Di Maio tenta di mediare. Deputati e senatori divisi

La foto è una scena, quasi in dissolvenza. Quella del Garante, Beppe Grillo, che giovedì pomeriggio dopo aver inveito contro Giuseppe Conte davanti ai deputati nella pancia della Camera saluta alcuni deputati. E passando sorride e dà una pacca sulle spalle a Luigi Di Maio. L’ex capo, che esce dalla sala con un volto che gronda preoccupazione. Perché intravede un orizzonte di macerie possibili, ossia le conseguenze delle frasi di Grillo.

Lo stesso Garante che pochi attimi prima di fronte agli eletti lo aveva definito “uno dei migliori ministri degli Esteri della storia”, un elogio che ad alcuni che è parsa l’indicazione del possibile piano b, ossia il ritorno all’ex capo. Ma Di Maio non cercava certo investiture. E se è vero che con Conte ha spesso avuto rapporti difficili, non si augurava affatto che Grillo provasse ad affondarlo. Anzi. “Luigi è preoccupatissimo”, lo dicono tutti nel M5S.

In queste ore sta provando a rimettere assieme i cocci, e in tanti gli hanno chiesto di intercedere. Compresi alcuni di quei deputati che giovedì, a botta calda, avevano riso e battuto le mani al Grillo che faceva l’imitazione di Conte. Alcuni veterani, come Carla Ruocco, già membro del Direttorio su diretta indicazione di Grillo, o l’ex sottosegretario Angelo Tofalo, sono corsi a farsi la foto con il fondatore, come a ribadire da che parte stanno. Mentre un senatore al secondo mandato, Gianni Girotto, ha diffuso un video per dire che non era successo nulla e “che l’accordo si farà, ce lo hanno assicurato Beppe e Giuseppe”. Ma anche diversi deputati al primo mandato a discorso appena finito sorridevano e minimizzavano: “Ma no, Beppe ha solo ribadito alcuni punti, e poi ha detto che chiuderanno l’accordo”. Soprattutto alla Camera, il corpaccione del M5S pendeva soprattutto per Grillo. Una curvatura che con il passare delle ore si è fatta un po’ meno pronunciata. Mentre il Senato è a chiara maggioranza contiana. Non è un caso che, sempre giovedì, Grillo abbia usato toni meno duri davanti ai senatori. Difficile anche per lui adoperare lo stesso spartito di fronte a big vicini a Conte come Stefano Patuanelli o Paola Taverna, o ad altri eletti come l’ex capogruppo Gianluca Perilli. Ma a temere il peggio ci sono altri maggiorenti come Alfonso Bonafede, l’uomo che ha portato Conte nel M5S, o l’ex ministra dell’istruzione Lucia Azzolina: contiani, ma anche in ottimi rapporti con Di Maio. In tutto questo, lì fuori a bussare è già tornato Davide Casaleggio, o almeno così sospettano diversi parlamentari. “Mi sembra che Beppe abbia ribadito il suo punto di vista sul vincolo dei due mandati, crede fortemente che siano alla base”, dichiara il patron di Rousseau a Radio Capital, come a ricordare che lui a Grillo è ancora affezionato.

Mentre con l’avvocato è tutta un’altra storia: “Le idee sul M5S di Conte non mi sono ancora chiare e non capisco perché questo fantomatico Statuto sia stato tenuto segreto in questi mesi”.

Così tra i contiani già monta il sospetto che Casaleggio speri di ricucire con il Garante, per provare a riscrivere gli accordi appena chiusi con l’ex premier. Fantasmi, magari. Ma al M5S attuale fanno paura anche le ombre.

“Beppe poco lucido e narciso: perdere Giuseppe è una follia”

Qualcuno rimane fedele al fondatore, a cui s’aggrappa per scongiurare la trasformazione nel “Movimento Democratico”. Ma la maggior parte degli attivisti 5Stelle, in queste ore, restano increduli di fronte a quella che si ritiene una sorta di autodistruzione del Movimento. A opera di quel Beppe Grillo da cui partì tutto e che ora non ci sta a farsi da parte, nonostante sia stato lui stesso ad aver chiesto a Giuseppe Conte di diventare leader politico della sua creatura.

Da due giorni, i profili social del Movimento riflettono lo sgomento della base. I commenti più apprezzati criticano Grillo. C’è Roberta Bortolotti, per esempio: “Con le uscite di Grillo non si prevede un futuro sereno”. Barbara Cinel articola meglio: “Grillo è una scheggia impazzita, estremamente narciso e poco lucido. Perdere Conte è follia. Spero che Conte venga ingaggiato da Leu, il più sano dei partiti in questo frangente, anche se il più piccolo. Almeno saprei cosa votare alle future elezioni”. E sotto un post contro Matteo Salvini e Giorgia Meloni, la replica di Ciro Principe è amara: “Bravi! Voi nel frattempo continuate a litigare che alle prossime elezioni vedremo uno di loro come presidente del Consiglio”.

Anche la email del nostro giornale (segreteria@ilfattoquotidiano.it) raccoglie parecchie critiche da elettori delusi dei 5 Stelle. Giuseppe Castaldo spiega: “Appare ormai chiaro che il Garante si sia dato due compiti: il primo, portare il Movimento all’irrilevanza politica (mi riferisco all’entrata e alle modalità di entrata nel governo Draghi); il secondo, costringere Conte a ritirare la sua disponibilità al ruolo di capo politico e fare in tal modo un immenso regalo all’establishment”. Pietro Landori chiede a Grillo un passo indietro: “Caro Beppe, sei stato grande per tutto quello che hai fatto però adesso passa il testimone a una persona degnissima”. Lidia Tarenzi è d’accordo: “Non riesco a capire il momento in cui Grillo ha deragliato verso una strada che inevitabilmente porterà allo sgretolamento del Movimento. Conte ha tutte le qualità per prendere questo Movimento e portarlo verso un partito o movimento nuovo, moderno e adatto ai tempi. Solo con lui i 5S possono non solo recuperare gli elettori persi ma conquistarne di nuovi perché è rispettato e amato sia a destra, che a sinistra e al centro”. Dura anche Patrizia Cozzolino: “La mia impressione è che se Grillo seguita a interferire con l’irrinunciabile processo rifondativo che impegna Conte ormai da molti mesi (troppi), finirà col danneggiare non solo il M5S ma anche l’intera opposizione alla prevedibile ammucchiata dei restauratori e gattopardi, cui già stiamo tristemente assistendo”.

Qualche voce più ottimista arriva invece dai Meet Up in giro per l’Italia. Paola Pizzighini, attivista milanese, è preoccupata “dai tempi lunghi”, ma non dalla mancanza di un’intesa tra Conte e Grillo: “Sono dinamiche che succedono ovunque, ma quando accadono da noi fanno più scandalo. Credo che Grillo e Conte siano perfettamente complementari e possano lavorare insieme”. Piero Puozzo, militante di Aosta, riconosce il periodo di “incertezza e incredulità”, ma si schiera col fondatore: “Dice bene Grillo quando ricorda a Conte che deve studiare cosa è il M5S. Gli attivisti sono molto divisi. Alcuni aspettano la decisione sui due mandati, ultimo baluardo della ‘grillità’. Se salta questa regola, sarà il partito di Conte, il Movimento democratico”. Voci simili arrivano dalla Toscana, dove alcuni dei Meet Up più attivi spiegano al Fatto “di aver poco apprezzato la fuga in avanti di Conte”, che “ha presentato le candidature per le Amministrative senza neanche aspettare l’investitura”, e temono soprattutto, come in effetti emerge da molti colloqui con sostenitori grillini della prima ora, “la deroga al vincolo dei due mandati”. Motivi che però nessuno pensava potessero portare a una rottura così profonda.

I big 5S in processione da Conte. Che lunedì detterà le condizioni

L’avvocato è “tranquillo”, assicura chi gli ha parlato. Ostenta “serenità”, giurano. E magari è la posa tattica del mediatore di mille arbitrati, ma probabilmente è molto peggio, è la freddezza di chi si appresta a calare la sua carta, che fa rima con addio. Perché Giuseppe Conte è davvero a un passo dall’abbandonare il Movimento che doveva rifondare. Potrebbe non bastare, la visita dei big contiani Paola Taverna e Stefano Patuanelli, che assieme al capogruppo in Senato Ettore Licheri lo vanno a trovare a casa per cercare l’appiglio per una mediazione. Non sembra sufficiente, il lavoro dietro le quinte di Luigi Di Maio, che spinge per un incontro chiarificatore con Beppe Grillo.

Perché non pare possibile poter ricucire lo squarcio aperto giovedì dal Garante, con quella valanga di frasi a rintuzzare e quasi a deridere l’ex presidente del Consiglio, accusato davanti ai deputati di “non conoscere il M5S”, perfino imitato a uso e risate degli eletti. Ma dopo i sorrisi ora c’è il rumorosissimo silenzio di Conte: che ieri ha taciuto, ancora. Però non starà zitto ancora a lungo. Lunedì parlerà, l’avvocato. E saranno parole affilate. Risposte nel merito, punto su punto, alle stilettate di Grillo. La premessa per arrivare alla conclusione che può essere la cesura definitiva, con il Garante: “Non potrò mai accettare una diarchia, ho bisogno dell’agibilità politica che mi era stata promessa, e Grillo deve essere contento del progetto”, Con accluso un promemoria importante: “È stato lui a venirmi a cercare”. Quindi ora Conte non può subire la linea del fondatore, che vuole prendere ogni decisione assieme all’avvocato, insomma essere il co-pilota.

Inaccettabile, per l’ex premier. Pronto a scandire le sue condizioni. E qualcuno spera ancora che dicendolo ai microfoni possa smuovere Grillo, fargli fare un passo indietro. Ma il primo a non crederci è Conte. Tradotto, quella di lunedì potrebbe essere una conferenza stampa praticamente di addio ai 5Stelle. A cui seguirà una pausa dalla politica. “Giuseppe non vuole fare un suo partito, almeno non adesso”, dicono fonti a lui vicine. Non è questo il momento. Ma arriverà la sua lista. C’è già un gruppo di maggiorenti del Movimento pronto a passare con lui. Ed esiste un mondo di professionisti legato all’avvocato che potrebbe riempire le sue liste. “Qualcosa farà” dicono fonti trasversali. Ma non subito.

Prima c’è da replicare a Grillo, che lo attende al varco. “Se mi risponde stavolta sarò durissimo” sibila il Garante ai suoi. Pronto a un post al tritolo, dicono. Di certo è nervoso il fondatore, anche per la lettura dei giornali. Così Di Maio prova a fare il pontiere. “Dobbiamo far sbollire tutto e poi farli incontrare”. Ma a far scendere la temperatura non è servita neppure la telefonata del Garante all’avvocato, giovedì sera: “Giuseppe non dare retta alle agenzie, ci vogliono mettere l’uno contro l’altro”. Ma Conte ha reagito in modo gelido. Per poi iniziare a preparare la sua contromossa. Dal giro di Grillo sibilano: “Vuole solo alzare il prezzo, bluffa”. Ma fonti vicine a Conte suonano un’altra nota: “Il nodo è che attualmente lui e Grillo hanno visioni inconciliabili tra loro di ciò che dovrà essere il M5S”. Nel pomeriggio Taverna, Patuanelli e Licheri vanno a trovare l’avvocato. Gli chiedono di aspettare fino a lunedì per la conferenza, di non chiudere subito.

Conte si mostra padrone di sé. Ma ripete: “Sono stato chiamato per rifondare il Movimento e avevo chiesto i poteri per farlo. Non posso accettare una diarchia”. E prosegue: “Quello che è accaduto nelle ultime ore è un suicidio a livello di immagine per un movimento. Se ero stato chiamato per un semplice maquillage avrebbero dovuto dirmelo, io avevo altre idee ed ero stato chiaro al riguardo, da subito”. Ma ciò che conta lo riassume un big: “Grillo deve fare un passo indietro, chiarire che lui sarà solo il Garante”. Ipotesi del terzo tipo. In questo clima, in serata, i 5Stelle di governo si riuniscono. Patuanelli è duro: “Beppe vuole dettare la linea anche sulla politica estera”. Si discute, anche di simbolo e rotta politica. Molti insistono: “Grillo e Conte devono parlarsi”. E pare l’ultima boa, per il M5S che affonda.

AAA coglione cercasi

Nel 1997, dopo tre anni di direzione del Giornale al posto di Indro Montanelli, Vittorio Feltri se ne va. E Berlusconi (Silvio, non Paolo, sedicente editore) offre la direzione al cofondatore del quotidiano: Enzo Bettiza. Il quale accetta per qualche minuto, finché scopre che sarà direttore per finta, perché quello vero è Maurizio Belpietro: “Una cosa mai vista né sentita, un contratto nel quale si legge: ‘È escluso che lei possa avere responsabilità di indirizzo e di intervento nell’organizzazione aziendale’. Volevano un pennacchio, un francobollo nobile. Mi proponevano una sinecura ben retribuita: io a bighellonare come un perdigiorno nei corridoi, un fondo domenicale, qualche commento. Ma poteri zero, anzi uno: quello di sciropparmi, da direttore responsabile che non può dirigere nulla all’infuori di se stesso, tutta la grana delle tantissime querele che affluiscono al Giornale feltriano. Hanno tentato il vecchio metodo di issare un blasone moderato per tenere buoni i lettori liberali e conservatori. Ma in realtà vogliono conservare il feltrismo senza Feltri”. Inutile dire che, dopo il gran rifiuto di Bettiza, Berlusconi non trova nessuno: cioè il povero Cervi, Belpietro, Giordano, ri-Feltri, Sallusti, fino alla comica finale di Minzolini. La stessa mossa berlusconiana ha tentato Grillo per i 5Stelle, immaginando che Conte avrebbe accettato di fare il re travicello, il pennacchio tira-voti, il fiore o la pochette all’occhiello, mentre Beppe avrebbe seguitato a comandare con la lucidità che ultimamente gli è propria. Infatti ha suggerito a Conte, che si avvaleva di consiglieri come la Mazzucato, di “studiare cos’è il M5S” dopo aver consegnato la tessera onoraria a Draghi e a Cingolani, che invece cos’è il M5S lo sanno bene, infatti si circondano di liberisti e antiambientalisti.

Ora Conte, come Bettiza, non potrà che respingere la proposta indecente. E Grillo dovrà farla a qualcun altro. Ma chi potrà accettarla? Non certo un big in grado di recuperare o almeno mantenere i voti: al massimo un coglione, un servo sciocco a caccia di medagliette-patacca. E, senza un capo politico degno di questo nome, i 5Stelle defungeranno a breve. E lasceranno orfani milioni di elettori che costringeranno Conte, volente o nolente, a dare loro una casa. Delle due l’una: o Grillo si accorge del disastro che ha combinato e rimedia finché è in tempo; o tutto può accadere. Anche che, nel processo di omologazione ai suoi acerrimi nemici, lanci un anatema alla Fassino: “Se Conte vuol fare politica, fondi un partito e vediamo quanti voti prende”.

La neutralità tecnologica è la chiave per l’aria pulita

Il presidente dell’Associazione Europea dei costruttori nonché Ad di Bmw, Oliver Zipse, ha ricordato che “la trasformazione del settore della mobilità sta avvenendo qui e ora, e l’industria automobilistica contribuirà pienamente all’obiettivo di un’Europa a zero emissioni di carbonio nel 2050, in un approccio olistico e tecnologicamente neutrale”. Proprio queste ultime due parole dovrebbero far accendere più di una lampadina, dal momento che quello della neutralità tecnologica è un principio sancito dai regolamenti Ue. Anche se chi sta tirando la volata all’elettrone pare non curarsene. Si domanda sempre Zipse: “La nuova Europa verde è guidata da una cultura di divieti e restrizioni, o è stimolata da innovazione e competitività?”. Bisognerebbe chiederlo a quei 9 Paesi che hanno esortato l’Ue, la quale il prossimo 14 luglio comunicherà i nuovi standard per le emissioni di CO2, a bandire completamente i motori termici. Richiesta il cui accoglimento desterebbe non poca meraviglia, per i motivi su citati.

Al contrario, questo non sembra il momento di escludere alcuna soluzione che “ripulisca” l’aria: l’ibrido, nelle sue varie declinazioni, il gas e l’elettrico, così come l’idrogeno. Senza dimenticare l’ottimizzazione dei suddetti motori a combustione, che nelle loro ultime declinazioni si sono dimostrati efficienti e puliti già ora. “Un diesel moderno è più rispettoso del clima di un veicolo elettrico caricato con elettricità generata dal carbone”, sostiene Zipse. Tutto può contribuire all’obiettivo della decarbonizzazione, basta lasciarsi alle spalle gli interessi di parte.

Audi, dal 2026 solo auto a batteria

Audi si unirà alla pattuglia di costruttori che hanno deciso di accelerare il processo di elettrificazione della propria gamma. Dal quartier generale di Ingolstadt hanno infatti confermato che tutti i modelli di nuova generazione saranno esclusivamente 100% elettrici già a partire dal 2026. E le auto con motore endotermico?

L’ultimo modello a montarne uno, stando ai programmi della casa di lusso tedesca, verrà messo in commercio tra quattro anni. Mentre la produzione di vetture del genere cesserà definitivamente nel 2033. “Siamo pronti a fare un passo decisivo nell’era elettrica”, ha fatto sapere l’amministratore delegato di Audi, Markus Duesmann, partecipando a un evento della Climate Neutrality Foundation.

Il marchio tedesco, peraltro, punta ad avere in gamma oltre venti modelli elettrici già entro il 2025.

Secondo Duesmann, tuttavia, non dovrebbero essere le istituzioni a decretare la fine di una tecnologia bensì il mercato: “Non credo nel successo dei divieti quanto in quello della tecnologia e dell’innovazione”. Ovvero ciò che dovrebbe convincere il pubblico a sostituire l’auto tradizionale con quella a batteria. Peraltro, su molti mercati la domanda per modelli termici potrebbe mantenersi elevata anche dopo il 2033: un esempio in questo senso viene dalla Cina, dove Audi potrebbe mantenere in piedi una produzione locale di modelli “tradizionali” qualora il mercato continuasse a richiederlo.

Una tabella di marcia con cui, secondo il numero uno Audi, si sono chiariti “i passaggi di una transizione decisiva e poderosa verso l’era elettrica. Stiamo dando il segnale che l’Audi è pronta”, ha rimarcato il manager. Il quale, tuttavia, ha anche confermato gli investimenti sui motori endotermici. Audi intende “dedicare tutti i propri sforzi allo sviluppo del motore a combustione fino alla sua definitiva interruzione, migliorando ulteriormente le generazioni attuali per ottenere una maggiore efficienza con importanti vantaggi per i clienti”. “L’ultimo motore a combustione interna dell’Audi sarà il migliore mai costruito”, ha concluso Duesmann.

Yaris Cross, è arrivato il suv urbano che vuole sbancare il mercato

L’ibrido è più realista di un Re Mida: arriva a fabbricare best seller quando viene proposto sulle vetture che appartengono alle tipologie più ricercate. Ed è questa la fotografia della nuova Yaris Cross, il suv urbano più atteso del 2021 che rischia di scuotere il mercato per la bontà di un progetto che mette a frutto il massimo delle sinergie del gruppo Toyota. Verrà prodotta in più di 150.000 esemplari l’anno per l’Europa nello stabilimento Valenciennes, in Francia, non a caso lo stesso dove nasce Yaris, con cui condivide la piattaforma modulare GA-B, una Global Architecture mirata a sostenere una intera famiglia di vetture con il comune denominatore del telaio evoluto con acciai ad alta resistenza, un distribuzione dei pesi curata e, in definitiva, una tenuta di strada piuttosto elevata.

Yaris Cross non assomiglia affatto a Yaris. Piuttosto amministra misure diverse, con 418 cm di lunghezza, 24 più di Yaris, e poi 176 cm in larghezza e 156 d’altezza. Il design ha un immaginario più aggressivo, con forme che ricordano i tratti spigolosi del diamante e poi si raccordano in modo muscoloso con i passaruota, che ospitano cerchi fino a da 18 pollici di diametro. L’impressione è grintosa quanto gli ingombri si rivelano agili, la visibilità a prova di traffico e di città, gli interni tecnologici nell’impronta di una strumentazione digitale, ma con spazio e versatilità nel bagagliaio. Su tutto, la nostra prova ha dimostrato che l’incontro tra una vettura trend setter e la motorizzazione Full Hybrid di quarta generazione funziona a meraviglia. La terza via c’è, e a tratti disarma. Il benzina tre cilindri 1.5 litri da 92 Cv è abbinato ad un propulsore elettrico salito a 59 kw di potenza e con 141 Nm di coppia, ciò che serve a bilanciare in modo pieno gli eventuali ritardi di risposta del cambio e-Cvt o dell’entrata in funzione del propulsore tradizionale. La potenza complessiva è di 116 Cv, i consumi dichiarati e realistici corrispondono a 4,6 litri di benzina per 100 km, con emissioni di CO2 ridotte a 98 g/km. Yaris Cross amministra le fasi di rilascio e di veleggiamento avanzando a zero emissioni, e conferma la fluidità di funzionamento di un vero sistema complesso che diventa semplice da capire, e sfruttare. Perfino la nettezza della frenata non viene condizionata dal sistema di recupero rigenerativo, mentre ritroviamo uno sterzo preciso, un assetto composto che non innesca movimenti della carrozzeria in curva, un isolamento dalle irregolarità stradali che viene da un lavoro attento sulle sospensioni. Yaris Cross arriverà a inizio settembre, mentre il listino sarà reso noto la seconda settimana di luglio, anche se ha già incassato oltre 3.000 prenotazioni a scatola chiusa.

“Io, Mogol e Fiorello”. L’ironia di Gabriella Germani

In ordine casuale: Mara Venier, Valeria Marini, Simona Ventura, Maria De Filippi, Monica Bellucci, Lilli Gruber, Barbara Palombelli, Mara Carfagna, Daria Bignardi e Laura Boldrini. Tutte loro, e non solo loro, oltre a essere donne hanno come minimo comun denominatore il viso, il corpo e la voce di Gabriella Germani.

Secondo Fiorello è la più brava; Mara Venier anni fa l’ha portata con sé a Domenica In; Mogol l’ha scoperta in uno sperduto villaggio turistico della Turchia.

Lei, dopo oltre venticinque anni di televisione e di radio, ancora ha l’atteggiamento stupito della precaria, di chi si domanda il “perché” e il “percome”, tanto da non abbandonare mai i piani B della sua esistenza: “Ho deciso, nel caso mi lancio come agente immobiliare o manager”.

Scherza?

(Sorride) Serissima! Ancora oggi non mi rendo conto; nei primi tempi di questo mestiere, quando non mi conosceva nessuno, se mi chiedevo di cosa mi occupavo rispondevo sempre “avvocato”, perché un po’ mi vergognavo.

È realmente avvocato.

Laureata in Giurisprudenza con una tesi sul diritto alla dignità del lavoratore.

Insomma, Fiorello la definisce numero uno…

Ci conosciamo da vent’anni, mi dispiace solo di non aver mai potuto vivere con lui un’esperienza televisiva.

Come mai?

Non l’ho mai capito; lui è il più bravo, gli devo molto perché mi ha sempre stimolata a creare personaggi nuovi: con lui mi sentivo in una botte di ferro, non mi spingeva mai in territori pericolosi e funzionali a egoismi personali. Lui è un artista.

E lei è artista?

Mi riconosco una capacità non comune nell’entrare in un personaggio: è una dote, ma l’arte è altro.

Quando ha scoperto “la dote”?

In quinta elementare mentre imitavo Antonella Ruggiero in Mister mandarino, poi ai tempi dell’università i miei amici volevano portarmi al Piper per un’audizione, ma ho rifiutato; poi un giorno, trovo un annuncio con una domanda: “Sai imitare?”. Era il casting per il programma Sotto a chi tocca (1996, con Pippo Franco). Ho partecipato e vinto.

La prima volta sul palco.

Un’incapace: stavo accanto a Gigi Sabani e tremavo, ma ho passato la vita a combattere le mie paure…

Consigli, da chi?

In particolare da nessuno, però guardavo i comportamenti di Fiorello: pure lui vive di tensioni e preoccupazioni; osservarlo mi ha migliorata. Sempre da lui ho capito la forza dell’improvvisazione.

Per fortuna.

Non solo: tempo fa ero al Bagaglino con Pingitore e per lanciare il programma dovevo andare in diretta sul Tg5. Ci colleghiamo, e prima di noi ascolto le notizie drammatiche del Tg; ho pensato: “Non rompere, i problemi sono altri”.

Un amico per lei.

Mogol.

Parla mai di Battisti?

Solo se qualcuno gli pone una domanda specifica, altrimenti non è un argomento fisso; poi lui è pieno di progetti, di idee…

Come lo ha conosciuto?

In un villaggio turistico in Turchia: lavoravo lì come animatrice, e come al solito la timidezza mi impediva qualunque contatto diretto; poi una sera ci siamo trovati a parlare, e non so perché gli comparai un libro di Paul Watzlawick, Istruzioni per rendersi infelici, con il Manzoni e i capponi di Renzo. Mi propose di lavorare con lui.

Ruolo?

Pubbliche relazioni.

Quanto ha retto?

Un anno, dovevo laurearmi.

Chi c’è nel suo pantheon?

Oltre Fiorello e Mogol? Pippo Baudo e Maurizio Costanzo.

Spesso i suoi colleghi sono molto stressati…

Alcuni diventano bipolari, e ogni volta gli dico “godetevi la vita”.

Entra in un ristorante e nessuno si gira per lei.

Mi meraviglio se si girano.

La confondono mai per un’altra?

I primissimi tempi mi scambiavano per Sabina Guzzanti, poi per Virginia Raffaele.

Si offende?

No, ci sta; il mio nome è uscito poco, vengo più inquadrata come la comica che lavora con Fiorello; (ride) in un settimanale ho trovato un indovinello: “Chi ha imitato Monica Bellucci, celebre per il suo ‘Pronto ma’’ che ha fatto ridere tutta Italia?” C’erano tre risposte, e una di queste era “Fiorello”. Fiorello era per loro quella esatta.

La politica l’ha mai scocciata per le sue imitazioni?

Politici mai, altri sì, ma non li ascolto.

Mai i politici?

La Boldrini è stata simpatica e mi ha invitata alla Camera, con la Meloni sono andata al Costanzo show ed è stata spiritosa, anche la Raggi l’ha presa sul ridere.

Con i primi soldi guadagnati?

Ho acquistato una motocicletta. Ed è ancora con me.

Gioca al Superenalotto?

No.

Scaramanzia?

Ho dei miei riti.

Chi è lei?

Una donna che ama la natura e il suo lavoro.

McAfee, così vive (e muore) un vero genio paranoide

Nel 2012, John McAfee se ne sta sdraiato sotto la sabbia sulla spiaggia di Orange Walk, in Belize. Tiene fuori solo la testa, nascosta da una scatola piena di buchi. La polizia lo cerca dopo la morte di un suo vicino e l’avvelenamento di 11 cani. “Stavo molto scomodo”, ha commentato con Joshua Davis di Wired. Nulla, con lui, è più difficile del distinguere tra verità, genio e paranoia.

McAfee, 75 anni, mercoledì si è apparentemente suicidato in carcere, in Spagna (era stato arrestato a ottobre mentre cercava di partire per Istanbul) dopo l’ok alla sua estradizione negli Usa. Ad attenderlo, un processo per frode per il quale rischiava 30 anni di carcere. Più volte, da quando era stato rinchiuso, aveva ribadito che un eventuale suicidio non sarebbe dipeso da lui. Il suicidio è arrivato, i dubbi anche.

Programmatore negli anni 70-80, apparteneva alla generazione che ha fatto fortuna con l’avvento di Internet. Il padre, alcolizzato e violento, si suicida quando ha 15 anni. “Ogni giorno mi sveglio con lui accanto – dice McAfee a Davis, che lo racconta nel suo ebook Last Stand – In ogni mia relazione è lì accanto a me. In ogni mia diffidenza, lui è il negoziatore. Per questo la mia vita è fottuta”. Si iscrive al college, studia matematica, lo paga vendendo abbonamenti ai giornali porta a porta. Convince le persone di vivere in un mondo di menzogna. Sono anni turbolenti: viene cacciato dall’ateneo in cui insegna per una relazione con una studentessa (che poi sposerà) ed è arrestato per consumo di marijuana. Torna a lavorare, prima nel settore ferroviario poi in quello agricolo, infine alla Lockheed. Parallelamente cocaina, Lsd e alcool gli faranno perdere tutto. Va in terapia. Qualcuno lo abbraccia. “Quello è stato il momento in cui la mia vita è iniziata” ha raccontato.

È sobrio da quattro anni quando, nel 1986 due fratelli pachistani diffondono il primo virus informatico e lui crea la sua azienda di antivirus, nel salotto. Nel 1990 macina 5 milioni di dollari l’anno, nel 1992 sbarca in Borsa con azioni per 80 milioni. “Molto del suo successo – è stato detto – derivò dalla sua capacità di comunicare la sua paranoia”. Diffonde il virus dei virus, regala l’antivirus e vende gli aggiornamenti. Crea il bisogno e monetizza la soluzione.

Da allora, per 20 anni, è il tipico uomo della Silicon Valley. Nel 2000 apre finanche una scuola di yoga tra le Montagne Rocciose e scrive tre libri di spiritualità. “Ma alle soglie del 2002 inizia a sentirsi come se avesse deluso se stesso. Non vuole più la sua vita da uomo ricco tradizionale” scrive Davis. Inoltre, la crisi del 2008 colpisce anche le sue finanze e si ritrova in mezzo a due grosse cause: una per la morte di uno studente di un suo corso di volo e un’altra per l’infortunio di un suo dipendente. Vende quindi azienda e proprietà e se ne va in Belize dove gli sembra di poter sfuggire alle responsabilità, ma pure agli eccessi della modernità. Qui spende milioni per costruire un compound con innumerevoli bungalow a bordo spiaggia. Niente Internet. Fa arrivare un pianoforte (che non sa suonare) e la sera strimpella alla luna, con le onde del mare in sottofondo.

Il suo entusiasmo però non è sedato: acquista un bar, crea un servizio di taxi acquatici, attrezza un laboratorio per studiare un nuovo tipo di antibiotico. Scopre le pessime condizioni in cui vivono gli abitanti del villaggio di Carmelita, elargisce soldi per progetti e, soprattutto, per la polizia. Vuole fidelizzarla per evitare che sia corrotta, ma viene accusato di star costruendo una sua “armata”, poi di essere coinvolto nel narcotraffico: la sua presenza attiva e virtuosa nei villaggi è a suo dire mal vista dalla criminalità e questo nutre la sua paranoia al punto da spingerlo a importare armi per difendersi. Quando un suo amico va a trovarlo, nel 2011, gli dà una pistola. “Potevo vedere la paura nei suoi occhi”, disse. Arriva a mettere a disposizione un fondo di 500mila dollari per chi ucciderà un uomo che lui teme voglia farlo fuori. “Se muoio, si attiva” gli dice, costringendolo a diventare sua guardia del corpo.

Davis lo intervista nel 2012: vive con cinque donne e si considera l’unico baluardo di legalità nel villaggio. Il giornalista parla di una “rete di contraddizioni”: McAfee dice di contrastare la droga ma posta dichiarazioni assurde online, dice di punire il suo staff che beve ma possiede un bar, dice di tenere al rispetto della legge ma cerca di eludere le cause statunitensi, non incontra sua figlia ma quasi soffoca di dolore se vede soffrire altri bambini. “È come – conclude – se volesse aggiustare se stesso aggiustando ciò che non va in Belize”.

Tormentato dall’idea che la Gsu, la Gang suppression Unit del Belize voglia farlo fuori, vive anni di fughe e paranoia, in Guatemala è arrestato per essere portato negli Usa. Sarà il ministro degli Esteri del Belize a spiegare che deve solo essere ascoltato come persona informata dei fatti. In America, nel 2015, annuncia la sua candidatura (senza esiti rilevanti) alle primarie del Partito Libertario ed è tra il 2014 e il 2018 che, secondo il fisco Usa, avrebbe evaso le tasse evitando di dichiarare milioni di utili da criptovalute, interventi in pubblico e vendita dei diritti d’immagine.

Accuse che resteranno ammantate di dubbio, come la sua morte. “Ci ho anche provato per un po’ a fare ‘l’intervista del secolo’ – ha scritto ieri Marco Romandini, di Wired, da anni in contatto con McAfee – ma nessuno sembrava interessato a pagarmi un viaggio per raccontare che i Los Zetas volevano far fuori McAfee. E che le prove erano dei cracker al formaggio”. Finire in un carcere americano per lui sarebbe stata la fine, diceva di avere le prove della corruzione del governo. “Da lì il suicidio. Questa la conclusione più ovvia – dice Romandini –. Ma John non era ovvio, era visionario. Era paranoico”. Poi, chiude: “La racconterò come farebbe lui: ‘Mi hanno fatto fuori perché stavo rivelando su Twitter i metodi con cui i governi inseriscono agenti nelle aziende informatiche per scrivere ghost code nei chip, backdoor che servono per spiarci, mandare all’aria sistemi, vincere guerre. Nel prossimo post avrei rivelato i metodi per individuarli e smascherarli. Fanculo stronzi”.

Amici contro il Fatto: un’altra causa persa per Mediaset

Cari Amici, avete torto. L’ha stabilito il giudice della Corte d’Appello di Roma respingendo (di nuovo) la causa del gruppo Mediaset nei confronti del Fatto Quotidiano. Nel 2012 su questo giornale Carlo Tecce raccontò la denuncia di Roberto Quagliano, un produttore televisivo che aveva proposto a Mediaset un format simile a quello che poi sarebbe diventato Saranno Famosi e quindi Amici, il programma di culto realizzato dalla società di Maria De Filippi e del marito Maurizio Costanzo. Quagliano fece causa al Biscione per plagio, presentando ai giudici il carteggio con Giorgio Gori (all’epoca ancora manager berlusconiano e non sindaco del Pd) e la lunga trattativa sfumata per far approvare il suo programma (“La Scuola”) nei palinsesti di Canale 5, poco prima che ci finisse invece il format della De Filippi (che per due volte è stata convocata come testimone e si è negata).

I giudici hanno dato torto a Quagliano sia in primo grado che in appello: ora si attende la parola definitiva della Cassazione.

Mediaset se l’è presa con Il Fatto per aver raccontato questa storia che all’azienda non fa piacere, ma i tribunali – per ultima la Corte d’Appello – hanno respinto la querela della tv berlusconiana. L’articolo, si legge nella sentenza, rispetta i criteri della deontologia giornalistica: interesse pubblico, verità e continenza. “La verità  della notizia – spiegano i giudici – va valutata, nel caso di specie, alla luce delle dichiarazioni rese da Quagliano nell’intervista e riportate fedelmente nell’articolo”. La decisione che ha dato torto a Quagliano nella causa per plagio, peraltro, è descritta come “una questione ampiamente opinabile” e “le valutazioni tecnico-giuridiche effettuate dai giudici di primo e secondo grado in merito non sono quindi idonee a ritenere false le affermazioni di Quagliano contenute nell’articolo”. Il produttore, insomma, non ha detto il falso. E il Fatto non l’ha scritto. Chissà che la Cassazione non prenda nota.