Dario Argento torna sul set per il suo 19º lungometraggio

Dario Argento gira da qualche giorno Occhiali neri, il suo 19º lungometraggio interpretato da Ilenia Pastorelli e, in un ruolo secondario, da sua figlia Asia Argento. Scritto dal regista con Franco Ferrini e prodotto da Urania Pictures e Getaway Pictures, racconterà l’avventura di una ragazza e di un bambino cinese nella Roma notturna di oggi e la loro fuga che li porterà in seguito nella campagna laziale.

Debutto nella regia per Giuseppe Battiston impegnato nel suo Friuli anche come protagonista (con Rolando Ravello) di Due, un film da lui sceneggiato con Marco Pettenello dal romanzo Bouvard e Pécuchet di Flaubert e prodotto con Marica Stocchi per la loro Rosamont e la Friuli-Venezia Giulia Film. Interpretato anche da Diane Fleri, Alfonso Santagata, Ariella Reggio e Teco Celio, vedrà in scena due sconosciuti che s’incontrano, scoprono di avere gli stessi interessi e decidono di unire le reciproche passioni.

Marco Giallini e Giuseppe Maggio (il giovane interprete di Sul più bello e Baby) sono i protagonisti di La mia ombra è tua, un film di Eugenio Cappuccio che porta al cinema l’omonimo romanzo di Edoardo Nesi, anche sceneggiatore col regista e Laura Paolucci. Le riprese tra Roma, Siena, Bologna e Milano sono iniziate a cura di Fandango e Rai Cinema.

Altrimenti ci arrabbiamo, il film campione d’incassi del 1974 di Marcello Fondato con Terence Hill e Bud Spencer, viene riproposto in un reboot ambientato ai nostri giorni attualmente sul set a Roma prodotto da Lucky Red e Compagnia Leone Cinematografica. La commedia diretta da Antonio Usbergo e Niccolò Celaia (gli Younuts!) è interpretata da Edoardo Pesce, Alessandro Roja, Alessandra Mastronardi e Christian De Sica nel ruolo del cattivo.

“300” in Cina diventa “800”: Sparta vs Tokyo

Battezzato alla ventitreesima edizione del Far East Film Festival e ora in sala, 800 eroi è un kolossal bellico diretto dal cinese Guan Hu, nome noto ai frequentatori della Mostra di Venezia, grazie a Cow a Orizzonti nel 2009 e Mr. Six in chiusura nel 2015.

Primo lungometraggio realizzato interamente in Imax nel Paese asiatico, vicecampione d’incassi globale del 2020 (472 milioni di dollari a fronte degli 80 di budget), porta sullo schermo le Termopili cinesi, ovvero le gesta degli ottocento che nella Shanghai del 1937 si opposero all’avanzata giapponese. Scritto dal regista con Rui Ge nel rispetto sostanziale delle unità di tempo, luogo e azione, inquadra il manipolo che difese dai nipponici un deposito d’armi sul lato settentrionale del fiume Suzhou al cospetto delle concessioni straniere dislocate sulla riva opposta: spettacolo nello spettacolo, sul piano metacinematografico, e interrogazione alla comunità internazionale, su quello geopolitico, 800 eroi marca però una differenza fondamentale rispetto a 300, il war epic di Zack Snyder che nel 2007 celebrò gli spartani guidati da Leonida e immolati per contenere i persiani di Serse.

Come suggerisce la differenza numerica, qui l’accento è sull’unione, sulla forza collettiva, sull’orchestra a scapito del solista: il voltaggio ideologico della scelta è evidente, si va per l’uno vale uno senza tentennamenti né deroghe, giacché Leonida non ha un corrispettivo, il contadino Duanwu (Ou Hao), il veterano Lao Tie (Jiang Wu) piuttosto che il colonnello Xie (Du Chun) sono tre come tanti, non beneficiano di trattamenti di favore. Avanti popolo, o giù di lì, ma il sacrificio collettivo senza nomi e cognomi non rischia di avere il fiato corto, le fanfare in sordina, il grigio per vessillo?

Guan Hu non fa una piega, e lavora sulla sinfonia meccanica, sul clangore titanico, sulla selezione della specie del gigante cinese che passa dall’annichilimento esemplare: i morituri neanche salutano, e pazienza se gli onori militari trascolorano nelle onoranze funebri, la legge dei grandi numeri non ammette eccezioni. À la guerre comme à la guerre, e quella di 800 eroi è totale, appunto meccanica, perfino materiale: è – tocca usare una brutta parola – resilienza più che resistenza, autoeliminazione più che martirio, e la cifra poetico-stilistica sta nei militi che imbracciando nugoli di bombe a mano si gettano dall’ultimo piano sugli assedianti giapponesi disposti a testuggine. Extrema ratio, certo, e nazionalismo a mano armata: “Verrà il giorno in cui pianteremo la nostra bandiera sul Monte Fuji”, suona la promessa, e chissà se è archiviata.

Rozza e massimalista, violenta e forsennata, magniloquente e impietosa, la via cinese al kolossal marziale non lascia indifferenti, né fa prigionieri. Passando per l’epos, ma forse non dall’ethos: l’unione catalizza lo sforzo, il massacro non può attendere. La Cina nemmeno.

 

“Ora è preferibile che una categoria ben determinata attiri la sventura”

Lettera scritta da Simone Weil, da Tolosa, all’inizio di settembre del 1940 a Huguette Baur.

“…è preferibile considerare come una grazia tutto ciò che la sorte apporta – felicità o sventura, vita o morte.

C’è un’altra cosa alla quale, credo, non ha pensato. Il contagio, il prestigio della vittoria che consiglia di imitare i vincitori, la pressione dei vincitori, l’esasperazione dovuta alla miseria e diversi altri fattori apporteranno in Francia, entro brevissimo tempo – durante l’inverno, penso – una forma più o meno accentuata di razzismo. In un caso simile, mi troverò nel novero dei paria. Tutto sommato, mi rincresce; è stupido soffrire per qualcosa che non si è scelto e a cui non si è legati. Ma, in definitiva, così andranno le cose. E io non ho alcun modo per sottrarmi a ciò. Posso, invece, non far subire il contagio di questa sventura a coloro che non hanno ricevuto per nascita una simile maledizione, anche e soprattutto se sono così generosi da non temere tale contagio. Immagini per un attimo che io mi trovi insieme ai miei familiari a casa sua nel momento in cui nella regione dovesse verificarsi una esplosione di razzismo. Vi sarebbe penoso mandarci via oppure lasciarci andar via, e a noi sarebbe moralmente impossibile restare. Non voglio che si avveri una situazione simile, per questo non verrò a casa sua. Non mi dica che cose simili non accadranno in Francia. Sono convinta del contrario. Non ne provo alcuna amarezza. Questi fenomeni sono legati a cause generali molto facili da individuare, e non devono provocare una amarezza più grande del gioco delle forze della natura. In un periodo di miseria e di violenza diffusa, è inoltre preferibile che una categoria ben determinata e limitata di esseri umani attiri su di sé le forme più acute della sventura. Non parlerei certo così se non facessi parte di questa categoria. Ma poiché ne faccio parte, ne ho il diritto”.

Simone Weil, la coscienza di essere “capro espiatorio”

Basterebbe il frammento della lettera inviata da Tolosa all’ex allieva Huguette Baur, nel settembre 1940, per testimoniare quanto Albert Camus avesse ragione nell’affermare di non poter immaginare una rinascita dell’Europa senza il pensiero di Simone Weil, il “solo grande spirito del nostro tempo”. Non a caso l’autore di L’uomo in rivolta si occupò di far conoscere gli scritti di una donna che ebbe un breve ma eccezionale cammino, che la portò dalle idee anarchiche e dal comunismo eretico alla fede e a Dio. Una donna straordinaria, la Weil, che fu anche insegnante e operaia, combattente nella guerra di Spagna e resistente della Francia Libera, non cessando mai di stare con gli oppressi.

L’importanza della lettera è sottolineata da Maria Concetta Sala, la curatrice dell’epistolario della filosofa, scrittrice e mistica francese Piccola cara… Lettere alle allieve, appena pubblicato da Marietti 1820 (pagg. 94, euro 17). Scrive che “costretta dal gioco delle forze della ‘meccanica umana’ e dalle circostanze storiche a essere inclusa nella ‘categoria’ degli Ebrei, pur non sentendosi ebrea, si assunse per vocazione personale il peso della croce che tale condizione comportava. Quanto a riconoscere la ‘necessità’ di un ‘capro espiatorio’ nel parossismo della violenza all’interno del sociale, dove sovrana è la forza, occorre un coraggio soprannaturale per fissare una simile verità, quando si fa parte della schiera delle vittime da immolare”. Era quel dovere umano verso gli altri, quel pensiero libero, che le fecero scrivere che “là dove le opinioni irragionevoli prendono il posto delle idee, la forza può tutto. È per esempio molto ingiusto dire che il fascismo annienta il pensiero libero; in realtà è l’assenza di pensiero libero che rende possibile l’imposizione con la forza di dottrine ufficiali del tutto sprovviste di significato”. Le lettere alle ex allieve, che si aggiungono alla bellissima corrispondenza con il fratello matematico André (pubblicate da Adelphi), come rammenta Maria Concetta Sala fanno riferimento alla docenza della Weil “nei licei femminili di cinque città francesi dall’ottobre del 1931 al gennaio del 1938”, interrotta “da due lunghi periodi di congedo”. Nei colloqui epistolari tra una maestra-ragazza eppure assai adulta e delle giovani donne, c’è tutta la grandezza tragica ed eroica di Simone. Come quando, nel dicembre 1933, all’ex allieva di filosofia di Le Puy, Suzanne Faure, consiglia le letture: “Per la morale, Platone, Descartes, Rousseau, Kant, Marco Aurelio valgono più di tutti i corsi. Per la psicologia, Balzac e Stendhal sono di gran lunga superiori ai professori della Facoltà. (…) Per le questioni sociali, al posto suo, leggerei Comte, Proudhon, Marx – e, in un altro ordine di idee, Machiavelli (Il principe, le Istorie fiorentine) e i Mémoires di Retz”. Nella citata lettera alla Baur, del settembre 1940, scegliendo di assumere “le forme più acute della sventura” nella Francia occupata, rifiuta un tetto amico, osserva la Sala, “dopo aver espresso la propria gratitudine all’ex allieva per l’offerta di ospitarla”. L’ultima lettera della raccolta, invece, “lascia trasparire lo stato d’animo della trentunenne Simone Weil alla vigilia della sua partenza da Tolosa nella speranza di raggiungere Marsiglia e poi Algeri e Casablanca: ‘Sto andando via e chi sa se farò mai ritorno sul continente europeo’”. Alla Baur manda inoltre una copia del suo poema A un jour, vorrebbe che fosse pubblicato su “una rivista di prim’ordine”, anche senza il suo nome: “Qualora, nelle circostanze attuali, il mio nome fosse indesiderabile (per ragioni di razza), si metta pure uno pseudonimo qualsiasi, oppure tre asterischi. Poco importa. Non ho il senso della proprietà, e riguardo alla letteratura non ne ho certo di più che per i beni materiali”.

Consiglio Ue, sui migranti Draghi non porta risultati

Due sconfitte e un pareggio: è questo il bilancio della due giorni del Consiglio europeo terminato ieri a Bruxelles. Esce sconfitta l’Italia che aveva proposto un nuovo approccio al tema “urgente” delle migrazioni. Il “dibattito è stato molto breve, anche perché si era arrivati con un testo concordato dalle diplomazie”, ha spiegato il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel al termine del summit. “Ci siamo focalizzati sulla dimensione esterna e chiesto alla Commissione di predisporre proposte concrete per identificare i Paesi di partenza e di transito e lavorare con gli Stati membri che devono essere coinvolti”, ha sintetizzato Michel. Soluzione che – al contrario di quanto annunciato da Draghi al Parlamento – vede d’accordo l’Italia che, sostiene il premier, non ha mai cercato “un accordo sui ricollocamenti” dei migranti” perché – ha aggiunto Draghi – “sarebbe stato prematuro avere un accordo per noi conveniente” visto che un patto “sui ricollocamenti obbligatori non sarebbe accettato, al momento”. L’obiettivo, dice Draghi, era un coinvolgimento significativo dell’Ue nel Nordafrica, nel Centro Africa: non solo in Turchia ma, soprattutto in Libia” e, a detta sua, “il testo concordato è molto impegnativo e ha raccolto rapidamente ciò che è stato proposto, in particolare circa la dimensione esterna dell’Ue”. Quanto al fatto che le migrazioni non figurano nell’agenda licenziata da Michel fino a marzo 2022, Draghi è certo che “resterà comunque un tema per il Consiglio”. Il pareggio è arrivato invece con la conferma di un maggiore impegno dell’Ue con la Turchia per il sostegno ai rifugiati attraverso 3 miliardi di euro in più fino al 2024, come annunciato dalla presidente della Commissione Von der Leyen. Altro sconfitto dal Consiglio è stato l’asse franco-tedesco sull’avvicinamento alla Russia, finito in “un impegno a un dialogo più fruttuoso con Mosca”, ha chiarito Michel. Macron che si è detto felice che i 27 siano almeno “usciti da una logica di aggressione e provocazione”, ma Merkel ha rimarcato “la necessità di seguire l’esempio degli Usa”.

Uno scoop per far fuori il ministro

Lo scandalo sessuale è già notizia di ieri. Scoop del Sun: il ministro della Salute, Matt Hancock, è stato immortalato dalle telecamere del suo ufficio, lo scorso 6 maggio, mentre baciava appassionatamente la sua consulente, Gina Coladangelo, 43 anni, conosciuta a Oxford, sposata come Hancock ma con un miliardario, il proprietario della catena di negozi Oliver Bonas. Innanzitutto il ministro ha ammesso in Parlamento, scusandosi, di aver violato le regole sul distanziamento imposte da se stesso, che a maggio vietavano contatti ravvicinati, e quello era ravvicinatissimo. Per una violazione simile si era dovuto dimettere dal ruolo di consulente del governo sulla pandemia l’epidemiologo dell’Imperial College Neil Ferguson, quello che con le sue previsioni aveva imposto il primo lockdown che ha salvato migliaia di vite. Ma il governo già ieri mattina serrava le file dicendo che sono affari privati: non ci si può aspettare alcuna condanna morale da un primo ministro noto anche per le sue molte avventure extraconiugali, e infatti Boris Johnson ieri ha dichiarato che considera la faccenda chiusa, da risolvere con la moglie e i tre figli. Invece the plot thickens, l’affare si ingrossa. Perché la Coladangelo è una lobbysta, non una manager o esperta di salute pubblica, ed è stata assunta a settembre direttamente dal ministero come non-executive director, con una procedura ora sotto le lente dei controllori. E ieri sera SkyNews ha rivelato che il fratello di Gina, Robert Coladangelo, dal 2019 è direttore strategico di Partnering Health Limited società privata vincitrice di una serie di contratti: non è ancora chiaro se ci siano stati favoritismi recenti. Restano molte domande sulla fonte dell’immagine che ha compromesso Hancock, un fotogramma da un filmato di sorveglianza non all’aperto ma interno al ministero, quindi estremamente riservato e gestito da personale con security clearance, cioè soggetto a rigorose verifiche come per chiunque lavori nell’amministrazione pubblica. Chi lo ha passato al Sun dello ‘squalo’ Rupert Murdoch? E il giornale lo ha pubblicato perché non ha saputo resistere a uno scoop così goloso o qualcuno, fuori o dentro il governo, ha deciso di liberarsi del ministro? Hancock è ormai una presenza imbarazzante: è legato a una lunga serie di scandali, con appalti Covid milionari concessi senza gara ad amici o finanziatori del partito conservatore. L’ex consigliere speciale di Downing Street, Dominic Cummings, lo ha accusato di essere responsabile di migliaia di morti della prima ondata per aver mandato dagli ospedali alle case di cura anziani senza assicurarsi che fossero negativi al Covid. In un messaggio pubblicato da Cummings, Boris Johnson lo definiva “senza speranza”. Chi si è stancato dei suoi errori?

Caso Assange: raccontare la verità a qualsiasi prezzo

Non verrà estradato negli Stati Uniti perché dichiarato “a rischio suicidio” dai giudici di Londra, ma chiuso nella prigione di massima sicurezza di Belmarsh – quella che in Gran Bretagna chiamano “la Guantanamo inglese” –, rimane in cella e in pericolo di vita l’uomo che ha svelato la verità sulle atrocità delle ultime grandi guerre americane: Julian Assange. Con 18 capi di imputazione e l’accusa di violazione dell’Espionage act, l’attivista rischia 175 anni di carcere in Usa per aver reso pubblici i crimini di guerra delle truppe di Washington in Afghanistan e in Iraq. Chi invece quelle atrocità le ha compiute, non è sotto processo, ma rimane impune: lo hanno ricordato ieri al Senato italiano durante il convegno “Il diritto alla conoscenza”, promosso dall’associazione nata in memoria del reporter di guerra Mimmo Candito.

La persecuzione giudiziaria di Assange, iniziata undici anni fa, “è un esempio iconico di disperazione dello Stato, della sua illegalità e cinismo, un profluvio di malvagità”. In aula ieri sono risuonate dure le parole di John Shipton, padre del whistleblower, intervenuto per ricordare “diritti umani calpestati e derisi”, maltrattamenti e torture subiti da suo figlio. “Il prezzo che paga Assange per aver esercitato la libertà di parola è la persecuzione”.

Greg Barnes, avvocato dell’attivista, ha tuonato contro silenzio di Canberra: i governi susseguitesi “non hanno mai fatto niente per proteggere un cittadino australiano che rischia la pena di morte, solo la pressione pubblica è la chiave per garantire la sua sicurezza”. A organizzare il dibattito “per contribuire a un’azione internazionale in un momento critico per la salute di Assange” è stato l’accademico e politico Gian Giacomo Migone, affinché si solleciti “il nuovo presidente americano a una rottura rispetto alla tradizione del Paese, che esibisce impegno per i diritti umani all’interno delle realtà avversarie, ma non applica a se medesimo gli stessi valori, che pure sono contenuti nella Costituzione Usa”. Il coraggio dimostrato da Assange, ha ricordato Migone, è lo stesso di Edward Snowden, “costretto a rifugiarsi in Russia per evitare il suo stesso destino”, e di Daniel Ellsberg, il whistleblower 90enne dei Pentagon Papers, documenti che hanno svelato i segreti di più presidenze Usa durante la guerra del Vietnam.

“Nelle nostre democrazie deve essere possibile rivelare la verità e uscirne vivi”. Che la vita e salute di Assange rimangano in bilico lo conferma Stefania Maurizi, unica giornalista a lavorare con il team dei reporter di Wikileaks sin dal principio. Non solo crimini di guerra e sangue di civili innocenti ammazzati dai droni. Maurizi, che dal 2009 a oggi non ha mai smesso di investigare i cablogrammi, ha ricordato che grazie al lavoro dell’ex militare Chelsea Manning, “l’attivista che in otto anni di prigionia ha provato a suicidarsi tre volte”, sono emerse anche le prove delle pressioni dei politici italiani sulla magistratura affinché non procedesse nelle indagini del caso Abu Omar.

Bucare l’oscurità è compito dei reporter. Ricordando “le volgari polemiche su Peppino Impastato e Giancarlo Siani” definiti non giornalisti, durante “campagne di depistaggio che ricordano quella a cui stiamo assistendo oggi su Regeni”. Giuseppe Giulietti, presidente Federazione Stampa italiana, ha dichiarato che “chi dice che Assange e Snowden non sono giornalisti, sta segando l’albero dove siede: giornalista non è chi ha un tesserino, ma chi si avvicina alla verità”.

L’Hirak, vincitore senza potere

In un certo senso a “vincere” le ultime elezioni in Algeria è stato l’Hirak, il movimento di protesta nato nel febbraio 2019 in opposizione al quinto mandato di Abdelaziz Bouteflika, l’anziano presidente al potere per vent’anni poi costretto a dimettersi. L’Hirak, che reclama un cambiamento radicale del sistema politico, aveva chiesto agli algerini, chiamati alle urne il 12 giugno per rinnovare il Parlamento, di boicottare lo scrutinio. Definito una “pagliacciata elettorale” e una “manovra del potere per riciclarsi” da militanti e opposizioni laiche e di sinistra. La tornata elettorale è stata caratterizzata proprio da una forte astensione: solo il 23% degli algerini ha votato, il tasso più basso di sempre nella storia del Paese.

In Cabilia, la regione a maggioranza berbera dove l’Hirak è più forte, la partecipazione non è stata neanche dell’1%. Gli algerini non credono alla loro classe politica, responsabile a loro avviso delle crisi sociali ed economiche che attraversano il Paese da anni. Dall’indipendenza dalla Francia, nel 1962, il sistema politico è rimasto sempre lo stesso. I militanti dell’Hirak chiedono un’Algeria democratica e l’astensione è uno strumento di lotta e di opposizione. Era già stata altissima alle Presidenziali del dicembre 2019 (60%) e al referendum costituzionale del 2020 (76%), che avrebbe dovuto fondare l’“Algeria nuova”, promessa dal nuovo presidente Abdelmadjid Tebboune. Ma se il movimento di protesta ha vinto la battaglia dell’astensione, gettando ulteriore discredito su una classe politica al potere vecchia, cui non si crede più, non è riuscito a ribaltare gli equilibri politici. Il 23, il Consiglio costituzione algerino ha infatti proclamato vincitore del voto il solito Fronte di Liberazione Nazionale (FLN), l’ex partito unico, fino al 1990, già al potere, con 98 seggi su 407. Meno forte di prima (ha perso più di 50 seggi), il FLN non potrà governare da solo e sarà costretto a formare delle alleanze. L’Unione nazionale democratica (Rnd), suo alleato storico, retaggio anch’esso dell’era Bouteflika, ha ottenuto 58 seggi. Il primo partito islamista, il Movimento per la Società e la Pace (Msp) di Abderazzak Makri, vicino ai Fratelli musulmani, che si è presentato con una coalizione comune insieme alle altre formazioni islamiste, e che aveva in un primo tempo rivendicato la vittoria alle urne, ne ha ottenuti 65. Il gruppo degli “indipendenti”, come almeno vengono definiti, 84. Una coalizione a tre o a quattro potrebbe essere necessaria per formare la maggioranza. Il voto si è tenuto su sfondo di tensioni sociali e repressioni. Lo scrutinio era previsto per il 2022. Poi, a febbraio, Tebboune ha indetto delle elezioni anticipate per rinnovare le Camere di fronte al malcontento popolare. Dopo la pausa forzata, dovuta all’epidemia di Covid-19 e ai lockdown, le proteste di strada sono infatti riprese, a un anno dalla nascita dell’Hirak. Sostituendo il Parlamento, il presidente pensava di poter ridare legittimità alle istituzioni e di mettere fine alla crisi, riprendendo il controllo della situazione. Di fatto, ignorando le rivendicazioni della strada, ha alimentato ancora di più la protesta e la sfiducia del popolo. Nelle ultime settimane si sono moltiplicati gli arresti sommari. Oltre 250 persone, militanti, studenti, attivisti dei diritti umani, oppositori, si trovano dietro le sbarre, secondo il Comitato nazionale per la liberazione dei detenuti. Amnesty International ha denunciato l’arresto di giornalisti, tra cui Ihsane El Kadi, direttore di Radio M e del sito di informazione Maghreb émergent. Le manifestazioni dell’Hirak sono state regolarmente vietate. I partiti di sinistra, laici e progressisti, come il Fronte delle forze socialiste (Ffs) e il Partito dei Lavoratori (Pt), avevano finito col ritirarsi dallo scrutinio.

Ora Tebboune intende ignorare anche il messaggio che arriva dalle urne. Per il presidente il dato dell’astensione è “poco importante”. Mercoledì ha accettato le dimissioni del primo ministro, Abdelaziz Djerad, come da prassi, per poter costituire una nuova Assemblea nazionale e quindi formare un governo. Il nuovo esecutivo prende forma in un paese in crisi. L’Algeria, alleato degli Stati Uniti nella lotta ai gruppi terroristi locali, e tra i principali fornitori di gas per i Paesi dell’Europa del sud, ha subito in pieno gli effetti della pandemia, con dei settori paralizzati per mesi, e il crollo dei pezzi del petrolio e di conseguenza del valore della moneta locale, scatenando una recessione inedita nel 2020. La disoccupazione esplode: in un paese pieno di energia (il 70% della popolazione ha meno di 30 anni), quella giovanile è del 50%. E i ragazzi scalpitano, chiedono elezioni democratiche e libertà di espressione.

Chi vuol candidare i pregiudicati

Il quarto quesito referendario dei Radicali appoggiato dalla Lega e da altre forze politiche propone l’abrogazione del decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235. Questo testo normativo prevede l’incandidabilità al Parlamento nazionale e al Parlamento europeo (per i componenti spettanti all’Italia), nonché l’impossibilità di assumere incarichi nel governo nazionale per quattro categorie di condannati:

a) coloro che hanno riportato condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione per i delitti, consumati o tentati, previsti dall’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, del codice di procedura penale (fra i quali ci sono reati di associazione mafiosa, riduzione in schiavitù, terrorismo e altre bazzecole del genere); b) coloro che hanno riportato condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione per i delitti, consumati o tentati, previsti nel libro II, titolo II, capo I, del codice penale (cioè i delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica amministrazione come la concussione, corruzione, peculato ecc.); c) coloro che hanno riportato condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione, per delitti non colposi, consumati o tentati, per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni, determinata ai sensi dell’articolo 278 del codice di procedura penale (e qui rientrano anche tutti i delitti gravi, tranne quelli che, con condanne non inferiori a cinque anni di reclusione o all’ergastolo) già comportano l’interdizione perpetua dai pubblici uffici che già rende incandidabili).

Lo stesso decreto legislativo prevede la incandidabilità a livello regionale e locale per i soggetti che hanno riportato condanne definitive per similari reati o siano stati sottoposti a misura di prevenzione.

Nella mia ingenuità, in passato, ero convinto che simili norme fossero superflue perché ci si sarebbe dovuti attendere che, in un Paese civile, i partiti non candidassero siffatti soggetti, senza bisogno che una norma di legge lo vietasse. Nessuno, con simili precedenti penali, potrebbe infatti accedere a concorsi pubblici per impieghi civili o militari e quindi non si comprende perché invece dovrebbe essere consentito porlo ai vertici del potere legislativo o esecutivo.

Ho poi dovuto constatare che, purtroppo, persone sottoposte a procedimenti penali e condannate venivano candidate (ed elette), sempre che avessero mantenuto il silenzio, salvaguardando i loro complici.

La proposta di abolire il divieto di legge fa temere che il sogno dei proponenti sia quello di reclutare massicciamente pregiudicati.

Occorre precisare che, stavolta, il garantismo non c’entra niente perché si parla di condannati con sentenza definitiva per delitti e quindi, tecnicamente, di delinquenti.

Dopo che alcuni politici avevano sempre sostenuto che occorreva aspettare le sentenze (ovviamente definitive) prima di esprimere qualunque valutazione, quando queste sentenze ci sono si vuole escluderne qualunque effetto.

Mi sembra che il quesito referendario riveli il completo disprezzo dei proponenti per la stessa esistenza dell’art. 54 della Costituzione, il quale prevede che coloro che svolgono pubbliche funzioni debbano svolgerle con disciplina ed onore. Il modo migliore di far osservare questa norma non mi sembra infatti quello di selezionare i vertici della cosa pubblica tra i pregiudicati.

Per quale ragione mai altrimenti si pensa di chiamare alle urne i cittadini per chiedere loro di abrogare norme che impediscono ciò che, in altri Paesi occidentali, sarebbe semplicemente impensabile?

Non ho mai pensato che tutti rubino, anzi quando in pubblici dibattiti qualcuno lo ha affermato ho chiesto se anche lui rubasse e alla risposta negativa gli ho fatto notare che, poiché neppure io rubo, il suo assunto era smentito dal fatto che almeno noi due non rubavamo. Peraltro i ladri non producono reddito, ma si limitano a redistribuirlo e quindi non possono essere mai più numerosi dei derubati.

Perciò non ho mai pensato che tutti i politici rubino, ma non sono mai riuscito a comprendere per quale ragione molti di loro non si sentano a disagio a sedere vicino a soggetti che lo hanno fatto.

Ma forse, anche in questo caso, come in quello del terzo quesito referendario (sulla custodia cautelare) scopriremo che i proponenti sono dei burloni che stanno scherzando.

Ho riassunto le norme per far comprendere a chi legge di che cosa si tratta in concreto.

Siccome dopo il mio articolo sul terzo quesito sono stato accusato di non aver letto il quesito (benché lo avessi ricopiato nell’articolo) o di non averlo capito, temo che sia invece chi mi muove queste accuse a non averlo capito. Del resto, sul quotidiano Libero del 24 giugno, con straordinaria ignoranza del diritto penale si scrive che io non avrei capito che rimane la previsione della custodia cautelare in ipotesi di delitti commessi con violenza e che gli scippi sarebbero commessi con violenza. La violenza che rimarrebbe nell’art. 274 lettera c del codice di procedura penale è quella “personale”, non quella sulle cose. Una sottrazione di beni con violenza integra il delitto di rapina non il furto e lo scippo è un furto: precisamente quello commesso strappando la cosa di mano o di dosso alla persona (art. 625 n. 4 del codice penale).

Se non fosse in gioco il destino di questo Paese ci sarebbe da ridere a sentire queste cose. Ma forse i proponenti sottovalutano la capacità dei cittadini di comprendere le questioni nonostante la disinformazione. Molti dicono che gli Italiani hanno la classe dirigente che si meritano, ma a me sembrano mediamente più saggi di alcuni politici e di commentatori, che nell’ipotesi migliore non sanno di che cosa parlano e nella peggiore mentono spudoratamente.

Se nel terzo quesito referendario manca il buon senso, nel quarto manca anche la decenza che l’ipocrisia almeno contiene.

François de La Rochefoucauld disse infatti che l’ipocrisia è un omaggio che il vizio rende alla virtù. Un quesito referendario di questo tipo svillaneggia invece la virtù e rende omaggio al vizio.

 

Le nomine sunt consequentia rerum

Il temaè di quelli che impegnano i filosofi dalla notte dei tempi. La Giulietta di Shakespeare si chiedeva pensosa “Cosa c’è in un nome?”, rispondendosi – in sostanza – non certo le cose (e, nel caso specifico, non certo le rose). Qualche secolo prima Bernardo di Cluny aveva sostenuto invece, in un passaggio centrale de Il nome della Rosa, che “nomina nuda tenemus”, possediamo solo i nudi nomi. La disputa, com’è noto, non ha risposta, ma per quanto ci riguarda qui torna utile una sentenza di Giustiniano eternata da Dante: “Nomina sunt consequentia rerum”, i nomi – e pure le nomine, se ci si perdona il gioco di parole – sono conseguenza delle cose. Ci si riferisce alla lettera dei 100 e più economisti che rimproverano a Mario Draghi cinque recenti nomine nel nucleo tecnico del Dipartimento di programmazione economica di Palazzo Chigi: le contestazioni riguardano la competenza, il fatto che siano tutti uomini provenienti dal Nord, l’estremismo liberista, la sottovalutazione del cambiamento climatico, l’appartenenza di alcuni a think tank (liberisti) di cui non si conoscono i finanziatori. E qui c’è una domanda da farsi: ma il curriculum di Draghi – dagli anni al Tesoro a quelli in Bankitalia/Bce passando per Goldman Sachs – autorizzava qualcuno ad aspettarsi un profilo “ideologico” diverso? “Una rosa è una rosa è una rosa”, ha detto Gertrude Stein, e Draghi è Draghi è Draghi: a non volersi fidare dei racconti di Varoufakis sulla Troika in Grecia, basti dire che a dirigere il traffico a Chigi c’è Francesco Giavazzi, che non pare aver meno “fiducia incondizionata nella capacità dei mercati di risolvere qualsiasi problema” rispetto ai suoi nuovi colleghi. L’appello chiede poi che accanto al premier trovino posto solo economisti “sempre di indiscussa competenza e obiettività sui temi trattati”: invito scivoloso perché cede a certe semplificazioni infantili care proprio ad alcuni dei nominati (la competenza misurata col curriculum e le citazioni), un po’ perché quei cinque sono lì per coadiuvare il governo nelle sue scelte politiche, operazione – ammessa ma non concessa la buona fede – ben poco obiettiva, anzi ontologicamente partigiana. Forse è utile ricordare che “l’allievo di Caffè” non è Caffè: Cosa c’è in un nome?