Dalla crisi economico-sociale indotta dalla pandemia si può uscire – com’è sempre avvenuto nelle crisi – o “da destra” o “da sinistra” e questa alternativa è sotto gli occhi di tutti alla vigilia della fine ufficiale (salvo sorprese) del blocco dei licenziamenti.
Si fronteggiano, per l’uno o per l’altro esito, le invocazioni datoriali alla ritrovata libertà di licenziare, di utilizzare senza limiti il lavoro precario, di pagare salari inferiori a 1.000 euro mensili, di utilizzare cooperative “spurie” negli appalti e così via, ma lo dimostra, dall’altro lato, la resistenza dei lavoratori, non piegata da atti di squadrismo giunti fino all’omicidio (formalmente “stradale” ma in realtà politico). Questa alternativa si gioca, nel concreto, su quattro tematiche connesse al lavoro e altrettanti interventi normativi, già pronti, per i quali serve però una volontà politica vera e non solo proclamata dei partiti che nella composita maggioranza rappresentano la sinistra.
1) Serve anzitutto una disciplina in materia di licenziamenti per ragioni economico-politiche che fissi in via strutturale un fondamentale principio, che è quello della graduazione degli strumenti di gestione degli esuberi. Significa, in breve, stabilire che prima di licenziare occorre che il datore faccia ricorso ai contratti di solidarietà difensiva o, ove questi non risultino possibili, alle integrazioni salariali anche a “zero ore” che, nel frattempo, la riforma degli ammortizzatori sociali dovrebbe avere esteso a tutti i lavoratori indipendentemente dalle dimensioni dell’impresa. Di questa riforma occorre faccia parte anche una revisione della NASpI (l’indennità di disoccupazione) che consenta di utilizzarla, a richiesta del lavoratore, come aspettativa indennizzata, evitando così l’interruzione del rapporto con la ditta, nella speranza o in vista di una possibile ripresa. Finora, va ricordato, è sempre stato nella discrezionalità del datore scegliere se ricorrere alle integrazioni salariali, e per quanto tempo, o procedere direttamente ai licenziamenti o minacciare di farlo per trattare da posizioni di forza.
2) È necessario poi un altro intervento normativo – oggi diventato importante quanto e più del precedente – in materia di appalti e subappalti, che rappresenti il rimedio, ormai indispensabile, al groviglio di illegalità, di sfruttamento, di caporalato innestato dall’art. 29 della “legge Biagi”. Questa norma ha purtroppo consentito, o tollerato, appalti di sola manodopera e ha poi cancellato il principio chiave (art. 3, l. 1369/1960) capace di bonificare l’intera materia: quello la parità di trattamento tra i dipendenti della stazione appaltante e i dipendenti dell’appaltatore o subappaltatore. Basterebbe questa norma per far sì che poi si ricorra agli appalti solo per effettive necessità tecniche e non per praticare sotto-salario e negare diritti, visto che, a parità di costi, non sussisterebbe più incentivo alle esternalizzazioni fraudolente. È noto, per altro verso, che il massimo del lucro e dello sfruttamento si raggiunge quando appalti e subappalti vengono affidati a false cooperative dette “spurie”. Su tutta questa materia è già in discussione in Parlamento un progetto di legge (il n. 1243/2018) presentato, a suo tempo, dal M5S con l’adesione di LeU: basterebbe che il Pd, ora, con il ministro del Lavoro Andrea Orlando, lo volesse davvero per realizzare la “bonifica”.
3) Il terzo grande tema è quello del salario minimo legale, ora sollecitato anche dalla proposta di direttiva Ue. Anche qui è già pendente in Parlamento un accurato disegno di legge (n. 658 – On. Catalfo) con una soluzione equilibrata, consistente, in primo luogo, nell’estensione generalizzata dell’applicazione dei Contratti nazionali stipulati dai sindacati maggiormente rappresentativi e, in secondo luogo, in una integrazione al minimo dei salari previsti dagli stessi Ccnl ove presentassero, per le qualifiche più basse, valori inferiori ai 9 euro lordi orari. Il che accade, ad esempio, nel Ccnl Pubblici Esercizi, nel quale i datori di lavoro vorrebbero “ripartire” pagando salari di 5-6 euro e ricorrendo a contratti collettivi pirata, subappalti, precariato ripetitivo ecc.
La circostanza che quel settore economico, formato da circa 330.000 operatori (per il 60% ristoranti, per il 40% bar) abbia sicuramente sofferto con le chiusure della pandemia, non può autorizzare nessuno a traslare il danno sui lavoratori, anche perché i ristoratori, stando ai dati della loro associazione Fipe, denunciavano prima della pandemia di lavorare in perdita o con redditi di poche migliaia di euro, tanto è vero che il “ristoro” è stato per loro commisurato a una percentuale del fatturato e non dell’utile realizzato negli anni antecedenti la pandemia, proprio perché, stando alle denunce fiscali, non esisteva. Siamo stati gli ultimi ad avere il reddito di cittadinanza e forse saremo gli ultimi ad avere un salario minimo legale, ma almeno rientreremo tra i paesi civili.
4) Occorre infine riprendere il tema del precariato, vera piaga del mercato del lavoro italiano sul quale, durante la pandemia, è stato consumato ogni genere di ipocrisia: è vero che 800.000 precari hanno perso il posto perché per loro non poteva valere il blocco dei licenziamenti, ma era giusto, razionale e legittimo che quei rapporti fossero precari? Il dato vero è sempre lo stesso: le occasioni lavorative veramente a tempo determinato sono circa il 13,5% del totale, ma oltre l’80% delle assunzioni avviene con contratto a tempo determinato e questo per un solo motivo: per tenere il lavoratore sotto perpetuo ricatto. Nel 2019, il Decreto Dignità ha cercato di limitare questo ingiusto precariato, reintroducendo le causali, ma la resistenza della Lega fece sì che la soluzione normativa sia risultata quantomai ibrida con il primo anno di rapporto ancora “acausale”. Adesso c’è la spinta a una nuova generale acausalità, dopo aver versato lacrime di coccodrillo sugli 800.000 precari che hanno perso il lavoro. Difficile negare, allora, che il sistema precedente disciplinato dal d.lgs. 368/2001 aveva invece funzionato molto bene: c’era semplicemente l’obbligo di spiegare nella lettera di assunzione per quale ragione quel rapporto era a tempo determinato, vale a dire per quale specifica esigenza lavorativa temporanea veniva instaurato e bastava allora controllare che quella esigenza esistesse davvero e fosse davvero temporanea. Una soluzione semplice ed efficace alla quale, crediamo, sarebbe opportuno ritornare in alternativa ad una franca reintroduzione di causali legali tipiche.
Naturalmente, ci potrebbero essere molti altri importanti interventi ma questi quattro sono quelli che ricostituirebbero una tutela credibile dei diritti dei lavoratori di fronte alle tentazioni di offensive neoliberiste, ferma restando la necessità di ogni misura sia di investimento economico sia di regolamentazione giuridica per affrontare il problema dell’occupazione, specialmente giovanile, fattosi più che mai acuto e, tuttavia, a parere nostro, non irrisolvibile.
Le due vie per affrontarlo e dargli una soluzione effettiva sono costituite da una parte, come naturale, dagli investimenti produttivi pubblici e privati che creino nuove necessità occupazionali e, dall’altra, da una riduzione della settimana lavorativa che consenta di allargare l’occupazione migliorando anche le condizioni di vita di tutti i lavoratori che fruirebbero della riduzione dell’orario settimanale.