Manzione, la renziana fa incetta di incarichi: altri 33mila euro dal ministero della Bonetti

Renziana sì, e dunque mica fessa. Antonella Manzione, già vigilessa di Firenze chiamata un bel giorno a Roma per essere piazzata sulla poltrona di capo del Dipartimento affari giuridici di Palazzo Chigi dal suo sindaco diventato premier, è una virtuosa che neppure Fregoli: non ha fatto in tempo a impratichirsi di tuberi e pomodori alla corte di Teresa Bellanova, che l’aveva voluta a tutti i costi come consigliere prima di far saltare per aria il governo Conte con le sue dimissioni, che l’altra renziana di ferro, Elena Bonetti, l’ha chiamata a sé al ministero della Famiglia e per le pari opportunità. Opportunità che di governo in governo, si rivelano più che pari per Manzione. Se nel 2020 aveva accettato persino di lavorare gratis et amore dei per entrare nella squadra di Bellanova (che del resto di consigliere giuridico ne aveva già uno), ora non ha fatto sconti giacché si tratta del governo dei Migliori: si porta a casa un compenso di 33mila euro, e scusate se sono pochi, per un secondo lavoro. A cui è stata autorizzata con l’obbligo di non venir meno agli impegni di consigliere di Stato e con una formula che, a conti fatti, le consente di sommare il blasone e il compenso di capo del settore legislativo al ministero di Largo Chigi allo stipendio a cinque stelle erogato ogni mese da Palazzo Spada. Bonetti, ministro senza Portafogli ma col cuore grande, non ha potuto pretendere l’esclusiva, ma non l’ha lasciata a secco avendo giurato pure lei di non poter fare a meno delle competenze della Manzione. Che dunque continua a fare carriera e a collezionare incarichi come se non ci fosse un domani, nonostante le polemiche che l’hanno accompagnata appena varcato il grande raccordo anulare una volta abbandonata la città del giglio.

Prima aveva alzato il ditino la Corte dei Conti che aveva avuto da ridire per via della sua designazione al Dagl su cui però Renzi non aveva voluto sentire ragioni. Poi era scoppiata un’altra grana ché qualcuno aveva avuto l’ardire di mettere in discussione la legittimità della sua nomina a consigliere di Stato. Una sorta di buona uscita da Palazzo Chigi imposta a dispetto di tutto, persino del requisito dell’età minima. Ma, tant’è, si era chiuso un occhio, anzi tutti e due: la sua nomina alla fine era passata sebbene tra le proteste dell’associazione dei magistrati amministrativi furiosi per la forzatura avallata dai mandarini di Palazzo Spada. Dove Manzione dorme sonni sereni nonostante il ricorso che proprio lì pende sulla sua nomina in attesa del verdetto finale da anni: l’ultima udienza c’è stata a fine 2019 e si è conclusa con un rinvio senza data. Da allora più nulla. Miracoli renziani.

Bracciante muore dopo 4 ore sotto al sole a 40 gradi

Stava tornando a casa dopo 4 ore di lavoro sotto il sole nei campi del Salento. Ha fatto solo in tempo ad appoggiare la bici lungo la strada e si è accasciato a terra. È morto così Camara Fantamadi, 27 anni, originario del Mali e arrivato a Brindisi da soli tre giorni per raccogliere verdura per 6 euro l’ora. Il corpo senza vita è stato trovato mercoledì da un automobilista che passava lungo la bretella che collega Brindisi a Tuturano: la temperatura quel giorno aveva superato i 40 gradi.

“Speravamo di non dover commentare più eventi così tragici”, hanno detto Pino Gesmundo e Antonio Gagliardi, rispettivamente segretari generali della Cgil Puglia e della Flai Cgil di Brindisi. “Quanto accaduto rappresenta l’ennesima morte annunciata, una situazione non degna di un Paese civile, che non ha solo il dovere dell’accoglienza e dell’inclusione sociale, ma soprattutto del rispetto delle persone”, ha anche aggiunto la Cgil di Brindisi. Il giorno prima, sempre nel Salento, è deceduto per il caldo Antonio Valente, 35 anni. Stava distribuendo volantini per conto di un’azienda pubblicitaria quando anche lui, come Camara, si è accasciato a terra accusando un malore. È stato subito trasportato all’Ospedale di Galatina e poi trasferito d’urgenza a Casarano, ma le condizioni erano molto gravi ed è morto poco dopo. Solo martedì scorso il sindaco di Nardò (Lecce) aveva emesso un’ordinanza che vietava il lavoro nei campi nella fascia oraria compresa tra le 12.30 e le 16, rinnovando un provvedimento già applicato negli scorsi anni. E ieri ha fatto lo stesso anche il sindaco di Brindisi Riccardo Rossi: dal 28 giugno al 31 agosto sarà vietato lavorare nei campi nelle ore più calde quando la mappa del rischio dell’Inail segnalerà “rischio alto”. Una tragedia che si ripete, quella dei braccianti che muoiono sotto il sole, e che ricorda la storia di Paola Clemente, la 49enne morta di fatica in un vigneto di Andria nell’estate del 2015.

Saman, i cani indicano dove cercare il corpo. Individuati venti punti tra 2 serre a Novellara

Venti punti sul terreno tra due serre vicino al casolare in cui viveva. Indicati dall’elettromagnetometro, saranno scandagliati uno a uno. Lì sotto potrebbe essere sepolto il cadavere di Saman Abbas, la 18enne pachistana sparita a Novellara. Nella mattinata di ieri, i cani addestrati arrivati dalla Svizzera sembravano aver trovato una traccia. Lo scavo, però, non ha portato a nulla. Per gli inquirenti la ragazza è stata uccisa dalla famiglia e oltre alle ricerche del corpo, ci sono quelle degli indagati. Prima di tutto in Europa per lo zio della ragazza, Danish Hasnain, e il cugino Nomanulhaq Nomanulhaq, fuggiti il 10 maggio. Più complesse quelle in Pakistan per i genitori, Shabbar Abbas e Nazia Shahenn, volati via il 1° maggio. In carcere a Reggio Emilia c’è un altro cugino, Ikram Ijaz. Tra gli spunti seguiti dagli investigatori coordinati dal pm Laura Galli ci sono le parole del fidanzato, un pachistano residente in un’altra regione. Che, ha riferito Chi l’ha visto?, ha consegnato ai militari una foto di Saman con un livido su una guancia. A suo dire, Saman avrebbe incolpato un parente di Novellara, non indagato.

Meno vaccini alle Regioni: “Perdiamo una settimana”

Nel giorno in cui il Cts autorizza la riapertura delle discoteche (ma solo all’aperto, con green pass e al 50% della capienza), le Regioni fanno i conti dei vaccini per il prossimo mese: “In Piemonte andiamo avanti, faremo un po’ meno prime dosi, ma è come perdere una settimana – spiega l’assessore alla Sanità Luigi Icardi – Abbiamo parlato con Figliuolo, ogni due giorni gli diamo il fabbisogno per le seconde dosi e lui ce lo assicura. Il taglio delle forniture è del 18%”.

Non è colpa del generale, il commissario consegna i vaccini che ha. Ma quelli che non ha sono un problema, per quanto a luglio saranno solo il 5% in meno rispetto a giugno per mRna Pfizer e Moderna, come indicato da Figliuolo in risposta all’assessore emiliano-romagnolo Raffaele Donini, coordinatore per la Sanità della Conferenza delle Regioni, che aveva sollevato il problema.

Nel Lazio “mancherà il 43% delle dosi previste a luglio”, dicono dagli uffici dell’assessore Alessio D’Amato. “Ci servono 100 mila dosi di Pfizer entro luglio, altrimenti dovremo spostare le prenotazioni delle prime somministrazioni con Pfizer del periodo dall’11 al 15 luglio di una settimana”, ha detto D’Amato. Le prenotazioni per i 12-15enni, che dovevano cominciare in questi giorni, slittano al 23 agosto.

Il più duro come al solito è Vincenzo De Luca, presidente della Campania: “Continua da parte del governo e del commissario un atteggiamento di minimizzazione e in qualche misura di occultamento della realtà”, ma il problema in Campania sono anche le rinunce.

In Emilia-Romagna “salta, per il momento – spiegano dallo staff di Donini – la vaccinazione dei turisti, ma siamo a posto per le seconde dosi e le prenotazioni di luglio”. In Lombardia il presidente Attilio Fontana è preoccupato, ieri ne ha parlato all’Assemblea dell’Anci davanti ai sindaci della Regione: “Siamo arrivati a farne fino a 120.000 al giorno ma avremmo potuto tranquillamente arrivare a 150-160.000” e invece “dovremo rallentare. Rischiamo, poi, di dover sospendere le ulteriori prenotazioni”.

Per ora il ritmo resta a livelli elevati, non sarà la “spallata” promessa per giugno da Figliuolo, ma meglio non si può fare: la media mobile si attesta sulle 544 mila somministrazioni giornaliere, dopo un calo nei giorni del “pasticcio” su AstraZeneca. Dagli uffici di Figliuolo non vedono particolari problemi, si prevede un riequilibrio delle forniture e si conferma l’obiettivo di vaccinare con due dosi l’80% dei vaccinabili entro settembre: a questo ritmo resta possibile. Ma certo è difficile accelerare sulle seconde dosi, come sarebbe necessario contro la variante Delta, programmando i richiami al limite basso delle tre settimane previsto per Pfizer. Alcune Regioni, come il Piemonte, lo fanno già. E il Lazio ha ridotto i tempi per i richiami degli over 60 con AstraZeneca, ma certo AZ non manca.

In Italia cerca quasi solo la Campania. Gli altri in ritardo

Èancora la variante Alfa, la “variante inglese”, la più diffusa in Italia, con una percentuale del 74,9% di prevalenza. Lo rende noto l’Istituto Superiore di Sanità: “Sebbene i dati di giugno non siano ancora consolidati – scrive l’Iss – dalle prime segnalazioni di sequenziamenti eseguiti, si segnala un aumento percentuale dei casi di variante Kappa e Delta, la cosiddetta “indiana” e un suo sottotipo, che passano dal 4,2% di maggio, al 16,8% di giugno (dati estratti al 21 del mese)”.

Primo problema che l’Iss non spiega: la variante Kappa è sì la sorella della Delta, la più temuta al momento, ma non è annoverata tra le cosiddette varianti Voc, quelle che l’Oms classifica come le più preoccupanti, di cui fa invece parte la Delta. La Kappa è considerata variante di interesse (Voi) meno preoccupante. In ogni caso, “sono queste le prime segnalazioni delle ultime settimane, monitorate dal Sistema di Sorveglianza Integrata Covid-19 dell’Iss, in attesa della flash survey che fotograferà la situazione nel nostro Paese poiché garantirà la rappresentatività del campione,” spiega l’Iss.

I dati “riguardano 31.158 casi di infezione e indicano come in Italia, grazie alla piattaforma per la sorveglianza genomica delle varianti I-Co-Gen dell’Iss e attiva dalla fine di aprile, stia aumentando rapidamente la capacità di sequenziamento dei ceppi virali”. La piattaforma in questione, però, non è un database pubblico, “per ragioni di privacy”, spiegano. La situazione del sequenziamento italiano resta confusa e farraginosa e manca ancora una rete nazionale sul modello britannico. Nonostante gli annunci del ministero di Sanità e di Aifa, la rete non parte. Pare poi che i centri regionali deputati al sequenziamento non inviino all’Iss le intere sequenze del genoma estratte da tamponi positivi, ma solo i metadati, cioè il numero di sequenze e l’eventuale presenza di varianti. Quindi l’Iss non può inserire i dati sulle banche dati mondiali pubbliche, come Gisaid.

Che la situazione sia precaria lo dimostra anche una circolare del Ministero di Sanità del 18 giugno in cui si segnala l’allerta per 98 casi di Delta in strutture ospedaliere finlandesi. Dati importanti, ma che sono reperibili dagli esperti dalla banca dati Gisaid, dove risulta in realtà che al 15 giugno i casi in Finlandia erano già 126. E in Germania, ben più vicina all’Italia, oltre 1.200.

Il consorzio per il sequenziamento non parte perché, come il Fatto ha ricostruito, i centri indicati dalle regioni non collaborano con i grandi centri di ricerca per la genomica che l’Italia vanta, e con capacità di sequenziamento di migliaia di campioni alla settimana. Sono i padroni dei campioni e non intendono cederli.

Così l’Italia è ferma a un misero 0,7% di sequenziamento, contro il 5% chiesto da Oms ed Ecdc. “Il paradosso è che ci sono sono regioni virtuose, per lo più al Sud e altre che hanno fatto pochissimo, o forse non rendono pubbliche le sequenze,” spiega Matteo Chiara, biologo molecolare dell’Università di Milano. “La Campania da sola ha fatto oltre la metà delle 32 mila sequenze totali dell’Italia” grazie all’accordo tra Regione Campani e Tigem, l’Istituto Telethon di Genomica e Medicina di Pozzuoli. La Lombardia sfiora appena lo 0,7%.

Franco Locatelli, coordinatore del Cts, invoca maggiore sequenziamento e tracciamento, e chiarisce anche che poi bisognerà prendere decisioni, ad esempio ripristinare zone rosse intorno ai focolai di variante Delta, “altrimenti il sequenziamento diventa un esercizio inutile”, ha spiegato. Ma senza sequenziamento si rischia di esporre il Paese alla variante Delta durante il periodo estivo e in assenza di contromisure.

Paese che vai, variante che trovi: è allerta Delta

Il caldo, ce lo ripetiamo dalla scorsa estate, frena la circolazione del virus. A scanso di ulteriori illusioni, però, dall’altra parte del mondo, in Australia, dove è inverno, la variante Delta ieri ha messo in lockdown mezza Sydney. Ma anche in Israele – il Paese più vaccinato del mondo – nel pieno dell’estate mediterranea, si torna a mettersi la mascherina. Anche qui, per la variante Delta, la cosiddetta indiana, che spaventa. E che, come scrive il New Yorker, “ha un’enorme capacità di contagiare che può infliggere un danno enorme alla popolazione mondiale”. E la scelta di aprire gli stadi per gli Europei potrebbe aver inciso sulla diffusione impetuosa della variante Delta in Uk. Col timore che, dato il gran numero di persone ancora da vaccinare e le più blande misure di contenimento odierne, si crei un effetto farfalla che, fra qualche mese, potremo pagare caro. Ma quanto è diffusa, oggi, in Italia e nel mondo la Delta? E le altre principali varianti? Il Fatto ha ottenuto in esclusiva i dati aggiornati al 15 giugno.

“Siamo preoccupati e dobbiamo vaccinare, vaccinare e vaccinare, e mantenere le misure di distanziamento” ha detto ieri Ursula von der Leyen, a conclusione del vertice Ue. Le ha fatto eco il premier Mario Draghi che, assieme al ministro della Salute Roberto Speranza e al coordinatore scientifico del Cts Franco Locatelli, hanno molto prudentemente invitato a mantenere alta l’attenzione. Motivo per cui, come ha annunciato ieri Gianni Rezza, “il ministero della Salute e le Regioni stanno alzando il livello di guardia”. La Delta rischia insomma di vanificare gli sforzi delle campagne vaccinali. Anche perché senza la seconda dose (ricevuta in Italia per ora da 17 milioni di persone) il rischio di riammalarsi è alto. Se completamente vaccinati, invece, il rischio si abbassa notevolmente.

Il pericolo e le 4 lettere dell’alfabeto greco

Come spiegano i rapporti del Cog-Uk, il consorzio britannico per il sequenziamento dei genomi dei virus estratti a campione dal 5% della popolazione positiva britannica, sono almeno 4 le cosiddette Variants of Concern (VOC), le varianti preoccupanti, classificate secondo le lettere dell’alfabeto greco: la B.1.1.7 (già inglese, ora Alpha) è stata rilevata per la prima volta nel Kent ed è ritenuta più trasmissibile del virus originale di Wuhan B.1.351 (Beta) del 60%. La B.1 (Gamma), è stata rilevata per la prima volta in Sud Africa e in Brasile. Tutte hanno un certo grado di resistenza ai vaccini. La più preoccupante è la B.1.617.2 (già indiana, ora Delta) che presenta almeno 12 nuove mutazioni, di cui alcune sulla proteina spike. Si sta diffondendo nel Regno Unito e non solo, e pare colpire maggiormente la popolazione under 50, la fascia meno vaccinata. Si ritiene sia il 60% più trasmissibile della Alpha, una capacità e velocità di contagio non paragonabile a quella del virus che ha dato inizio alla pandemia in Cina a fine 2019. Non si ancora molto sulla percentuale di letalità della Delta, ma da studi condotti fin qui sembra che, rispetto ad Alpha, si raddoppi la probabilità di sviluppare una forma grave da ospedalizzazione.

La fotografia più attendibile di Delta è quella del Regno Unito. Dai dati pubblicati dal Public Health England di questi giorni, sarebbero il 95% i contagi da variante Delta in Gran Bretagna. La sua diffusione sarebbe cresciuta del 46% la settimana scorsa, con 35.000 nuovi casi stimati. E questo preoccupa sul fronte “cerca la variante”: Uk è il Paese che per primo ha messo in piedi un programma di sequenziamento a campione casuale della popolazione positiva, con oltre 500 mila sequenze genetiche già depositate su Gisaid, la banca dati mondiale, a beneficio dei ricercatori di tutto il mondo che cercano di studiare e prevedere l’andamento delle varianti.

Il rimedio sequenziare: strumento imprescindibile

Sul consorzio per il sequenziamento Cog-Uk, il Regno Unito ha investito almeno 20 milioni di sterline. La Gran Bretagna, cioè, non corre semplicemente dietro alle varianti già identificate in altri Paesi per intercettarle anche sul loro territorio, come accade in Italia (solo 35 mila sequenze depositate finora) per lo più finalizzate alla ricerca di varianti già conosciute. Eppure la migliore rete di sequenziamento del mondo non è bastata a fermare la diffusione della variante Delta. Al 15 giugno, in Gran Bretagna si registravano già oltre 55 mila casi di variante Delta. “Il sequenziamento resta uno strumento imprescindibile – spiega Matteo Chiara, biologo molecolare all’Università di Milano e parte di Elixir, l’Infrastruttura di ricerca europea per i dati delle scienze della vita con sede a Bari e diretto da Graziano Pesole – Ci sono vari elementi da considerare: la Gran Bretagna ha optato per dare la prima dose di vaccino a tutti, ritardando la seconda. Al tempo poteva sembrare una buona idea, ma oggi questa strategia oggi potrebbe essere una delle principali ragioni per cui Delta ha preso il sopravvento”. E poi il sequenziamento di un campione richiede almeno dieci giorni: “In questo lasso di tempo la variante potrebbe aver preso il sopravvento indisturbata, anche grazie a eventi in corso” A cosa si riferisce? “Gli Europei di calcio – prosegue Chiara – una questione di cui non si può e non si vuole parlare. Si pretende addirittura di fare la finale a Wembley a capienza piena dello stadio, mi sembra una pessima idea”. E un altro fattore è legato anche all’allentamento delle misure di contenimento in Uk.

In Europa indiana prevalente a fine estate

Matteo Chiara ha raccolto tutti i dati fin qui disponibili sulle 4 varianti più preoccupanti e alla capacità di sequenziare, in tutti i Paesi del mondo, dal 1 aprile al 15 giugno. I dati più attendibili, oltre che nel Regno Unito, restano quelli europei, in particolare Germania e Nord Europa. “Ormai tutti i Paesi europei stanno sequenziando a campione casuale fino al 5% della popolazione positiva, come stabilito da Oms ed Ecdc. La Germania, con 70 mila sequenziamenti effettuati da aprile a giugno (e 135 mila in totale) ha registrato 1.272 casi di Delta. La Spagna, con circa 9 mila sequenze, ne registra 430, il Portogallo 343, il Belgio 363, l’Italia 285, con 11 mila sequenziamenti fatti dal 1 aprile al 15 giugno: “Ma per l’Italia c’è da fare un discorso a parte – prosegue Chiara – Anche gli Usa hanno effettuato un grande sforzo nel sequenziamento, superando, come numero anche il Regno Unito, ma hanno sequenziato solo l’1,7% dei campioni. Quindi ben sotto il 5% fissato da Oms e Ecdc. Per i Paesi africani e in via di sviluppo, si parla di focolai di Delta, ma non sappiamo con che criteri venga fatto il sequenziamento e con che standard. I dati non sempre sono attendibili”.

Città: la destra gioca a perdere

La festa è senza il festeggiato. Ed è il perfetto ritratto del centrodestra in vista delle Amministrative di ottobre.

Ieri, a Milano, Forza Italia ha lanciato in pompa magna la campagna elettorale per la città, inaugurata tra gli altri da Antonio Tajani e Mariastella Gelmini con tanto di audiomessaggio (registrato) di Silvio Berlusconi. Tutto perfetto, tranne il dettaglio più importante: il candidato sindaco ancora non c’è. Ieri Matteo Salvini ha sventolato tre fantomatici “candidati civici” che gli avrebbero dato la disponibilità a correre contro Beppe Sala. Al Palazzo delle Stelline, però, dove si riunisce FI, nessuno fiata. Anzi, Tajani rilancia Lupi: “Se non individuiamo il giusto candidato civico, è la scelta migliore.” Berlusconi – che qui rilancia il ” partito unico” di destra “sul modello dei Repubblicani Usa” – giura di non essere appassionato al dibattito “tra civico e politico”: “Mi interessa che sia bravo, non è una gara.” Sì, ma il nome quando arriva? “A brevissimo”, giura la Gelmini. “Stiamo facendo un gran lavoro di approfondimento e di confronto – assicura Silvio – valutando molti candidati dell’imprenditoria i cui nomi non sono ancora usciti. Stupiremo tutti.” La figuraccia però resta, soprattutto perché Oscar di Montigny, che sembrava aver ricevuto l’investitura, si è tirato indietro. In realtà in FI non aveva mai convinto troppo: un sondaggio fatto commissionare da Berlusconi lo dava dieci punti indietro rispetto a Sala, con Silvio molto preoccupato dal poco appeal del suo cognome. E le sue prime uscite, con cui ha ammesso che avrebbe fatto il vicesindaco di Sala, non hanno aiutato, visto che poi si è saputo che un paio di mesi fa lo stesso Di Montigny aveva partecipato a un aperitivo elettorale del sindaco. Ieri Salvini intanto ha dato il benservito a Maurizio Lupi.

Ma non c’è solo Milano a preoccupare il centrodestra. Tranne Torino, dove corre il civico Paolo Damilano, negli altri Comuni la destra sta facendo tutto per perdere. A Bologna manca ancora un nome – in pole c’è il civico Fabio Battistini o il senatore di FI Andrea Cangini se si dovesse puntare su un politico – mentre a Roma Enrico Michetti, annunciato con enfasi, adesso viene quasi nascosto perché il timore è che possa fare qualche passo falso. “Dobbiamo fargli tutta la campagna elettorale”, dice un big leghista. La situazione peggiore però è a Napoli dove siamo al punto di rottura tra il pm in aspettativa Catello Maresca e i partiti del centrodestra. Nei giorni scorsi Maresca ha detto di “fottersene” dei simboli di partito e vuole candidarsi solo con liste civiche. Un’ipotesi che non piace né a Fratelli d’Italia né a Forza Italia che sono tentati di correre in solitaria con Sergio Rastrelli, figlio dell’ex governatore del Msi. Salvini potrebbe rinunciare al simbolo della Lega per correre con una lista mascherata: “Prima l’Italia”.

Europa e Usa: Meloni studia da premier, ma recluta Orbán

Avolte il navigatore satellitare della politica impone giri molto più intricati rispetto al percorso suggerito. Tra via della Scrofa e Palazzo Chigi, per esempio, i dieci minuti a piedi calcolati dal gps non tengono conto di un costante lavoro di accreditamento internazionale che negli ultimi anni ha portato Giorgia Meloni a continue trasferte europee e americane, riproponendo all’estero una dicotomia sempre più netta con Matteo Salvini. L’ultimo viaggio è di questa settimana: una due giorni a Bruxelles in cui la leader di FdI ha incontrato David Sassoli, Paolo Gentiloni, Viktor Orbán e i principali esponenti dell’Ecr, il Gruppo dei Conservatori e Riformisti di cui Fratelli d’Italia è diventato punto di riferimento. Incontri utili per due ragioni: la prima, consolidare lo status della Meloni, consapevole che per diventare leader del centrodestra ha bisogno di credibilità internazionale; il secondo, più politico, ribadire la distanza da Salvini sul progetto di unire i principali gruppi di destra europei, ovvero il Ppe, Identità e democrazia (dove stanno la Lega, Marine Le Pen e altri partiti sovranisti europei) e l’Ecr, appunto.

In maniera analoga a quanto accade in Italia, con Salvini smanioso di annettere Forza Italia per contenere l’avanzata di FdI, la Meloni ha capito che conviene mantenere la propria autonomia e non farsi risucchiare dall’alleato. Anche perché negli ultimi anni gli azzardi del leghista non hanno funzionato e hanno finito per lasciare praterie a Giorgia: andare dietro alla Le Pen ha concesso vantaggi mediatici immediati, ma ha arenato la maturazione della Lega, mentre invece FdI si metteva a capo dell’Ecr anche grazie al lavoro di Carlo Fidanza, capogruppo a Bruxelles, e di Raffaele Fitto, co-presidente del gruppo.

E così mercoledì, quando Meloni ha incontrato Orbàn, ha cercato di convincerlo che il partito unico di destra non è la strada giusta e gli ha offerto di entrare nell’Ecr, lui che da tre mesi è fuori dal Ppe e aspetta di ricollocare il suo Fidesz. “Lo considererei un percorso naturale”, ha detto Meloni. Ma l’ingresso di Orbán sarebbe figlio di un lavoro che dura da anni, nel tentativo di presentare la Meloni come leader di una forza sì radicale nella sua critica all’Ue, ma in un certo senso “moderata” – conservatrice e patriottica, preferiscono dire i vertici di FdI – lontana cioè dagli strali umorali dei partiti che chiedono (o chiedevano) lo sfascio dell’Ue. Che funzioni o no, a questo lavorano da tempo Fidanza e Fitto. Da settembre la Meloni presiede il partito europeo dei Conservatori e Riformisti e da allora la sua agenda si è riempita di incontri, come le ripetute visite in Spagna a Santiago Abiscal di Vox o i colloqui con il premier polacco Mateusz Moraviecki, incontrato anche giovedì, e col primo ministro sloveno Janez Jansa. Ma non c’è solo la strategia europea su cui si sta concentrando Meloni. Se vuole arrivare a Palazzo Chigi, oltre ad accreditarsi nelle cancellerie europee, dovrà anche stringere ancora di più i legami oltreoceano. Senza il cosiddetto Washington consensus, il consenso della Casa Bianca, qualunque governo italiano non ha vita facile. Così, da quello che risulta al Fatto, Meloni sta già organizzando un viaggio negli Stati Uniti nei prossimi mesi per riallacciare i rapporti con il Partito Repubblicano dopo l’èra di Donald Trump. Il legame di Meloni con il Gop dura da 6 anni, prima che Trump fosse candidato, anche se nel 2019 è stata l’unica italiana invitata alla convention di Washington. Ora che Trump è caduto in disgrazia dopo i fatti di Capitol Hill, la strategia di Meloni è quella di prendere le distanze da Trump e mostrarsi come il punto di riferimento in Europa per i Repubblicani: “Noi siamo vicini al Gop, Meloni non ha mai sostenuto Trump in quanto tale ma perché era il leader dei conservatori in America” fanno sapere dai piani alti del partito.

La leader di FdI in questi anni ha coltivato una fitta rete di relazioni con gli ambasciatori americani e israeliani che si sono succeduti ma anche con il deep state, quei funzionari delle ambasciate che non cambiano in base ai governi e sono i veri uomini “macchina” dei rapporti tra paesi. L’uomo ombra di Meloni a livello internazionale è Guido Crosetto, fondatore di FdI: dopo essersi ritirato da ogni carica elettiva nel 2018, oggi è presidente di “Orizzonte Sistemi Navali”, una joint venture tra Fincantieri e Leonardo. Crosetto viene indicato come il suo stratega principale per arrivare a Palazzo Chigi: “Io e Giorgia parliamo di problemi della gente e al massimo qualche commento sulla situazione politica”, si schernisce con il Fatto. Ma poi spiega la differenza fondamentale con Salvini: “Meloni ha un vantaggio agli occhi delle cancellerie – conclude Crosetto – non viene vista come la leader anti-euro, vicina alla Russia o pronta a sfasciare tutto in Europa. D’altronde senza l’Ue ogni governo, anche quello di Mario Draghi, ha i giorni contati. Così Meloni viene vista come la leader di un grande partito conservatore e nel suo programma non c’è nulla che possa impedirle di ricevere un incarico di governo”.

Sisto, il sottogretario di B. in piazza contro Cartabia

Protestava contro Marta Cartabia e quindi contro se stesso. E il bello è che giovedì mattina, davanti alla Corte di Cassazione, Francesco Paolo Sisto non ha fatto nulla per nascondersi o mimetizzarsi tra la folla. Anzi, dopo la passerella e qualche photo opportunity con il presidente delle Camere Penali Gian Domenico Caiazza, Matteo Salvini e Maria Elena Boschi, il sottosegretario alla Giustizia berlusconiano ha addirittura preso la parola davanti a tutti per sostenere la battaglia dei penalisti sulla separazione delle carriere: “Sono un sottosegretario con la toga – ha detto a mo’ di comizio – un penalista militante anche se diventa sottosegretario non cambia idea. Bisogna riattivare il percorso di discussione della proposta di legge che spetta al Parlamento”.

Peccato che nella riforma della giustizia che la ministra Cartabia sta scrivendo e che arriverà in Parlamento, la separazione delle carriere non c’è e la Guardasigilli è sempre stata contraria a questa ipotesi. Sisto, invece, che sta contribuendo a scrivere la riforma della giustizia penale, giovedì mattina ha preso una posizione completamente opposta a quella della Guardasigilli: è sceso in campo con la maglia degli avvocati e contro quella dei magistrati. Non solo. Durante la manifestazione in piazza Cavour, di cui Sisto era uno dei principali partecipanti, Caiazza ha anche annunciato due giorni di sciopero per giovedì e venerdì prossimo per protestare contro la decisione del Tribunale di Verbania di sostituire il gip Donatella Banci Buonamici nell’inchiesta della funivia di Stresa, ma anche per il fatto che la proposta di legge di iniziativa popolare sulla separazione delle carriere è ferma alla Camera e il ministero della Giustizia non ha fatto nulla per promuoverla. Insomma, il sottosegretario Sisto è andato a protestare contro un governo di cui lui stesso fa parte. Una stonatura istituzionale evidente e che non è passata inosservata al ministero di via Arenula perché Sisto, partecipando alla manifestazione, di fatto ha protestato anche contro il proprio superiore, cioè la Guardasigilli Cartabia. Eppure, da quello che risulta al Fatto, la ministra ha deciso di non prendere alcun provvedimento nei confronti del sottosegretario che veste anche i panni del leader d’opposizione.

Un trattamento diverso invece era stato riservato a fine aprile all’altra sottosegretaria alla Giustizia, Anna Macina, del Movimento 5 Stelle, per un caso molto meno grave. Macina aveva concesso un’intervista al Corriere della Sera sul caso del figlio di Grillo, Ciro, in cui aveva ipotizzato che l’avvocato della vittima del presunto stupro, nonché senatrice della Lega, Giulia Bongiorno, avesse fatto vedere il video incriminato a Matteo Salvini. Dopo le proteste della Lega che ne aveva chiesto le dimissioni, Cartabia aveva convocato Macina per strigliarla: “Serve maggior riserbo” le aveva detto. Sisto, che è sceso addirittura in piazza contro il governo, invece l’ha passata liscia.

Giallorosa: ora può saltare l’accordo fatto in Calabria

Èla candidatura di Maria Ventura in Calabria la prima vittima dell’eventuale addio di Giuseppe Conte alla guida del Movimento. Il nome scelto da “Giuseppi” ed Enrico Letta sta saltando in queste ore. M5S non riesce a fare una lista, Leu nemmeno. E il Pd calabrese la Ventura non l’ha mai voluta. Praticamente impossibile difenderla se l’accordo col M5S si dissolve. Il segretario del Pd è a Berlino, ma segue con rispetto e preoccupazione lo scontro in corso. Al Nazareno assicurano, comunque, che tra i Cinque Stelle ci sono anche altri interlocutori. Ma la realtà è che tutto il Pd teme sia per la tenuta del governo, sia per quella dell’alleanza. Le chat dei parlamentari di Base Riformista, guidate da Andrea Marcucci, ribollono, piene di dubbi su una coalizione che non hanno mai voluto. Nel frattempo, più di un big del Pd fa risalire la “crisi” di Conte alla rottura dell’accordo stretto con Letta per la candidatura di Zingaretti a sindaco di Roma: raccontano che l’avvocato si sarebbe sfilato per pressioni interne a M5S, indebolendo l’asse. Si guarda con preoccupazione anche ai candidati condivisi già scelti, soprattutto a Napoli con Gaetano Manfredi. Tra gli schemi destinati a essere rimessi in discussione, anche la legge elettorale: se salta l’alleanza col M5S, è impensabile andare sul maggioritario.