L’annoiata Margot, il marito chiacchierone e il locandiere dotato

Dalle Storie apocrife della marchesa de Sablé. Avrete notato anche voi che in giro ci sono giovani donne con gambe lunghe e lisce, fianchi rotondi, vita sottile, seni prorompenti e occhi scuri che turbano. Queste giovani donne hanno un’immaginazione che si mette a galoppare, se sposano gentiluomini semplici e gioviali che fra le lenzuola sono una delusione: tipi come Emile Charles-Roux, un signorotto che viveva in Normandia. Quando questi era in salotto con gli amici fracassoni, a sua moglie, l’annoiata Margot, piaceva origliare da dietro la porta. E una volta ascoltò il marito che raccontava di un certo Salacrou, locandiere sull’isola di Mont Saint-Michel: si diceva possedesse l’ariete più vigoroso di tutta la Francia. “Nessuno saprebbe contare i cancelli meravigliosi abbattuti dalle sue cornate, ah ah ah!” Un altro gentiluomo concordò: Salacrou poteva fare in una notte quello che molti uomini fanno in un mese. Le storie indecenti su Salacrou proseguirono per tutta la serata. La mattina dopo, entrato nella stanza della moglie, Emile la vide che preparava i bagagli. “Dove vai?” “Marito mio, parto in pellegrinaggio per l’abbazia di Saint-Michel, dove offrirò preghiere e rinnoverò la mia fede.” “Capisco”, disse il marito, collegando tre cose: la follia di parlare troppo liberamente a voce alta, la curiosità femminile, e la sfortuna delle porte che non chiudono bene. Alla fine, conciliante, disse: “Bene. Accendi pure la tua candela. Ma spero che non pregherai per un miracolo: sono molto rari di questi tempi.” La moglie ebbe un vago movimento di stupore, gli porse, apatica, la tempia, e partì con la cameriera. Appena si furono allontanate, Emile sellò il cavallo più veloce e attraverso un’altra strada arrivò a Mont Saint-Michel con la bassa marea del mattino. Si recò subito alla locanda di Salacrou, e gli disse: “Ho una bella moglie che ha origliato dei pettegolezzi sulla tua virilità eccezionale, e quelle storie hanno eccitato Dio solo sa quale follia nella sua mente, temo. Quando arriverà, mi piacerebbe che tu le dessi il benvenuto, fingendo di assecondare le sue voglie eventuali. Ma niente scherzi. Sarebbe un peccato lordare di sangue questi pavimenti puliti.” Salacrou, che non voleva guai, gli promise che avrebbe fatto la sua parte e sparì. Madame e cameriera arrivarono con l’alta marea, esauste dal viaggio. Il locandiere diede alla signora una stanza confortevole, accese il fuoco nel caminetto e le fece arrivare una bottiglia di buon vino, del formaggio, e una coppa piena di ciliegie. Prima di cena, madame chiamò l’oste nella sua stanza con un pretesto (“Il caminetto non tira bene”) e si mise a chiacchierare con lui. Salacrou, per entrare nelle sue simpatie dalla porta principale, le raccontò un episodio licenzioso accaduto sotto quel tetto; lei, illuminandosi, lo incoraggiò a raccontargliene altri; e dopo un po’ se la intendevano così bene che Margot poté sussurrargli all’orecchio un’idea sconveniente. Salacrou sorrise, annuì, e si ritirò a parlare con Charles-Roux. Naturalmente, la porta di madame era aperta quando, a mezzanotte, Emile entrò nella stanza buia e si infilò a letto, ricevendo dalla moglie ignara un benvenuto entusiasmante. Cercò di fare del suo meglio, e se ne andò. La mattina, madame si svegliò tutta allegra. Pagò il conto, offrendo a Salacrou mille moine, visitò l’abbazia, dove fece penitenza, e tornò a casa con la cameriera. Se solo tutti gli uomini fossero prudenti abbastanza da governare le loro lingue e censurare le parole che sgorgano dagli umori invece che dal cervello; e se solo tutte le donne fossero giudiziose abbastanza da ignorare le curiosità che ascoltano; la vita sarebbe di gran lunga più ordinata. E molto più noiosa.

 

“Blocco settoriale insensato: ci ascoltino”

“Se il blocco dei licenziamenti fosse prorogato solo per il tessile, accadrebbe questo: si applicherebbe a chi produce camicie, ma non anche a chi fa i bottoni, perché questi ultimi fanno parte del comparto gomma e plastica”. Pierpaolo Bombardieri, segretario generale della Uil, usa questo paradosso per far notare quanto sia difficile da praticare il divieto “selettivo” che il governo si appresta a varare per decreto, fino a ottobre. Ieri è intervenuto a Bari, mentre i suoi omologhi della Cgil e della Cisl erano a Torino e Firenze.

Segretario Bombardieri, avete chiesto una proroga per tutti almeno fino a ottobre. Ora che vi aspettate?

Che i governi ascoltino i lavoratori, siamo convinti ci sia ancora margine per recuperare una situazione critica e ci aspettiamo attenzione nelle prossime ore. Ci preoccupano le grandi crisi irrisolte, come la Whirlpool che potrebbe avviare anche immediatamente la procedura di licenziamento, o il settore del trasporto aereo con 45 mila cassaintegrati di cui 35 mila a rischio.

Per voi resta irricevibile una proroga del blocco solo per i settori con maggiore tiraggio della cassa integrazione?

Non abbiamo pregiudiziali, abbiamo anche provato a misurarci sul merito. Si dice di bloccare il tessile, ma come ci regoliamo con i settori interconnessi, come l’esempio di chi produce bottoni? La parte di imprese che non ha gli ammortizzatori è già bloccata fino a ottobre, le aziende non pagherebbero la cassa integrazione, non capisco perché bisogna affrontare le questioni in modo ideologico.

Se non sarete ascoltati, dovremo aspettarci mobilitazioni già da subito?

Preferiamo proclamare le mobilitazioni, non minacciarle. Tentiamo il dialogo, quando vediamo che non c’è, andiamo in piazza.

Nella logistica la conflittualità è alta. Il fronte sindacale però è molto diviso tra voi “confederali” e le sigle di base. Questo indebolisce i lavoratori?

In questo settore le multinazionali hanno scaricato i costi sui lavoratori, decidendo di gestire molti servizi con algoritmi, utilizzando false cooperative e molto part time violando le norme contrattuali. Servirebbe più incisività dello Stato e controlli. Abbiamo rispetto per tutti i sindacati e rivendichiamo il pluralismo. Ma ricordiamo che in quei settori Cgil, Cisl e Uil sono maggiormente rappresentativi, firmano contratti. Mi auguro comunque maggiore unione, perché il sindacato diviso fa male al lavoratore.

Le imprese del turismo lamentano da settimane difficoltà a trovare manodopera. Scavando, si scopre che il problema sono i salari bassi e le irregolarità frequenti. Il sindacato ha fatto abbastanza per combattere lo sfruttamento nel lavoro stagionale?

Dove si applicano i contratti e si pagano bene, i ragazzi accettano. I giovani rifiutano dove c’è precarizzazione e sfruttamento; il sindacato può fare di più sempre, ma anche qui ricordiamo che il rispetto dei contratti lo chiediamo da tempo e in un settore ad alto tasso di mobilità è complicato stare in tutti i luoghi, spesso parliamo di imprese piccole che dicono ai lavoratori che se si rivolgono ai sindacati saranno sbattuti fuori.

I sindacati avvisano Draghi: “Non tradisca i lavoratori”

A tre giorni dalla fine del blocco dei licenziamenti, i sindacati sono scesi ieri in piazza per provare in extremis a convincere il governo a evitare quella che – dicono – sarebbe inevitabilmente una “bomba sociale”. La Cgil di Maurizio Landini a Torino, la Cisl di Luigi Sbarra a Firenze e la Uil di Pierpaolo Bombardieri a Bari: un attacco coordinato alla scelta di dare il via libera alle ristrutturazioni delle aziende, con potenziali centinaia di migliaia di posti di lavoro a rischio. Da giovedì, il divieto introdotto per la prima volta il 17 marzo 2020 sarà rimosso per le imprese dell’industria e dell’edilizia. Entro quella data arriverà un decreto correttivo che però sarà assai limitato con una proroga “selettiva” riservata al comparto tessile, il più in crisi o – in alternativa – un meccanismo che consideri chi sta utilizzando maggiormente la cassa integrazione. Insomma, la proroga generalizzata, chiesta dal Movimento Cinque Stelle e parte del Pd, non ci sarà, come ha spiegato il ministro del Lavoro Andrea Orlando: “È fuori discussione che ci sia attenzione alle questioni che pongono i sindacati. In che termini queste verranno accolte è una discussione che si sta facendo”.

I sindacati sono compatti. Un mese fa il governo Draghi ha compiuto una clamorosa giravolta su esplicito ordine della Confindustria: il Consiglio dei ministri aveva approvato il decreto Sostegni bis con una norma che – su indicazione di Orlando – allungava fino al 28 agosto lo stop ai licenziamenti per le aziende che avessero usato la cassa Covid entro la fine di giugno. La reazione isterica confindustriale ha portato al dietrofront. Malgrado le buone intenzioni di resuscitare la concertazione, la realtà ha mostrato un esecutivo pronto ad accogliere senza battere ciglio un diktat delle imprese.

Il leader della Cgil, Maurizio Landini ha parlato in piazza Castello a Torino: “Non è il momento di ulteriori fratture”, ha detto chiedendo la proroga fino al 31 ottobre del blocco dei licenziamenti: “Siamo i primi a sapere che le imprese senza utili non reggono, ma siamo anche gente di buon senso e sappiamo che saremo i primi a pagare”. Dal palco di Bari, Pierpaolo Bombardieri ha ricordato quante risorse pubbliche siano finite, soprattutto negli ultimi 15 mesi, nelle casse delle aziende, anche quelle che hanno realizzato profitti. “Spiegatelo a chi rischia di perdere il posto – ha detto – che proponete licenziamenti selettivi e quando avete dato i soldi alle aziende la selezione non l’avete fatta”. “Se si pensa, proprio ora, di girare le spalle ai lavoratori che perdono il posto, potete star certi che la nostra strada diventa quella della mobilitazione”, ha promesso Luigi Sbarra.

Proprio a Torino e nel Piemonte si concentrano alcune delle crisi industriali più delicate. “L’autunno sarà impegnativo – è il pensiero di Giorgio Airaudo, segretario regionale Fiom – meglio prepararsi prima e concordare le politiche, anziché andare allo scontro. Il governo è impegnato a discutere di ammortizzatori sociali e in questo anno e mezzo tutti hanno capito quanto siano utili. Per questo deve aprire a un confronto con le parti sociali. In questo quadro, questa manifestazione, la prima così dopo tantissimo tempo, è un avvertimento”.

Landini ha anche ricordato i casi dell’Embraco (alcuni dei 400 lavoratori presidiano da giorni in piazza Castello e uno di loro era sul palco) o della Whirlpool, aziende del settore degli elettrodomestici: “Se c’è un settore che ha fatto profitti quest’anno è stato questo”, ha fatto notare il segretario. Infine ha insistito su come il Piano nazionale di ripresa debba essere uno strumento per le politiche industriali. Un riferimento implicito alla vertenza che riguarda gli stabilimenti di Stellantis. Il pianeta ex Fiat fa massiccio ricorso alla cassa integrazione ormai da 14 anni, ha ricordato Maria Epifania, delegata Fiom allo stabilimento di Mirafiori, e per questo la partita che si gioca sulla produzione delle batterie per le auto elettriche è cruciale. Il governo sta tentando in tutti i modi di convincere il colosso a realizzare l’hub in Italia. “La prima cosa che chiediamo a Stellantis è di avere la certezza che la gigafactory venga fatta nel nostro Paese perché ancora non l’ha detto. Dopo di che chiaramente Torino è la candidata naturale”, ha sottolineato la leader della Fiom, Francesca Re David a margine della manifestazione.

“Riformare la giustizia senza tante storture. Basta tentennamenti”

La Giustizia come professione è il titolo dell’ultimo libro di Gustavo Zagrebelsky. Avrebbe potuto essere anche Confessioni di un giurista: il saggio è una guida ragionata attorno al diritto come traduzione mondana di una virtù morale, la giustizia. Ma è anche una lunga lettera d’amore al mestiere di giurista, non priva d’amarezze come accade sempre nei rapporti duraturi.

O forse una lettera d’addio al diritto?

Non ho una risposta sicura. Dopo più di mezzo secolo nel mondo del diritto sento l’esigenza di respirare anche altre atmosfere. Soprattutto visto come viene concepito oggi il mestiere del diritto: una girandola di commi, contro-commi e combinati disposti.

Una severa critica è riservata al diritto come tecnica, cioè all’uso strumentale che professionisti, più o meno consenzienti, fanno del diritto. Il diritto non è più mite?

In buona parte ha cessato di essere cultura, ed è per l’appunto diventato tecnica. Quando si ha a che fare solo con la tecnica (i giuristi di oggi amano parlare di ragionamenti “tecnico-giuridici”) il diritto diventa ciò di cui scrive il Manzoni quando l’avvocato dice al povero Renzo: “Figliuolo a te spetta di dire le cose come stanno, a me di ingarbugliarle”. La riprova sta nel fatto che il diritto in tutti i suoi settori è diventato non un fine, ma un mezzo per sostenere quasi tutto quel che si vuole o che interessa.

Perché rivolgersi all’autorità giudiziaria “è già un fallimento”?

Perché significa l’incapacità di risolvere le controversie di cui la vita è ricca in un rapporto a tu per tu. Nel Vangelo di Matteo un versetto dice: “Prima di andare dal giudice mettiti d’accordo con il tuo avversario”. In altri termini: il ricorso al giudice, in una società sana, è da considerare l’extrema ratio. Mentre nella nostra società, che da questo punto di vista sana non è, in presenza di qualsiasi contrasto si va per avvocati. Questa è una disumanizzazione.

Lei scrive: “La prescrizione è una norma di civiltà. Ma si può ammettere che sia usata per vanificare il processo? Difendersi non vuol dire vanificare”. Perché è un nodo politico così centrale?

Due considerazioni. La prescrizione dei reati che sono lontani nel tempo è una esigenza di civiltà. Diversa è la prescrizione che si determina non perché il reato è sepolto nel tempo, ma perché la macchina della giustizia è inefficiente. Ora l’inefficienza si combatte con l’efficienza. La prescrizione che deriva dall’inefficienza, in linea di principio, non dovrebbe essere assunta come ragione per non perseguire reati che non sono sepolti nell’oblio. Una cosa è la prescrizione sostanziale, necessaria; un’altra cosa è la prescrizione processuale, dovuta all’inefficienza del processo.

E la seconda considerazione?

La prescrizione sostanziale è un’esigenza di giustizia, la prescrizione processuale è una sconfitta della giustizia. Non solo: è diventata uno strumento di abuso del diritto quando viene utilizzata – con tutte le tecniche, i cavilli e gli artifici dalle difese degli imputati – per impedire che si faccia giustizia. Impedire alla giustizia di fare il suo corso non è una cosa buona. Gli avvocati che abusano della prescrizione saranno magari dei bravi legulei nell’interesse dei clienti, ma non sono dei buoni cittadini. Lo stesso dicasi per il legislatore.

Con gli avvocati non è, manzonianamente, tenero. In un passaggio parla degli studi legali come aziende: la giustizia è un brand?

È inevitabile, in un mondo del diritto così complesso, che la figura dell’avvocato solitario che si occupa di tutto sia oggi recessiva e che sia stata sostituita dai grandi studi associati che operano spesso su tante piazze, nazionali e internazionali, e che offrono servizi omnicomprensivi, “chiavi in mano”. Tra questi studi si sviluppano tecniche concorrenziali per affermarsi sul mercato. La vecchia e nobile idea dell’avvocato libero professionista è oggi manifestamente in crisi.

Della categoria dei giudici, lei elabora una tipizzazione: il politico, l’empatico, il redentore, il vendicatore. Perché?

Guardi, i giudici hanno a che fare con la giustizia. E la giustizia è una dimensione dell’animo umano che si nutre di tanta materia morale. Per quanto si voglia che il diritto sia indipendente da valutazioni morali, la tentazione è sempre sull’uscio. Ma naturalmente si tratta di tentazioni e il buon giudice sa quando deve resistere. Cosa non sempre facile. Questo è uno dei nodi che rendono tanto difficile la professione del giudice.

Riserva parole molto lusinghiere all’aggettivo politico, nel senso del perseguimento dell’interesse della polis, anche quando lo accosta all’amministrazione della giustizia. Eppure le tensioni tra politica e giustizia non accennano a diminuire.

La politica e il diritto appartengo a due àmbiti della vita collettiva, distinti e inevitabilmente in tensione. La politica è il luogo del potere, il diritto è il luogo della giustizia. Contrariamente all’apparenza non è buona cosa se vanno d’amore e d’accordo, poiché ciò significherebbe o che la giustizia si è asservita alla politica oppure che la giustizia prevarica la politica. Ciò è particolarmente deplorevole in democrazia.

Stiamo parlando, ma quando non accade?, di riforma della giustizia: vaste programme. È un’idea velleitaria?

Non ci si può aspettare miracoli e si deve temere di fare peggio di quanto già non sia. Per esempio complicando ulteriormente le procedure che andrebbero semmai semplificate; oppure aumentando il numero dei componenti del Csm, fino a farne una sorta di grande Consiglio Comunale.

Ecco, il Csm: ha un’idea di come si possa ridurre al minimo l’influenza delle correnti?

Sì: nove componenti, sei togati e tre laici.

Torniamo un momento alla riforma: si aspetta una svolta significativa?

C’è una massima di Montesquieu che dice che le cattive abitudini non si combattono con le leggi, ma con le buone abitudini. A un concetto simile si richiama la ministra della Giustizia quando dice che la vera riforma deve provenire innanzitutto dalla parte sana – che è mio parere è quella di gran lunga più numerosa – del mondo giudiziario.

All’inizio mi ha detto che non si occupa più di diritto: come passa le sue giornate?

Mi occupo di cose che colpevolmente finora ho trascurato. E il tempo è scarso. A settembre uscirà un mio commento al Qohelet, che tratta di vita e morte. Attualmente sto lavorando a una riflessione sulla “lezione”: pensi che ho fatto lezioni per cinquant’anni e solo ora m’interrogo su cosa ha da essere una lezione…

“Caro Beppe, ritrova la lucidità: così il M5S rischia di scomparire”

“Caro Beppe, recupera un po’ di lucidità perché ultimamente stai sbagliando tutto”. L’ultimo post su Facebook pubblicato da Beppe Grillo è un elogio al salario minimo, ma il commento più cliccato riguarda tutt’altro. Lo scrive Marco Linelli, evidentemente deluso dallo scontro tra il fondatore e Giuseppe Conte: “Caro Beppe, se il Movimento perdesse Conte è il consenso che scenderà al minimo e il salario minimo resterà un’utopia sindacale. Finalmente si è trovato un leader colto, educato, con un alto senso delle istituzioni e con le competenze per riorganizzare ‘sto macello”. E poi, appunto, l’invito a “recuperare un po’ di lucidità”. Il tono degli altri commenti più apprezzati è identico a questo. Giuseppe Montecalvo è lapidario: “Senza Giuseppe Conte i voti diventeranno anch’essi minimi per il Movimento”. Quasi tutti si descrivono come elettori o ex elettori dei 5 Stelle, circostanza che aumenta l’amarezza delle critiche. Come quella di Antonio Giuseppe Greco: “Caro Beppe Grillo, avevi dato a me e molti altri la possibilità di sperare in un Paese migliore. Ti voglio bene e ti stimo ma adesso la tua cifra ironica e graffiante non la vede adatta al momento. Il tuo, il mio, il nostro Movimento deve decollare. Avevi visto giusto quando avevi indicato in Conte la figura idonea a portare fuori dalle secche il nostro Movimento. Tu volevi dar voce a quelli come me e io, adesso, sto dando voce al mio rammarico”.

La sintesi è di Ghigo Agostino Quadrino: “Stai dando uno spettacolo misero, mettendo alla berlina un galantuomo come Conte. Stai distruggendo quello che avevi costruito quando non eri posseduto da questo delirio di onnipotenza”.

Concetti simili sono anche quelli che i simpatizzanti del Movimento esprimono nelle centinaia di lettere che stanno arrivando al nostro giornale (l’indirizzo mail è segreteria@ilfattoquotidiano.it). Francesco Albanese, per esempio, ci racconta un sentimento di “delusione e amarezza per come si stanno mettendo le cose” in quel Movimento “in cui ho creduto in questi ultimi 10 anni”: “Riponevo una certa speranza nell’ex premier Conte, ma temo che sia la fine del M5S e delle attese che la maggioranza degli elettori aveva di vedere applicata la democrazia. Ed ora è ancora più forte il dolore nel constatare che quest’ultima fase che potrebbe portare alla dissoluzione del Movimento sia da addebitare a Grillo che ne è stato fondatore”. Scommette sulla fine del M5S anche Franco Tedeschi: “Se Grillo non rinsavisce e insiste a considerare Conte un utile idiota, recettore e traduttore delle sue visioni, sarò uno di quelli che dopo anni di sostegno ai 5S li lascerò al loro destino, condannati all’estinzione”.

E così Fabio Parenti: “Sono un ‘grillino’ molto deluso dall’atteggiamento di Beppe Grillo. Non comprendo più il suo modo di agire, sembra quasi che voglia danneggiare quella che definisce la ‘sua creatura”. Perdere Conte sarebbe un suicidio politico”. E se Gianmario Capponi definisce la vicenda “surreale”, un altro lettore, Francesco Vignola, se la prende anche con chi in questi giorni non sta facendo scudo attorno a Conte: “Ciò che mi fa più rabbia è l’atteggiamento vigliaccio dei deputati e senatori del Movimento 5 Stelle che non hanno difeso Conte mandando a quel Paese Grillo”.

“Si devono parlare, altrimenti regalano il Paese alla destra”

“Se avessi la possibilità di sedermi insieme a Grillo e a Conte, gli direi due cosette sulle quali avrebbero la possibilità di riflettere”.

Domenico De Masi, il mediatore.

Conosco abbastanza bene Grillo, invece con Conte ho molta meno confidenza. Resto tuttavia convinto che i due se trovassero il modo di incontrarsi, oggi come oggi brinderebbero a champagne.

Oggi si stanno prendendo a schiaffi.

Se proseguono con i ceffoni preparano un pacco regalo alla destra: ecco l’Italia e fatene quel che ne volete.

A Grillo Conte pare null’altro che un “avvocato democristiano”.

E lo scopre oggi? Beppe non può immaginare di aver designato Conte come capo e poi ridurlo in servitù. Se oggi è democristiano lo era pure ieri. Beppe ha la colpa di aver alternato fasi evanescenti, in cui il suo volto scompariva del tutto, a fasi onnipotenti, rovinando improvvisamente sul proscenio e il più delle volte elettrizzando un Movimento già destabilizzato di suo.

Quale altro peccato imputa a Grillo?

Aver preferito il figlio naturale (Ciro) al figlio spirituale (Movimento). Quel videomessaggio è stato un evento tragico, direi. Per ultimo aggiungerei che spacciando Draghi e Cingolani per quasi grillini non ha reso un buon servigio alla verità.

Adesso parliamo dei peccati di Conte. Faccia finta di averlo davanti.

Beh, non aver compreso che il Movimento si regge su cinque gambe. Quella governativa (Di Maio), quella movimentista (Di Battista), quella digitale (la piattaforma Rousseau) alle quali aggiungere la radicalità di alcune proposizioni e il carisma dei due fondatori. Conte si è chiuso in una stanza e ha tagliato le gambe del tavolo su cui scriveva il nuovo statuto. Trentasette pagine. Un lavoro in solitaria per un partito personale. Dimenticando che lui non ha i quattrini di Berlusconi né il carisma di Grillo ed evirando il Movimento del suo carattere. Producendo l’idea di voler generare un Pd in seconda.

E abbiamo sistemato anche l’Avvocato.

Comprendo che non abbia nessuna intenzione di fare il “figurante” come giustamente dichiara. Ma tempo sei mesi e avrebbe avuto il Movimento in mano. Non c’è bisogno di alcuna rottura così teatrale, non serve “o con me o contro di me”, il sì o il no. Imporre il referendum tra lui e Grillo porta sempre sfiga, ricordi quello che è successo a Renzi.

E con questo cumulo di errori che lei imputa a ciascuno dei due vorrebbe imporre loro la pace? E chi dovrebbe arrendersi?

L’armistizio è imposto dal principio di realtà. Il Movimento – malgrado tutto quel che gli sta capitando – è incredibilmente tra il 15 e il 17 per cento. È tantissimo, ed è una dote elettorale indispensabile se si immagina di essere parte strutturata della coalizione di centrosinistra. Non basta questo a imporre i due contendenti di riporre la sciabola?

Conte si sente svillaneggiato.

Quando un borghese meridionale si sente punto nella dignità reagisce con ruvidezza. Invece dovrebbe fare un lungo sospiro e attendere un altro momento prima di battere i pugni sul tavolo.

E Grillo?

Capire che predicare la democrazia diretta e poi instaurare la monarchia assoluta è l’acuto paradosso dal quale tutto lo storto diventa più storto. Predicare uno vale uno fa sì che i non prescelti, proprio perché convinti di valere quanto quegli altri, li odino a morte. Se io valgo quanto te, perché tu fai il ministro e io il portalettere?

Qui siamo ai grandi peccati della base grillina.

Ritenere che l’ignoranza e l’incompetenza siano quasi una virtù è stato un affronto all’intelligenza, un delitto contro la passione, una crudeltà verso i talenti.

E gli eletti?

Hanno dato per scontata la loro superiorità pur restando incompetenti. Nessuna fatica, nessuna prudenza e nessuna sobrietà. E gli eletti hanno clamorosamente perduto i contatti con la base.

Malgrado tutto questo disastro sono al 17 per cento.

Craxi non superò il 14, perciò questo movimento ha radici più profonde nel Paese di quanto appaia e serve al Paese molto di più di quanto appaia.

Poche ore per fare pace: pressing sui legali di Grillo. Conte però non si fida

Il tempo della mediazione è quasi scaduto, ma dentro al Movimento Cinque Stelle sono tutti d’accordo: questa storia non può chiudersi così. La conferenza stampa con cui Giuseppe Conte risponderà alle accuse che Beppe Grillo gli ha rivolto di fronte all’assemblea dei parlamentari è confermata per il pomeriggio di domani. E fino a ieri sera, nulla era cambiato nelle posizioni di uno e dell’altro: l’ex premier sempre convinto che col nuovo Statuto debba nascere un M5s che parli con una voce sola, il garante fermo sull’idea che il movimento vada governato da una diarchia in cui lui, il fondatore, non può essere ridotto a un semplice “custode dei valori”.

Il punto che adesso tutti hanno chiaro, però, è che nella guerra dei due Beppe, quelli che rischiano di rimetterci davvero, sono tutti quelli che non hanno un passato – figuriamoci un futuro – né come showman né come avvocato. Perché la strada dell’ipotetico nuovo partito guidato dall’ex presidente del Consiglio è ancora tutta da scrivere, mentre quella eventualmente immaginata da Grillo per il “suo” Movimento è già segnata: oggi c’è e vuole fare il leader, domani chissà. L’unica garanzia di sopravvivenza è continuare a tenerli insieme, altrimenti, per dirla con il deputato M5S Francesco Silvestri, “è come avere un poker d’assi ad un tavolo da gioco e passare la mano”.

Per questo, ieri, è stata la giornata delle telefonate e degli appelli, dei tentativi di riavvicinare i due che da soli non riescono a parlarsi. Ci sono i mediatori in prima linea, a cominciare dal ministro Stefano Patuanelli e dalla vicepresidente del Senato Paola Taverna; quelli che lavorano dietro le quinte, come l’ex socio di Rousseau Pietro Dettori; c’è chi si prodiga in messaggi pubblici, come il ministro Luigi Di Maio, che ieri ha chiesto una tregua, perché le “decisioni” vanno prese in nome del “bene che tutti vogliamo al Movimento”.

È un appello, il suo come quello di molti altri, a non far precipitare le cose: convincere Conte, insomma, a fare una conferenza stampa dal finale aperto, senza tirare conclusioni affrettate. Il punto è che serve ancora tempo per convincere Grillo, per fargli capire che l’accordo con Conte va trovato. Raccontano che il fondatore abbia capito che i toni usati nell’assemblea di giovedì siano stati un filino esasperati. Ma raccontano pure che non siano gli sfottò e le imitazioni acchiappa-risata ad aver scoraggiato Conte. Nella telefonata di giovedì, quando Grillo gli ha chiesto di “non dare retta alle agenzie”, l’ex premier lo ha gelato: “Il problema non sono le agenzie, il problema è che tu quelle cose le hai dette”. Non vuole scuse, l’avvocato, non è una questione di offese. In ballo c’è la sua “agibilità politica” nei 5 Stelle, che può essere garantita solo da uno Statuto in cui i ruoli del capo e quelli del garante siano definiti e non sovrapponibili. È un fatto di norme, insiste l’ex premier. E non è un caso che gli emissari della mediazione, per provare a convincere il fondatore, l’abbiano presa alla larga: non chiamano direttamente a Genova -considerando inutile discutere con Grillo di codici e cavilli – ma si rivolgono ai suoi legali, quelli che lo hanno aiutato a scrivere con la penna rossa i “rilievi” alla bozza di Statuto scritta da Conte. Persone di cui Grillo si fida e che quindi, ragionano i mediatori 5 Stelle, potrebbero convincerlo della bontà delle richieste dell’aspirante capo.

Per questo serve tempo e per questo tutti chiedono a Conte di non chiudere subito la porta: nel discorso di domani, gli suggeriscono, vanno illustrate tutte le ragioni per cui non è possibile accettare le condizioni di Grillo, ma va lasciato aperto uno spiraglio per il “ravvedimento operoso”. “Non si deve impuntare”, è il succo di chi teme che Conte si presenti davanti ai giornalisti e pronunci il suo “non ci sto”.

Ma d’altro canto, per lui e per i suoi consiglieri, resta difficile immaginare che la convivenza con Grillo – anche se si dovesse superare lo stallo di questi giorni – non gli riservi altri colpi bassi in futuro. Fidarsi, dopo quello che è accaduto, ormai è praticamente impossibile.

Software dell’Fbi. Così la Procura ha scovato carte per 60 terabyte

La chiave di volta dell’inchiesta della Procura di Genova sul crollo del Ponte Morandi è un software importato direttamente dagli Stati Uniti e usato dall’Fbi. Un mega cervellone che la polizia federale americana ha usato in indagini delicatissime sul riciclaggio internazionale e la criminalità organizzata. E che gli investigatori impegnati nelle indagini sul fronte Morandi hanno importato per analizzare e incrociare una quantità di dati forse inedita per un’inchiesta penale: oltre 60 terabyte, oltre 200 faldoni, più di centomila pagine tra documenti allegati e materiale utile alle indagini. “Per avere un termine di paragone – spiega un tecnico informatico che si è occupato dell’implementazione del programma – i documenti digitalizzati del maxi-processo di Palermo occupano appena due terabyte”.

Il programma si chiama Nuix ed è costato 2 milioni di euro. Una cifra che, entrando a far parte delle spese processuali, sarà chiesta indietro come risarcimento agli imputati, nel caso in cui venissero condannati in modo definitivo.

Ma cosa fa praticamente Nuix? Nella sostanza è un programma in grado di processare grandi quantità di dati. L’hardware sul quale gira occupa una stanza intera della Procura, dove gli addetti ai lavori lo hanno ribattezzato “la bestia”. Il sistema può, ad esempio, incrociare le informazioni riguardanti uno stesso elemento presenti in molti server diversi. È così che sono stati ricostruiti i carteggi interni sul degrado del Ponte Morandi, le mancate manutenzioni, i controlli falsificati e la consapevolezza a vari livelli di quanto stava accadendo.

Il programma, in ogni caso, acquistato con l’avallo del ministero della Giustizia, non sarà limitato alla sola indagine sul viadotto Polcevera. La Procura di Genova lo ha già impiegato in altri fascicoli caratterizzati da una particolare complessità. Uno degli ambiti in cui si è scelto di utilizzarlo, ad esempio, è l’inchiesta sulla ricerca dei 49 milioni di euro della Lega. In quel caso Nuix viene usato per incrociare documenti bancari e possibili collegamenti con i fondi spariti.

L’audio del 2017: “Qui se famo male, quello va de sotto”

Manca un anno al crollo del Ponte Morandi. Ma il collasso del viadotto, nelle riunioni interne, è tutt’altro che un’ipotesi remota: “Qua se famo male, quello va de sotto”. Il riferimento è al viadotto Polcevera. A parlare è l’ex capo delle manutenzioni di Autostrade per l’Italia, Michele Donferri Mitelli, braccio destro dell’ex amministratore delegato Giovanni Castellucci: “C’è anche un fenomeno di fluage dei cavi esterni. Se tu c’hai il combinato disposto che i cavi esistenti si degradano… i cavi di precompressione “unbonded” se allentano e il ponte te cade giù. Dico bene, professò?”. E ancora: “Aspi e Spea hanno fatto una cazzata, sul pilone 11 era previsto un sistema di monitoraggio”.

È il 26 settembre del 2017, un anno prima della catastrofe. Donferri viene registrato a sua insaputa durante una riunione presso la sede centrale di Aspi. L’intercettazione artigianale viene realizzata dal dirigente Spea Marco Vezil, indagato insieme a Donferri nella vicenda del Ponte Morandi. Da tempo Vezil si sente vittima di pressioni crescenti e teme, lo dice apertamente, di “finire in galera” a seguire le indicazioni di Donferri. Ecco spiegato perché comincia a raccogliere prove su quei colloqui. Non è l’unico a tutelarsi. Lo fa anche un altro quadro di Spea, Massimiliano Giacobbi, anche lui indagato. Dopo il crollo del Ponte Morandi la Guardia di Finanza trova nel computer dei due funzionari oltre 36 ore di registrazioni, molte delle quali inedite, diventate oggi una prova importantissima nell’inchiesta sul disastro.

“C’è una patologia perversa qui, nessuno controlla, non fate un cazzo”, dice Donferri. Il 29 settembre del 2017 va in scena un’altra sfuriata: “Stavo qua già da un anno e ho saputo che c’erano da fare gli stralli del Polcevera… era marzo, febbraio… non sapevo un cazzo… da aprile dell’anno prima… cioè, a casa mia non cerco di mettere ordine… lo metterò male, sarò intempestivo, sarò imprudente, sarò maleducato, non lo so perché non se può sopporta’ la situazione… ma voi non state facendo letteralmente un cazzo… la progettazione è proprio in mano a Cristo…”.

Il 19 settembre del 2017 si parla del viadotto Giustina, in Abruzzo. Donferri vuole evitare il collaudo statico del Genio Civile: “Glielo mettiamo al culo con il calcestruzzo alleggerito e diamo una riverniciata”. Spea, lamenta, ha presentato un progetto di ristrutturazione che ha il “difetto” di allungare la vita utile dell’opera al 2064, cioè ben oltre la scadenza della concessione di Autostrade per l’Italia: “Non è che nel 2034 se crepa, ma ‘sti cazzi, saremo vermi, saremo carne per i vermi tutti quanti, ce ne saremo belli che andati, e ‘sti cazzi… Io adesso ho dato un mandato chiaro, le opere devono arrivare al 2038 eventualmente compresa la proroga della proroga, massimo 2042, punto… So andato a leggere 2064 m’è presa un colpo, la vita utile? Ma ‘sti cazzi!… Tutti i progetti di manutenzione devono andare al Mit cercando di fare fino all’ultimo i figli di puttana”. L’importante, ovviamente, è “non scrivere” che la nuova vita utile dell’opera combacia con la fine della concessione.

Donferri, annota la Finanza, fa un paragone “aberrante” con il crollo del ponte 167, che il 9 marzo 2017 ha provocato la morte di due persone: “Il cavalcavia che è caduto… ti devi solo lavare la coscienza dei due morti, che se riesci a giustificare che era colpa dell’impresa forse ti salvi…”. Vezil si lamenta delle pressioni di Donferri, appena il dirigente si assenta: “Io non ne posso più, adesso ne parlo con Galatà (amministratore delegato di Spea) e rinunciamo all’incarico… se ci fate le le minacce che fate, poi son tutti cazzi vostri… il casino non lo riesce a capire perché non lo vuole capire…”.

Morandi, le email della strage annunciata

Una catastrofe annunciata. Sintetizzato in diritto, significa questo la “colpa cosciente” contestata a molti dei 59 indagati per i quali i pm di Genova Francesco Cozzi, Massimo Terrile e Walter Cotugno hanno chiesto il rinvio a giudizio nell’inchiesta sul crollo del Ponte Morandi, che nell’agosto del 2018 causò la morte di 43 persone. Le prime prescrizioni per l’omissione di atti d’ufficio scatteranno già a ottobre 2023, anche se “si tratta delle accuse meno gravi”, ha spiegato Cozzi. Il falso si estinguerà nel 2024, mentre nel 2026 partiranno quelle per gli omicidi colposi per gli indagati che hanno cessato la carica prima del 2005. Intanto l’inchiesta prosegue e l’anatomia del disastro – allarmi ignorati, risparmi sulle manutenzioni e controlli falsificati – è stata ricostruita dalla Guardia di Finanza grazie a un software già usato dall’Fbi, che ha consentito di recuperare, incrociare e ordinare migliaia di email e chat, finora inedite.

 

L’ingegnere trasferito: “Stato di degrado generale”

Carlo Casini è stato responsabile dell’ufficio sorveglianza Genova sud di Spea Engineering, ditta incaricata dei controlli a sua volta controllata da Autostrade per l’Italia. Il 15 dicembre 2009, appena insediato, Casini invia un primo preoccupato rapporto sullo “stato di degrado generale del viadotto Polcevera”, in cui propone “una campagna per conoscere lo stato di precompressione dei cavi” e aggiornare “ispezioni degli anni Novanta”. Nel maggio 2011 denuncia “cavi di precompressione rotti”, “fessurazioni anomale”, “travi che rimandano rumori sordi, non dei migliori”. E domanda: “Con cavi e travi marce, cosa vogliamo capire senza uno studio strutturale serio?”. Gli allarmi cadono nel vuoto. Aspi gli rifiuta alcuni controlli “per problemi di budget”. E lo fa ammonire: “Ho letto delle cose nella relazione di Spea Sud che non dovrebbero accadere e soprattutto che ci eravamo detti di non scrivere – scrive Paolo Agnese, funzionario Aspi (non indagato) – Ho intenzione di parlarne con Casini e porgli il problema e uniformarlo al metodo che abbiamo sempre usato”. In altre parole, l’ispettore troppo zelante viene “costretto a rendere meno allarmanti le segnalazioni – scrivono i finanzieri coordinati dal colonnello Ivan Bixio – le sue relazioni vengono in più occasioni cassate e modificate”.

In un report dell’11 febbraio 2013, Casini insiste: “Le prove riflettometriche sugli stralli, avviate e richieste dopo il mio arrivo, hanno dato conto di un grado di corrosione di livello 3. Ma, scusate la franchezza, non hanno destato interesse alcuno”. Risultato: “Non c’è un cavo che non sia corroso”. Il 25 febbraio interviene il suo superiore di Spea, Giampaolo Nebbia (indagato): “Per ovvi motivi di cui vi renderete conto leggendola – scrive – invierò io stesso ad Aspi la lettera, con modifiche, rendendola cioè più semplice e togliendo alcune frasi che non è opportuno dire”. Nel maggio 2015 Casini, “mal sopportato dalla sua linea gerarchica” e “dal committente Aspi”, viene spedito ad Aosta, lontano dalla famiglia. Oggi è indagato con i dirigenti che gli cambiavano i report.

 

I sensori inattivi dal 2016 e il catalogo di rischio

Il Ponte Morandi era l’unico viadotto italiano che, a partire dal 2013, era indicato direttamente nel catalogo rischi aziendali Atlantia: “Rischio crollo viadotto Polcevera per ritardate manutenzioni”. Il pericolo veniva considerato remoto per “assenza di allarmi del sistema di monitoraggio”. Ma i sensori erano inattivi dal 2016, tranciati durante un cantiere. “Lo comunicammo via mail l’11 luglio 2016 all’ex responsabile di Tronco Massimo Meliani (indagato) – racconta Alessandro Paravicini, titolare di una ditta esterna (non indagato) – ma riscontrammo un particolare disinteresse di Aspi”. Il 3 novembre del 2015 Meliani spiega la scelta a Maurizio Ceneri (indagato): “Nel 2014 Autostrade non ha approvato il monitoraggio tensionale delle travi per mancanza di budget”.

Dalle carte emerge un sistema di commistione totale tra controllore e controllato. Come dimostra un appunto sequestrato nel cellulare di Antonino Galatà, ex ad di Spea (indagato), datato 23 luglio 2018, preparato prima di una riunione con Aspi: “Tentativo di snaturare ruolo in house. Intimidazione sulla gestione operativa. Forzatura sull’assunzione dall’esterno. Una gestione che forzando a tagliare i costi impedisce di investire sulle risorse e mette a rischio i risultati in termini di qualità e sicurezza”.

 

Le relazioni modificate e i report fantasma

Nelle ore successive al crollo la Guardia di Finanza registra i primi tentativi di depistaggio. Il 14 agosto 2018 gli investigatori rintracciano i messaggi Whatsapp di due tecnici di Edin, società che nel 2015 aveva firmato una consulenza per Aspi: “Avevamo evidenziato forti criticità sul Polcevera. Alcuni dati sismici non tornavano”. È un nervo scoperto: Aspi, infatti, ha dichiarato il falso al Ministero sostenendo di avere un regolare certificato antisismico ed Edin, prassi consolidata, era stata invitata a depurare il rapporto ufficiale dai “dati sgraditi”. “Mandami tutti i dati sulla zonizzazione sismica del Polcevera – scrive preoccupato nelle ore successive al disastro il capo delle manutenzioni Aspi Michele Donferri Mitelli al dirigente Aspi Fulvio Di Taddeo (indagati) – cerca di ricostruire tutto ‘in silenzio’”. Il 15 agosto, inoltre, ricompare un rapporto “fantasma” sul viadotto Polcevera, in cui si parla di “cavi non iniettati” e “trefoli che si rompono con lo scalpello” “sulle pile 9 (la prima a crollare, ndr) e 10”. La Finanza lo intercetta in una mail inviata da Alessandro Costa, tecnico Spea (non indagato), ai suoi superiori. Il dossier è del gennaio 2016 e non era mai stato inserito nella piattaforma su cui Aspi e Spea condividevano le ispezioni: “È una relazione che dovrebbero già avere a Genova, ma che non è mai stata caricata sul sistema informatico”, scrive Costa.

Alle 00.08 del 15 agosto, Enrico Valeri, funzionario di Aspi, si fa rimandare da Chiara Murano, dipendente della società Cesi, una consulenza che quest’ultima ditta aveva eseguito sul Polcevera nel 2016. Nelle conclusioni Cesi invitava Autostrade a dotarsi di sensori. “A una prima lettura la relazione sembra ottima – scrive Murano – a patto di aver realizzato le integrazioni di sensoristica suggerite”. Ancora una volta, le notizie peggiori sono però contenute in “una mail non approvata dal cliente e mai ufficializzata”, in cui si parla di “anomalie sugli stralli”. Il 17 agosto Domenico Andreis, ad di Cesi (la cui posizione è stata stralciata), si premura di scrivere ad Aspi che “l’unica documentazione valida è quella ufficiale”.

Autostrade per l’Italia sottolinea che il management, dopo le indagini, è stato completamente rinnovato e che Spea è stata esautorata da due anni.