di Michel Platini, indagato per corruzione nell’assegnazione del mondiale al Qatar), assisteremo a una competizione con 32 nazioni partecipanti com’è abitudine dal 1998 (mondiale di Francia). E dire che 24 basterebbero e avanzerebbero. Come anche noi sappiamo perfettamente se è vero che nel ’94 (mondiale in Usa), ultima edizione a 24 squadre, riuscimmo a qualificarci ai sedicesimi di finale anche come ultima delle 4 terze qualificate (su 6): per l’esattezza, Argentina, Belgio, Usa e Italia vennero ripescate ai danni di Russia e Corea del Sud, le due terze peggiori, e da lì gli azzurri riuscirono perfino a volare in finale, persa ai rigori contro il Brasile.

Domanda: siamo sicuri che ingigantire tornei e campionati e inventare nuove competizioni sia a livello di club (vedi la Conference League made in Uefa in partenza ad agosto con 184 squadre coinvolte e 32 ammesse alla fase finale), sia a livello di nazionali (vedi la Nations League venuta al mondo per coprire gli anni dispari senza competizioni nell’alternanza tra Europei e Mondiali) sia una cosa producente? Vien davvero da ridere pensando che gli ideatori della abortita, per fortuna, Superlega avevano in mente un torneo a 20 squadre che sarebbe andato ad aggiungersi, e non a sostituirsi, al già inflazionato menù. Avremmo visto una Juventus (o un Real Madrid, o un Barcellona) in Superlega, una Juventus B in Champions, una Juventus C in campionato, una Juventus D in Coppa Italia: e saremmo morti di indigestione, oltretutto mangiando male.

 

Dove i clan uccisero Pietro Sanua. Isabella Stoppa volta pagina: “Libri e legalità”

Ho deciso di scriverne appena l’ho vista. Meglio, appena mi ha detto che era l’assessore alla cultura. Perché non ricordo un assessore scendere in strada e andare verso il portabagagli di un’auto per tirar su voluminosi pacchi di libri da portare dentro il comune come un fattorino. La giovane assessora, invece, sgambettava felice avanti e indietro, magrissima, nella sua tenuta camicia-pantaloncini blu per far quello che quasi tutti i suoi colleghi eviterebbero sdegnosamente. Della famosa serie non sono un fattorino, appunto.

L’assessora si chiama Isabella. Fa l’insegnante di sostegno in una scuola primaria. E governa da pochi mesi la cultura nel comune di Corsico, più di 30mila abitanti, una città con tanto di polizia locale e impiegati e anche fattorini. Solo che l’altra sera c’era un appuntamento importante, di cui nessun dettaglio doveva fallire. Una di quelle cose che tra una sentenza e l’altra della Cassazione fanno ben sperare per la lotta alla mafia, dando senso soprattutto all’impegno dei cittadini. Perché Corsico, questo molti lettori di Storie italiane lo sanno bene, fa tutt’uno con Buccinasco alle porte sud-ovest di Milano nel costituire la celebre “Platì del Nord”. Nell’essere quartier generale di tre o quattro clan tra i più potenti di Platì. Storia antica e tuttavia non smantellata. In cui si staglia un assassinio un giorno frettolosamente archiviato, quello del sindacalista del commercio ambulante Pietro Sanua, ucciso all’alba un mattino di febbraio del ’95 a colpi di lupara proprio accanto al mercato cittadino. Ecco, l’altra sera si è concluso il lungo e faticoso impegno, durato quasi un quarto di secolo, per tirar fuori dall’oblio quel delitto, fugarne le spiegazioni velenose (donne, naturalmente), includere il sindacalista tra le vittime innocenti di mafia, e farlo diventare un simbolo positivo della città di Corsico, da contrapporre ai clan che hanno qui spadroneggiato e ancora lo vorrebbero. L’aula del consiglio comunale è stata così dedicata tra applausi lunghi ed emozionanti proprio a Pietro Sanua.

Lei, Isabella Stoppa, quando tutto accadde, aveva tre mesi. E ci teneva con la nuova giunta a dare la dignità più alta all’appuntamento. Per questo il mattino si è messa ad attaccare personalmente i manifesti nei luoghi di passaggio pubblici e privati. “Questa è una città anziana”, spiega, “non basta internet, ci vogliono i manifesti, per comunicare prima e pure dopo”. Poi ha curato gli aspetti estetici (“mi dia lo zaino, ci sta male vicino alla lapide, poi viene la televisione”). E la sera nel cortile affollato della biblioteca ha curato con lo stesso entusiasmo la presentazione del libro dedicato alla storia del sindacalista, promosso da SOS Impresa (di cui Sanua fu tra i fondatori) e scritto dopo lunga indagine da un ricercatore dell’Università statale di Milano, Mattia Maestri. Anche lì l’assessora andava su e giù a distribuir volumi. “Bisogna fare crescere le coscienze”, dice, “io nel mio lavoro all’oratorio conosco tanti bambini. E so che certe mentalità nascono dove non si alza lo sguardo verso ciò che ci succede intorno”.

Alla fine la coordinatrice della Direzione distrettuale antimafia milanese, Alessandra Dolci, ha quasi promesso una svolta alla verità giudiziaria. Ha affermato che senz’altro il delitto ebbe il via libera dai clan platioti e che la procura milanese del tempo si arenò senza approfondire una pista che non era poi troppo misteriosa. E che cercherà di riprendere gli incartamenti di allora. La giovane Isabella guardava, ascoltava, ed era contenta. “Ma c’è molto da lavorare. Penso alla riapertura della biblioteca. Alla nostra tradizionale sagra, dove stavolta faremo anche un evento sulla legalità. E poi a una tre giorni su Sciascia, per il suo centenario”.

Fatemelo dire: che bello quando l’umiltà si tiene per mano con la cultura…

 

Nicola Tanturli: “Io, bimba ‘selvaggia’, a 4 anni andavo a scuola da sola: guai a chi critica i miei”

 

Il senso di colpa lenito dal fato: ”30 anni per chiudere il cerchio”

Cara Selvaggia, mi permetto di scriverti una storia che inizia tanto tempo fa. Oggi ho 33 anni e quel giorno, quando tutto ebbe inizio, ne avevo 5 o 6.

Ero in macchina con mio padre, seduta sul sedile davanti, eravamo soli. Era una giornata estiva, avevamo i finestrini aperti. E d’un tratto sbuca dalle strisce pedonali un ragazzo che corre come un pazzo, senza nemmeno badare alle auto. Mio papà inchioda, il ragazzo sbatte solo le mani sul cofano senza farsi nulla. In un attimo va verso il finestrino e lì vedo i suoi occhi di panico, smarriti. Mai visto niente del genere fino ad allora. Pensavo fosse dovuto all’incidente scampato ma non era così. Subito si rivolge a mio padre e lo supplica: “Signore la prego, mio padre sta male, lo stanno portando al pronto soccorso, mi accompagni all’ospedale!”. Ricordo tutto: la faccia pulita del ragazzo (che avrà avuto la mia età di oggi), la sua camicia bianca sudata (chissà da quanto correva), il cellulare appeso al collo con un laccio. Ricordo persino il suo affanno. E purtroppo ricordo mio padre che goffamente rifiutò di farlo salire perché, disse al ragazzo, non aveva tempo. Lui provò ad insistere, lo pregò, ma papà non cedette e ripartì. Io guardai il ragazzo dallo specchietto, immobile un istante a guardarci mentre ci allontanavamo, per riprendere subito a correre. E scoppiai a piangere.

Avevo un’altissima opinione di mio padre e non capivo perché non avevamo aiutato quel povero ragazzo. Lui mi spiegò che non si fidava, che c’ero anche io (una bimba) e non se la sentiva di rischiare. Io cercai di capire ma i bimbi sono tutta pancia, cuore e istinto e non lo accettai. Mi sentii in colpa per giorni e mio papà mi diceva di dimenticare, ché magari quel ragazzo era un ladro. E alla fine così ho fatto, ho dimenticato. O almeno così credevo, fino a ieri sera.

Dopo una giornata dai mille impegni, mentre torno a casa, a mezzanotte scorgo la spazzatura ancora in macchina, così mi fermo al primo bidone. Scendo e spunta una signora a piedi che mi guarda, sulla cinquantina credo. Ha gli occhi rossi e gonfi e appena mi vede cambia espressione e mi dice: “Scusami se ti disturbo potresti indicarmi come arrivare al pronto soccorso? Mia mamma è lì ma mi sono persa per cercare qualcosa da mangiare e non so come tornarci…”. Le do indicazioni facili ma la signora non recepisce, ha la testa altrove. Così spunta in me la bimba di quasi 30 anni fa: “Se ti fidi, monta in macchina che ti ci porto io”. Vedo subito l’enorme sollievo sul suo volto: “Sei scura? Non voglio farti allungare il percorso o farti perdere tempo”. Io insisto, lei sale e mi dice che sono un angelo. Con le lacrime agli occhi aggiunge: “Come posso sdebitarmi?”. Li ho capito. Ero io che mi ero sdebitata. Col passato. Con me stessa. Con quel ragazzo. Ero io a dover ringraziare lei. Le ho detto di correre da sua mamma e di avere coraggio. Lei è corsa oltre la sbarra ed è sparita nel buio. Non so chi sia, non so niente. Tranne che senza volerlo ho rimesso a posto un pezzetto del mio passato rimasto lì, nel mio cuore, pesante come un macigno; e oggi è solo un sassolino.

Non ne parlerò con mio padre, perché mi direbbe che sono stata una sciagurata, di notte, da sola, a far salire in macchina una perfetta sconosciuta. E forse razionalmente ha anche ragione ma lì, in quel momento, ero di nuovo la piccola Giada, bambina senza pregiudizi né timori, con solo la voglia di allungare la mano verso chi ti chiede aiuto.

Io forse ieri sera ho fatto un piccolo favore a questa sconosciuta ma è stata lei a farne uno enorme a me.

Giada

 

“Da piccola gestivo il fratellino e i soldi (forse potevo morire)”

Cara Selvaggia, a proposito del piccolo Nicola “smarrito” dai genitori, volevo raccontarti in breve la mia storia di bambina “selvaggia”. Sono nata in Romania, i miei genitori lavoravano entrambi, mia madre in una fabbrica metalmeccanica. Appena finito il nido, da noi succede a 4 anni, i miei mi hanno insegnato ad andare a scuola e ad accompagnare anche mio fratello più piccolo. Noi a scuola ci andavamo con le scarpe al contrario, magari con la maglietta al rovescio e magari con i nodi nei capelli. Immagina una mamma come poteva stare male e in pensiero sapendoci soli. Ma una volta era così e non ero l’unica, tantissimi miei compagni facevano lo stesso, perché quella era la vita.

Quando avevo 13 anni i miei genitori decisero di venire a Torino per trovare fortuna. Così io rimasi sola a casa con un ragazzo più piccolo da guardare; a gestire lui, me, la casa, i soldi che mi mandavano ed i miei che piangevano nei parchi di Torino perché anche una chiamata a settimana costava tanto per loro. Tantissimo.

Ora siamo qui a Torino anche noi, entrambi grandi. Mio fratello ha due bambini meravigliosi, io non sono ancora mamma ma spero di avere il coraggio dei miei genitori. Potevamo non sopravvivere, forse, ma hanno fatto quello che potevano. E se qualcuno oggi li giudicasse io lo sbranerei.

R.

 

Io credo che i genitori di Nicola siano stati superficiali e maldestri, ma che quello che è capitato a loro possa succedere anche a genitori con tate e appartamenti in città. La tua storia insegna che siamo tutti figli delle circostanze e che spesso non si tratta di “saper fare i genitori”, ma di fare i genitori il meglio che si può.

Selvaggia lucarelli

La caccia alla manina della “Nota” sul ddl Zan: un mistero che parte da Padova

Sostiene il cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato cioè premier del Vaticano, in un’intervista ai media della Santa Sede: “Si trattava di un documento interno, scambiato tra amministrazioni governative per via diplomatica e non certo per essere pubblicato”. Insomma, nessuno scandalo a detta di Parolin, perché è una prassi comunque prevista dal Concordato tra Stato e Chiesa. È accaduto per esempio già nel 1970 ai tempi della legge sul divorzio, come ha ricordato uno dei figli di Giulio Andreotti, Stefano: “Mio padre lo scrisse nei diari”.

Parliamo, ovviamente, della Nota verbale trasmessa dall’arcivescovo Paul Richard Gallagher, “ministro” vaticano per i Rapporti con gli Stati, con le osservazioni sul ddl Zan, la legge anti-omofobia che prende il nome da un deputato del Pd, Alessandro Zan. Lo scoop lo ha fatto il Corriere della Sera il 22 giugno.

E ancora una volta, al di là del merito delle osservazioni (sulla libertà di espressione della Chiesa, in particolare), a tenere banco è stata la divisione tra clericali e progressisti in questo pontificato riformista di Francesco. Da una parte, per esempio, cattolici come l’ex ministro Andrea Riccardi, fondatore della comunità di Sant’Egidio che a Repubblica del 24 giugno dice: “Credo che provenga (la nota, ndr) da ambienti italiani della Segreteria di Stato”. Riassunto del titolo dell’intervista: “La Nota non viene dal papa”. Di segno opposto, invece, le parole di Giovanni Battista Re, decano del collegio dei cardinali, al Messaggero: “Questo intervento non solo corrisponde al pensiero e al desiderio dei vescovi italiani, ma posso dire che non c’è alcuna contrapposizione con il papa. So che la Segreteria di Stato ha agito con l’approvazione del Santo Padre”. In pratica Francesco sapeva tutto, a maggior ragione se come ha detto Parolin si trattava di “un documento interno” da non pubblicare. Come ammette il citato Riccardi: “Va detto però che è un passo riservato e che tale doveva restare nella sua sofisticata diplomazia”.

Anche per questo, probabilmente, il pontefice ha seguito in silenzio le polemiche divampate sul Concordato. E così si torna al punto di partenza: chi ha fatto uscire il documento? Un indizio decisivo lo ha dato ieri Marco Tarquinio, il direttore di Avvenire, il quotidiano dei vescovi italiani: “Ho sempre detto di credere alle buone intenzioni dichiarate dell’onorevole Zan, padovano (…), guarda un po’, come il giornalista che ha rivelato l’esistenza della riservata ‘nota verbale’”.

L’autore dello scoop sul Corsera è infatti Giovanni Viafora, che di solito collabora con il Corriere del Veneto, dorso locale del giornale di via Solferino. Entrambi di Padova, dunque, Zan e Viafora. Non solo. A esercitarsi sulla manina è stata anche Repubblica arrivando a fare il nome di Maria Elisabetta Alberti Casellati, presidente del Senato, oltre a insinuare dubbi sulla Lega. E anche in questo caso si rimane a Padova: città natale di Casellati e dove ha lo studio legale il leghista Andrea Ostellari, relatore del ddl Zan al Senato. A questo punto, resta da capire chi ha voluto “bruciare la nota”: se il fronte Lgbt o quello clericale di destra.

 

La sai l’ultima?

 

Europei di calcio Sei tifosi francesi vanno a Bucarest, ma la partita si gioca a Budapest

La partita si giocava a Budapest ma loro sono atterrati a Bucarest. I veri eroi degli Europei di calcio sono sei tifosi francesi partiti da Parigi per sostenere la loro nazionale in trasferta in Ungheria, ma hanno sbagliato Stato. Si sono accorti dell’impercettibile malinteso solo dopo una passeggiata nel centro della capitale rumena. A scoprirlo è stato un giornalista del Jurnalul National: “Ha notato i sei in disparte rispetto ai supporters ucraini, presenti a loro volta per sostenere la Nazionale di Shevchenko durante l’ultimo incontro perso contro l’Austria, e ha cominciato incuriosito a rivolgere loro alcune domande”, riporta Today.it. La risposta è notevole: “Dobbiamo studiare di più l’Europa”. Atterrati a Bucarest, infatti, “avevano seguito un gruppo di tifosi che, a parer loro, erano ungheresi ed erano diretti verso lo stadio. Peccato che circa due ore dopo si sono ritrovati in una piazza diversa da quella immaginata e hanno capito l’errore”. Non gli resta che una scampagnata nella ridente Bucarest.

 

Focus La scienza ci illumina: ogni uomo sano dovrebbe emettere 20 peti al giorno. Se sono di più, è un problema

Un’ennesima mirabolante ricerca scientifica si è presa risponde a un quesito esistenziale: qual è il numero corretto di peti che un uomo deve emettere ogni giorno? La notizia è brillantemente riportata da Focus: “Secondo la rivista Healthy and Natural World, la media, per così dire, perfetta di ‘puzzette’ si aggirerebbe intorno alle 20 al giorno, ma la loro frequenza può variare in base alle abitudini alimentari che abbiamo”. E dunque “una frequenza di molto superiore alle 20 al giorno, così come un odore eccessivamente sgradevole, potrebbero essere sintomi di intolleranze al lattosio o (in casi più rari) di intestino irritabile, con relativa difficoltà a digerire”. Una fiorente attività “petistica”, al contrario di quanti si potrebbe pensare, è una buona notizia: “Emettere flatulenze sarà sicuramente imbarazzante e spiacevole ma è anche segno di una sana attività intestinale e può persino aiutare a prevenire molte malattie”.

 

Sobrietà “Smutandate d’alta quota”: impazza il video della passeggera che asciuga gli slip durante il volo

La notizia, diciamo, è di alcuni anni fa, ma per qualche ragione è tornata purtroppo virale in questi giorni. Il merito è del Sun, il tabloid inglese, che ha twittato un fondamentale video del 2018 dal titolo: “La passeggera che non vorresti mai accanto su un aereo”. Questione di gusti: la signorina in questione infatti è stata ripresa durante il volo mentre “stendeva” un paio di mutandine sotto i bocchettoni dell’aria per farle asciugare. La circostanze che l’intimo fosse stato preso dal bagaglio a mano e non sfilato da sotto la gonna non pare aver tranquillizzato i passeggeri, comprensibilmente perplessi. Sempre sobria anche la titolazione dei siti italiani, che non potevano mancare una notiza (per quanto datata) di questo spessore. Il Corriere dello Sport: “Follia in volo: si toglie le mutande e le asciuga sotto la ventola”. Dagospia, con la sobrietà che la contraddistingue: “Smutandate d’alta quota”.

 

Amazon Il fondatore Jeff Bezos il 20 luglio va nello spazio. Una petizione da 150mila firme lo implora: “Restaci pure”

I soldi comprano un sacco di cose (magari pure la felicità) ma non la simpatia. L’iper mega miliardario Jeff Bezos, padrone di Amazon e di una parte significativa dei destini globali, il 20 luglio andrà nello spazio sulla sua navetta Blue Origin, che ha creato per competere con Elon Musk nella guerra fredda del turismo iperuranico. L’opinione pubblica osserva l’impresa con sguardo non proprio benevolo. Su Change.org ha grande successo una petizione ironica, ma anche no, che galoppa verso le 150mila firme e invita Jeff Bezos a rimanere nello spazio. Titolo: “Non permettiamo a Jeff Bezos di tornare sulla terra”. Sottotitolo: “I miliardari non dovrebbero esistere… sulla terra, né nello spazio, ma se scelgono il secondo è meglio che restino lì”. Tra i commenti si legge: “Bezos ha ottenuto la corona di uomo più ricco del mondo e la indossa con orgoglio. Sembra disconnesso fisicamente ed emotivamente non solo da gran parte dell’umanità, ma da gran parte di ciò che ci rende umani”.

 

Usa Lo speech del lobbista delle armi alla cerimonia dei diplomi deserta: il liceo che l’ha invitato non esiste

I discorsi ai laureandi sono un classico della cultura americana. A volte restano nell’immaginario collettivo (“Stay hungry, stay foolish” di Steve Jobs) o nella storia della letteratura (“This is water” di David Foster Wallace). Ma possono rivelarsi una gigantesca presa per i fondelli, come nel caso in questione: David Keene, ex presidente della National Rifle Association, la potentissima lobby americana delle armi, è stato invitato a tenere lo speech per i diplomati della James Madison Accademy. Ha pronunciato il discorso di fronte a migliaia di sedie vuote. Immaginava fosse per le norme sanitarie. “Alcuni di voi – ha detto alla platea deserta – combatteranno per sventrare il Secondo Emendamento, ma molti altri saranno quelli che eviteranno che succeda”. La scuola che l’aveva invitato non esiste: la cerimonia era lo “scherzo” dei genitori di un liceale ucciso nel 2018. Le 3.044 sedie vuote davanti a mr.Nra rappresentavano i ragazzi morti in sparatorie nelle scuole americane. Keene ne è rimasto ignaro: il messaggio era potentissimo, ma non il suo.

 

Regno Unito Si dimette dopo uno scandaletto il ministro della Salute. E Il Tempo titola: “Viva lo Speranza inglese”

Il titolo della settimana ce lo regala Il Tempo. È un’ode a Matt Hancock, ministro dimissionario della Salute del Regno Unito. Braccio destro di Boris Johnson e figura chiave nella lotta britannica alla pandemia, ha deciso di lasciare l’incarico dopo le immagini pubblicate dal Sun mentre bacia (e palpeggia) la sua collaboratrice e amante Gina Colangelo. Ecco il titolo del quotidiano diretto da Franco Bechis: “Viva lo Speranza inglese”. Geni! “Il caso che scuote il Regno Unito. “Hancock fotografato dal Sun mentre bacia una collaboratrice. Attaccato dall’opposizione: ‘Ha violato il distanziamento’”. Catenaccio: “Bufera sul ministro della Salute beccato con l’amante. Ma almeno ha saputo combattere il Covid”. Come no: il Paese è nel mezzo dell’ennesima ondata di contagi, dopo mesi e mesi di chiusure molto più rigide di quelle italiane. Lo stesso governo che all’inizio voleva puntare sull’immunità di gregge. Ma vuoi mettere il ministro libertino quanto è più fico di Speranza?

 

Filippine Un web designer chiama il figlio Html e il neonato diventa subito una star di Internet

Cose belle ma non bellissime: un web designer filippino ha chiamato suo figlio Html. Non sappiamo come vorrà vendicarsi il fanciullo una volta compiuta la maggiore età, ma qualcosa succederà sicuramente. Nel frattempo il neonato gode di una fama rinunciabile. Lo racconta, tra gli altri, Tpi: “Nelle Filippine un web designer ha chiamato il figlio appena nato HTML, acronimo di Hypertext Markup Language, il linguaggio utilizzato per la costruzione di pagine internet. Il piccolo, nato lo scorso 10 giugno al Medical Mission Group Cooperative Hospital di Bulacan, è diventato una star del web con la foto di benvenuto al bambino, postata dalla zia di HTML, che in poche ore ha ottenuto 12mila reazioni, 2.500 commenti e oltre 9mila condivisioni. Nella famiglia di HTML, però, i nomi particolari non sono inusuali. Il padre del bambino, infatti, si chiama Macaroni ‘85, mentre le sue sorelle sono state registrate all’anagrafe come Spaghetti ‘88 e Sincerely Yours ‘98”. Poteva pure andare peggio.

“Armanna calunniò l’avvocato per colpire il pm De Pasquale”

L’accusa è quella di calunnia. E la vicenda, davvero torbida, s’incastra in quella ben più ampia del processo Eni – Nigeria che s’è concluso in primo grado, dopo l’accusa di corruzione internazionale, con l’assoluzione dell’addell’Eni Claudio Descalzi e di tutti gli imputati. Incluso Vincenzo Armanna, l’ex funzionario Eni che in questo nuovo fascicolo viene accusato di aver calunniato il suo ex avvocato, Luca Santamaria, con la complicità di Piero Amara, ex legale esterno dell’Eni, e Massimo Mantovani che, all’epoca dei fatti, era il direttore degli affari legali del colosso petrolifero. Mantovani, va precisato, è stato estromesso dall’Eni già da tempo. Mantovani “fino a ottobre del 2016 – si legge nell’avviso di conclusione delle indagini firmato dalla procuratore aggiunto di Milano Laura Pedio – era il direttore degli affari legali dell’Eni e fu successivamente delegato dall’ad di Eni (quindi Descalzi, ndr) ai processi milanesi tra i quali Eni– Nigeria e poi i procedimenti delegati a Trani prima e a Siracusa poi, nei quali Eni era parte offesa, confluiti nel procedimento del cosidetto “complotto” Eni, pendente presso la procura di Milano e all’epoca in fase d’indagine”. Fermiamoci un attimo. In sostanza, innanzitutto, Mantovani seguiva il processo Eni – Nigeria. In secondo luogo seguì anche i fascicoli di Siracusa – nei fatti istruiti da Amara corrompendo il pm Giancarlo Longo – su un persunto complotto ai danni di Descalzi, che era invece completamente inventato. E proprio Descalzi aveva delegato a amntovani il compito di seguire enrtambi fascicoli. Ed è proprio in merito all’intreccio tra i fascicoli di Mailno e Siracusa che Pedio trae la prima conclusione per il reato che vede indagati Armanna, Amara, Mantovani e altre tre persone.

Armanna si presentò infatti come testimone a Siracusa e il suo avvocato, Luca Santamaria, decise di non seguirlo su questa strada e rinunciò al mandato quando Armanna gli chiede di far acquisire, nel processo milanese, l’incartamento siciliano.

Armanna il 9 febbraio 2017 inviò a un altro avvocato che lo assisteva, Fabrizio Siggia, una mail calunniosa che aveva concordato nel contenuto con Amara. Poi “apparentemente per errore” per errore inoltrava la stessa mail a Giuseppe Lipera, avvocato di Massimo Gaboardi, uno degli autori del depistaggio attraverso il falso fascicolo di Siracusa, per il quale, da Amara, aveva ottenuto secondo l’accusa 95mila euro allo scopo di rendere false dichiarazioni. A quel punto, sempre secondo l’accusa, “Amara d’accordo con Mantovani metteva Lipera in contatto con Federico Grosso, avvocato dell’Eni nel processo per la corruzione internazionale (ora deceduto, ndr). Lipera, a sua volta, il 28 marzo 2017 inviava la mail di Armanna all’avvocato Grosso. Il quale “di concerto con Mantovani depositava una nota al procuratore di Milano, insieme con il collega Nerio Diodà (non indagato, ndr), allegando anche la mail di Armanna. Infine, Gaboardi, il 10 marzo 2017 depositava presso la procura di Milano un’istanza con la quale ricusava il pm dell’accusa di corruzione internazionale di Eni, Fabio De Pasquale, che era stato predisposta proprio dall’avvocato Lipera. Ma qual era l’obiettivo di questa catena di eventi?

Leggiamo cosa scrive Pedio: “… depositavano nelle mani del procuratore della Repubbilica una mail dal contenuto calunnioso e incolpavano, consapevoli della sua innocenza, l’avvocato Luca Santamaria di infedele patrocinio nei confronti di Armanna in relazione al mandato difensivo ricevuto nell’ambito del procedimento Eni – Nigeria, nel quale era imputato, con l’intenzione tra l’altro di far cadere le accuse che Armanna aveva formulato nei confronti dei vertici dell’Eni (…) e di creare le condizioni per un procedimento disciplinare nei confronti del Pm Fabio De Pasquale”. Leggiamo ora la mail in questione che è un saggio della torbidità di questa vicenda.

“In questi due anni – scrive Armanna a Siggia, salvo poi inviare la mail a Lipera – è cresciuto gradualmente sempre di più in me il dubbio che, ogni volta che Luca (Santamaria, ndr) si è fatto portatore delle istanze dei PM non pensasse alla mia difesa ma ai suoi interessi. Luca ha provato ripetutamente e in tanti modi a indurmi ad affermare che ero a conoscenza che l’Eni era consapevole che i beneficiari finali di parte della somma pagata fossero politici. Ha provato fino a prima della chiusura delle indagini dicendomi che da questo dipendeva la decisione dei pm di archiviarmi o di avere un trattamento di favore. Sinceramente nonostante l’amarezza che provo nei confronti di Descalzi e dell’Eni per il male fattomi, non arei mai riuscito ad accusarli falsamente. Ha cercato di usarmi (…)n Luca ha cominciato a parlare di patteggiamento e di come questa potesse essere la via per evitare il sequestro del mio conto corrente ma ho sempre sottolineato come ritenessi assolutamente inaccettabile confessare qualcosa che non avevo fatto, indipendentemente dal fatto che questo mi avrebbe permesso di vendicarmi di Scaroni., Descalzi ed Eni. Nel momento in cui non sono servito più e ho capito che non avrei mai detto una cosa non vera, e soprattutto nel momento in cui mi dovevo difendere mi ha mollato. Luca si oppone a fare istanza per iol fascicolo di Siracusa perché lì ha capito che c’è la storia dei rapporti tra lui Zingales, Litvack, lo studio Cova e Cusimano e del loro progetto di prendere in mano l’Eni. Quando fui convocato a Siracusa il suo unico problema era che io on parlassi di questo”.

Armanna, come abbiamo già sottolienato, è stato assolto insieme con Descalzi dall’accusa di corruzione internazionale, in primo grado, perché secondo il tribunale di Milano il fatto non sussiste. Il direttore dell’ufficio legale di Eni dell’epoca, Mantovani, però, si adoperò, secondo l’accusa, in questa operazione di calunnia verso l’avvocato Santamaria, peraltro finalizzata a creare le condizioni di un futuro procedimento disciplinare verso De Pasquale e, comunque, utilizzata per chiederne l’astensione dal processo Eni – Nigeria.

Rave e feste con variante. Record di morti a Mosca

“Si stanno disperdendo ovunque”: è il sindaco di Maleo, Dante Sguazzi, a dare con le sue parole la misura del problema. Nel pomeriggio di ieri, i circa 700 partecipanti a un rave party non autorizzato e senza mascherina, hanno iniziato ad andare via dal paese vicino Codogno, molto probabilmente per il timore di contagiarsi ma anche per il troppo caldo. Erano arrivati sabato sera intorno alle 23 e, dopo essere scesi dal treno proprio a Codogno, si sono avviati lungo la provinciale per arrivare nella ex cava Geroletta a Maleo, a circa sei chilometri dal paese in provincia di Lodi da dove è partita l’emergenza coronavirus. L’appuntamento era circolato sui social network ed è stato accolto da oltre 700 persone, provenienti soprattutto dal Nord Italia. Persone che hanno deciso di ignorare il fatto che l’Ats, nei giorni scorsi, aveva certificato nel Paese la presenza di tre casi di variante delta in un focolaio di undici contagiati.

La manifestazione era totalmente abusiva. I partecipanti hanno spaccato recinzione e lucchetti della cava e hanno dato il via alla festa con camion con a bordo casse acustiche e materiale sia per l’illuminazione dell’area che per la vendita di alcol. In cinquanta, tra militari e agenti tra carabinieri, polizia e guardia di finanza non hanno potuto fare altro che controllare che non si verificassero disordini o incidenti. Con il sindaco hanno provato a mediare, convincendo i presenti ad abbandonare l’area, ma i partecipanti hanno rifiutato di andarsene dichiarandosi consapevoli di essere contro tutte le regole anti Covid. Nessuno, infatti, aveva la mascherina e non sono state rispettate le regole del distanziamento. “Si stanno disperdendo ovunque – ha detto nel pomeriggio di ieri il sindaco – alcuni ubriachi o drogati. Speriamo tutto questo finisca presto”.

La procura della Repubblica di Lodi ha aperto un fascicolo con l’obiettivo di arrivare all’identificazione dei promotori appena possibile.

Sono state invece le feste tenute nelle camere d’albergo nella zona della spiaggia di Llucmajor, le gite in barca e un maxiconcerto di musica Reggaeton nell’arena per le corride dei tori di Palma di Maiorca all’origine del contagio di 700 studenti spagnoli. I giovani sono risultati positivi ai test e nella giornata di ieri sono passati da 2mila a 3mila quelli in quarantena. Sono poi stato individuati 268 studenti che si trovano ancora sull’isola e che avrebbero potuto avere contatti diretti o indiretti con i loro coetanei rientrati in patria e risultati positivi ai tamponi.

Alla vigilia del momento in cui l’Italia torna bianca e viene meno l’obbligo della mascherina all’aperto (ad esclusione dei casi di assembramento), appare chiaro che l’allerta degli epidemiologi e dei virologi in queste ore è sacrosanta. La variante Delta continua a espandersi: a Sydney, nonostante il lockdown di due settimane, i casi sono saliti a 110 (+ 30 rispetto al giorno prima) così come aumenta l’allerta per i contagi in Gran Bretagna: l’ultimo dato parla di 14.876 nuovi casi ed undici vittime, in discesa rispetto alle 18.270 infezioni e ai 23 decessi del giorno precedente (ma va considerato che i numeri del weekend sono solitamente inferiori) mentre si registra un +70% nelle scuole.

Gli esperti raccomandano di partire solo se si è stati sottoposti anche alla seconda dose del vaccino. “I dati inglesi mostrano che la vaccinazione con una dose protegge meno rispetto al ciclo completo per la variante Delta – ha detto il presidente dell’Iss, Silvio Brusaferro – sappiamo che la vaccinazione, anche con una dose, può già essere efficace nel ridurre le forme cliniche gravi. Ma solo il ciclo completo garantisce una maggior sicurezza”. A una sola dose si era sottoposto anche il premier lussemburghese Xavier Bettel, ieri è risultato positivo. Giovedì aveva partecipato al vertice Ue a Bruxelles.

Restail problema dei cluster di variante Delta sviluppatesi in sospetta corrispondenza con le partite del girone B degli Europei 2021 di calcio disputatesi a San Pietroburgo. Dopo il picco di morti della città sovietica, 107 in 24 ore, ora anche Mosca ha il suo record: ha registrato nelle ultime 24 ore 144 decessi per Covid-19. Ha raggiunto, in pratica, il livello giornaliero più alto mai segnato in una città russa dall’inizio della pandemia. È un segno, si diceva ieri, del netto peggioramento della situazione nel Paese che, si spera, non si ripercuota ulteriormente sui contatti che ci sono stati durante le gare disputatesi a San Pietroburgo con lo stadio a capienza al 50%. Ora a preoccupare è l’apertura delle porte di Wembley, a Londra, ad almeno 60mila spettatori: 40mila in più di quanti concessi finora.

“Conte e Grillo da soli rischiano tantissimo: convivere conviene”

C’è crisi di vocazioni in politica?

Falso.

Conte ha da guadagnare se divide i suoi destini da quelli di Grillo?

Falso.

E Grillo l’Elevato cosa ottiene facendo fuori Conte?

Un probabile gran ruzzolone, come quello che subì Forza Italia nel 2016.

Alessandra Ghisleri chiama brand i simboli dei partiti.

Mi piace analizzarli secondo la loro capacità performante.

Ma i partiti non sono srl.

Quello dei Cinquestelle è un brand che tira.

Che tira ancora?

Le sembra poco il 15-17 per cento? Il successo così enorme che hanno ottenuto alle scorse elezioni è stato destabilizzante. Sono stati sbalzati all’insù e molti di loro poi si sono schiantati a terra. Il contraccolpo è stato micidiale, le crisi di maturazione, le trasformazioni successive sono state cruente. Eppure, ad oggi, da analista mi sentirei di consigliare a Giuseppe Conte una riflessione.

Illustri.

Rispetti il principio di realtà.

Dal quale discende di portare rispetto al “brand”.

Perché riassume la storia della idea politica nata dalla proposta di una cittadinanza come potere orizzontale, popolare e autopropulsivo, il cittadino come lobbista di sé stesso per dirla in breve. Sentimenti ancora attuali tra gli elettori di quella parte. E Conte potrà godere di un valore aggiunto altissimo se spersonalizza la lite. Io per esempio non avrei chiesto, se è vero ciò che ho letto, “scuse pubbliche” a Grillo. Il fondatore del Movimento deve piuttosto delle spiegazioni al Movimento e accettare di rimodulare la sua relazione con esso.

Grillo e Conte devono coabitare, secondo lei.

Ogni lite scoppiata, ora penso a ciò che è accaduto nel Pd, ha prodotto un partito. Prima Articolo 1 poi Italia Viva, eccetera. E a catena chi è andato via con un litigio ha continuato a litigare. Risultato? Pd più debole e all’esterno proliferazione di partitini sempre più piccoli ed evanescenti.

Simmetrica la condizione dentro Forza Italia.

Talmente simmetrica che ad oggi il centrodestra ha difficoltà a individuare candidati.

Si dice che fare il sindaco è troppo oneroso, anzi pericoloso.

Falso, anzi falsissimo. La gente c’è, saprebbe cosa fare e dire ma non si fida dei partiti. Sono i partiti ad aver perduto reputazione, a non essere stimati. Nessuno vuole ficcare la testa dentro il litigio permanente. La vicenda di Bertolaso è illuminante: ha rinunciato a correre a Roma perché aveva intuito che non ci sarebbe stato rispetto per il suo ruolo. Non gli andava di fare lo specchietto per le allodole che era la parte che gli sarebbe stata assegnata.

I partiti non cercano candidati ma “figuranti”?

Cercare teste di legno è certamente più facile ma meno vincente. Ricordo che a Milano chi entrava in giunta aveva, ai tempi di Tognoli, la prospettiva di arrivare in Parlamento. Era un impegno importante, l’inizio di un cursus honorum rispettaato. Oggi è così?

I partiti demoliscono, se possono.

I cittadini hanno la testa negli effetti della pandemia sulla loro vita e loro di cosa parlano? Della mascherina sulla loro bocca. Ma è serio? Perciò l’opinione pubblica guarda a Draghi, nella considerazione che l’uomo sia fuori dai partiti. È questa condizione a tributargli stima (un po’ come è successo a Conte nei primi mesi della pandemia). C’è la diffusa e purtroppo radicata convinzione che il sistema non cerchi il bene comune, dunque l’attenzione va a chi appare fuori da esso. E infatti il sistema non si assicura classe dirigente. Il mondo dello spettacolo, prediamo quello della canzone, ha X-factor come catino da cui ricevere nuova linfa.

Lì però è televoto.

Chi vuole cantare sa che ha almeno una possibilità per mettersi alla prova. Chi vuole fare politica invece dove va, a chi bussa?

Non è bastato avere successo contro tutti: mancava il Garante

Non è bastato fronteggiare la pandemia in modo tale da ricevere i complimenti del New York Times. Non è bastato aver ottenuto la quota più consistente del Recovery, dopo notti passate a ragionare con gli altri leader europei. Non è bastato essere eletti a modello sul piano vaccinale da Ursula von der Leyen appena sono sbucati i primi vaccini. Non è bastato saper concertare – verbo unico della buona pratica politica, da Platone in giù – posizioni differenti ogni santo giorno. Non è bastato nell’aula del Senato aver rimesso al suo posto il Salvini del Papeete mostrando, con poche e fermissime parole, l’inconsistenza culturale e politica dell’uomo che voleva i “pieni poteri”. Non è bastato ricostruire un governo nuovo, con un alleato nuovo, dalle ceneri di un governo saltato a causa di un mojito di troppo – concertazione, appunto. Non è bastato mantenere un consenso personale altissimo nonostante le difficoltà del momento storico e la liquidità del voto dei nostri tempi di istantocrazia. Non è bastato traghettare il MoVimento da una forza di piazza a una forza di governo seria senza un’accurata scelta della classe dirigente – poi però evidentemente è vero che la fortuna aiuta gli audaci e ti ritrovi con ministri che hanno ben figurato come Di Maio, Bonafede, Azzolina, Patuanelli e via discorrendo. Non è bastato tenere testa a una destra che oggi dice bianco e domani dice nero in base a dove tira il vento (Meloni esclusa, che, condivisibile o meno, dice una cosa e quella è). Non è bastato entrare nelle grazie del Pd e della sinistra bersaniana dopo aver governato con Salvini – ergo, l’uomo è stato valutato al netto della concertazione spesso al ribasso (e spesso obbligata).

Non è bastato non essere mai inciampato in una gaffe, uno scivolone, una sciocchezza da renderlo virale sui social. Non è bastato aver tenuto il sangue freddo dopo la bare di Bergamo e non farsi mai prendere dall’emotività del momento, sempre cattiva consigliera. Non è bastato aver sempre, sempre informato gli italiani su cosa stesse succedendo al nostro Paese – guardandoli in faccia e mettendoci la faccia, al netto della bontà di ogni scelta. Non è bastato essere stato il primo leader europeo a dover rinchiudere in casa un Paese, cosa senza precedenti nel mondo a democrazia compiuta. Non è bastato usare poco libero arbitrio e molto arbitrio altrui (degli scienziati) in un momento in cui i bolsonari di turno lasciavano tutto aperto (ne vediamo oggi le conseguenze…). Non è bastato essere puntuale, sempre – non alle conferenze stampa, chi se ne frega di quelle – nel cercare che non si allargasse a dismisura la sperequazione sociale: dal reddito di cittadinanza confermato ai famigerati contributi iniziali a pioggia. Non è bastato decidere quando doveva (il governo) e far decidere gli altri quando dovevano (le Regioni) e beccarsi di volta in volta del dittatore, nel primo caso, e del menefreghista nel secondo: tutto senza colpo ferire, come si dice. Non è bastato portare pazienza certosina quando un alleato di governo – anzi, che ha fatto nascere il suo secondo governo – lo bombardava ogni giorno su sciocchezze come Mes o Servizi Segreti: il primo è sparito – pare presto lo cercheranno a “Chi l’ha visto?” – mentre il secondo ha avuto il suo epilogo in un autogrill.

Non è bastato aver ricevuto, più volte, anche in sede parlamentare, i ringraziamenti dell’ineffabile, insuperabile, infallibile uomo che gli è succeduto, Mario Draghi. Non è bastato fare spallucce a tutti gli opinion maker che lo hanno attaccato dal suo primo giorno a palazzo Chigi in virtù del colore del suo governo: prima da sinistra, poi da destra. Non è bastato mantenere lo stato di emergenza in un Paese che è ancora in stato di emergenza, contro tutti che dicevano che no, non serviva, che era solo un modo per evitare il dibattito parlamentare. Non è bastato sopportare che il suo successore abbia marginalizzato non solo il dibattito parlamentare ma anche quello in Consiglio dei Ministri, e tutti zitti. Non è bastato dare l’impressione del buon padre di famiglia ogni volta accadesse qualcosa di dirimente, dalle questioni etiche a quelle più immanenti. Non è bastato aver risposto sì alla richiesta del fondatore del MoVimento di riscrivere lo statuto, creare un nuovo orizzonte, cercare di unire i dissidenti (leggi da Di Battista) con i governisti (leggi da Di Maio). Non è bastato digerire il fondatore che cala le braghe al Draghi “grillino” (nel suo dire) in cambio di un nuovo ministero green (ad oggi inconsistente…). Non è bastato che la lotta alla pandemia del suo successore sia stata il linea con la sua. Non è bastato che il Pnrr – in ritardissimo a settembre 2020 sia stato presentato da Draghi poche ore prima del voto in Parlamento – sia al 90% il suo. Non è bastato aver avuto tutti contro, serviva aver contro anche colui che lo ha investito della carica, Beppe Grillo. È perché, si chiederanno in tanti? Perché non è un visionario. Imperdonabile. Che se ne faccia una ragione…