Quando si chiedeva a James Hillman quale considerava il più importante dei suoi libri, la risposta era Re-visione della psicologia. Il suo Le storie che curano, non a caso pubblicato qualche anno dopo, potrebbe venir considerato il completamento di quello ed essere chiamato revisione dell’analisi.
Negli stessi anni, Hillman aveva sempre più decisamente lasciato il lavoro clinico, che l’analisi restringe all’individuo, per gettare lo sguardo sul mondo e su tutti i tempi. Era diventato (o si comportava da, secondo i suoi critici) filosofo, storico, mitologo e altre cose ancora: per un collega di New York, aveva finito per abitare nel territorio dell’arte. Si può anche sostenere che fosse rimasto un terapeuta, ma di tutte le dimensioni che ci circondano. Sintetizzerà il suo passaggio in questa formula: “Ci siamo osservati troppo allo specchio. Ora apriamo la finestra per guardare fuori”. (…)
La (psico) analisi non si differenzia dalla psicologia per essere una sua specializzazione o una sua fase storica. La psicologia costituisce una forma di sapere, una disciplina: è – almeno finché non interviene un innovatore a spostarla – un oggetto con un suo posto, quindi statico. L’analisi, invece, è in sé un movimento. Ma non nel senso di una dinamica, di un viaggio, che debba raggiungere una meta. Come lasciava presumere già Freud in Analisi terminabile e interminabile (1937), è ben difficile stabilire la fine di un’analisi, anche perché, ai suoi tempi come oggi, è molto difficile trovare un accordo su quale sia il suo fine.
L’analisi è una narrazione. Ma il paziente non racconta la sua vita all’analista partendo da un certo momento per arrivare all’oggi, e qui fermarsi sperando di trarre delle conclusioni. Racconta la sua vita perché la vita è il mezzo per arrivare al racconto. Non viceversa: proprio come Itaca, nella citatissima poesia di Konstantinos Kavafis, non era tanto la meta del viaggio, quanto lo strumento che ha permesso di viaggiare.
Il racconto della vita è più importante della vita stessa: una verità che non è stata scoperta da Hillman né da qualche autore moderno. Omero – o meglio: il racconto millenario che fa giganteggiare una figura che chiamiamo Omero, senza poter neppure dimostrare che sia esistita – ha introdotto nell’immaginario collettivo degli uomini questa incrollabile condizione. Disse infatti (Odissea, viii, 579-580) che gli dèi vollero la distruzione di Troia perché fosse raccontata: non, come magari argomenterebbe una mentalità moderna, perché Troia era malvagia e doveva essere punita. A sua volta, l’analisi lavora a beneficio del paziente in modo differente da tutti i modelli di pensiero moderni. Facendo raccontare al paziente la sua vita, non ne compie una ricognizione scientifica. La commercializzazione della psicoanalisi ha messo in circolazione stereotipi semplificatori: “Va’ dall’analista” si consiglia a un amico che ci racconta i suoi tormenti, “digli queste cose. Lui ti spiegherà da dove vengono, e tu starai meglio”. In realtà, l’amico che racconta il suo tormento ha inconsciamente già intuito l’essenziale: l’analisi aiuta il paziente non perché restituisca alla sua vita un ordine interpretativo, ma perché le dà un ordine narrativo. Una scansione che è sempre stata presente nella quotidianità umana, ma che la modernità ha prima disseccato, poi cancellato completamente, sostituendola con intrattenimento e spettacolo. Essi servono da passatempo: ma – a differenza del racconto epico o tragico – non prendono sede nell’anima, parola che in greco antico si diceva psiche. (…)
Quindi “una ‘coscienza guarita’ vive in modo narrativo, proprio come le figure che guariscono, per esempio Jung e Freud, diventano sotto i nostri occhi personaggi di un racconto”. E questo non avviene perché l’analista sia una forma moderna di contastorie, che non possiede una particolare meta. L’immaginazione promossa dall’analisi “non si propone quale risultato un prodotto materiale (…)”.
Hillman sviluppando l’eredità di Jung aveva fondato la “psicologia archetipica”. Non si era accontentato più di chinarsi sull’anima dell’individuo, voleva riscoprire e studiare l’antica idea di anima mundi, l’“anima del mondo”. Questa scelta gli ha assicurato una vita fra le polemiche, ma anche un rispetto nel mondo stesso e traduzioni in innumerevoli lingue. Molte volte è stato chiamato il maggiore psicologo dei suoi anni: ma, come abbiamo detto, la sola parola “psicologo” è un abito stretto per una persona della sua complessità e statura. (…)
Le nostre quotidiane attività, la vita diurna e cosciente del XXI secolo, sono immerse in un cambiamento sempre più rapido, indipendentemente da quanto questo ci piaccia. Per tutte le correnti psicoanalitiche, l’inconscio ha una funzione compensatoria rispetto alla vita cosciente: fu infatti “scoperto” quando Freud notò il carattere sessuale dei sogni e di altre attività psichiche inconsapevoli, in un’epoca in cui la sessualità era estremamente repressa. L’inconscio ha, in sostanza, la funzione di correggere le unilateralità del mondo cosciente. Quindi, quando tutto cambia vertiginosamente, l’inconscio collettivo, e la cultura in cui si esprime, avranno fame di stabilità. Ecco allora l’estremo interesse suscitato dalla psicologia proposta da Hillman: quella degli archetipi, invarianti per definizione.
Essi sono il paesaggio immaginario, l’Itaca – per quanto evanescente e temporanea – o la rada in cui può trovare una notte di quiete la mente postmoderna, flagellata ogni giorno da eccessive novità politiche, economiche, tecnologiche.
(Il testo qui pubblicato è tratto dalla prefazione alla nuova edizione di James Hillman “Le storie che curano”, Raffaello Cortina, 2021)
© 1983 James Hillman ©2021 Raffaello Cortina Editore