L’Onu tergiversa, in 3 milioni sono a rischio fame e malattie

Sta per scadere l’accordo che consente a quasi tre milioni di siriani di ricevere sostegno. “I convogli umanitari provenienti dalla Turchia che portano aiuti in Siria devono continuare, faccio un forte appello ai membri del Consiglio affinché raggiungano un accordo per far proseguire tali operazioni transfrontaliere, come canale vitale di sostegno per un altro anno”. Così Antonio Guterres, Segretario generale delle Nazioni Unite, ieri si è rivolto al Consiglio di sicurezza che dovrà rinnovare il programma delle operazioni al confine turco-siriano con una nuova proroga. Il voto è previsto per il prossimo 10 luglio. “La mancata proroga avrebbe conseguenze devastanti” ha continuato ancora Guterres, parlando della catastrofe siriana in atto a nord-ovest del Paese. Cibo, medicine, beni essenziali, dosi di vaccino e altri aiuti, adesso a rischio, arrivano nella città ogni mese con mille convogli che attraversano il valico di Bab-al-Hawa, unico punto che collega la città al resto del mondo. Dall’assistenza umanitaria delle organizzazioni non governative dipendono due milioni e mezzo di sfollati di totali undici milioni di profughi: oltre sei milioni sono i profughi interni, cinque milioni e mezzo hanno invece cercato rifugio in Europa o negli Stati confinanti. Opposizione della Federazione russa al vertice internazionale, che preannuncia il suo veto alla proroga: degli aiuti beneficiano solo i ribelli che controllano Idlib, ha chiosato accusatoria Mosca, alleata del presidente Bashar al-Assad. La Russia chiede che camion e carichi destinati alla città assediata da fame e povertà passino invece attraverso Damasco, la capitale. A sostenere la scelta di Mosca si è schierata Pechino.

Se è a repentaglio l’operazione umanitaria delle Nazioni Unite da 10 miliardi di dollari, vani sembrano anche i tentativi di riaprire i valichi di Bab al-Salam e al-Yarubiyah. Il 70% dei siriani attraversa adesso la crisi peggiore da quando è iniziata la guerra nel 2011, ha ricordato ancora Guterres.

Vertice Ue, il caso migranti liquidato in soli dieci minuti

Flussi migratori, ripresa economica post-pandemia e relazioni esterne, specie i rapporti con la Turchia e la Russia: dovevano essere questi i temi sul tavolo del Consiglio d’Europa iniziato ieri a Bruxelles. Sui migranti, tema caro a Italia e Spagna che la settimana scorsa con i rispettivi premier, Mario Draghi e Pedro Sánchez, hanno tratteggiato una proposta illustrata mercoledì da Draghi in Parlamento, le conclusioni adottate dai leader Ue e lette negli ultimi dieci minuti del summit indicano come linea quella di “intensificare i partenariati e la cooperazione reciprocamente vantaggiosi con i Paesi di origine e di transito, come parte integrante dell’azione esterna dell’Ue”.

Un “approccio pragmatico, flessibile e su misura, con un uso coordinato, come Team Europe, di tutti gli strumenti e incentivi disponibili dell’Ue e degli Stati membri e si svolgerà in stretta collaborazione con l’Unhcr e l’Oim”. Di nuovo si invitano “la Commissione e l’Alto rappresentante, in stretta cooperazione con gli Stati membri, a presentare piani d’azione per i paesi prioritari di origine e transito nell’autunno 2021, indicando obiettivi chiari, ulteriori misure di sostegno e tempistiche concrete”. “A destare preoccupazione – si legge nel documento – sono alcune rotte che richiedono una vigilanza continua e un’azione urgente”, questione che “necessita di un approccio globale, affrontando le cause profonde, sostenendo i rifugiati e gli sfollati nella regione, sviluppando capacità di gestione della migrazione, sradicando il contrabbando e la tratta, rafforzando il controllo delle frontiere, cooperando in materia di ricerca e soccorso, affrontando la migrazione legale nel rispetto delle competenze nazionali e garantendo il rimpatrio e la riammissione”. Nessun accenno però alla condivisione delle quote di migranti avanzata da Draghi. A introdurre il tema era stato il presidente del Parlamento europeo, David Sassoli. “Non è più accettabile che la sorte delle persone sia legata alle vicende elettorali nei nostri Stati membri”, aveva ammonito Sassoli.

A tenere banco a Bruxelles è stata invece la proposta franco-tedesca di dialogo con la Russia per un vertice europeo con Mosca. Prospettiva respinta dai Paesi baltici come Svezia, Ungheria e Polonia. A indicare la strada, dopo la visita al presidente Vladimir Putin finita male, è stato l’Alto rappresentante della politica estera Ue, Josep Borrell, all’arrivo al Palazzo d’Europa. “L’ultimo Consiglio – ha detto Borrell – ha chiesto alla Commissione e a me di presentare una comunicazione su che tipo di rapporto avere con la Russia. Abbiamo presentato tre azioni: respingere, quando infrange il diritto internazionale, deterrenti per i comportamenti negativi, e coinvolgimento su temi di interesse comune”. Da parte sua, il presidente francese, Emmanuel Macron, ha spinto “a definire l’unità degli europei in questo dialogo con la Russia. Dialogo necessario alla stabilità del continente, ma esigente e ambizioso. È un buon metodo e non possiamo restare in una strategia puramente reattiva nei confronti della Russia”. Quanto alla Turchia, dopo la proposta della presidente della Commissione, Ursula von der Leyen di aiuti per 3,5 miliardi di euro ad Ankara per la politica migratoria, il cancelliere austriaco Kurz si è detto favorevole, tuttavia ha insistito perché la Ue “non permetta il deterioramento dei diritti umani”, come nel caso del paese di Erdogan”.

Convitato di pietra del summit è stata l’Ungheria di Viktor Orbán criticata dei leader Ue in una dichiarazione congiunta per la legge anti-Lgbtq varata dal Budapest. L’olandese Mark Rutte ha richiesto l’uscita del Paese dall’Unione. Ma il premier ungherese ha rivendicato la norma definendosi “un combattente per i diritti dei gay”.

Meno di 2 ore per celebrare il fallimento in Afghanistan

Un’ora e quaranta minuti. Tanto è durata l’archiviazione da parte del Parlamento della ventennale missione internazionale in Afghanistan. Cominciata il 7 ottobre 2011, sull’onda dell’attacco alle Torri gemelle e alla decisione degli Stati Uniti di lanciare una poderosa azione militare contro i talebani accusati di dare riparo a Osama bin Laden, la missione è stata dichiarata conclusa lo scorso aprile.

Gli Stati Uniti hanno deciso che la libertà non fosse più così enduring e hanno ordinato il rientro delle truppe insieme a tutta l’alleanza atlantica. Spiegando al Senato le ragioni di questa decisione, il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, ha fatto fatica a nascondere il senso di fallimento che aleggia attorno a questa missione. Fallimento per i 3.600 morti occidentali lasciati sul campo di cui 53 italiani, gli unici a essere ricordati, mentre i 241 mila morti complessivi vengono citati da Emergency, unica a ricordare il costo complessivo di vite umane provocate dalla sciagurata decisione presa da George W. Bush e dalla cricca dei neo conservatori che controllava la Casa Bianca. Ma il fallimento è evidente anche nel tentativo di enfatizzare i risultati ottenuti, limitati alla costruzione di 82 scuole e 37 ambulatori per quanto riguarda l’Italia. Uno sforzo che ha riguardato tutti i gruppi, di destra e di sinistra, responsabili all’unisono di un intervento militare difeso a spada tratta nel corso degli anni. Anche da quella manciata di parlamentari di sinistra che oggi parlano di fallimento, ma che, anch’essi, durante le prove di governo hanno scelto di sostenere. Il M5S, con Gianluca Ferrara, si è detto invece soddisfatto per un ritiro chiesto da sempre proponendo di lavorare ora a una vera missione di pace.

Il fallimento è ammesso da tutti gli analisti internazionali e dagli stessi governi. I talebani si apprestano a riprendere in mano le leve del potere e a controllare il territorio. Anche Guerini ha dovuto parlare di intensificazione degli episodi di violenza e di “situazione preoccupante”. Gli occidentali potranno forse garantire l’aeroporto di Kabul.

Nel ritiro pesa la scelta Usa di destinare le sue forze internazionali e di difesa nell’opera strategica di contenimento della Cina, chiave della nuova guerra fredda. L’Italia, per parte sua, si fa forte dell’esperienza militare accumulata, da destinare sicuramente a nuove missioni. Nuovi errori sono ancora in vista.

‘11 Settembre’ senza verità. Le Torri e la pista saudita

A quasi vent’anni dagli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, tre ex funzionari sauditi vengono interrogati, via Zoom, in un’aula di giustizia di New York, da avvocati che rappresentano le famiglie delle vittime, nella speranza che le loro deposizioni, fin qui evasive e reticenti, forniscano elementi su legami, finora mai provati, tra le autorità di Riyad e i dirottatori, 15 dei quali su 19 erano sauditi. Le autorità saudite hanno sempre negato di avere avuto qualsiasi ruolo negli attacchi terroristici, che fecero tremila vittime tra New York, Washington e la Pennsylvania, dove uno degli aerei dirottati si schiantò al suolo.

Secondo una dettagliata corrispondenza da Washington del Guardian, le famiglie delle vittime intendono provare che funzionari sauditi aiutarono almeno due dei kamikaze dell’11 settembre, Khalid al-Mihdhar e Nawaf al-Hazmi, che prima dell’attacco vissero per un po’ in California, prima a Los Angeles e poi a San Diego; e che l’assistenza ai due fu coordinata da un diplomatico saudita a Washington.

Due deposizioni sono già state raccolte, la terza lo sarà entro fine mese. Le informazioni restano per ora segrete, ma le famiglie sperano che, avvicinandosi il ventesimo anniversario degli attentati, l’Amministrazione Biden sia indotta a svelare elementi delle indagini in corso e, in particolare, dell’operazione Encore – nome in codice –, di cui tre presidenti – George W. Bush, Barack Obama e Donald Trump, prima di Biden – non hanno voluto lasciare trapelare nulla.

In un ampio servizio, ProPublica, un team di giornalisti ‘non profit’ che smaschera abusi del potere, ricorda che l’11 settembre dello scorso anno, Trump diede assicurazioni ai familiari delle vittime che gli chiedevano di pubblicare le carte di Encore, ma poi non fece nulla. Però, l’Amministrazione Trump era legata a filo doppio alla famiglia reale saudita, e in particolare al principe ereditario Mohammad bin Salman, l’uomo dietro l’eliminazione del giornalista dissidente Jamal al-Khashoggi; mentre Biden ha preso le distanze da MbS e potrebbe, quindi, essere più incline a divulgare elementi di Encore, sia pure parziali. I tre funzionari sauditi interrogati sono Omar al-Bayoumi, Fahad al Thumairy e Musaed al-Jarrah. Bayoumi è un ex funzionario dell’aviazione civile, che, all’epoca dei fatti, figurava come studente, ma che per l’Fbi era un agente saudita, ben retribuito dal governo di Riad per “lavoretti fantasma”, che in realtà non faceva. Dopo gli attentati, si trasferì in Gran Bretagna, dove venne interrogato dalla polizia britannica per conto dell’Fbi. Gli Stati Uniti gli revocarono il visto per “attività quasi terroristiche”. Bayoumi sostiene di avere a malapena conosciuto Mihdhar e Hazmi, due dei quattro che portarono il volo 77 dell’American Airlines a schiantarsi contro il Pentagono, mentre i legali delle famiglie ritengono che li conoscesse bene.

Thumairy era un funzionario del consolato saudita di Los Angeles e l’imam della moschea saudita. L’uomo sostiene di non avere mai incontrato i due terroristi, ma testimoni l’avrebbero visto insieme a loro. Dopo l’11 settembre il visto gli fu sospeso: era sospettato di legami con attività terroristiche. L’identità di Jarrah era rimasta segreta fino all’anno scorso, quando divenne pubblica per errore. Era un funzionario di medio rango dell’ambasciata a Washington: non è chiaro che cosa lo leghi a Mihdhar e ad Hazmi. La speranza è che gli interrogatori forniscano elementi per collegare il governo saudita agli attentati dell’11 settembre. La tesi dei familiari delle vittime, alla ricerca di responsabili che possano pagare indennizzi, oltre che della verità, è che, senza una rete di supporto in loco, gli attentatori, che non parlavano inglese e non sapevano nulla degli Usa, non avrebbero potuto muoversi a loro agio, studiare come pilotare un aereo e realizzare i loro piani. Resta da stabilire se la rete di supporto fosse sostenuto dal governo saudita. Il New York Times ha intanto rivelato che quattro sauditi che parteciparono nel 2018 all’uccisione di Khashoggi ricevettero addestramento paramilitare negli Stati Uniti l’anno prima, sulla base d’un programma approvato dal Dipartimento di Stato. Non c’è prova che chi approvò l’addestramento sapesse che quei sauditi erano coinvolti in azioni di repressione in Arabia Saudita, ma la vicenda è un indice di quanto gli Usa fossero legati a un’autocrazia che non rispetta diritti umani, libertà d’espressione e parità di genere.

L’inconscio di tutti e la tv nel pozzo

Non bisogna stupirsi che a distanza di quarant’anni la tragedia di Vermicino sia riaffiorata di prepotenza nei ricordi e nella cronaca: è il destino degli incubi ricorrenti. E l’inconscio collettivo, ce lo ha insegnato Jung, è sottovalutato almeno quanto è sopravvalutato l’ego. Quella di Alfredino Rampi è una favola nera di terrificante semplicità, da Jung si arriva subito a Propp. La caduta nel pozzo, un bambino a 70 metri di profondità, lui solo con la paura del buio, in superficie il mondo a interrogarsi e affannarsi inutilmente per liberarlo in tempo. La miniserie Alfredino – Una storia italiana (Sky Cinema, seconda e ultima parte lunedì prossimo) la prende alla lontana, e la dilatazione dei tempi diventa diluizione dell’angoscia, il regista Marco Pontecorvo innesca con sensibilità una suspense lenta ma ineluttabile, nutrita di ansia, presunzione, impotenza.

Accadono fatti di cronaca così atroci a cui, per paradosso, la fiction può rendere giustizia a patto che ne sia consapevole, fino a ribaltare le sue stesse regole. In effetti in Alfredino si sconfessano le regole dei telefilm da cui siamo sommersi ogni giorno; squadre speciali, distretti, supereroi, commissari, donmattei e generalissimi che risolvono qualsiasi caso nel giro di un paio d’ore. Qui va al contrario, come troppo spesso capita nella vita vera. Arrivano tanti, tutti, ma nessuno toglierà la spada dalla roccia. A tratti qualche slittamento nel fumetto c’è; il poliziotto dritto e il poliziotto tonto, i giovani speleologi contrapposti all’ottusità delle istituzioni, il comandante dei Vigili del fuoco che ragiona come Crisanti (a forza di prevedere sfighe, si rimane immobili). Poi arrivano i media. La proto-iena che fiuta la miniera d’oro della tv – il dolore degli altri – e si mette a scavare. Così la più privata, indicibile delle tragedie si farà show, spartiacque mediatico senza ritorno. Dopo 18 ore di diretta anche la tv è caduta nel pozzo; ma questa è un’altra storia, in onda tutti i giorni.

Dalla Crisi covid si esce a sinistra

Dalla crisi economico-sociale indotta dalla pandemia si può uscire – com’è sempre avvenuto nelle crisi – o “da destra” o “da sinistra” e questa alternativa è sotto gli occhi di tutti alla vigilia della fine ufficiale (salvo sorprese) del blocco dei licenziamenti.

Si fronteggiano, per l’uno o per l’altro esito, le invocazioni datoriali alla ritrovata libertà di licenziare, di utilizzare senza limiti il lavoro precario, di pagare salari inferiori a 1.000 euro mensili, di utilizzare cooperative “spurie” negli appalti e così via, ma lo dimostra, dall’altro lato, la resistenza dei lavoratori, non piegata da atti di squadrismo giunti fino all’omicidio (formalmente “stradale” ma in realtà politico). Questa alternativa si gioca, nel concreto, su quattro tematiche connesse al lavoro e altrettanti interventi normativi, già pronti, per i quali serve però una volontà politica vera e non solo proclamata dei partiti che nella composita maggioranza rappresentano la sinistra.

1) Serve anzitutto una disciplina in materia di licenziamenti per ragioni economico-politiche che fissi in via strutturale un fondamentale principio, che è quello della graduazione degli strumenti di gestione degli esuberi. Significa, in breve, stabilire che prima di licenziare occorre che il datore faccia ricorso ai contratti di solidarietà difensiva o, ove questi non risultino possibili, alle integrazioni salariali anche a “zero ore” che, nel frattempo, la riforma degli ammortizzatori sociali dovrebbe avere esteso a tutti i lavoratori indipendentemente dalle dimensioni dell’impresa. Di questa riforma occorre faccia parte anche una revisione della NASpI (l’indennità di disoccupazione) che consenta di utilizzarla, a richiesta del lavoratore, come aspettativa indennizzata, evitando così l’interruzione del rapporto con la ditta, nella speranza o in vista di una possibile ripresa. Finora, va ricordato, è sempre stato nella discrezionalità del datore scegliere se ricorrere alle integrazioni salariali, e per quanto tempo, o procedere direttamente ai licenziamenti o minacciare di farlo per trattare da posizioni di forza.

2) È necessario poi un altro intervento normativo – oggi diventato importante quanto e più del precedente – in materia di appalti e subappalti, che rappresenti il rimedio, ormai indispensabile, al groviglio di illegalità, di sfruttamento, di caporalato innestato dall’art. 29 della “legge Biagi”. Questa norma ha purtroppo consentito, o tollerato, appalti di sola manodopera e ha poi cancellato il principio chiave (art. 3, l. 1369/1960) capace di bonificare l’intera materia: quello la parità di trattamento tra i dipendenti della stazione appaltante e i dipendenti dell’appaltatore o subappaltatore. Basterebbe questa norma per far sì che poi si ricorra agli appalti solo per effettive necessità tecniche e non per praticare sotto-salario e negare diritti, visto che, a parità di costi, non sussisterebbe più incentivo alle esternalizzazioni fraudolente. È noto, per altro verso, che il massimo del lucro e dello sfruttamento si raggiunge quando appalti e subappalti vengono affidati a false cooperative dette “spurie”. Su tutta questa materia è già in discussione in Parlamento un progetto di legge (il n. 1243/2018) presentato, a suo tempo, dal M5S con l’adesione di LeU: basterebbe che il Pd, ora, con il ministro del Lavoro Andrea Orlando, lo volesse davvero per realizzare la “bonifica”.

3) Il terzo grande tema è quello del salario minimo legale, ora sollecitato anche dalla proposta di direttiva Ue. Anche qui è già pendente in Parlamento un accurato disegno di legge (n. 658 – On. Catalfo) con una soluzione equilibrata, consistente, in primo luogo, nell’estensione generalizzata dell’applicazione dei Contratti nazionali stipulati dai sindacati maggiormente rappresentativi e, in secondo luogo, in una integrazione al minimo dei salari previsti dagli stessi Ccnl ove presentassero, per le qualifiche più basse, valori inferiori ai 9 euro lordi orari. Il che accade, ad esempio, nel Ccnl Pubblici Esercizi, nel quale i datori di lavoro vorrebbero “ripartire” pagando salari di 5-6 euro e ricorrendo a contratti collettivi pirata, subappalti, precariato ripetitivo ecc.

La circostanza che quel settore economico, formato da circa 330.000 operatori (per il 60% ristoranti, per il 40% bar) abbia sicuramente sofferto con le chiusure della pandemia, non può autorizzare nessuno a traslare il danno sui lavoratori, anche perché i ristoratori, stando ai dati della loro associazione Fipe, denunciavano prima della pandemia di lavorare in perdita o con redditi di poche migliaia di euro, tanto è vero che il “ristoro” è stato per loro commisurato a una percentuale del fatturato e non dell’utile realizzato negli anni antecedenti la pandemia, proprio perché, stando alle denunce fiscali, non esisteva. Siamo stati gli ultimi ad avere il reddito di cittadinanza e forse saremo gli ultimi ad avere un salario minimo legale, ma almeno rientreremo tra i paesi civili.

4) Occorre infine riprendere il tema del precariato, vera piaga del mercato del lavoro italiano sul quale, durante la pandemia, è stato consumato ogni genere di ipocrisia: è vero che 800.000 precari hanno perso il posto perché per loro non poteva valere il blocco dei licenziamenti, ma era giusto, razionale e legittimo che quei rapporti fossero precari? Il dato vero è sempre lo stesso: le occasioni lavorative veramente a tempo determinato sono circa il 13,5% del totale, ma oltre l’80% delle assunzioni avviene con contratto a tempo determinato e questo per un solo motivo: per tenere il lavoratore sotto perpetuo ricatto. Nel 2019, il Decreto Dignità ha cercato di limitare questo ingiusto precariato, reintroducendo le causali, ma la resistenza della Lega fece sì che la soluzione normativa sia risultata quantomai ibrida con il primo anno di rapporto ancora “acausale”. Adesso c’è la spinta a una nuova generale acausalità, dopo aver versato lacrime di coccodrillo sugli 800.000 precari che hanno perso il lavoro. Difficile negare, allora, che il sistema precedente disciplinato dal d.lgs. 368/2001 aveva invece funzionato molto bene: c’era semplicemente l’obbligo di spiegare nella lettera di assunzione per quale ragione quel rapporto era a tempo determinato, vale a dire per quale specifica esigenza lavorativa temporanea veniva instaurato e bastava allora controllare che quella esigenza esistesse davvero e fosse davvero temporanea. Una soluzione semplice ed efficace alla quale, crediamo, sarebbe opportuno ritornare in alternativa ad una franca reintroduzione di causali legali tipiche.

Naturalmente, ci potrebbero essere molti altri importanti interventi ma questi quattro sono quelli che ricostituirebbero una tutela credibile dei diritti dei lavoratori di fronte alle tentazioni di offensive neoliberiste, ferma restando la necessità di ogni misura sia di investimento economico sia di regolamentazione giuridica per affrontare il problema dell’occupazione, specialmente giovanile, fattosi più che mai acuto e, tuttavia, a parere nostro, non irrisolvibile.

Le due vie per affrontarlo e dargli una soluzione effettiva sono costituite da una parte, come naturale, dagli investimenti produttivi pubblici e privati che creino nuove necessità occupazionali e, dall’altra, da una riduzione della settimana lavorativa che consenta di allargare l’occupazione migliorando anche le condizioni di vita di tutti i lavoratori che fruirebbero della riduzione dell’orario settimanale.

 

 

La mazzetta in bolletta

Un’altra settimana di grandi soddisfazioni qui a Criminopoli: 9 nuovi indagati per corruzione. E così il numero dei presunti corrotti censiti nel 2021 sale a 326 (circa 2 al giorno) mentre gli indagati per reati di mafia (incluso il favoreggiamento) resta fermo a quota a 1.257 (7 al giorno). Il premio mazzetta della settimana va a Marco Campione, presidente della Girgenti Acque Spa: in cambio dell’approvazione di un nuovo calcolo tariffario per le annualità 2012-2013, ha fatto assumere tra il 2013 e il 2014 i figli di Eugenio D’Orsi, Commissario Straordinario e liquidatore del Consorzio di Ambito Territoriale Ottimale di Agrigento. Una trovata geniale: a Criminopoli – se l’accusa fosse confermata – l’assunzione dei figli di D’Orsi l’hanno pagata i cittadini di Agrigento con l’aumento della bolletta. Per quanto simbolico, il premio sarà revocato nel caso in cui Campione e D’Orsi dovessero essere archiviati o assolti. Ah, dimenticavamo: lo Stato non cattura Matteo Messina Denaro da 10.159 giorni.

Addaura, l’attentato fallito a Falcone: prove di una strage

Verso le 11 del mattino del 9 luglio 1996, mi trovavo nel mio ufficio di Caltanissetta e ricevetti una telefonata dell’avvocato Alessandro Bonsignore, con la quale mi comunicò che il suo assistito Giovan Battista Ferrante, uomo d’onore di San Lorenzo, voleva urgentemente essere sentito da me, ma che poi non avrebbe più potuto curare la sua difesa. Nel pomeriggio mi recai a Palermo e iniziai l’interrogatorio. Ferrante ammise la sua partecipazione alla strage di Capaci, manifestando il proposito di dissociarsi da Cosa Nostra. Pochi giorni dopo, iniziò a collaborare a pieno titolo e, il 15 luglio, aprì uno squarcio sulla verità di uno dei più misteriosi e inquietanti episodi stragisti, da cui tutto partì: il fallito attentato all’Addaura, a Mondello, che avrebbe dovuto essere eseguito il 20 giugno 1989, ai danni del giudice Giovanni Falcone e dei componenti della delegazione elvetica (il giudice istruttore Claudio Lehmann e il pm sottocenerino Carla Del Ponte; il commissario di polizia Clemente Gioia).

Ferrante mi raccontò che tre giorni prima, Antonino Madonia aveva richiesto a Salvatore Biondino di procurargli l’esplosivo e che quest’ultimo, avuta l’autorizzazione da Salvatore Riina, si era attivato per recuperarlo, chiedendo il suo aiuto. Raccontò di essere certo che “l’artefice di tutto” fosse stato Madonia. Successivamente, Francesco Onorato confessò il proprio coinvolgimento nell’attentato e consentì con le sue dichiarazioni di ampliare le conoscenze sulle modalità organizzative ed esecutive, riferendo di una riunione preparatoria tenutasi presso l’abitazione di Mariano Tullio Troia e che era stato Angelo Galatolo a collocare “la borsa” contenente l’ordigno.

Gli esiti delle indagini eseguite, l’apporto di altri collaboratori di giustizia (fra i quali, Giovanni Brusca, Antonino Giuffrè e Baldassare Ruvolo) hanno consentito di ottenere importanti e granitiche verità, riconosciute da un duplice verdetto della corte di Cassazione del 6 maggio 2004 e del 26 marzo 2007, che hanno individuato: Riina, quale mandante; Biondino, Madonia, Onorato, Vincenzo e Angelo Galatolo, quali esecutori del delitto di strage; Ferrante quale responsabile della detenzione e del porto dell’esplosivo. Una verità che è stata corroborata, a seguito di una successiva indagine, dal rinvenimento dell’impronta del Dna di Galatolo sulla maglietta rinvenuta a ridosso dell’ordigno e che ha resistito ai tentativi di depistaggio dell’artificiere Francesco Tumino e derivanti dalle dichiarazioni del mafioso Angelo Fontana, che si è accusato falsamente di aver partecipato all’agguato.

L’attentato è risultato diretto a uccidere, l’ordigno era nelle condizioni di esplodere e aveva un raggio di letalità pari a circa 60 metri. Fu preceduto da una raffinata intossicazione dell’informazione finalizzata al discredito e all’umiliazione di Falcone, con la falsa accusa, contenuta in numerose lettere anonime, di aver impiegato il collaboratore di giustizia Salvatore Contorno per catturare latitanti e per eliminare appartenenti al gruppo dei “corleonesi” e con la diffusione della falsa notizia di un incontro a Palermo di Tommaso Buscetta con il barone Antonino D’Onufrio. Un’attività preparatoria capace di giustificare dinanzi all’opinione pubblica l’uccisione del magistrato, di delegittimare i collaboratori di giustizia, che costituivano gli elementi probatori fondamentali del processo “maxi uno”, istruito dallo stesso Falcone, di scardinare il sistema antimafia con le sue proiezioni internazionali.

Falcone doveva essere ucciso per motivi di vendetta, ma non solo. A distanza di 32 anni, non c’è più tempo per la verità giudiziaria perché il reato di strage si è prescritto. Non sarà più possibile dare un volto a quelle menti raffinatissime, che potrebbero avere avuto un interesse convergente nell’ideazione dell’attentato e agli ulteriori esecutori intravisti, e per sciogliere i nodi irrisolti che vi ruotano attorno.

Usa, l’ingerenza dei vescovi contro Biden è illegittima

La conferenza episcopale statunitense si prepara a inserire il presidente Biden tra “coloro che persistono con ostinazione in un peccato grave e manifesto” così da impedirgli la comunione. Biden, pur essendo personalmente contrario all’aborto, è tuttavia favorevole a una legge regolatrice del doloroso fenomeno e ciò determinerebbe la misura inibitoria.

Occorre tuttavia domandarsi se l’intento dei presuli trovi legittimazione nel diritto canonico. La risposta è negativa per due concomitanti ragioni: 1) non rientra nelle attribuzioni della conferenza episcopale un atto normativo di quella portata; 2) ciò che si imputa al presidente Biden è sicuramente estraneo alle previsioni del canone.

Accanto a una serie numerosa di competenze in ambiti residuali, ma specifici perché connessi alle peculiarità territoriali delle diocesi, la conferenza “può soltanto preparare decreti generali su problemi rispetto ai quali c’è una prescrizione del diritto universale”, cioè comune a tutti i fedeli, al quale diritto appartiene sicuramente la materia dell’Eucarestia “culmine e fonte di tutto il culto e la vita cristiana”. Gli schemi di quei decreti, approvati da maggioranza qualificata, vanno approvati dalla Sede Apostolica per essere legittimamente promulgati. In materia di diritto universale, quindi, la conferenza ha solo una potestà propositiva che non potrebbe riguardare un’interpretazione del diritto universale valida solo per gli Usa, dovendo operare sull’intera Chiesa, e che per l’approvazione, attesa la delicatezza del tema, richiederebbe l’assenso pontificio e del Collegio dei Vescovi. Ipotesi da escludere in radice poiché la Sede Apostolica ha già espresso contrarietà con l’effetto di rendere irricevibile un eventuale schema di decreto generale.

La persistenza ostinata nel peccato grave e manifesto (cioè tale da generare pubblico scandalo) è concetto giuridico indeterminato, la cui chiave interpretativa è facilitata dalle situazioni equiparate nella medesima norma: gli scomunicati e gli interdetti. Per questi ultimi, in verità, la previsione sarebbe superflua perché il canone li esclude dai sacramenti. L’opinione propensa a una legge che non preveda “appropriate sanzioni penali”, come vorrebbe la Congregazione per la dottrina della fede, non è favorevole all’aborto, ma a diversa metodica per arginarne il fenomeno. E sul punto non può escludersi una pluralità di opinioni preordinate tutte al metodo migliore per tutelare la donna e la vita del concepito. Fuori da chi realizza l’aborto o vi coopera direttamente non possono immaginarsi situazioni equivalenti.

Nella Lettera Misericordia et miseria, peraltro, Papa Francesco ha dato a tutti i confessori la facoltà di assolvere dal peccato di aborto e, conseguentemente, liberare dalla scomunica. Immaginare situazioni analoghe per un soggetto che si dichiara personalmente contrario all’aborto è francamente fuorviante. Si tratta, in definitiva, di un illegittimo e illecito tentativo dei vescovi conservatori americani, orfani di Trump, per favorirne una rimonta delegittimando il cattolico Biden! Altrettanto evidente è il tentativo di creare difficoltà al Papa.

Una brutta pagina scritta da quell’episcopato, ricorrendo ad antiche teorie (Suarez e Bellarmino) che assegnavano alla Chiesa una potestà indiretta come prerogativa per soggiogare il potere temporale con quello spirituale (o per tale fatto passare) utilizzando come armi scomunica e interdetto. Ma qui non è il Pontefice a brandire la potestas indirecta in temporalibus bensì una conferenza episcopale: il che rende la vicenda grottesca senza che spiri un alito di umorismo alla Guareschi.

 

“Aiutiamoli a casa loro” è uno slogan ipocrita

“Proprio sul filo della frontiera il commissario ci fa fermare. Su quella barca troppo piena non ci potrà più rimandare. Su quella barca troppo piena non ci possiamo ritornare. E sì che l’Italia sembrava un sogno steso per lungo ad asciugare, sembrava una donna fin troppo bella che stesse lì per farsi amare, sembrava a tutti fin troppo bello che stesse lì a farsi toccare. E noi cambiavamo molto in fretta il nostro sogno in illusione incoraggiati dalla bellezza vista per televisione, disorientati dalla miseria e da un po’ di televisione… Pane e coraggio, commissario che c’hai il cappello per comandare, pane e fortuna, moglie mia che reggi l’ombrello per riparare, per riparare questi figli dalle ondate del buio mare e le figlie dagli sguardi che dovranno sopportare, e le figlie dagli oltraggi che dovranno sopportare… Ma soprattutto ci vuole coraggio a trascinare le nostre suole da una terra che ci odia ad un’altra che non ci vuole” (Pane e coraggio, Ivano Fossati).

Questa bellissima canzone di Ivano Fossati dovrebbe essere fatta ascoltare a Matteo Salvini e a tutti i Salvini della terra in modalità Guantanamo, dove i torturatori americani (sul suolo immacolato e ipocrita degli States la tortura è, almeno ufficialmente, proibita, ma si può sempre farla nei Paesi altri – Guantanamo è territorio cubano – oppure per interposta persona come fu per Abu Omar, rapito a Milano e portato, via Aviano, con la complicità dei nostri servizi segreti e del nostro governo, premier Berlusconi, in quel simpatico luogo di soggiorno che è la prigione cairota di Tora, dove oggi è rinchiuso Patrick Zaki) assordano i prigionieri giorno e notte fino allo sfinimento, l’abbrutimento, l’impazzimento.

In Pane e coraggio Fossati si riferisce all’emigrazione degli albanesi, quando, caduta la dittatura comunista, gli albanesi, che dalle vicine coste d’oltreadriatico potevano vedere la televisione italiana, credettero di trovare nel nostro Paese (“E sì che l’Italia… sembrava a tutti fin troppo bello che stesse lì a farsi toccare”) la loro fortuna senza poter sapere, come sanno invece coloro che lo vivono, di che “lacrime e sangue” grondi il modello di sviluppo occidentale.

Ma l’emigrazione albanese è niente rispetto alle migrazioni attuali che coinvolgono milioni di persone che si muovono verso di noi, in genere dai Paesi dell’Africa subsahariana, disposte ad affrontare qualcosa di peggio degli oltraggi alle loro donne: l’attraversamento dell’inferno libico, che proprio noi abbiamo creato, le tempeste e, molto spesso, la morte.

È estremamente ipocrita dire “aiutiamoli a casa loro” come fa Salvini e non solo lui. È la nostra stessa presenza a essere ammalante, anche quando non abbia cattive intenzioni. Mi scrive il lettore Enzo Formisano, che ha lavorato molti anni in Paesi dell’Africa Nera: “Non ammazzavamo nessuno. Costruivamo linee elettriche, niente di più. Ma bastava la nostra presenza (persone ricche, ben pasciute e piene di oggetti) per portare tra quelle popolazioni un senso di smarrimento e di povertà”. È la distinzione sociologica fra poveri e miserabili. Non c’è nessun problema a essere poveri dove tutti, più o meno, lo sono, una volta che si abbia l’essenziale, cibo, socialità, abitazione e vestire (per alcuni popoli africani, per esempio i Masai, non c’è, o meglio non c’era, nemmeno il problema dei vestiti, giravano nudi coperti solo da un minuscolo perizoma). Il problema sorge nel confronto con un’opulenza più o meno sfacciata, creando invidie, frustrazioni e frantumando la solidarietà della comunità.

Ma questo è solo (solo) l’aspetto esistenziale e sociale della questione. Il fatto è che più introduciamo, con le buone o con le cattive, il nostro modello economico fra quelle genti, più le strangoliamo ulteriormente e definitivamente, senza possibilità di ritorno. Da qui, oltre la perdita di identità, la fame che spinge a migrazioni bibliche che cerchiamo di stoppare in ogni modo.

Una trentina d’anni fa, durante una riunione del G7, i sette Paesi più poveri del mondo, con alla testa l’africano Benin, organizzarono un controsummit al grido di “Per favore non aiutateci più!”. Non li abbiamo ascoltati, siamo o non siamo “la cultura superiore”? E così continuiamo quotidianamente a cibarci, oltre che delle crostatine mangiate “prima dal bordo e poi dal centro” come recita una pubblicità del Mulino Bianco, di carne umana.