Altro che immunità di gregge: uno su quattro non si vaccina

Indecisi, impauriti o sfiduciati dopo le tante giravolte su AstraZeneca, dal quale tanti fuggono. Oppure semplicemente no vax della prima ora. O, ancora, persone indisponibili a rientrare dalle ferie per fare prima dose o richiamo. Fatto sta che mediamente in Italia circa una persona su quattro non ha ancora aderito alla campagna vaccinale. E a questo punto, è anche possibile che non lo faccia più. Eclatante il dato della Campania, dove non si è prenotato quasi il 29% della popolazione vaccinabile. Ma da Nord a Sud le percentuali non si discostano granché.

In Piemonte un milione di persone, oltre il 20%, non ha ancora prenotato la prima dose. La percentuale sale al 25% in Lombardia. Mentre in Lazio è l’assessore alla Salute Alessio D’Amato a fare un po’ di conti: “Stimiamo – dice – che un 25% di persone non abbia intenzione di vaccinarsi oppure non può per questioni di salute. Non è una percentuale enorme ma da considerare fisiologica nelle campagne vaccinali facoltative come quella contro il Covid”. In Lazio la copertura degli over 80 ha raggiunto il 95%, quella degli over 70 l’89%. Poi c’è quella fascia d’età tra i 50 e i 69 anni dove si oscilla tra il 70% e l’83%.

I numeri sono in crescita anche per quanto riguarda i quarantenni, tanto che il Lazio verso metà agosto dovrebbe raggiungere l’obiettivo del 75% della popolazione immunizzata. Restano però fuori oltre 1,2 milioni di persone, che potrebbero aver già deciso di non vaccinarsi. Anche in Lombardia la percentuale di chi non ha aderito è molto diversa a seconda della fascia di età: 10% tra i 70 e i 79 anni, 14% tra i 60 e i 69 anni, 34% nella fascia 20 e i 29 anni. Numeri che trovano conferma nell’ultimo report del governo sull’andamento della campagna vaccinale. Complessivamente ci sono ancora 2,7 milioni di over 60 che non hanno fatto nemmeno la prima somministrazione e che quindi non hanno alcuna copertura contro il Covid. Negli ultimi sette giorni la prima dose, in questa fascia d’età, ha riguardato solo 140 mila persone.

Nel calcolo delle persone ancora senza copertura entrano gli over 80 (il 7,79% del totale), i cittadini tra i 70 e i 79 anni (13,51%), la fascia 60-69 (20,20%). In Campania, dove mancano all’appello quasi 1,5 milioni di persone, un caso emblematico è quello del capoluogo regionale. “Da domenica (oggi, ndr) abbiamo terminato le prenotazioni”, ha detto il direttore generale dell’Asl Napoli 1, Ciro Verdoliva. In pratica sono ancora tanti a non essersi prenotati, “una fetta di napoletani che non ne vuole sapere di vaccinarsi. Rileviamo la conferma di una presa di distanza ma continueremo ad offrire la possibilità di aderire”. Tra questi, quasi 65 mila residenti con più di 60 anni che di fronte a una possibile quarta ondata si ritroverebbero completamente scoperti. Prospettiva che preoccupa. Così come si teme che in queste condizioni non sia possibile raggiungere l’immunità di gregge. Da qui l’appello dello stesso Verdoliva, dai microfoni di Radio Crc. “Penso – ha detto il dirigente sanitario campano – che i successi segnati fino ad ora nelle attività di contrasto alla pandemia abbiano coinvolto tutti. Ora dobbiamo sentire il dovere di vaccinarci, comprendendone l’importanza”.

“Trasferte rischiose. A Wembley 60mila per la finalissima? Una roba da matti”

Centoventi finlandesi tornati positivi dopo la partita della loro nazionale a San Pietroburgo, infetti allo stadio anche a Copenaghen, gli spalti pieni a Budapest e presto quasi pieni a Londra dove si contano oltre mille nuovi casi al giorno.

Professor Andrea Crisanti, gli Europei di calcio la preoccupano?

Guardiamo i fatti reali. La variante Delta ha una trasmissione elevatissima e gli assembramenti aumentano i rischi. Allo stadio la gente è incoraggiata a urlare, a fare il tifo, a supportare. Questo favorisce l’emissione virus e il contagio. È ovvio.

Gli Europei possono essere un volano per la variante Delta?

Questo rischio c’è.

Non va bene neanche con la capienza degli stadi al 25% e i controlli agli ingressi?

Ma no, un tentativo si doveva fare, la maggior parte dei tifosi vaccinati consente questo esperimento sociale.

Crisanti ottimista è una notizia.

Ma guardi che io non sono catastrofista.

Nel Regno Unito, dopo le vaccinazioni, ai maggiori contagi non corrispondono ricoveri e decessi nelle proporzioni che conoscevamo.

Senza vaccini saremmo in piena emergenza, sarebbe stato da incoscienti. Ora tutto si gioca sulla durata della protezione indotta dalle vaccinazioni e dallo sviluppo delle varianti.

Meglio vietare le trasferte dei tifosi?

Anche quelle sono un elemento di trasmissione. Bisogna limitare i rischi.

Stadi pieni al 25% anche alla ripresa del campionato italiano?

Non lo so, lo diranno i contagi.

Un accordo tra governo britannico e Uefa aumenta la capienza al 75% per le semifinali e la finale, proprio a Londra dove la variante Delta dilaga. Come le vede 50/60 mila persone a Wembley?

Ma siamo matti? Londra sarebbe il posto sbagliato. Come se il virus distinguesse tra una semifinale e un’altra partita. Capisco la voglia di tornare alla normalità ma non deve andare a scapito del buon senso.

Perché Delta si diffonde proprio in Gran Bretagna?

Per i tanti contatti commerciali e le relazioni anche personali con l’India, che a causa dell’elevata trasmissione è un incubatore di varianti.

L’Italia ha reintrodotto la quarantena per chi arriva dal Regno Unito senza applicarla ai tifosi del Galles in trasferta a Roma.

Non sapevano che il Galles fa parte del Regno Unito?

A Londra però hanno quasi eliminato la mascherina.

All’aperto sì, però è obbligatoria sui mezzi pubblici e in altre situazioni al chiuso. C’è lo smartworking, non è tutto come prima.

Crisanti è tifoso?

Sono un po’ tifoso della Roma perché qui in famiglia sono tutti tifosi della Roma. A mio figlio regalavano magliette fin da piccolo. Non oso tifare altre squadre. Non mi interesso tantissimo, però seguo.

Conformismo romanista?

Lo dice perché è laziale.

Ha visto le partite dell’Italia?

Qualche mezzo tempo.

Le piace la Nazionale. Chi le è piaciuto di più?

Verratti. Ha visione di gioco spettacolare, salta l’uomo. Poi Spinazzola. Con Immobile, Insigne e Verratti pensi cos’era il Pescara di qualche anno fa…

Teme recrudescenze del virus a settembre/ottobre?

Bisogna limitare il più possibile le possibilità di contagio.

Si dice vaccini e sorveglianza. In Italia le vaccinazioni, con qualche ritardo nelle forniture, proseguono. E la sorveglianza?

Sui vaccini siamo almeno alla pari con altri Paesi ed è già tanto. I vecchi sistemi di sorveglianza e tracciamento però non funzionano.

Che bisogna fare?

Un programma nazionale, una banca dati nazionale. E passare dal contact tracing al network testing, cioè testare tutta la rete dei contatti a prescindere da quello che si ricorda la persona infetta. Come hanno fatto a Singapore per il cluster all’aeroporto, che poteva mettere in ginocchio l’intero Stato. Serve un sistema per bloccare la trasmissione, misure stringenti per controllarla, individuare prontamente i casi e se ce n’è uno spegnere subito tutta la catena. Se metti la popolazione in zona bianca e la fai andare anche allo stadio, nessuno starà attento. Dipende da chi governa, non dalla gente.

Variante allo stadio: cluster nel girone B. Allarme agli Europei

Uefa, abbiamo un problema, qualcosa nel Gruppo B è andato storto. È infatti ormai certo che gli Europei di calcio – come esplicitamente temuto alla vigilia dal Centro europeo per la prevenzione delle malattie (Ecdc) e dall’Oms – siano all’origine, per ora, di almeno due focolai di Covid, variante Delta compresa. Tutta colpa della formula itinerante – affascinante ma clamorosamente inopportuna in tempi di pandemia – e soprattutto degli stadi (ri)aperti, in particolare quelli di San Pietroburgo e Copenaghen, impianti in cui Russia e Danimarca (a differenza di altri Paesi più rigorosi come Italia e Germania) hanno consentito un accesso pari al 50 e al 73,5% della capienza (ossia rispettivamente circa 32 e 28 mila spettatori).

Il primo allarme è suonato giovedì, quando le autorità danesi hanno comunicato tre casi di variante Delta (poi saliti a oltre dieci) tra i tifosi che hanno assistito al match del Gruppo B Danimarca-Belgio, giocato a Copenaghen il 17 giugno. Il cluster è scoppiato nella Tribuna B del Parken Stadion, dove avevano trovato posto circa 4 mila persone, tutte invitate a sottoporsi a test molecolare. Ventiquattr’ore prima di Danimarca-Belgio, a San Pietroburgo si era giocato Finlandia-Russia, sempre Gruppo B. Questa partita, stando a quanto comunicato dalle autorità di Helsinki, ha provocato 120 contagi tra i circa 2 mila tifosi che si erano recati in Russia. Il cluster, questa volta, sembra essere scoppiato in un ristorante nei dintorni dello stadio. Ma i positivi potrebbero essere molti di più. Essendo infatti la Russia (insieme alla Gran Bretagna) il Paese europeo con il più alto tasso di incidenza Covid nelle ultime settimane, la Finlandia si era premurata di testare chiunque rientrasse da est. Ma, a quanto pare, a causa dell’ingorgo creatosi al confine, circa 800 persone (invitate dal governo a sottoporsi a test) sono state lasciate andare.

A San Pietroburgo – dove ieri si è registrato il triste record di 107 morti a causa del Covid in 24 ore – la Finlandia ha giocato (con tifosi al seguito) anche il 21 giugno contro il Belgio (5 giorni dopo il match con la Russia) mentre i tifosi russi incrociavano i danesi a Copenaghen. Non solo, l’ex Leningrado ha ospitato anche tre partite del Gruppo E tra Polonia, Slovacchia e Svezia e ospiterà un quarto di finale il 2 luglio. Il Belgio poi (con tifosi al seguito) giocherà oggi il suo ottavo di finale a Siviglia contro il Portogallo, nazionale che (con tifosi al seguito) ha disputato due dei tre incontri del Gruppo F (contro l’Ungheria il 19 e contro la Francia il 23 giugno) nella bolgia della Puskas Arena di Budapest, l’unico impianto aperto al 100%. Per la cronaca, il Portogallo è attualmente il terzo Paese europeo per incidenza ogni 100 mila abitanti dopo Gran Bretagna e Russia.

E pensare che Mario Draghi, il 21 giugno, paventava l’ipotesi di “scippare” a Londra le due semifinali e la finale in programma il 6, 7 e 11 luglio. È possibile che il premier abbia cambiato idea, ma il problema rimane: la Gran Bretagna è in questo momento il Paese con il più alto tasso di incidenza del virus, per la quasi totalità a variante Delta. Fino a oggi a Wembley è stato consentito l’accesso a poco più di 20 mila persone (su una capienza di 90 mila), ma l’intesa con l’Uefa (confermata dal governo di Londra) è di aprire le porte ad almeno 60 mila spettatori. Non solo, circa 2.500 saranno i cosiddetti invitati “vip” (principalmente sponsor) dell’Uefa che non dovranno osservare la quarantena di 10 giorni (salvo il divieto di muoversi per il Paese e per Londra) obbligatoria per chiunque entri in questi giorni nel Regno Unito. Covid o non Covid, insomma, il torneo è appena entrato nel vivo e difficilmente rallenterà per questo: per l’Uefa ci sono almeno due miliardi (di ricavi) di ragioni.

I nemici-amici

Mentre i 5Stelle lottano tra la vita e la morte, la cosa che più colpisce è la totale incapacità degli “addetti ai lavori” di capire le ragioni della loro esistenza in vita. Prendete i sondaggi: da tutti dipinti come catastrofici, sono in realtà trionfali, per un movimento in tale crisi di leadership, di identità e di nervi. Avete mai visto un partito morto fra il 15% e il 18%? Craxi, da tutti indicato come l’ultimo genio della politica, non superò mai il 15. E il machiavellico Andreotti non riuscì mai ad avere il controllo della Dc, gestendo una minuscola corrente interna (malgrado i voti della mafia). Per non parlare dei fenomeni di ultima generazione, idoli di tv e sui giornaloni: l’Innominabile e Calenda, imbullonati ai rispettivi 2%. Gli “esperti” hanno avuto 12 anni per studiare i 5Stelle, capirne le ragioni e farsene un ragione. Ma niente. Non appena ci si avvicinano, rinunciano all’analisi e partono con l’anatema, l’esorcismo, la caricatura. Gli si annebbia la vista e gli va in pappa il cervello. Non sanno parlare che di vaffa, gaffe, clic, populismo, giustizialismo. E non spiegano mai perché milioni di italiani (11, alle ultime elezioni) hanno creduto in loro e ancora li rivoterebbero (la metà) anche nel punto più basso della loro parabola. Se fossero i ridicoli buzzurri che tutti dicono, perché gli altri – quelli bravi e seri – hanno appena 4 o 5 punti più di loro o stanno addirittura sotto? Raccontavano che la Raggi era la quintessenza dell’incompetenza grillina: e allora perché sono tutti lì che stringono le chiappe nel terrore che al ballottaggio vada lei, al posto dei competenti Gualtieri e Calenda? Raccontavano che Conte, venendo dal M5S, era una pippa; poi non si davano pace dei suoi successi e della sua popolarità, infatti lo buttarono giù proprio per quelli, sicuri che sarebbe subito sparito; e ora impazziscono perché non si decide a defungere nemmeno dopo il Conticidio grillesco.

Però, anziché domandarsi dove hanno sbagliato, continuano a riscrivere lo stesso pezzo con le penne intinte nella bile. Esemplare il duo Feltri jr.- Messina di Stampubblica, con la solita litania dei “No-Tav, No-Tap, No-Vax” convertiti al Tav (falso: votarono contro), al Tap (già avviato quando andarono al governo) e ai vaccini (a cui nessun programma del M5S è mai stato contrario), col “record di cambi di casacca” (falso: sono gli unici che non accettano cambiacasacca, mentre tutti gli altri ne sono pieni) e “alleati con tutti i partiti” (no, quello è il governo Draghi tanto caro a Stampubblica, votato da 900 cambiacasacca su 945 parlamentari). Ora Grillo, salvo resipiscenze last minute, ce la mette tutta per distruggere i 5Stelle. Che però hanno una formidabile assicurazione sulla vita: i loro nemici.

L’oggetto narrativo di Enrico Deaglio, che comincia per Q e finisce a Orione

Trattando questa rubrica di saggi, per parlare del libro di Enrico Deaglio che la casa editrice Marsilio definisce un “post-romanzo” dobbiamo prendere a prestito una definizione di Wu Ming 1, quella del romanzo “ibrido” e dell’“oggetto narrativo non identificato”. Perché Deaglio compie una sperimentazione suggestiva, quella di narrare l’attualità politica e, in particolare, quanto avvenuto il 6 gennaio 2021 a Capitol Hill – l’assalto al Campidoglio da parte dei militanti trumpiani – con una tecnica originale. Non lo fa in prima persona, ma tramite un io narrante di finzione che corre in aiuto del cognato accusato di aver fatto parte della sommossa. E facendo questo viaggio si immerge nel tentativo di capire cosa sia successo realmente, e che tipo di America si squaderni davanti, o forse sotto di lui.

Ne viene fuori un romanzo-saggio-racconto, appunto, un oggetto non ben identificabile dal punto di vista dei canoni letterari in cui Deaglio si diverte anche con rimandi al celebre romanzo di fantascienza. La società cui decide di vendere la sua preziosa risorsa – un cognato accusato di far parte della rivolta – si chiama New Orion, batte in volata le Facebook o le Salesforce nella capacità di raccolta e analisi dei dati personali. E mutua il nome dai “bastioni di Orione”, onirica visione dell’androide di Blade Runner le cui parole danno il titolo al libro.

Ma di rimandi ce ne sono altri. Non sapendo, probabilmente, di scrivere un oggetto narrativo non identificabile, Deaglio si ritrova a convidivere con Wu Ming 1 anche la centralità che Q (inteso per QAnon) conferisce alla giornata del 6 gennaio apice della lotta contro quel complotto democratico che, a base di bambini seviziati e di sangue che dovrà scorrere a fiumi, giustifica la “venuta” di Trump. A Q Wu Ming ha dedicato il suo ultimo libro, con Q Deaglio inizia il suo racconto. Il mondo dei libri è bello anche per questo.

 

“Sono felice solo tra i miei racconti”

“Napoli è un’altra persona con la quale avere a che fare. Tu hai un marito, un figlio e poi hai Napoli”. Valeria Parrella, 47 anni, nata a Torre del Greco da padre professore di filosofia e madre botanica, è riuscita con una ventina tra romanzi, racconti e drammaturgie, a ritagliarsi il suo occhio di bue sullo scaffale della narrativa partenopea. Impresa tutt’altro che facile per una studentessa di lettere classiche alla Federico II coltivare la vocazione della scrittura all’ombra di modelli ingombranti come Anna Maria Ortese o Fabrizia Ramondino. Complice un seminario di Mazzacurati, scrive i suoi primi racconti, li spedisce in una busta da lettera a Minimum fax e nel 2003 esordisce con Mosca più balena. La critica grida al miracolo.

Una voce nuova, capace di narrare il femminile con lo “stile dell’anatra” caro a Raffaele La Capria: le pagine scorrono con leggerezza, senza sforzo apparente, ma sotto l’acqua, non viste, le zampette si agitano freneticamente. Guappetella, forse la protagonista più memorabile della raccolta – di nuovo in libreria in questi giorni – nella sua parabola dai bassifondi all’emancipazione borghese si racconta con divertita crudezza: “Le ragazze dicevano che dovevo leggere molto, una matricola mi prestò dei bestseller e il primo fu quello della Tamaro. Mi sembrò un libro impossibile: se io fossi andata dove mi portava il cuore, sarei rimasta incinta a tredici anni nell’Ape di Totonno il pezzaro”.

Parrella, fedele alla consegna “Quando scrivo racconti sono sempre felice: mi sento in un territorio mio”, nel 2005 con i nuovi testi di Per grazia ricevuta è nella cinquina finalista dello Strega. Anche qui alto e basso si compenetrano, il dialetto non è mai folclore ma il coltello che taglia “la realtà gelata” dei vicoli e ne mostra le miserie (come nella storia di una una giovane donna, convivente di uno spacciatore ferito a morte, costretta a sostituirlo nella gestione dell’attività criminale). È la consacrazione. Lascia il suo posto di commessa alla Feltrinelli e si dedica a tempo pieno a inventare storie. C’è un’impazienza civile che non riesce a restare sulla pagina. Il suo rivendicato femminismo è un rovello esistenziale, non certo mera speculazione: “Sapere che noi tra di noi ci riconosciamo, ci capiamo, come nessun maschio potrà mai fare. Che ci possiamo fidare l’una delle altre e che avremo sempre il nostro ricovero tra le donne. La comunità che sempre ci accoglierà sarà quella”.

Parrella, temprata da un coté familiare progressista, ha curato laboratori nel carcere di Poggioreale, si è candidata con la lista Tsipras alle elezioni europee. La sua personale Enciclopedia della donna (per richiamare il suo titolo del 2017 con la spudorata Amanda e il suo dogma liberatorio “Bisogna scopare appena si può”) annovera tra le altre Maria di Lo spazio bianco: professoressa delle scuole serali alle prese con una bimba nata prematura; Clelia di Lettera di dimissioni: da “maschera” a responsabile di un Teatro Stabile; la donna senza nome protagonista di Tempo di imparare: madre di un figlio disabile; Elisabetta di Almarina (finalista allo Strega dello scorso anno): insegnante di matematica in un carcere femminile e il suo legame con una ragazzina rumena.

A Valeria Parrella, che fuori da Napoli non potrebbe vivere (“Un giorno un’operaia della Cirio mi disse: se ve ne andate via voi che avete i mezzi culturali per cambiare le cose, chi rimane qui?”), basta una pennellata di colore sulla tela per restituire l’incanto perverso della città. Come per ripulire l’immaginario dalla dismisura imposta dall’Amica geniale o da Gomorra, l’autrice bussa alla porta della realtà con un tocco secco e rapido (da un racconto contenuto in Troppa importanza all’amore): “Così, guardando su, molto su, si vede che il cielo è azzurro e la spiritualità diviene innegabile. Essa non è dunque trascendente, non ha a che fare solo con quel cielo azzurro: se i motorini non falciassero i piedi, se non impedissero il passo ai paralitici, se il pane non fosse cotto con legni illegali, se il figlio della signora Oreste non si fosse ferito per sbaglio con la pistola sparandosi all’inguine, quella lama di luce non avrebbe nulla su cui posarsi. Le due cose vanno assieme, ed e inutile separarle”.

Il giallo napoletano ha una nuova stella: è il commissario Veneruso di Lama

Che tipo, il commissario Veneruso. Un solitario di mezza età anti-unitario e filoborbonico nonché omofobo. Però c’è da capire il tempo in cui il poliziotto lavora. Siamo nel 1883 a Napoli, una città sempre bella ma crudele e cupa, soprattutto laddove la povertà e l’ignoranza e tante altre brutte cose favoriscono il commercio di ogni corpo. Anche bambini. Un’innominabile deviazione atavica. È un giorno caldissimo di fine luglio, il 28, di sabato, e all’alba una dodicenne di nome Patrizia viene uccisa nel suo basso da un “cliente”. La bambina viveva da sola, l’intera famiglia sterminata da malattie varie nel giro di poco. A vigilare su di lei la zia prostituta, nel basso di fronte.

Il commissario Veneruso è reduce da una settimana a letto per la febbre. Ma la sua giornata comincia con un altro mistero ancora non risolto. Il caso della baronessa Salomè, ammazzata nel suo letto di casa durante un gioco erotico. Il poliziotto non ne sa nulla ma viene aggiornato da conoscenti e passanti a mano a mano che dai Quartieri Spagnoli si avvicina al commissariato di Piazza Dante, nel cuore della città. Tutti si muore soli di Diego Lama appena uscito è subito entrato nella classifica dei libri più venduti. Un successo meritatissimo. Lama apre le finestre del giallo partenopeo e fa entrare finalmente aria fresca. Per originalità (tutto si svolge in un’intera giornata) e incastri della trama. Intorno c’è Napoli, poi, e abbiamo detto tutto. Di lui abbiamo già scritto in questa rubrica per i due precedenti libri con Veneruso. Una vera scoperta. Solo che ricordavamo, e questo è l’unico appunto, una scrittura più scarna e incisiva. Ora Mondadori lo sta costruendo come autore di best-seller, speriamo non si perda sulla strada della serialità forzata.

 

 

Il triangolo no: torna la Perrin ed è già best-seller

Ci sono tre amici il cui legame disegna un cerchio magico dentro cui si sentono protetti e invincibili e la cui sintonia fa pensare al per sempre. A fine anni 80 frequentano la stessa scuola elementare a La Comelle, cittadina operaia nel centro della Francia. L’esplosiva Nina vive col nonno, l’introverso Adrien con la mamma, l’affascinante Étienne coi genitori e la sorella Louise in una bella casa circondata da alberi centenari.

Ognuno ha un’ombra sul cuore, ma il tempo trascorso insieme è pura alchimia. C’è spensieratezza, la sensazione che niente potrà separarli e una promessa condivisa: trasferirsi a Parigi una volta grandi. I sogni son desideri e aiutano a vivere meglio, sì, ma la realtà si rivela spesso più aspra del previsto, gli incantesimi si spezzano lasciando spazio a rimpianti, rimorsi, acredine, senso di vuoto, distanze abissali, silenzi. È quello che accade al trio perfetto, il filo si tende e poi si rompe, bruciando progetti, mettendo distanza tra i cuori, complice anche la misteriosa scomparsa di una coetanea, evento che funge da spartiacque, e due lutti che sono un pugno in pancia. Quando si è piccoli non si ha idea di quanto potrà essere duro e doloroso crescere, diventare adulti, ma Valérie Perrin, attrice, fotografa e sceneggiatrice (lavora col marito Claude Lelouch), già autrice de Il quaderno dell’amore perduto e Cambiare l’acqua ai fiori (uscito nel 2018, ma durante il primo lockdown ha scalato le classifiche grazie al passaparola e una certa somiglianza col best-seller L’eleganza del riccio), entrambi tradotti in 30 Paesi, si dimostra abile a renderne l’idea nel nuovo romanzo Tre, in uscita lunedì.

La voce narrante è della quarantenne Virginie, rientrata a La Comelle dopo lunga assenza “perché qui conosco il rumore delle cose”, dove lavora correggendo o traducendo manoscritti e collaborando col giornale locale. Sono passati trent’anni dai banchi della scuola elementare. “Mi chiamo Virginie, ho la loro stessa età. Oggi, di tutti e tre, Adrien è l’unico che ancora mi rivolge la parola. Nina mi disprezza. Quanto a Étienne, sono io che non voglio più saperne di lui. Eppure fin dall’infanzia mi affascinano. Sono sempre stata legata soltanto a loro tre. E a Louise”.

Ricalcando la formula vincente di Cambiare l’acqua ai fiori, cioè alternanza tra passato e presente, tra dolori-abbandoni e letizie-ricongiungimenti, vena poetico-riflessiva, mix equilibrato tra dramma, giallo e rosa, numerose sottotrame, Perrin compone una polifonia di voci ben modulate. Non se ne esce trasformati né illuminati, e la tanto decantata “delicatezza” può risultare stucchevole, ma qualche ora di sano intrattenimento non ha mai ucciso nessuno.

Temi universali come amicizia, amore, morte e argomenti delicati come aborto e disforia di genere sono il perno intorno a cui Perrin avvolge le vite dei suoi personaggi e le srotola per quello che erano e per come sono: chi a gestire un rifugio per animali abbandonati per fuggire da un matrimonio devastante, chi a un passo dalla morte, chi autore di un best-seller scritto sotto pseudonimo perché la paura “della felicità, della liberazione, di diventare quello che sono” sovrasta e così i romanzi diventano l’unico modo per “scrivere ciò che si è incapaci di fare nella vita vera”.

 

Un “Alfredino” nazionalpopolare, che dimentica l’Italia nera degli anni 80

Chi non ricorda l’incidente di Vermicino, il piccolo Alfredo Rampi caduto in un pozzo artesiano nell’estate del 1981, la prima diretta televisiva che seguì gli sforzi dei soccorritori, l’angoscia dei genitori, l’arrivo del presidente Pertini, l’incantesimo di un Paese intero?

Quarant’anni dopo è Alfredino – Una storia italiana, serie prodotta da Sky e Marco Belardi e diretta da Marco Pontecorvo. Lunedì, su Sky Cinema e in streaming su Now, le ultime due puntate, ed è un ritorno al futuro: oltre il cortocircuito mediatico, la pietas catodica e la spettacolarizzazione del dolore, quell’elaborazione del lutto partorì, per volontà dei genitori e degli psicologi Rita Di Iorio e Daniele Biondo, il Centro Alfredo Rampi, antenato della Protezione Civile.

Scritti da Barbara Petronio e Francesco Balletta, i quattro episodi hanno struttura assai classica, indicazione narrativa tipica per il grande pubblico, solidità drammaturgica e ambizioni estetiche mezzane: andrebbe benissimo su Rai1. Nulla di male, ma l’occasione sarebbe stata trasformata in maniera più interessante da un Marco Bellocchio, forse anche un Saverio Costanzo, che avrebbe trasfigurato la tragedia, facendo degli scandali, le crisi di governo e il terrorismo coevi non mere annotazioni, bensì materia ideologica. L’opzione degli sceneggiatori e di Pontecorvo, viceversa, estende l’attitudine de noantri all’Italia intera, non sempre scansando la deriva strapaesana o l’effetto Cesaroni. Non convince Anna Foglietta quale Franca Rampi, e non è solo un problema di interpretazione ma di scrittura: “Non sapevamo – osserva Petronio – che Franca Rampi riportò al presidente della Repubblica, Sandro Pertini, i tanti perché della tragica fine di suo figlio… Una casalinga disse al Presidente cosa non aveva funzionato e il Presidente la ascoltò”. “Casalinga” non è solo espressione infelice, ma un macigno che Alfredino non si scrolla di dosso: ne indirizza la poetica non dal basso, ma al basso.

 

Amazzonia, jazz, “Surdati”: notevoli

Acque gorgoglianti, rumori silvestri e voci che diventano puri strumenti della natura: l’appuntamento più insolito della stagione estiva di Santa Cecilia (il 22 luglio) è dedicato all’Amazzonia, e riprende un analogo programma già eseguito con successo a Rouen e Parigi: mentre a video scorreranno le foto in bianco e nero di Sebastião Salgado (in mostra al Maxxi dal 1° ottobre), la direttrice Simone Menezes guiderà l’orchestra in una Bachiana Brasileira e nella Floresta do Amazonas di Heitor Villa-Lobos, quindi in un brano liquido e ipnotico delle Aguas da Amazonia di Philip Glass. Le Aguas furono composte negli Anni 90 (auspice Paul Simon) come musica per il balletto di una compagnia di Belo Horizonte; anche la Bachiana 4 si conclude su una vorticosa danza brasiliana, l’irresistibile Miudinho recentemente riarrangiato per trio jazz dal cubano Alfredo Rodríguez.

Sarà proprio la danza il centro di gravità del programma estivo dell’Auditorium, capace di soddisfare i gusti più vari anche se non ricco di nuove produzioni (nuova è la serata del 15 luglio, poi il 16 a Siena, con la Settima di Beethoven – “l’apoteosi della danza” secondo Wagner – diretta da Antonio Pappano e abbinata al concerto per violino di Cajkovskij con Ilya Gringolts). Dall’unico spettacolo di balletto – una soirée Stravinskij (6 luglio) ricca di ottimi solisti (dalla pianista Beatrice Rana al danzatore Sergio Bernal) e concepita a Genova per cura di Daniele Cipriani – proviene il primo dei due inediti dell’estate, un nuovo piccolo Divertimento creato da John Neumeier per due elementi italiani dell’Hamburg Ballet, e tratto dal Bacio della fata, di cui l’artista tedesco curò memorabili coreografie cinquant’anni fa a Francoforte.

Ancor più invitante la carte blanche all’armonica e al bandonéon di Richard Galliano (29 settembre), in cui una rivisitazione dei tanghi più struggenti di Piazzolla sarà seguita dal nuovo e attesissimo oratorio Les chemins noirs (I sentieri cupi) scritto dallo stesso Galliano ed emerso dal sole e dal nero di Marsiglia e della Provenza (prima esecuzione a Nizza pochi mesi fa: ma a Roma esordirà la versione per orchestra). Tra le atmosfere di Jean-Claude Izzo e le memorie liriche di René Char, l’oratorio segue le picaresche avventure del protagonista dell’omonimo romanzo di René Frégni, un disertore in fuga e in cerca di se stesso nel caotico Mediterraneo degli Anni 60, dalla Grecia lacerata al Maggio parigino della rivolta.

Per gli appassionati di musica americana, il 29 luglio Wayne Marshall dirigerà una serata Gershwin, che – rispetto a un analogo programma visto a Rotterdam – aggiunge la versione originale della Rhapsody in Blue per jazz band. Ai palati più nazionalpopolari si rivolge il 6 agosto la produzione propria (riciclata dal 150enario del 2011) dei Canti popolari che hanno fatto l’Italia, da Mameli al Piave al Surdato ’nnamurato, per la conduzione di Corrado Augias.

Molte le tournée che fino a settembre porteranno l’orchestra di Santa Cecilia da Ingolstadt a Bucarest: in Italia si segnalano gli interventi nel Festival dei Due Mondi di Spoleto (27 giugno-11 luglio, e quelli a Stresa il 5 settembre e alla Scala il 21 (ambedue con Daniele Gatti) e a Verona-Rimini il 30 settembre e 1° ottobre con il violoncello di Pablo Ferrández.