Aquasi tre anni dal crollo del Ponte Morandi, la Procura di Genova chiede di processare 59 persone e due società, Autostrade per l’Italia e Spea Engineering, per il disastro che il 14 agosto del 2018 provocò 43 vittime. Le richieste di rinvio a giudizio riguardano i più alti dirigenti di Autostrade per l’Italia, fra loro l’ex amministratore delegato Giovanni Castellucci, l’ex capo delle manutenzioni Michele Donferri Mitelli, l’ex direttore centrale operativo Paolo Berti. Le accuse sono a vario titolo di omicidio colposo plurimo e disastro, aggravati dal mancato rispetto delle norme sulla sicurezza del lavoro, attentato alla sicurezza dei trasporti e falso. Tra gli indagati anche alti dirigenti del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. Le posizioni di altri otto indagati sono state stralciate: si tratta di figure tecniche con incarichi risalenti a molti anni prima della catastrofe o che hanno avuto incarichi rilevanti per periodi di tempo limitati. Tre indagati sono morti prima della chiusura delle indagini.
Report, fratello di Tare (Lazio) chiede gli atti Ranucci: “Effetto slavina della sentenza Tar”
C’è subito qualcuno che si infila nella breccia aperta dall’avvocato Andrea Mascetti, vicino alla Lega, e dal Tar del Lazio, che gli ha riconosciuto l’accesso agli atti relativi a un servizio di Report, applicando all’informazione Rai le regole sulla trasparenza amministrativa in termini che mettono in pericolo la segretezza delle fonti confidenziali dei giornalisti, tutelata per legge. Si è mosso Agron Genti Tare, viceministro degli Esteri albanese e fratello di Igli, direttore sportivo della Lazio. Lo scorso 7 giugno Report ha rivelato un’informativa del Gico della Guardia di Finanza depositata alla Procura di Bari che ipotizzava presunti interessi occulti dei fratelli Tare, mai indagati, in una società che voleva rilevare una consistente rete di sale scommesse. La questione, seppure priva di rilievo penale, poteva meritare l’attenzione della giustizia sportiva atteso il divieto per i tesserati di occuparsi di scommesse. I fratelli Tare, come già riferito da Report, hanno negato tutto.
L’avvocato Ersi N. Bozheku per conto di Agron Tare, ricordando la sentenza Mascetti secondo cui “va ritenuta suscettibile di ostensione […] la documentazione connessa all’attività preparatoria di acquisizione e di raccolta di informazioni […] confluite nell’elaborazione del contenuto del servizio”, chiede alla Rai e a Report l’informativa. Va da sé che, se il suo cliente intende agire per diffamazione, può chiederla ai pm di Bari o alla Finanza per motivi giustizia. Sigfrido Ranucci, conduttore della trasmissione, denuncia “l’effetto slavina che temevo, e che purtroppo alcuni non hanno capito”. Perfino un giurista raffinato come Vladimiro Zagrebelsky ieri sulla Stampa osservava che la sentenza Mascetti riguarda “documenti” e non “le fonti”. Ma, al di là della pericolosa equiparazione tra giornalisti Rai e pubblica amministrazione, il Tar si riferisce alle “richieste informative” rivolte a soggetti pubblici da Report circa gli incarichi di Mascetti e alle loro “risposte”, oltre che ad atti pubblici conoscibili altrove. Gli interlocutori dei giornalisti Rai non possono essere individuati senza penalizzare l’informazione pubblica rispetto a quella privata. Gli stessi atti amministrativi che arrivano ai giornalisti a volte portano le “impronte” di chi, anche legittimamente ma riservatamente, li ha forniti. Mascetti e Tare possono querelare o fare causa a Report che dovrà dimostrare, con i documenti o in altro modo, di aver agito correttamente, con la nota inversione dell’onere della prova che già penalizza i giornalisti.
Pirellone, si è già dimesso il dg di Aria
Solo un mese fa era stato presentato come il salvatore del carrozzone “Aria”. Ieri, ha rassegnato le sue dimissioni. È Silvio Sperzani neo (ma già ex) Amministratore unico della centrale d’acquisto di Regione Lombardia. Ufficialmente lascia per “gravi motivi familiari”, fanno sapere dai piani alti del Pirellone, un abbandono repentino che certamente non è stato gradito. Sperzani era visto come il manager in grado di risollevare le sorti dell’Agenzia travolta da scandali e inefficienze, prima fra tutti il fallimento dei primi due mesi della campagna vaccinale. Una débâclefatta pagare al Cda, dimissionato d’ufficio. Per Attilio Fontana, ma soprattutto, per l’assessore Davide Caparini, vero kingmaker di Aria, era l’ideale per far dimenticare la pesante bocciatura della Corte dei Conti: bocconiano, un passato per la società di consulenza Oliver Wyman e in Enel, già ai vertici di Be Group, società specializzata in consulting e information technology, nota per aver comprato la “Doom Entertainment“ – la startup di gestione dei diritti artistici fondata da Fedez (della quale è stato Ad). Insomma, la persona giusta, peccato sia durata molto meno del famoso gatto in tangenziale.
E proprio mentre Sperzani rassegnava le sue dimissioni, Letizia Moratti e Guido Bertolaso si autocelebravano. In una conferenza stampa, l’assessore al Welfare e il superconsulente mostravano soddisfatti le slide dei vaccini lombardi. “Parto da un dato che, purtroppo, ancora una volta, non viene considerato: anche ieri è una Lombardia da record. Il 20% dei vaccini somministrati in Italia è stato effettuato in Lombardia”, ha detto Bertolaso. Aggiungendo “Abbiamo tenuto duro quando puntavamo a vaccinare tutti gli over 80 prima di passare ai 70enni. Finite le persone più a rischio abbiamo abbassato l’età: è stata la road map e non abbiamo mai cambiato idea”.
Ma Bertolaso è andato oltre, polemizzando con i media: “Quando la Lombardia aveva problemi le prime pagine erano quotidiane. Adesso che la Lombardia è la prima della classe c’è un silenzio un po’ troppo rumoroso”, ha detto.
Un colpo di spugna su quanto accaduto tra gennaio e aprile 2021, quando gli over 80 non solo non ricevevano la dose, ma erano anche sballottati da un hub all’altro. Così come i fragili e i fragilissimi “dimenticati” perché Regione si era “persa” i loro dati. Problemi dovuti alla scelta dello stesso Bertolaso di usare la piattaforma di Aria invece di Poste.
Durante la conferenza stampa, il professor Giovanni Corrao, ordinario di Statistica medica dell’Università Bicocca, ha illustrato uno studio che dimostra come “la campagna in Lombardia ha evitato oltre 2.100 decessi tra gli over 60: 1.701 tra gli ultraottantenni”. Lo studio però non ha specificato quanti over 80 siano deceduti perché non vaccinati nei tempi previsti. Peccato.
Wuhan e le origini 13 sequenze del virus in un cloud pre-2019
L’indagine sulle origini del Covid-19 riserva un nuovo colpo di scena: un ricercatore americano, il virologo Jesse Bloom, del Fred Hutchinson Cancer Research Center di Seattle, ha ritrovato sequenze del virus risalenti all’inizio della pandemia e rimosse dall’archivio ad hoc del National Institute of Health (Nih) americano su richiesta di un ricercatore cinese. Bloom, come si legge su Biorxiv (che raccoglie gli articoli non ancora vagliati dalla comunità scientifica) e anche sul sito della rivista Science, ha recuperato dopo lunghe ricerche online i file cancellati da Google Cloud e ricostruito le sequenze parziali di 13 campioni di virus raccolti da pazienti ricoverati tra gennaio e febbraio 2020 a Wuhan.
Una scoperta che probabilmente non cambierà il quadro scientifico sulle prime settimane della diffusione del virus ma che secondo molti ricercatori evidenzia la carenza di trasparenza da parte di Pechino e il fatto che agli scienziati potrebbero mancare vari pezzi del puzzle per trarre conclusioni più accurate. Il ritrovamento rafforza inoltra la richiesta di una nuova indagine indipendente sulle origini del Covid, come ha chiesto anche il G20 sollevando le ire del Dragone. Il presidente americano Joe Biden, nel frattempo, ha chiesto a fine maggio all’intelligence Usa di fargli un rapporto entro 90 giorni, ossia entro fine agosto.
Mix dosi, Draghi smentito dalla Gazzetta Ufficiale
“Pochi giorni fa, un ultrasettantenne si è presentato in un hub vaccinale a Roma, chiedendo (come ha riportato da Il Tempo) di completare il ciclo vaccinale con Pfizer, dopo aver ricevuto, come prima dose AstraZeneca. “Voglio anche io Pfizer come Mario Draghi”, ha detto ai medici. L’anziano signore ha ricevuto un rifiuto. Non è un caso isolato. Come lui tanti, in questi ultimi giorni, hanno pensato di seguire l’esempio del premier: ricorrere al mix vaccinale. Lo hanno fatto, per esempio, anche lettrici settantenni del Fatto Quotidiano, ricevendo un analogo no dai sanitari.
Martedì scorso, intanto, il presidente del Consiglio Mario Draghi completava il ciclo vaccinale con Pfizer, dopo aver ricevuto come prima dose AstraZeneca. Scelta fatta su parere del medico perché il livello degli anticorpi, dopo la prima somministrazione, era basso.
Il premier ha 73 anni. Secondo quando stabilito dalla determina numero 699 pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale con la quale Aifa, l’Agenzia nazionale del farmaco, il 14 giugno ha dato il via libera alla vaccinazione eterologa, il mix può essere fatto solo alle persone sotto i 60 anni.
Il testo non lascia grandi margini alle interpretazioni. Nell’articolo 1 si legge che “i medicinali Comirnaty (Pfizer, ndr) e Moderna sono inseriti, esclusivamente ai fini del razionale scientifico, nell’elenco dei farmaci di cui alla legge 648/1996”. L’articolo 2 prosegue disponendo che i due vaccini “possono essere somministrati come seconda dose nei soggetti di età inferiore ai 60 anni che abbiano già effettuato una prima dose di vaccino Vaxzevria (AstraZeneca, ndr)”.
La determina quindi stabilisce (e non raccomanda) l’età massima che si deve avere per accedere al mix vaccinale. Comprensibile, vista la determina dell’Agenzia, che tanti cittadini over 60 si siano visti negare la vaccinazione eterologa. Singolare che il premier abbia potuto accedere al mix.
Ma cosa prescrive la legge 648 del 1996 a cui fa riferimento la disposizione dell’agenzia? La normativa consente di erogare a carico del Servizio sanitario nazionale, quando non vi è alternativa terapeutica valida (previo parere della Commissione consultiva tecnico-scientifica dell’Aifa), medicinali innovativi in commercio in altri Stati ma non sul territorio nazionale, oppure non autorizzati ma sottoposti a sperimentazione clinica o, ancora, da impiegare per una indicazione terapeutica diversa da quella autorizzata (off label).
Nell’elenco della legge sono stati inseriti, appunto, i due vaccini statunitensi Pfizer e Moderna. Con l’indicazione, poi, del tetto di età. Fin qui tutto chiaro. Meno chiaro invece il modulo di consenso informato che deve essere firmato da chi, sotto i 60 anni, dopo aver ricevuto come prima dose AstraZeneca vuole completare con lo stesso vaccino. In questo caso si parla di raccomandazione. Si legge infatti che sulla base delle indicazioni del ministero della Salute e della determina Aifa, “che inserisce la vaccinazione eterologa negli elenchi di cui alla legge 648/96”, il vaccino “raccomandato per gli utenti di età inferiore ai 60 anni compiuti è Comirnaty o Moderna”.
Sul tema, intanto, è intervenuto ieri Guido Rasi, ex dg Ema: “La vaccinazione eterologa non è una sperimentazione. Le aziende farmaceutiche – ha detto – hanno già fatto gli studi ponte, per esempio per la terza dose con l’uso di diverso vaccino. E gli studi su sicurezza e efficacia erano già stati fatti”.
Giustizia, il flop dei penalisti: pochi in piazza Boschi fa lo spot a Iv con Forza Italia e Lega
Partecipazione irrisoria di avvocati alla manifestazione a favore della separazione delle carriere dei magistrati, organizzata dal presidente delle Camere penali, Gian Domenico Caiazza. Davanti alla Cassazione, in piazza Cavour, però, c’erano esponenti del centrodestra e renziani di governo, insieme alla destra all’opposizione, Fdi. Uno dopo l’altro, hanno parlato Matteo Salvini, il sottosegretario alla Giustizia Paolo Sisto, Maria Elena Boschi. Giorgia Meloni, assente giustificata, ha mandato due suoi fidi parlamentari, Balboni e Delmastro. Assente l’ala “giallo-rossa” della maggioranza: M5S, Pd e Leu, si dicono “distanti” da tutto ciò.
Salvini parla alle 11.30. Il leader leghista, convertito ai referendum dei Radicali sulla Giustizia, per promuovere la separazione delle carriere la butta sul calcio: “Se uno ha indossato tutta la vita la maglia della Lazio o della Roma non è che un bel giorno si mette ad arbitrare. Se arrivano un milione di firme per i referendum, questo aiuterà il Parlamento che deve fare le riforme”. Boschi fa uno spot per Italia Viva, sempre con percentuali quasi da prefisso telefonico, secondo i sondaggi: “Iv è stata un argine. Conte e Bonafede sostenevano che giustizialismo e garantismo sono due opzioni, per noi il giustizialismo è un’aberrazione, oggi c’è un nuovo governo, ne è valsa la pena. Si vedrà in Parlamento se c’è un cambiamento vero”. L’avvocato berlusconiano Francesco Paolo Sisto, sottosegretario alla Giustizia, si barcamena davanti alla sparuta platea di avvocati: “Il sottosegretario con la toga – dice di se stesso – vuole rappresentare tutti i penalisti” e prova a spendere come una vittoria l’ipotesi, contenuta pure nella riforma Bonafede, della riduzione dei cambi di funzione per i magistrati, da 4 a 2: “È un primo passaggio, non secondario per dare un segnale ordinamentale rispetto alla riforma costituzionale” sulla separazione, di cui è stato relatore. La prescrizione? Sisto resta vago: “I 5Stelle hanno qualche resistenza sul cambiamento, condiviso però da una larga parte dei partiti. Ci sarà un momento in cui si dovrà decidere”. Enrico Costa, ex FI ora in Azione con Calenda, pure lui presente, fa l’irriducibile: “Sulla prescrizione non ci sono mediazioni possibili. O esiste la prescrizione o il fine processo mai”. Lo gela, a distanza, Alfredo Bazoli, Pd: “In questo momento sarebbe intelligente mettere da parte schermaglie inutili all’interno della maggioranza”.
Ora l’ex premier è pronto all’addio. “No alla diarchia”
La rifondazione è (quasi) affondata. Travolta dal Garante che ai parlamentari doveva parlare di pace e invece proprio no, ha seminato guerra. Troppo per i contiani, tutti, che in serata sussurrano un superlativo come una parola d’ordine per riconoscersi nella bufera: “Malissimo”. È andata malissimo, dicono. Ed è la stessa, identica valutazione di Giuseppe Conte: l’avvocato che dovrebbe o doveva essere il nuovo capo, l’ex premier a cui il 29 febbraio scorso Beppe Grillo e tutti i maggiorenti avevano chiesto di prendersi il Movimento per salvarlo da se stesso. E che ora è a un passo dal rinunciare, dal farsi di lato e lasciare il Garante a gestirsi il suo M5S, che a occhio considera ancora come il suo giocattolo. Conte non crede ai suoi occhi, quando nel tardo pomeriggio cominciano a girargli le agenzie che riassumono il discorso di Grillo ai deputati. Ma a stupirsi non è certo solo lui. Tutti i big pensavano e speravano che il Garante avrebbe usato toni distensivi, magari limitandosi a qualche puntura di spillo.
L’obiettivo per cui avevano lavorato sotto traccia pochissimi mediatori, tra cui Luigi Di Maio. Ma anche il ministro, raccontano, rimane di sale nell’ascoltare Grillo. E quel diluvio di paletti e staffilate non può che irritare Conte. L’avvocato sa bene che il baratro è lì, a un passo. E si morde le labbra. Decide di non rilasciare dichiarazioni pubbliche. E per ore schiva le telefonate, anche dei 5Stelle a lui più vicini. “Se dovessi reagire a caldo, non ci sarebbero più le condizioni per andare avanti” confida ai suoi. “Per come ha parlato Grillo – si sfoga – il Movimento diventerebbe una diarchia”. Con due capi e due voci, l’una a marcare l’altra. Impossibile da accettare, per l’avvocato. Anche perché le premesse erano ben altre. L’avvocato lo ricorda, nel giovedì in cui il suo progetto rischia di franare. Ai pochissimi che lo sentono rammenta che in quell’hotel romano, a febbraio, Grillo insisteva per affidargli tutto, per dargli senza condizioni e remore i pieni poteri sul Movimento. E che fu proprio lui, Conte, a frenare, a predicare equilibrio: “Prima fatemi studiare le carte e valutare ogni aspetto”.
Aveva avanzato solo una richiesta: “Risolvete voi la questione con Davide Casaleggio”. Cioè la diatriba con il patron della piattaforma Rousseau, che quella domenica aveva snobbato l’invito di Grillo sulla terrazza con vista sui Fori, perché ormai aveva rotto con il Movimento. Ma a scrivere la parola fine, con una trattativa da mediatore esperto di arbitrati, ha dovuto provvedere proprio l’avvocato Conte. “In fondo se deve diventare capo è giusto così” avevano commentato grillini di vario ordine e grado alla notizia dell’accordo con il figlio di Gianroberto. Pareva equo, che fosse il rifondatore a sancire il taglio netto con la casa madre di Milano, una cesura anche simbolica. Ma adesso siamo in un altro quadro. Conte si sente delegittimato, dal Garante a cui pure in queste settimane ritiene di aver dato ampi segnali. “Lo Statuto glielo aveva mandato a inizio giugno, e su trenta cose che Grillo chiedeva ha detto sì a venti” sostiene un contiano doc. Ma non è bastato, perché forse non poteva bastare. E le parole di ieri del fondatore sono una ferita difficilissima da suturare. Ad alcuni parlamentari, mercoledì, Conte lo aveva detto così: “Io ho già tanti avversari attorno a me, ma se adesso monta pure il problema con il Garante…”. L’ex premier voleva una soluzione, ordinata. Con uno scopo primario, evitare che Grillo potesse irrompere con un video o una dichiarazione e riscrivere la rotta politica o qualsiasi altra decisione. Magari senza alcun preavviso.
Un copione ampiamente visto in questi anni. “Ma se bisogna cambiare, bisogna cambiare per davvero” ripete Conte ai suoi. In serata, l’avvocato comincia a rispondere al telefono. E parla con Grillo, a lungo. Ma la notte sembra sempre più scura. Con Conte pronto a lasciare dietro di sè il Movimento. O ciò che ne resterebbe, dopo l’alluvione di ieri.
D’Alema, Di Maio&C. I “contiani” vanno alla corte di Bettini
Non è più centrale come ai tempi del governo giallorosa, Goffredo Bettini. Ma sta usando tutto quel che resta della sua influenza per dare una mano a Giuseppe Conte a stabilizzare la sua leadership del Movimento 5 Stelle. Secondo una convinzione: l’ex premier è l’unico che può portare l’alleanza tra Pd e M5S a vincere. Ma soprattutto, il rapporto tra i due resta saldissimo: e se Bettini era molto ascoltato da Conte a Palazzo Chigi, adesso i due continuano non solo a sentirsi, ma anche a vedersi segretamente, in una sede “neutra”. Oggi ci sarà un’iniziativa che è il frutto anche dell’asse tra i due: un incontro sul conflitto tra Israele e Palestina, promosso dall’area di Bettini appena rinominata “Campo Democratico Socialismo e Cristianesimo”. Interverranno Massimo D’Alema, Luigi Di Maio e Roberta Pinotti.
I legami del primo con “Giuseppi” sono noti, così come – da vicinissima di Dario Franceschini – anche la Pinotti può ascriversi ai “contiani”. Per quel che riguarda il ministro degli Esteri, è stato lo stesso Conte a farsi da mediatore con Bettini. Il rapporto tra i due non è mai stato dei più trasparenti, ma in questo momento hanno un obiettivo comune: tenere il controllo del Movimento, anche rispetto alle “incursioni” di Beppe Grillo. Al netto dell’iniziativa di oggi, intanto, Bettini sta ri-tarando i suoi obiettivi. Con il segretario del Pd, Enrico Letta, ha un rapporto dialettico e non ostile.
Quelli che invece considera come fumo negli occhi sono i componenti di Base Riformista. Non a caso i più ostili a un’alleanza strutturale con il M5S. Bettini si sta strutturando in vista di un eventuale congresso del Pd, che dovrebbe essere comunque non prima dell’elezione del presidente della Repubblica: vuole unire pezzi di sinistra, da Gianni Cuperlo a Andrea Orlando. Potrebbe non essere secondario il ruolo di Nicola Zingaretti: Letta lo ha chiamato per chiedergli una mano su Roma. Bettini un nome da candidare non ce l’ha, per ora, ma intende far pesare la sua area. Sempre nel nome di Conte.
Grillo boccia Conte sullo Statuto: “Sono Garante, non un coglione”
Si presenta nell’aula dei gruppi di Montecitorio con in mano le 32 pagine della bozza del nuovo Statuto che Giuseppe Conte gli ha consegnato. Le tiene strette a sé, poi chiude le spalle, indossa il timbro nasale dell’ex presidente del Consiglio, arrota la erre: “Mi ha detto: ‘non le fare vedere a nessuno…’”. Beppe Grillo è davanti ai deputati, in veste di garante del Movimento 5 Stelle. E una garanzia, sì, la dà: il mestiere dell’imitatore gli riesce ancora benissimo. La platea scoppia a ridere, l’applauso esplode fragoroso. Pane per i suoi denti. E infatti va avanti: “Me lo ha portato così, ai primi di giugno, tutto scritto in avvocatese: ha preso il nostro statuto e lo ha messo da parte. Era leggermente diverso da quello che mi aspettavo: allora ho segnato tutte le cose che non mi stavano bene”. È lì che allontana i fogli da sé e li mostra agli uditori rapiti: “Guardate: le parti in nero sono le sue, quelle in rosso le mie”, ghigna, sfogliando le pagine che sono un tripudio di sottolineature vermiglie di fronte ai deputati piegati in due dalle risate.
Ma sì, è il solito Beppe, si ripetono tra loro. “Solo chi non lo conosce può stupirsi di sentirlo parlare così”. C’è chi prende appunti, chi gongola perché Conte non l’ha mai digerito, chi ha gli occhi lucidi perché “adesso Giuseppe non può fare altro che farsi il suo partito”. Ma la stragrande maggioranza non si rende conto che sta assistendo alla pubblica gogna di quello che è in corsa per diventare il loro capo. E che probabilmente non lo diventerà più. Battute, dicono. Perché al solito Grillo è bravissimo a mischiare l’alto e il basso, a darsi del “visionario” e del “ragioniere” nel giro di due frasi, a dire che vuole “rafforzare” il nuovo capo e a ricordargli subito dopo che lui, il garante, “non è un coglione”: “È Conte che ha bisogno di me, non io di lui”.
Non poteva andare peggio, per chi aspettava la rifondazione guidata dall’ex premier, questo pomeriggio romano. Grillo è voluto venire in trasferta, dopo aver lungamente discusso con Conte di tutti i punti del nuovo statuto che non gli andavano a genio. A cominciare dalla comunicazione, che resta il tasto dolente per chi vuole tenere le redini del potere M5S, sin dai tempi della sua fondazione. Grillo spinge per dare un incarico alla persona che attualmente gestisce il suo blog, la cantautrice Nina Monti; Conte chiede che il nuovo partito si faccia sentire con una voce sola: “Erano previste due comunicazioni diverse – ha sbottato ieri Grillo in assemblea –, ovvero che io non parlassi a nome del Movimento. Ma io c’entro eccome con la comunicazione! Rocco Casalino è bravissimo sulle tv, ma deve rapportarsi anche con me, non solo con il capo politico”. Non ha digerito, il fondatore, che nella bozza di statuto scritta da Conte ci fosse scritto che il garante andava “informato”, “sentito”. No, no, dice: “Le cose si decidono insieme, tante altre cose si devono votare. Come il vincolo dei due mandati, io e Conte la pensiamo diversamente, ma decideranno gli iscritti”.
La sintesi è identica per molti: “Beppe ha in mente una diarchia, Giuseppe una monarchia”. Due forme di governo inconciliabili, che nella testa di Grillo – che il Movimento lo ha fondato con Gianroberto Casaleggio – devono armonizzarsi con “la storia” dei Cinque Stelle. “Conte non la conosce – lo asfalta “l’elevato” – è per questo che gli ho detto che deve studiarla”.
Non ha pietà, l’ex comico. Nemmeno quando decide di presentare lui, anziché attendere il nuovo capo, il simbolo che porterà il Movimento alle prossime elezioni. C’è scritto “2050” e Grillo se lo intesta: “Io sono un visionario, per pensare al 2050 serve una visione e Conte non ce l’ha”. Non si cura di rimangiarsi le scelte di pochi mesi fa: “Cingolani se continua così è un bagno di sangue…”, tuona nei confronti del ministro della Transizione ecologica in nome del quale ha chiesto ai 5Stelle di dire sì al governo Draghi. Va giù pesante anche con chi sedeva a Palazzo Chigi insieme a Conte: “Abbiamo avuto dieci ministeri e non siamo riusciti a fare un granché”. Ne elogia solo uno, Luigi Di Maio, “uno dei ministri degli Esteri più bravi della storia”. E anche questo, notano i più, è un altro affondo a Conte, se non altro perché mette pubblicamente in competizione l’ex capo con quello che dovrà venire. Perché l’assurdo, in tutto questo, è che Grillo è davvero convinto che Conte, il capo, lo potrà ancora fare: “Ci vorranno altri tre o quattro giorni – promette ai parlamentari – poi presenteremo insieme il nuovo Statuto”.
Dopo lo sfogo con i deputati, usa toni meno apocalittici con i senatori. E quando esce da Montecitorio prova subito a mettersi in contatto con lui, lo chiama per rassicurarlo. “Io gli posso essere molto utile – ripete ai suoi –, lo deve capire: questo è il suo momento, ma il Movimento ha bisogno di tutti e due”. I parlamentari, prima che uscisse dalla sala, hanno provato a fargli qualche domanda. Lui ha preso in mano il telefono, mimando una chiamata urgente e se n’è andato via.
Il fondatore affondatore
Ci eravamo quasi riavuti dallo choc per la rivoluzionaria affermazione di Draghi “Lo Stato è laico” e già pregustavamo le successive, tipo “La pioggia è bagnata”, “Il ghiaccio è freddo”, “Per vedere la tv bisogna accenderla”, “All’Equatore fa decisamente più caldo che al Polo Nord”, “Meglio una donna giovane e bella che una vecchia racchia”, quando siamo stati folgorati da un’altra frase che definire sorprendente è riduttivo: “Lo statuto di Conte è diverso dal nostro”. L’ha detta ieri Grillo nel suo monologo ai parlamentari 5Stelle, sottolineando non a caso che “io sono un visionario e Conte no”. Solo un visionario, infatti, poteva notare che affidando a Conte il compito di guidare e rifondare i 5Stelle, lo statuto dei 5Stelle sarebbe stato diverso da quelli dei 5Stelle guidati da Grillo e da Di Maio. Se fosse stato ancor più visionario, Grillo l’avrebbe previsto già il 28 febbraio, quando convocò Conte e gli altri big per chiedere al primo di fare il capo politico e di riscrivere lo statuto. Ma evidentemente in quei giorni aveva già esaurito le visioni con Draghi e Cingolani, scambiandoli per grillini della prima ora e mandando il M5S al macello nel governo più restauratore mai visto (a proposito di chi “sa cosa sono i 5Stelle” e di chi se l’è scordato).
Ma il sospetto è che in quel caso, più che di visioni, si trattasse di allucinazioni. E che la sindrome persista, almeno a leggere altre perle di saggezza del visionario. Tipo che “è Conte ad avere bisogno di me”. In che senso un affermato avvocato civilista e docente universitario divenuto in tre anni il politico italiano più popolare, il premier che ha affrontato la pandemia e ottenuto il Recovery Fund, quello che ha risolto i casini altrui con Casaleggio, avrebbe bisogno di Grillo, è un concetto che sfugge ai più. Ma qui, più che di visioni, è questione di vocabolario. Cosa intendeva esattamente Grillo quando chiese a Conte di fare il capo politico, visto che ora pretende di decidere al suo posto la linea politica, la segreteria e la comunicazione? Ha presente la differenza tra capo politico e prestanome, portaborse, badante? L’affermazione “non sono un coglione”, detta dall’interessato, vale quel che vale. Ma qualunque capo politico accettasse di farsi dettare la linea politica, la segreteria e la comunicazione da un altro non sarebbe un capo politico: sarebbe un coglione. Come se ne esce? In due soli modi. 1) Gli eletti e gli iscritti ai 5Stelle votano sulla nuova piattaforma (“uno vale uno”) per decidere chi fa il capo e chi fa il coglione. 2) Conte si grillizza per un giorno, manda tutti affanculo e se ne torna a fare l’avvocato e il professore, dopo quattro mesi di volontariato senza stipendio, riconsegnando i 5Stelle a Grillo: è lui che li ha fondati, è giusto che sia lui ad affondarli.