Il vaticano, il ddl Zan, La7 e le celebrazioni sempre senza Decameron

E per la serie “Lettere luterane”, la posta della settimana.

Caro Daniele, il Vaticano ha chiesto al governo italiano di modificare il ddl Zan, in modo che le scuole cattoliche siano esentate dall’organizzare attività per una futura Giornata contro l’omotransfobia. Sostengono che altrimenti si violerebbe il Concordato, che garantisce libertà di pensiero ai cattolici. (Luisa Zaffi, Udine)

Il ddl Zan non vieta alcuna libertà di pensiero, dunque il Vaticano vuole solo impicciarsi, contando sul ricatto elettorale con cui addomestica da sempre i politici nostrani, per molti dei quali un seggio val bene un rosario. (Salvini ha ringraziato il Vaticano per il suo “buon senso”, casomai fosse necessaria una prova che elogiare il “buon senso” è sempre di destra.) Il Vaticano questa richiesta non potrebbe farla alla Francia, perché la loro Costituzione, giustamente, vieta di stipulare concordati, che come vediamo consentono ingerenze incongrue: questa è solo l’ennesima di una lunga serie (eutanasia, staminali, fecondazione assistita, matrimoni omosessuali, pillola, aborto, divorzio…). Inoltre la Chiesa, che si atteggia a rappresentante di Dio sulla Terra, lucra sul meccanismo truffaldino dell’8 per mille: col 40% di preferenze espresse dai contribuenti, riceve l’85% del gettito d’imposta (dati del 2007). Questo andazzo va sanato subito, Stato italiano che dormi: poi entra finalmente nel 21° secolo, e annulla il Concordato. Il Vaticano potrà consolarsi con la rappresentanza – che so – della Vorwerk Folletto: vendere Dio non è diverso dal vendere aspirapolveri. Con la differenza che gli aspirapolveri esistono. Bertone che ti spiccia casa: quale miglior testimonianza del Vangelo?

Si celebrano i 20 anni di La7 e di te non c’è traccia nelle commemorazioni. (Sergio Ghermandi, Modena)

Sono il loro convitato di pietra. Nel 2007 chiusero il mio Decameron dopo la quinta puntata con un pretesto (la battuta su Giuliano Ferrara che apriva la puntata sulla guerra coloniale, criminale e illegale di Bush, Blair e Berlusconi in Iraq). Nella sesta, mai trasmessa, aprivo con un monologo di 20 minuti dedicato alla Spe Salvi di Ratzinger e alle ingerenze del Vaticano nelle questioni dello Stato italiano (diritti civili, eutanasia, staminali, Cus, fecondazione assistita). Alla chiusura, il Cdr di La7 denunciò una censura nella censura: “Con un incomprensibile e arrogante atto censorio, il vicedirettore Pina Debbi ha deciso di non inserire nell’edizione notturna del tg dell’8 dicembre la notizia, un fatto gravissimo che ostacola il dovere di completa e libera informazione del telegiornale di La7” danneggiando “l’immagine di imparzialità e professionalità della redazione” e alimentando “sospetti sui reali motivi della sospensione del programma”. Adalberto Baldini, del Cdr, disse: “Ogni volta che La7 fa un programma di successo, e Decameron, con punte di 2,7 milioni di spettatori, lo è, viene stoppato. Per la pubblicità le aziende, anche Rai e Mediaset, si contendono pure lo 0,1% di ascolti. E se un programma scompagina gli ascolti è meglio chiuderlo. La7 deve chiarirci che posizione vuole avere sul duopolio Rai-Mediaset”. Venduto ai pubblicitari per uno share stimato del 2,3%, Decameron aveva punte del 9% (al sabato notte, dove prima La7 faceva lo 0,9). La7 mi fece causa, accusandomi pure di plagio: perse e dovette risarcirmi. Secondo la sentenza, La7 aveva chiuso Decameron in modo arbitrario e illegittimo; la battuta su Ferrara non era insulto, ma satira; la battuta su Ferrara non era plagio. Peccato che tu non abbia potuto vedere le altre 5 puntate, Sergio: erano splendide e piene di risate. Per approfondire, c’è questa rassegna stampa curata da aficionados del vecchio blog: bit.ly/3gOPLgx

Mail box

 

 

Draghi ha le “amnesie”: dimentica chi c’era prima

La disonestà intellettuale è la “virtù” purtroppo della maggioranza degli italiani. E Draghi con le sue “amnesie” quotidianamente non fa altro che ricordarcelo. La statura morale si misura anche riconoscendo gli sforzi fatti da coloro che lo hanno preceduto. Il fatto che poi dica che la macchina amministrativa è pronta (ergo cambiare pure gli uscieri dei ministeri) non fa altro che rafforzare quanto detto prima.

Salvatore Lima

 

Spero che il “premier X” torni al posto che merita

Grazie direttore per avere ricordato agli Italiani che vogliono ricordare l’assurda cacciata del “premier X” che una felice scelta del M5S aveva regalato all’Italia. La tua puntuale ricostruzione nell’editoriale di due giorni fa rende ancora più incredibile quello che è accaduto e ci ha consegnato definitivamente una stampa quasi totalmente genuflessa ai soliti noti, per non parlare degli altri mezzi di comunicazione. Quello che sta facendo il “SuperCuculo” con la sua impassibile faccia da super-banchiere è inqualificabile, come pure tutta la sua instancabile claque. Spero vivamente che la maggioranza degli italiani apra gli occhi e che il premier X torni al posto che merita.

Ernesto

 

Aggiungo un aneddoto all’articolo di Barbacetto

Ho letto l’articolo di ieri di Barbacetto, vorrei aggiungere il fatto che Stalin fece avere alla Yudina un premio in denaro; lei gli scrisse che l’avrebbe donato alla chiesa perché pregassero per i suoi (di Stalin) peccati. P.S. nel film Morto uno Stalin se ne fa un altro (il titolo è più o meno quello) visibile su Netflix, si allude, con qualche cambiamento, all’episodio. Grazie per aver ricordato M.Y.

Germano Zampa

 

Stato italiano ancora succube del “Papato”?

Riguardo alla nota del Vaticano indirizzata allo Stato italiano, sarebbe come se Dio, in cui credono tutti i cristiani, dicesse a una parte di loro, attraverso il loro rappresentante in terra, cioè il Papa, che la legge Zan è un pericolo per tutti loro. Perché considerare tutti allo stesso livello, sessualmente parlando, è un affronto al sacrificio di Gesù, sceso in terra per ripagare i peccati di tutti, anche quelli di Maddalena! Ovviamente credo che nessun cristiano in buona fede, tranne quelli della Cei e gli affezionati alla vecchia Dc, possa minimamente pensare che l’azione dello Stato Vaticano debba essere presa in considerazione dal nostro governo. Sarebbe l’ulteriore conferma che l’Italia è ancora succube del “Papato”. Altro che presa di Porta Pia e Costituzione!

Raffaele Fabbrocino

 

Diritto di replica

In relazione all’articolo sul Fatto Quotidiano, pubblicato in data 23 giugno, intitolato “Cingolani resuscita anche il gasdotto caro a Usa e Israele” si precisa che il Ministro Cingolani non ha mai firmato alcun atto relativo al progetto di gasdotto Poseidon, autorizzato nel 2011 dal Ministro dello sviluppo economico come via di importazione del gas proveniente dall’Azerbaijan, che ha poi invece preso la strada del gasdotto TAP, già in esercizio, e quindi ripensato dai promotori e dalla Commissione Europea come possibile via di arrivo in Europa del gas proveniente dall’offshore israeliano e cipriota. È stata solo firmata da una direzione dell’ex MISE una nota di aggiornamento dei termini di inizio lavori a suo tempo stabiliti dal Ministero dello sviluppo economico per tenere conto che le indagini preliminari sui siti hanno evidenziato la presenza di rifiuti abbandonati contenenti amianto, che hanno reso necessario un piano di caratterizzazione ambientale e analisi di rischio che si concluderà nel 2023. In ogni caso, è stato più volte ribadito da parte italiana che tali nuove risorse di gas del bacino del Mediterraneo dell’Est (sempre che nel frattempo i consumi di gas, in calo in Italia e in Europa per il programmato forte aumento delle rinnovabili nella generazione elettrica per gli obiettivi di decarbonizzazione al 2050 ne giustifichino l’investimento da parte dei privati) potrebbero essere veicolate attraverso il transito nella rete greca e poi utilizzando la possibile espansione della capacità di trasporto dell’esistente gasdotto TAP, raddoppiabile senza opere aggiuntive in Italia.

Ufficio stampa Mite

 

Prendiamo atto della precisazione
e ringraziamo il ministro Cingolani per le informazioni condivise, ricordando però che l’atto citato nell’articolo è firmato dal ministero della Transizione ecologica, per la precisione dall’ingegner Gilberto Dialuce, consigliere del ministro Cingolani. Nello stesso atto è lo stesso ministero della Transizione a definire “opportuno concedere la proroga dei termini di inizio e fine lavori del progetto Metanodotto IGI Progetto Poseidon tratto Italia”. Secondo quanto si può leggere tuttora sul sito della società Igi Poseidon SA,
il gasdotto è progettato per arrivare in Italia nella città di Otranto.

Ste.Ve

Eutanasia legale: la battaglia di Lorenzo, “Mario” e Daniela

 

Caro “Fatto”, sono la vedova di Lorenzo P., malato di Sla e morto in Svizzera, di cui avete pubblicato la lettera di addio l’8 aprile scorso. Ho letto la recente notizia riguardante il Tribunale di Ancona e l’ordine di verificare le condizioni per l’accesso al suicidio assistito da parte di “Mario”. A “Mario” vanno tutto il mio affetto e la mia vicinanza. Sosterrò la campagna dell’Associazione Luca Coscioni (lo devo alla memoria di Lorenzo e alla nostra storia insieme) e spero davvero che il nostro Paese riesca finalmente a dotarsi di questo strumento di civiltà. Grazie per la sensibilità che avete sempre dimostrato verso la questione del fine vita, spesso in beata solitudine nel panorama dell’informazione.

Tina DF

 

Carissima Tina, sempre più spesso raccontiamo storie di persone che avrebbero voluto scegliere, ma non hanno avuto il tempo. O la possibilità. Come S., da sei mesi ricoverata in stato vegetativo: ha lo stato di coscienza di una neonata di un mese, dopo l’ennesima riabilitazione potrà raggiungere al massimo quello di una bimba di 3-4 mesi. I suoi cari vogliono che vengano rispettate le sue volontà, perché non è questa la vita che avrebbe voluto. Ma per il giudice tutelare bisogna comunque andare avanti con le cure. E poi rivalutare le condizioni di S. fra tre mesi. E poi chissà per quanto tempo ancora. “La responsabilità – come dice Marco Cappato che assieme all’Associazione Luca Coscioni, media partner anche ilfattoquotidiano.it, sta portando avanti la raccolta firme per presentare il Referendum per l’Eutanasia Legale – è dei partiti: in 37 anni non sono mai riusciti a discuterne”. E, ancora una volta, visto che il Parlamento una legge non l’ha fatta (nonostante ben due richiami della Corte costituzionale), noi cittadini abbiamo in mano il diritto, la speranza, il potere di sopperire a questa mancanza. La sfida è di raccogliere 500mila firme entro il 30 settembre per chiedere una parziale abrogazione dell’art. 579 del Codice penale, che impedisce la realizzazione di ciò che comunemente si intende per “eutanasia attiva”. Se il referendum fosse approvato, si passerebbe al principio dell’“autodeterminazione individuale”, quella grazie alla quale suo marito Lorenzo, “Mario”, Daniela – solo per citare gli ultimi – non avrebbero avuto bisogno di andare in Svizzera. Ecco perché, assieme a lei, anche io come tanti altri saremo in piazza per firmare.

Maddalena Oliva

Se l’avvocato non ce la fa, bye bye a Mario

La stampa che stravede per Mario Draghi (bella compatta, con uno 0,1 di guastafeste) va in un brodo di giuggiole ogniqualvolta può segnalare al mondo che il Superpremier ha cancellato, oscurato, rinnegato qualcosa del lascito del suo predecessore. Ah ah, il Recovery plan di Giuseppe Conte era una barzelletta, ci ha pensato Lui a presentare un documento scritto come si deve e senza macchie di unto. Ah ah, l’Europa ci ha dato i soldi perché sapeva che stava per arrivare Lui: il rider Giuseppi ha fatto solo le consegne. Ah ah, prima i vertici dei servizi segreti bivaccavano negli autogrill, ma da quando c’è Lui pasteggiano solo con Champagne Brut millesimato. Rapiti nella dionisiaca ebbrezza, i laudatores senza se e senza ma non tengono conto di un piccolo particolare: semplicemente che dalla buona cera, politica e personale, di Conte dipende la sopravvivenza del governo Draghi.

Infatti, se il tanto disprezzato (da costoro) avvocato di Volturara Appula non riuscisse a prendere saldamente nelle sue mani le redini del M5S, il movimento si frantumerebbe in una balcanizzazione tale da rendere al confronto la dissoluzione dell’ex Jugoslavia un modello di stabilità. In tale caso, tra i 5Stelle, le spinte contrarie al governo di (quasi) unità nazionale tornerebbero a scatenarsi in una sorta di liberi tutti, adesso facciamo come ci pare. Così, la coesione della forza di maggioranza relativa, pilastro dell’esecutivo, andrebbe rapidamente a farsi benedire. Ragion per cui: bye bye al Prodigio dei Migliori. Trattandosi di una frana in movimento potrebbe diventare inarrestabile anche prima del 3 agosto e dell’inizio del semestre bianco. Ma anche senza la mannaia dello scioglimento delle Camere, in un tale casino, quali certezze avrebbe in Parlamento un governo che tra Pnrr e attività ordinaria ha già messo in calendario 53 provvedimenti tra disegni di legge e richieste di deleghe? Se Mario Draghi, come siamo convinti, non sottovaluta il problema dovrebbe, nel suo primario interesse, adoperarsi per dare (e non togliere) sostegno e credibilità a Conte e alla sua fatica di Sisifo. Quanto ai ridicoli cultori del Mito (che sul Fatto di ieri, Tommaso Rodano ha citato, idiozia dopo idiozia) forse dovrebbe dire loro, come si fa con i bambini fastidiosi quando gli adulti devono parlare di cose serie: basta, andate a giocare di là.

Imposte aziendali: in Italia record di tagli

Nel far west della competizione fiscale tra i Paesi dell’Unione europea, l’Italia non può essere di certo accusata di fare dumping sulla tassazione d’impresa nei confronti degli altri Stati Ue: i paradisi fiscali nel Vecchio continente si chiamano Regno Unito, Olanda, Svizzera, Lussemburgo. Ma sul fronte dell’imposizione alle aziende la Penisola detiene comunque un primato: secondo un recente studio del Parlamento Ue sulla concorrenza fiscale nell’Unione Europea, tra il 1995 e il 2018 l’Italia è stata il Paese della Ue a 15 che ha tagliato più di tutti gli altri le imposte sui redditi da attività d’impresa. Non si può dire lo stesso, invece, sul fronte delle imposte sui redditi delle persone fisiche, rimaste quasi invariate dal 2000 al 2020 nonostante minimi sgravi alle famiglie con figli. D’altronde la suddivisione per fonte del gettito fiscale nel 2018 dimostra che l’Erario ha ottenuto dalle imposte sul reddito delle persone fisiche più del sestuplo di quanto ha incassato dal reddito delle imprese, 204,4 miliardi contro 32,8. Alla faccia di chi, come Confindustria, continua a chiedere tagli fiscali per le aziende.

Secondo la ricerca sulle “Pratiche fiscali dannose nella Ue”, pubblicata il 31 maggio dal Centro studi del Parlamento europeo (Cepr), che ha esaminato i dati fiscali internazionali raccolti da Kpmg, nei 24 anni tra il 1995 e il 2018 in Italia l’aliquota fiscale sui redditi d’impresa si è più che dimezzata, calando dal 52,2% al 24% con una contrazione del 28,2%. È stato il taglio più consistente tra tutti i 15 Paesi dell’Europa occidentale. Nello stesso periodo l’aliquota media nella Ue-15 è calata dal 38 al 24,2% (-13,9%). Nella Ue a 28 Stati, invece, l’Italia è seconda per maggior riduzione del carico fiscale sul reddito d’impresa alle spalle della Bulgaria, che ha segnato -30%, dal 40 al 10. Il grande taglio nella tassazione sui redditi d’impresa è scattato nel 1998, quando è stata abolita l’Ilor che aveva un’aliquota del 16,2% ed è stata introdotta l’Irap, che prevede sì un’aliquota più bassa rispetto all’Ilor (inizialmente pari al 4,25%, ora al 3,9%) ma che a differenza della precedente si applica su una base imponibile più ampia, rispetto ai soli redditi di impresa. La riforma fiscale italiana, nel segno della riduzione del carico d’imposta sulle aziende, si inquadra nella tendenza che ha accomunato tutte le economie sviluppate. Negli ultimi quattro decenni, dall’epoca di Margaret Thatcher e Ronald Reagan a oggi, gli Stati hanno ingaggiato una vera competizione per “sollevare” dal carico fiscale le imprese.

Secondo alcuni esperti però, invece di quelli di Kpmg, i dati corretti per i confronti internazionali sull’aliquota d’imposta sui redditi d’impresa sono quelli Ocse, dai quali emerge che l’Italia ha un’aliquota sui redditi societari più elevata di quella considerata dall’analisi del Parlamento europeo, perché all’aliquota Ires (24%) va sommata anche l’aliquota Irap (pari al 3,9%), per una imposizione complessiva pari al 27,9% nel 2021. Ma anche aumentando del 3,9% l’aliquota complessiva sui redditi d’impresa, con un -24,3% l’Italia sarebbe terza nella Ue a 15, alle spalle di Irlanda (-27,5%) e Germania (-26,8%), per taglio complessivo all’imposizione sui redditi delle aziende.

D’altronde la gara a chi avvantaggia di più le imprese che si domiciliano nella propria giurisdizione non conosce regole e finisce per incentivare l’elusione fiscale. L’Ong Tax Justice Network (Tjn) ha calcolato che le aziende che dribblano il Fisco costano un gettito globale di 245 miliardi di dollari l’anno. I Paesi Ocse ne sono responsabili per il 68%, direttamente per il 39% e per il 29% tramite i loro possedimenti d’oltremare. Tra i 10 maggiori paradisi fiscali per le società ci sono British Virgin Islands, isole Cayman, Bermuda e Jersey, che fanno parte del Regno Unito, poi Olanda, Svizzera e Lussemburgo. I contraccolpi della concorrenza fiscale tra gli Stati Ue non restano confinati nel Vecchio continente.

Gli “spillover” della competizione sulla tassazione delle società sono stati studiati dagli economisti Leyla Ates dell’Università Altinbas di Istanbul, Moran Harari e Markus Meinzer di Tjn nel volume “Fiscalità, cooperazione internazionale e agenda per lo sviluppo sostenibile 2030”. L’analisi dimostra che la responsabilità internazionale dei Paesi Ue per le ricadute fiscali negative è allineata a quella degli altri Paesi ricchi e supera di gran lunga quella dei Paesi in via di sviluppo. Secondo gli studiosi, “gli Stati Ue dovrebbero riformare i loro sistemi fiscali per mitigare le ricadute negative delle loro aliquote e regole sui Paesi in via di sviluppo”, in modo da aiutarli “a raggiungere i propri obiettivi di sviluppo sostenibile, riducendo l’erosione delle entrate pubbliche”. Sarebbe una mossa ben più rilevante che non l’intesa internazionale sull’aliquota minima globale per le società proposta dagli Usa di Joe Biden.

Controriforma: meno tasse a imprese e capitale

Una smussata alla “gobba” delle aliquote effettive che gravano sui contribuenti nel tratto mediano della curva dell’Irpef, via la ritenuta d’acconto per gli autonomi, un sistema premiale per coloro che ancora pagano regolarmente le tasse, rottamazione delle cartelle a regime e per il resto una pioggia di tagli alle tasse su redditi da capitale, rendite finanziarie e sulle società. È tutta qui la riforma fiscale delineata dalle Commissioni Finanze della Camera e del Senato nella bozza del documento parlamentare dal quale il governo Draghi dovrebbe trarre l’indirizzo per la predisposizione della legge delega che si è impegnato a presentare entro luglio. Ventuno pagine, compresi l’indice e l’introduzione, che sembrano ben poca cosa rispetto all’articolazione e al livello di approfondimento tecnico delle undici leggi-delega consegnate al Parlamento dal governo Prodi per dare gambe all’iter della riforma Visco del ’97 o alla storica riforma Cosciani del ’74.

Giù le imposte sui profitti

In piena controtendenza planetaria, dopo il giro di vite dell’Amministrazione Biden sulla tassazione dei profitti delle società che sta finanziando la ripresa post Covid negli Usa, il documento italiano propone di ridurre drasticamente il prelievo sui capital gain. l’aliquota del 26% applicata su redditi da capitale e rendite finanziarie dovrebbe scendere al 23%, equiparandola al primo scaglione Irpef (e al prelievo sui redditi da lavoro dipendente più bassi). Donazioni e successioni, non costituendo cessioni a titolo oneroso, non danno già origine a capital gain.

Irpef da rivedere

Le Commissioni concordano che la struttura dell’Irpef vada ridefinita, con due obiettivi: abbassamento dell’aliquota media effettiva nella fascia di reddito 28.000-55.000 ed eliminazione delle discontinuità più brusche. 
Gli estensori auspicano in questo senso un deciso intervento semplificatore su scaglioni, aliquote e detrazioni per tipologia di reddito “incluso l’assorbimento degli interventi del 2014 e del 2020 riguardanti il lavoro dipendente” come il bonus Renzi. In subordine tramite un sistema ad aliquota “continua”, ma solo per le fasce di reddito medie. Inoltre è prevista l’introduzione di una maxi-deduzione senza obbligo di dichiarazione per tutti i redditi. Per quanto concerne le spese fiscali, la giungla di detrazioni e deduzioni vera responsabile dell’impazzimento dell’Irpef, le Commissioni chiedono una riduzione della loro numerosità, per semplificare il sistema ma soprattutto per reperire le risorse per ridurre l’aliquota media effettiva sull’attuale terzo scaglione.

Detrazione coniuge addio

La detrazione per il coniuge a carico “disincentiva l’offerta di lavoro”. Meglio allora una tassazione agevolata temporanea in caso di ingresso al lavoro del secondo percettore di reddito, “il cui ammontare sia congruamente superiore alla detrazione per familiare a carico”.

Autonomi, niente ritenuta

Anche la ritenuta d’acconto sui compensi a favore dei lavoratori autonomi è una forma di prelievo che secondo la bozza va rapidamente superata, insieme alle attuali scadenze di versamento delle imposte dirette da parte dei lavoratori autonomi. Le Commissioni concordano sulla necessità di istituire un nuovo meccanismo di rateizzazione, con il versamento del saldo e del primo acconto in sei rate mensili di uguale importo senza l’applicazione di alcuna sanzione e interesse. Il sistema della ritenuta viene giudicata di conseguenza valida solo per il lavoro dipendente.

L’Irap vada in pensione

L’imposta regionale sulle imprese, caratterizzata da una bassa aliquota e una larga base imponibile, fu introdotta con la riforma del ’97 per finanziare il sistema sanitario nazionale. Servì ad abolire ben sei regimi fiscali “tradizionali”. Le Commissioni raccomandano un riassorbimento del gettito Irap “nei tributi oggi esistenti”.

Tagliare l’Ires e l’Iva

Le Commissioni avvertono l’esigenza di avviare una complessiva opera di semplificazione dell’Imposta sul Reddito delle Società (Ires) riavvicinando i criteri di redazione del bilancio ai fini fiscali a quelli a fini civilistici, meno onerosi. Si propone l’introduzione di incentivi, sotto forma di sconto d’imposta, per comportamenti in linea con la transizione ecologica; 
per le aggregazioni di imprese di dimensioni minori e per il reinvestimento degli utili in azienda. Sull’Iva, la bozza propone una semplificazione e una riduzione dell’aliquota ordinaria attualmente applicata.

Lotta all’evasione

L’ultimo capitolo è dedicato a uno scarno elenco di misure anti-evasione. La principale – e unica – è la “chiusura del perimetro” dell’obbligo di fatturazione elettronica, estendendolo a tutti i soggetti esentati. Fa subito da contraltare una sospetta critica al meccanismo recentemente introdotto del “reverse charge”, l’Iva trattenuta alla fonte, che secondo tutte le statistiche fiscali ha portato un robusto recupero di imposta evasa. Tuttavia si auspica di “valutare attentamente il suo effettivo impatto sul recupero del gettito evaso”.

Premialità per chi non ruba

L’elemento fondamentale dell’auspicato “nuovo Patto con i contribuenti” è un meccanismo di premialità per i contribuenti leali. Con una certificazione di avvenuto rispetto delle obbligazioni tributarie si ottengono in maniera automatica benefici come le riduzioni dei termini di controllo e accertamento e dei tempi di rimborso fiscale. 
L’apparato sanzionatorio dovrebbe inoltre escludere i casi di omesso versamento per errore o per grave carenza di liquidità.

Rottamazione perpetua

Le esperienze di “rottamazione” delle cartelle esattoriali sono da considerarsi, per gli estensori del documento, “positive e utili in un’ottica di favorire l’adempimento”. Tanto più la riforma funzionerà, si legge, “tanto più saranno possibili interventi sui debiti fiscali”.

Il verdetto che smentisce Ghedini sui soldi di B.

Anche quest’oggi Il Fatto Quotidiano persiste nel pubblicare supposizioni ed illazioni riguardo la formazione del patrimonio del Presidente Berlusconi insinuando ancora una volta, che proverrebbero in parte da fonti non lecite. Si tratta di elementi già vagliati più volte da molteplici autorità giudiziarie e ritenuti del tutto privi di pregio e di riscontro. Ma ciò che è maggiormente inveritiero e diffamatorio è l’assunto che sarebbero rimaste delle opacità a seguito della verifica del dott. Giuffrida della Banca d’Italia. Come è noto e come è stato più volte riconosciuto in ogni sede il dott. Giuffrida dopo aver avuto accesso a tutta la documentazione ha dichiarato all’Autorità giudiziaria che tutti i flussi di denaro facenti capo al Presidente Berlusconi e a Fininvest erano più che trasparenti. È evidente quindi l’intento palesemente diffamatorio di una ricostruzione che si basa su elementi già ritenuti insussistenti e su una presunta opacità dei flussi di denaro totalmente non aderente ai risultati processuali.

Avvocato di Silvio Berlusconi

 

L’origine dubbia dei capitali della Fininvest è stata indagata a metà degli anni ’90 dalla Procura di Palermo in un’inchiesta conclusa dal gip Gioacchino Scaduto che il 19 febbraio 1997 – nel decreto di archiviazione del procedimento 2090/95 istaurato nei confronti di Silvio Berlusconi per il reato di concorso in associazione mafiosa – con riferimento a quest’accusa scrisse, tra l’altro, che “pur essendo emersi ad oggi diversi elementi che sembrano sostenere l’ipotesi accusatoria la palese incompletezza delle indagini non consente di valutarne appieno il valore indiziario”. Agli atti c’era una prima perizia del funzionario di Bankitalia Francesco Giuffrida che dopo avere rilevato 8 versamenti rimasti senza riscontro per alcune decine di miliardi di lire su conti Fininvest si riservava di verificare alcuni elementi in una seconda consulenza, che non fu mai disposta, per lo scadere dei termini di indagine. Un’ulteriore memoria sui flussi finanziari redatta dal perito, finita agli atti dell’inchiesta della Procura di Roma sulla morte del patron del Banco Ambrosiano, Roberto Calvi, fu trasmessa a Palermo per ulteriori approfondimenti. La Procura di Palermo decise di trasmettere quelle carte alla Procura generale presso la Corte d’appello perché valutasse l’estensione della perizia in sede dibattimentale, visto che era in corso l’appello del processo Dell’Utri. Ma la Corte d’appello rigettò la richiesta sostenendo che, tutt’al più, se queste tracce andavano sviluppate, era la Procura a dover aprire una nuova indagine. Nel 2006, citato in giudizio dalla Fininvest, il dottor Giuffrida addivenne ad una transazione nella quale sostenne che alcune ombre relative a quelle vicende erano state chiarite. Infine “la scarsa trasparenza o l’anomalia di molte delle operazioni finanziarie effettuate dalla Fininvest negli anni 1975-84 che non hanno trovato smentite nelle conclusioni del consulente della difesa” è un dato sottolineato dalla sentenza del collegio presieduto dal giudice Leonardo Guarnotta, che ha condannato in primo grado il senatore Dell’Utri a 9 anni di reclusione.

“Hanno dato la sentenza: ammazzano Di Matteo”

“Anche il giudice Di Matteo lo ammazzano. Gli hanno già dato la sentenza”. A parlare è Gregorio Bellocco, boss della ’ndrangheta, già a capo della cosca di Rosarno. È la mattina dell’1 giugno e a Milano, nel carcere di Opera, alcuni detenuti al 41-bis stanno commentando la notizia della scarcerazione di Giovanni Brusca. A parlare per primo, durante l’ora di socialità, è Francesco Cammarata, mafioso della famiglia di Riesi, che commenta le dichiarazioni di Maria Falcone: dice che la sorella del “fu giudice” si lamenta solo di quel tipo di scarcerazioni. È a quel punto che, senza un apparente motivo, Bellocco interviene per pronunciare quelle parole: “Anche il giudice Di Matteo lo ammazzano. Gli hanno già dato la sentenza”. I due tacciono subito perché incrociano il passaggio dell’agente del Gom. Il quale, però, riesce a sentire quelle frasi e fa rapporto ai suoi superiori. Quella relazione è finita al Dipartimento amministrazione penitenziaria, che l’ha girata alle procure competenti di Reggio Calabria e Palermo. Gli investigatori vogliono capire a cosa si riferiva Bellocco.

Le notizie relative al piano di morte di Cosa Nostra per colpire Nino Di Matteo, infatti, risalgono al 2014: perché dunque l’uomo della ’ndrangheta ne parla ora, sette anni dopo? Ha per caso avuto qualche novità dall’esterno? Di Matteo, tra l’altro, non aveva rilasciato alcuna dichiarazione pubblica sulla scarcerazione di Brusca: perché quindi Bellocco pronuncia quelle frasi sul consigliere del Csm?

A parlare per primo di un attentato contro l’allora pm della Trattativa era stato Vito Galatolo, boss dell’Acquasanta: secondo il pentito l’ordine era arrivato direttamente da Matteo Messina Denaro, con alcune lettere inviate ai boss di Palermo nel dicembre del 2012. I padrini si erano riuniti in un summit e avevano raccolto 600mila euro per acquistare 150 chili di tritolo. Almeno una parte di esplosivo era arrivata dalla Calabria: solo che era in cattive condizioni a causa di alcune infiltrazioni d’acqua. Secondo Galatolo i boss erano riusciti a farsi cambiare la partita difettosa dai loro referenti calabresi: il particolare dell’infiltrazione d’acqua, però, aveva suggerito agli inquirenti un’ipotesi investigativa. E cioè la possibile provenienza del tritolo dalle stive della Laura C, la nave affondata al largo di Saline Joniche durante la Seconda guerra mondiale: più volte i pentiti di ’ndrangheta hanno raccontato di avere recuperato grosse quantità di esplosivo da quell’imbarcazione inabissata.

Dopo la collaborazione di Galatolo, gli inquirenti avevano cominciato a cercare il tritolo che doveva essere usato per Di Matteo, ma secondo un altro pentito, Francesco Chiarello, era già stato spostato in un luogo sicuro. Sul caso ha indagato la Procura di Caltanissetta, che nel 2017 ha archiviato il fascicolo. Per i pm tutta la storia è riscontrata: la riunione per uccidere Di Matteo ci fu, ma poiché l’attentato non venne mai realizzato non era possibile contestare alcun reato. Nell’archiviazione i magistrati scrissero: “L’ordine di colpire Di Matteo resta operativo”.

Ora a parlare di un piano di morte per il magistrato è per la prima volta un boss della Calabria, la stessa zona da dove – secondo Galatolo – era arrivato l’esplosivo. “Già la sentenza gli hanno dato”, sostiene. Cosa intende dire?

Di sicuro c’è che il tema della scarcerazione di Brusca ha appassionato anche altri boss detenuti. Circa mezz’ora dopo l’esternazione di Bellocco, sono tre camorristi a parlarne. Gaetano Di Lorenzo spiega di essere “contento”, visto che pare non considerare il boss di San Giuseppe Jato come un pentito. Antonio Caiazzo auspica: “Devono cambiare la legge sui collaboratori”. Poi interviene Vincenzo Aprea, che dice: “Come quelli di Forza Italia, quei figli di bocchini che si sono opposti alla scarcerazione”.

Eni-Nigeria, mediatori assolti in appello

Il cerchio si è chiuso, ieri, con una sentenza d’appello che lava ogni peccato: assolti anche i due mediatori (Gianluca Di Nardo ed Emeka Obi) dell’affare Opl 245, il più grande campo petrolifero della Nigeria. Il cerchio si era aperto una dozzina d’anni fa quando Obi, uomo d’affari nigeriano, aveva proposto per la prima volta l’affare a Di Nardo, in quanto amico di Luigi Bisignani – faccendiere e lobbista dalle molte vite, da Giulio Andreotti alla P2, fino alla cosiddetta P4 – che sapeva molto amico di Paolo Scaroni, allora amministratore delegato di Eni.

Un modo non proprio british di arrivare al vertice della compagnia petrolifera italiana, per far scattare, alla faccia della tanto sventolata compliance, l’affare del secolo: la vendita di una ricca licenza petrolifera da parte di un uomo politico nigeriano, Dan Etete, che se l’era autoassegnata quando era ministro del petrolio. L’affare comunque scattò, fino alla firma degli accordi e al pagamento da parte di Eni, nel 2011, di 1 miliardo e 92 milioni di dollari per la licenza esplorativa di Opl 245. Poi arrivò la Procura di Milano a sostenere che si trattava di una colossale corruzione internazionale, in cui non un cent dei soldi pagati da Eni era rimasto allo Stato africano, perché tutto il malloppo era stato girato a politici nigeriani, ex ministri, faccendieri, intermediari.

Nel settembre 2018 il giudice dell’udienza preliminare Giusy Barbara emette la sentenza di primo grado per due imputati che avevano scelto il rito abbreviato: il nigeriano Obi Emeka e l’italiano Gianluca Di Nardo. Sentenza durissima per Eni, con i due mediatori condannati a 4 anni di carcere per concorso in corruzione internazionale e la confisca di 140 milioni di euro. Intanto per tutti gli altri imputati (tra cui Scaroni e il suo successore Claudio Descalzi) era andato avanti il processo in rito ordinario, su cui hanno soffiato i venti cattivi delle polemiche tra magistrati milanesi a proposito della gestione di un imputato, Vincenzo Armanna, e di un possibile testimone, l’avvocato Piero Amara.

A marzo 2021, il Tribunale di Milano assolve tutti in primo grado. Ieri è arrivata la sentenza d’appello per i due mediatori già condannati in abbreviato: anch’essi dichiarati assolti (“perché il fatto non sussiste”), come aveva chiesto anche l’accusa, rappresentata dal sostituto procuratore generale Celestina Gravina, con parole e argomentazioni e che avevano provocato lo stupore di molti colleghi e le proteste di tre autorevoli ex magistrati della Procura generale – Laura Bertolé Viale, Maria Elena Visconti e Salvatore Sinagra – che avevano firmato una lettera in cui avevano contestato le critiche rivolte da Gravina alle indagini. Ora, con l’assoluzione di Obi e Di Nardo, è stata eliminata l’ultima anomalia in questa storia internazionale che odora di petrolio e di dollari, trattative e complotti. Saranno revocate anche le confische milionarie ai due uomini d’affari (94,8 milioni di dollari a Obi e 21,1 milioni di franchi svizzeri a Di Nardo), che ora potranno tornare in possesso dei soldi che ritengono essere il compenso della loro mediazione.

Durante la sua requisitoria, la pg Gravina aveva anche chiesto alla Corte d’appello, presieduta da Rosa Polizzi, l’invio degli atti alla Procura, per verificare un eventuale reato di calunnia commesso da Armanna. La Corte non ha seguito la richiesta.

“Ilva inquina e così non regge. Ora battaglia a Bruxelles”

Non escludiamo di portare la vicenda all’attenzione della Corte europea dei diritti dell’uomo. A Rinaldo Melucci, sindaco di Taranto, la decisione del Consiglio di Stato di non bloccare gli impianti inquinanti dell’area a caldo dell’Ilva non piace. E al Fatto annuncia nuove azioni per salvaguardare la salute dei tarantini.

Sindaco Melucci cosa pensa di quella sentenza?

Credo che i giudici abbiano avuto un approccio superficiale derubricando troppo grossolanamente gli aspetti innovativi della sentenza del Tar di Lecce relativi alla salute dei cittadini. Questa comunità ha sofferto tanto e ora sembra che qui non ci siano criticità, non ci si ammali. Come se i dati prodotti non fossero oggettivi.

Lei ha parlato addirittura di “restaurazione”…

Mi sembra di essere tornato al 2012 quando dopo il sequestro della fabbrica qualcuno affermò che qui ci si ammalava perché fumavamo troppo e non per l’Ilva.

Dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo cosa vi aspettate?

Sappiamo che le decisioni della Cedu non hanno un impatto immediato sulla vita di una comunità, ma lo facciamo per due motivi. Il governo non può parlare sui palcoscenici internazionali di Green Deal e poi in casa portare avanti situazioni che sono fuori dalla civiltà e dai diritti. E poi serve mettere Taranto sul tavolo europeo perché la Commissione Ue vigili sui fondi assegnati all’Italia. Il Pnrr è stato emendato: non è più finanziabile la transizione ecologica dell’ex Ilva. Questi due motivi potranno spiegare chiaramente come l’Italia immagina il suo sviluppo.

Lei ha detto che la battaglia non è finita. Ma crede davvero in un finale diverso?

Una battaglia non finisce mai quando in gioco c’è la salute. Verrei meno al mio ruolo se vacillassi di fronte a una sconfitta. In maniera un po’ folle penso che esista sempre una via d’uscita.

E qual è?

Noi chiediamo la chiusura dell’area a caldo. Una vera transizione ecologica, non a parole. Vogliamo l’introduzione di un meccanismo sulla valutazione preventiva del danno sanitario e sulla base di quello parlare di occupazione e quote d’acciaio. La battaglia sarà finita quando sarà salvaguardata la salute. Oggi non lo è e la palla è in mano al governo: vogliamo rimanere un Paese in eterno declino che guarda gli altri Paesi evolversi o fare un salto di qualità a partire dalla siderurgia?

Ma lei crede che i tarantini vogliano la chiusura della fabbrica?

Chiariamo: né l’amministrazione né la città ha mai chiesto la chiusura tout court. Vogliamo un’Ilva più piccola, più lontana dal centro abitato e soprattutto più moderna e sicura. C’è una parte importante della città che non vive dell’acciaio e che ne è danneggiata. Penso al porto, al turismo, all’enogastronomia. I tarantini hanno scelto altri modelli di sviluppo che abbiamo portato in questi anni, non sono più interessati al percorso dell’Ilva: fabbrica e città sono come separati in casa. E poi guardi, se quello stabilimento non cambia modello produttivo, sarà il mercato a chiuderlo. Non il sindaco, gli ambientalisti o i giudici: si fermerà perché non potrà competere con le fabbriche tedesche e svedesi che oggi si adeguano ai richiami dell’Europa per garantirsi l’accesso agli incentivi comunitari.

Pochi minuti dopo la diffusione della notizia della sentenza del Consiglio di Stato, Acciaierie d’Italia e il ministro Giorgetti hanno annunciato il nuovo piano per “l’acciaio verde italiano”. Che ne pensa?

In questi anni abbiamo visto diversi comunicati che annunciavano grandi svolte, però sui tavoli del ministero della sedicente “transizione ecologica” abbiamo visto solo richieste di proroga per il completamento della messa in sicurezza. Ho letto che tra i partner del progetto c’è Paul Wurth: una grande società, ma si occupa di altiforni. Se l’idea è quella di mantenere gli altiforni allora andiamo nella direzione sbagliata. Decarbonizzare, anche con tempi lunghi, ma certi, è ciò che chiediamo. Se la transizione è solo estetica e riduce del 20% le emissioni, noi non ci siamo. Se intendono discutere con la comunità per dare davvero un senso al significato di “transizione ecologica”, noi siamo pronti a collaborare.