Livio, l’editore del secolo breve che amava (e temeva) PPP

“Una volta Alain Elkann lo chiama per un’intervista. Gli chiede: ‘Mi racconta quello che ha fatto?’. Livio risponde: ‘Se lei non sa quello che ho fatto, abbiamo finito la conversazione, buongiorno’. E interrompe la telefonata”. Questo era Livio Garzanti, il grande editore milanese, nel ricordo della terza moglie Louise Michail Garzanti. Era l’editore che diceva di Italo Calvino: “Era difficile per me, e credo per tutti che non gli fossero molto vicini, avere un confronto con un tale uomo, potevo sentirne solo l’autorità e immaginare il segreto di una sensibilità nascosta”.

Garzanti pubblicò Pier Paolo Pasolini e Carlo Emilio Gadda, Mario Soldati e Paolo Volponi, Una questione privata di Beppe Fenoglio, Goffredo Parise e Claudio Magris, la Storia del pensiero filosofico e scientifico di Ludovico Geymonat, la collana “Grandi Libri” dedicata ai classici della letteratura, l’Enciclopedia Europea e le mitiche “Garzantine”, ma anche Love Story di Erich Segal, le avventure dell’agente James Bond-007 di Ian Fleming e Colazione da Tiffany di Truman Capote.

Morto il 13 febbraio del 2015, all’età di 93 anni, di lui ricorre il primo luglio il centenario della nascita. La casa editrice Interlinea gli rende omaggio con il volume in uscita Una vita con i libri. Appunti, racconti e interviste (pagine 160, euro 18), a cura di Louise Michail Garzanti (intervistata da Paolo Di Stefano) e con una nota di Gian Carlo Ferretti. Oltre a proporre testi di poeti, scrittori e scrittrici che lo frequentarono, da Attilio Bertolucci a Pietro Citati, a Marisa Rusconi, a Gaetano Tumiati e altri, nel libro sono presenti scritti inediti dell’editore che “ha segnato il secondo Novecento italiano”. Si tratta di carte private conservate da Louise Michail Garzanti e di documenti custoditi dallo stesso Livio “nel segno della memoria: testimonianze su autori da lui pubblicati e conosciuti, appunti vari sulle origini dell’impresa editoriale ereditata dal padre, note personali di lettura, un diario del tempo della guerra e testi creativi”.

Ne viene fuori il ritratto composito di un intellettuale del secolo breve, davvero un Grande Borghese, che non si limitò a stampare libri spesso con intuizioni geniali, coniugando con sapienza, cultura e mercato, ma che, a sua volta, ne scrisse (da L’amore freddo ad Amare Platone). Il suo talento narrativo e il suo spirito critico, impertinente, mai conformista, emergono già nell’inedito diario giovanile sul 25 luglio e sull’8 settembre del 1943, pubblicato nel volume di Interlinea. In un Paese come l’Italia che, pur essendo stato fascista fino all’arresto di Mussolini, dopo il 25 luglio si era scoperto all’improvviso antifascista, il giovane Garzanti annotava lucidamente, con onestà: “Per diversi giorni si ripetono articoli di fondo e si continua a celebrare l’amor patrio, si insiste che il dovere è di unirci attorno alla bandiera, si osanna la libertà, ma si dice che la libertà bisogna conquistarla, saperla rispettare, non abusarne; tutte belle parole in cui diversi nomi del vecchio giornalismo, o del mondo intellettuale rimasto per vent’anni nel silenzio, fanno esercizi di retorica o tentano di esprimere onestamente il tema che l’orgia antifascista minacci di travolgere il Paese, sono temi gravi, che contrastano col resto dei medesimi giornali”.

Forse era un uomo, come rammenta Gian Carlo Ferretti, che sapeva essere al contempo freddo e passionale: un ossimoro, insomma. Eppure, rievocando Pasolini e la sua morte, Livio Garzanti scrisse: “Sono passati trent’anni, tutto il nostro mondo è cambiato. Ho perso la memoria di molti suoi scritti. Me ne rimane dominante come in un mito la sua figura, il ricordo vivo del nostro ultimo incontro, la memoria di un gesto pochi giorni prima della sua morte che pone, simbolico, la fine di un capitolo, credo il migliore della mia vita. E una domanda mi resta: quale fu la ragione di una amicizia nostra, penso per diversi motivi reciproca? Ma, forse da parte mia c’era il non aver mai voluto essere un interlocutore”.

C’è “Vita Supernova” a Torino: il Salone del Libro torna in presenza in autunno

Il Salone del libro di Torino torna finalmente ad animare la scena culturale con grandi ospiti per “ripartire ragionando insieme sulla nuova vita che ci aspetta”.

La XXXIII edizione – intitolata Vita Supernova in omaggio al settecentesimo anniversario della morte del sommo poeta – spalancherà le porte del Lingotto dal 14 al 18 ottobre. Il titolo evoca un’esplosione stellare a tal punto abbacinante da sprigionare una potenza che illumina. O che distrugge: Il Pianeta e l’uomo, con un focus sui 17 obiettivi dell’Agenda 2030, saranno infatti tra i protagonisti del fervido dibattito che animerà per cinque giorni il capoluogo piemontese. Il Salone “come un’istituzione che lavora 12 mesi l’anno” è stata la grande sfida che ha permesso di sopravvivere alle restrizioni: “Siamo andati online, abbiamo lavorato con librerie, scuole, biblioteche”, spiega il direttore Nicola Lagioia.

Il palinsesto prevede la partecipazione dei più importanti scrittori della scena nazionale e internazionale. Saranno presenti Stefania Auci, trapanese, già all’apice delle classifiche con I Leoni di Sicilia e ora con il seguito L’inverno dei Leoni (Nord), parte conclusiva della saga dei Florio, e Domenico Starnone con Vita mortale e immortale della bambina di Milano, prossimamente in libreria per Einaudi. Non mancherà la scrittrice francese Valérie Perrin, autrice dei best-seller Il quaderno dell’amore perduto, Cambiare l’acqua ai fiori e – quasi scontato – Tre, in arrivo sempre con e/o. Parteciperà anche l’autore del romanzo che ha profetizzato l’arrivo della pandemia Spillover (Adelphi), David Quammen, che nel frattempo sta preparando un libro ad hoc sul Covid-19. Dagli Stati Uniti è prevista anche la partecipazione di André Aciman, l’autore di origini egiziane di Chiamami col tuo nome, che con Guanda sta per pubblicare Mariana.

Sul fronte ispanoamericano il Salone accoglierà gli scrittori spagnoli Javier Cercas, con il suo ultimo giallo Indipendenza, e Alicia Giménez-Bartlett, un’eccellenza mondiale del genere poliziesco che ha conquistato anche la tv italiana con Petra. Dall’Argentina poi è atteso Alan Pauls, che presenterà on Sur La metà fantasma.

Tra i big ci sarà la giornalista e scrittrice Ece Temelkuran, che per la Cnn ha svelato al mondo la Turchia di Erdogan e, con La carezza della memoria (Bompiani), un Carlo Verdone inedito ripercorrerà i momenti salienti della sua vita. Si attende in collegamento anche Jeff Kinney (Il Castoro), con il quindicesimo volume del Diario di una schiappa: Colpito e affondato!

L’importanza di chiamarsi Einaudi

L’immagine è volutamente sfuocata e ritrae il compositore Ludovico Einaudi e il suo cane, in una abituale passeggiata nel suo buen retiro delle Langhe. È il manifesto del suo tour estivo tra parchi nazionali, laghi, altipiani incontaminati, all’alba o al tramonto. Tredici date confermate in partenza il 21 luglio da Bardonecchia passando dal Parco Reale della Reggia di Caserta per concludersi l’11 agosto a Otranto (alle sei di mattina). L’artista ha da poco pubblicato Cinema, una raccolta di brani composti per il grande schermo, con due inediti. Ludovico è nipote dell’ex presidente della Repubblica e figlio dell’editore Einaudi; una bustina di tè immersa nella cultura, ha trovato terreno fertile: “Ho ereditato la parte musicale da mio nonno materno, compositore e direttore d’orchestra. Non l’ho mai incontrato poiché era emigrato in Australia durante il Fascismo per ragioni politiche. Tutto di lui mi è arrivato attraverso mia madre che suonava il pianoforte a casa. Il nonno paterno era un personaggio affettuoso ma con carattere piemontese chiuso e riservato”.

Ha dichiarato: “Un buon maestro è quello che promuove la natura specifica di ogni allievo”.

Parlavo del mio istruttore di pianoforte: non assecondava mai il mio essere. Mi sentivo frustrato e poco compreso.

Quale è stato il suo primo approccio su un palco?

Intorno ai dieci anni suonavo la chitarra, grazie alle mie sorelle maggiori che mi hanno introdotto a Beatles, Stones, Dylan, Hendrix. Sono passato al jazz verso i vent’anni, mi esibivo con i classici di Miles Davis, periodo Bitches Brew. Poi ho studiato con Berio: con lui si spaziava anche nell’avanguardia.

Un mèntore.

Sì e con cultura vasta, un umanista. Era interessante vedere come trasformasse in musica letteratura, filosofia, scienza. Mi ha aiutato ma avevo capito che avevo bisogno di un mio mondo musicale e col tempo l’ho trovato.

Ha creato musica per 80 film, raccolti nel suo album: è forse l’unico italiano sulla scia di Morricone.

Prima della pandemia tenevo 150 concerti l’anno e nel tempo libero scrivevo un album. Il cinema è qualcosa di speciale, mi entusiasma ma le tempistiche non dipendono da te e i ritmi sono serrati.

Artista classico più ascoltato in streaming di tutti i tempi. Quali sono i paesi nei quali ha più successo?

Il primo è stato l’Inghilterra, l’ultimo la Francia. Poi la Germania e il resto dell’Europa, la Russia con una fanbase forte, la Cina sold out, il Giappone e la Corea.

Il prossimo Tour sarà in armonia con la natura.

Durante il lockdown la natura ha ripreso a respirare; pensavo servisse di lezione per una ripartenza più meditata e rispettosa invece vedo superficialità. Vederla trasformata in peggio mi accalora, non ho esitato a fare il progetto con Greenpeace: ho suonato nell’Artico e mi sentivo un cavaliere della musica.

Bowie durante la registrazione di Blackstar ascoltava i Boards Of Canada…

Il loro suono è qualcosa d’immenso; superata la frontiera entri in uno spazio che non di nessuno, libero e apolide.

Experience è viscerale, sembra sfiorare una dimensione spirituale.

Si cerca di far andare nella direzione giusta alcune frequenze per creare un vortice più grande di quello che volevi ottenere. All’inizio non mi sono accorto della potenza. Oggi ha una grande sinergia con il mondo.

Ha scritto: “Bach, genialità pura”…

È come se lui fosse sempre dentro quella zona di perfezione e spiritualità. Solo la musica è in grado di trasportare l’uomo in un’altra dimensione per elevarne lo spirito: vuoi condividere la stessa gioia. Magari anche chi lavora la terra trova la sua dimensione, io lo faccio attraverso il suono.

Da poco è mancato Franco Battiato.

L’ho conosciuto ai tempi di Come un cammello in una grondaia. Ero andato a un suo concerto con pianoforte e quartetto d’archi: aveva creato con la sua strumentazione qualcosa che non avevo colto prima, molto più emozionante degli album pop.

Ha una figlia che prosegue le sue orme, la preoccupa?

L’ambiente musicale è un mondo difficile: se non ti gratifica può essere molto duro.

Ha come hobby la foto…

È la stessa passione di mio padre: mi regalò una macchina che usavano i fotoreporter negli anni Sessanta. Uso solo pellicola. È una specie di meditazione per me.

Eleanor Roosevelt, first lady con la forza da presidente

Pubblichiamo parte della prefazione al libro di Rossella Rossini su Eleanor Roosevelt

Con il libro che Rossella Rossini ha dedicato a Eleanor Roosevelt mi sono incontrato come con un amico.

Eleanor Roosevelt è la protagonista di una mia primissima vita americana, quando, poco più che ventenne, andavo a cercare e a scoprire il mondo che aveva cambiato il mondo. L’antifascismo era per me fondamentale e il mito (prima di tutto l’esperienza) della Resistenza aveva una radice profonda nel luogo che andavo a scoprire e dove, inviato da Adriano Olivetti, andavo a lavorare, cioè a interpretare la vita che avevo visto come liberazione. Da molti anni le mie letture e anche le conversazioni con Olivetti erano tutte americane.

La figura grande e diversa che aveva agganciato la nostra attenzione, fin da quando vivevamo la guerra stando dentro la guerra, era stata proprio la first lady del presidente Roosevelt. Non perché avesse quel ruolo, ma perché – come il libro di Rossini dimostra – era il caso raro (per la verità finora unico) di una intellettuale vicina al potere e di una limpida interprete contemporanea degli eventi, che sa, invoca, a momenti esige come se ne avesse il potere.

Pur essendo un giovane sconosciuto e appena arrivato come su un altro pianeta, nell’inverno del 1960, a New York, quella con Eleanor Roosevelt è stata la mia prima telefonata, la mia prima visita, il mio primo articolo (non ero lì per scrivere, eppure è cominciato così), il mio primo filo di rapporto personale e politico.

C’erano alcuni precedenti. Ne cito uno. Un giorno, il 12 aprile 1945 – la Liberazione era vicina, non era ancora arrivata – ho visto scritto con vernice nera a caratteri grandissimi sulla mia scuola “è morto un porco”. Era l’annuncio fascista della morte di Franklin Delano Roosevelt, un’offesa grave e stupida dei perdenti in fuga. A me è rimasta impressa perché era l’ultimo insulto sfuggito da quel grande contenitore d’odio che era il fascismo. E ha reso fortissimo il senso di coincidenza fra antifascismo, Resistenza e America democratica.

A New York, primo giorno, ho avuto fortuna. Mi sono imbattuto quasi subito in un contatto tramite il quale chiedere un incontro alla signora Roosevelt. È stata una telefonata accogliente e gentile che è diventata l’appuntamento di una mattina, poi di un intero giorno, e infine l’invito ad andare con lei a Hyde Park, la residenza privata dei Roosevelt, a vedere stanze, carte, un piccolo museo di lettere rabbiose che accusavano il presidente di essere ebreo e un pericolo per l’America (avevano ragione i nazisti – sostenevano quelle missive – gli Stati Uniti sarebbero caduti vittime della ‘lobby ebraica’). E le sedie e le poltrone preferite da Churchill o da Re Giorgio di Inghilterra.

Ma questa narrazione (che per me è stato un dono inaspettato e ha reso possibile, con un lungo articolo, il mio primo debutto sul Mondo di Pannunzio) non deve trarre in inganno.

La parte mondana o museale dell’incontro è stata brevissima rispetto alla narrazione dei colloqui, ai commenti sulle argomentazioni politiche relative a momenti cruciali, in particolare la decisione se entrare o non entrare nella guerra odiosa, fatta di invasione, dominazione, persecuzione, sterminio, del fascismo e del nazismo. (…) Il fascismo, diceva, era stato cancellato da milioni di vite umane, coloro che del fascismo erano state vittime, e coloro che erano morti per sconfiggere il fascismo. Su questo non c’era alcuna remora da ex first lady che certe cose non può o non deve dire, né cautele da ne diplomatica.

Diceva ‘fascismo’ per indicare il fenomeno complessivo che ha travolto l’Europa e poi il mondo a partire dagli anni Venti. Le importava poco far distinzioni sul nazismo o farne una questione di tedeschi e di italiani. Vedeva quel punto della vita europea (l’Italia, i fasci) dove tutto era cominciato, per dilagare subito, in tanti modi, in Europa.

Non era la moglie intelligente che si fa portatrice e divulgatrice dei valori di un marito ormai celebre. Da donna era gentile. Da militante era chiara e detestava le ambiguità. Le parole ‘progressista’ e ‘conservatore’ per lei dividevano il mondo. Non le sembrava possibile tornare indietro (la vera missione dei conservatori) visto che prima c’erano schiavitù, povertà e persecuzione. E dai progressisti esigeva moderazione, perché le sembrava impossibile la prepotenza per una buona causa.

Eleanor Roosevelt era una intellettuale che sapeva giudicare e progettare e vedeva le alternative e le trappole della storia: non andò per il sottile – “è stata una vera e propria ondata di fascismo, la più violenta e dannosa che questo Paese abbia mai avuto” – il suo giudizio sul tristemente famoso “Comitato contro le attività antiamericane” di Joseph McCarthy.

Giornalisti, i nuovi tagli sulle pensioni Inpgi non bastano a mettere in sicurezza i conti

I vertici dell’Istituto di previdenza dei giornalisti (Inpgi) si giocano l’ultima carta per evitare il commissariamento con una manovra lacrime e sangue, che comunque difficilmente riuscirà a mettere in sicurezza i conti. Ieri il consiglio di amministrazione dell’Inpgi ha approvato a maggioranza (10 favorevoli, 3 contrari) una ristrutturazione in cinque mosse che valgono però meno di 20 milioni l’anno. Una goccia nel mare, poiché nel 2020 l’istituto presieduto da Marina Macelloni ha inanellato il quarto anno consecutivo di rosso con 242 milioni di perdite.

Nel dettaglio, il piano prevede un contributo straordinario dell’1% per cinque anni sui redditi dei giornalisti attivi o pensionati. Penalizza poi fino al 7,25% le pensioni anticipate di anzianità che non saranno più legate all’età di pensionamento, ma agli anni di contribuzione mancanti rispetto ai requisiti per l’assegno anticipato dell’Inps. Prevede inoltre una stretta sul cumulo di pensione e redditi con una soglia massima che scende da 22 mila a 5 mila euro a partire dal 2022, con il taglio della pensione in caso di sforamento che non può superare la metà dell’assegno. Il piano mantiene il tetto dei 22 mila euro per i pensionati con reddito fino a 38 mila euro, la retribuzione minima del redattore ordinario Fieg. Sospende da subito tre prestazioni falcoltative: assegno di superinvalidità, ricovero in case di riposo e sussidi. Dopo un lungo braccio di ferro, il consiglio ha anche varato un’operazione funzionale alla vendita di alcuni immobili del fondo Amendola al fondo ex Hines con la creazione in una società di investimento a capitale fisso (Sicaf) controllata al 51% dalla gestione separata (Inpgi2) e al 49% da quella principale e (Inpgi1).

Secondo un’interpellanza dello scorso 17 giugno dei senatori Lannutti, Pirro, Pisani e Angrisani ai ministri vigilanti, Lavoro e Tesoro, così “i soldi dei giornalisti collaboratori andrebbero a finanziare le esigenze di cassa della gestione dei giornalisti dipendenti”. A eccezione dello stop alle prestazioni facoltative e della stretta sul cumulo pensione-reddito, le nuove misure entreranno nella fase operativa dopo l’approvazione ministeriale. Intanto il tempo stringe: a fine mese terminerà il periodo concesso all’Inpgi per schivare il commissariamento. Così, per evitare il peggio, nel decreto Sostegni Bis è spuntato un emendamento per uno scudo di altri sei mesi. È a firma del deputato Pd Filippo Sensi, giornalista già braccio destro di Matteo Renzi.

Cairo chiede fondi pubblici alle tv per sostenere La7

Un sostegno al settore televisivo colpito dalla recessione innescata dalla pandemia, anche attraverso la ripartizione di quote del canone Rai. Lo ha chiesto il patron di La7 ed editore del Corriere della Sera, Urbano Cairo, in un’intervista all’Ansa: “È stato un anno e mezzo molto duro e così come hanno avuto ristori altri settori, sarebbe giusto che avessimo anche noi un sostegno. Il cinema ha il tax credit al 40%, non vedo perché non ci debba essere la stessa attenzione per le produzioni televisive”. Secondo Cairo “La7 è indiscutibile che faccia servizio pubblico. Durante la pandemia non solo non abbiamo chiuso alcun programma ma abbiamo aumentato il tempo dedicato all’informazione. Credo che sarebbe giusto tenerlo in considerazione e dare anche a noi una piccola quota di un canone che è comunque molto ricco. Un settore importante come quello televisivo, con molti occupati, che ha un importante impatto sull’economia anche attraverso la comunicazione che le aziende fanno in tv, meriterebbe maggiore attenzione”, ha concluso l’editore.

Mosca spara sul Defender inglese

Pallottole e bombe, ma anche smentite e accuse, tra le onde del Mar Nero. Mosca dice di aver esploso colpi d’avvertimento contro il cacciatorpediniere britannico Defender quando la nave militare ha violato le acque territoriali russe lungo le coste al largo della Crimea. Londra invece nega: “Non riconosciamo la versione fornita da Mosca”.

L’agenzia statale russa Interfax, citando il ministero della Difesa russo, ha riferito che l’incidente ha avuto luogo ieri nella zona di Capo Fiolent, al largo della Crimea, annessa alla Federazione russa nel 2014. Prima le pallottole, poi le bombe. Alcuni spari contro il cacciatorpediniere sono partiti da una motovedetta della guardia di frontiera russa, ma quando l’equipaggio britannico non ha reagito è stato usato l’esplosivo: un Su-24, aereo di combattimento della Marina di Mosca, avrebbe lanciato quattro bombe a frammentazione lungo il percorso della nave per deviarne la rotta.

Mentre il Cremlino convoca l’ambasciatore britannico a Mosca, il Regno Unito, dopo un silenzio iniziale, replica che nessun colpo ha raggiunto il vascello della Royal Navy, allontanatosi da un altro gruppo di navi che si trovavano nel Mediterraneo per portare a termine una missione nel Mar Nero. Si trattava di “un innocente transito nelle acque territoriali ucraine, in conformità con il diritto internazionale” ha detto Ben Wallace, ministro della Difesa inglese, che ha riferito che il Defender proseguiva a spostarsi lungo il corridoio commerciale che da Odessa, Ucraina, arriva in Georgia. Il cacciatorpediniere, in precedenza stazionato al porto di Odessa per stringere un accordo tra Londra e Kiev a favore della marina ucraina, “era intento in missioni non proprio di routine, visto che ha violato il confine russo” ha replicato l’ambasciata russa a Londra, che lo ha anche ribattezzato: “Il Defender è diventato Provocateur”. Dopo la bufera di reciproche accuse e incomprensioni tra Russia e Gran Bretagna ha parlato Kiev. Dmytro Kuleba, ministro degli Esteri, ha ribadito che “provocazioni e azioni aggressive dei russi, l’occupazione e militarizzazione della Crimea, sono una grande minaccia per l’Ucraina e i suoi alleati. Abbiamo bisogno di una nuova cooperazione con la Nato nel Mar Nero”.

Intanto stanno per iniziare le Sea Breeze 2021: la marina Usa, insieme a quella ucraina danno il via a esercitazioni navali congiunte a cui parteciperanno oltre 30 Stati. La Nato galleggia fino ai confini russi: “l’Alleanza atlantica rifiuta di considerare la nostra proposta di de-escalation e ridurre il rischio di incidenti imprevedibili”, ha detto Putin pochi giorni dopo che la richiesta inoltrata dall’ambasciata russa a Washington di fermare le esercitazioni è stata respinta.

Retorica, divisioni e perdite: la Brexit 5 anni dopo il voto

Secondo Nassim Taleb, un cigno nero è un evento con tre caratteristiche: è imprevedibile, ha un impatto enorme e viene razionalizzato arbitrariamente a posteriori. A 5 anni dal referendum che ha portato il Regno Unito fuori dall’odiata/amata Unione europea, Brexit è un giovanissimo cigno nero. La valutazione del suo impatto su politica, economia, società, status internazionale del Regno Unito è ancora parziale, ma quel referendum, concesso incautamente da David Cameron per mettere a tacere la fronda interna al proprio partito, ha avuto ripercussioni gigantesche ben oltre i confini nazionali.

Dal punto di vista della politica interna, l’onda lunga di Brexit ha ridefinito la mappa e i rapporti di forza fra i partiti britannici. Quello conservatore al governo ha raggiunto l’obiettivo, avviato da David Cameron, di assorbire la minaccia dell’Ukip, ma ci è riuscito solo assimilandone le istanze, che finite in Parlamento, hanno portato alla purga dei conservatori moderati e determinato il corso dei negoziati con l’Ue e la scelta di assecondare una hard Brexit.

Questo ha significato il passaggio traumatico dalla visione di liberismo economico e cosmopolitismo sociale di Cameron alla strategia e alla retorica populiste, protezioniste e nazionaliste dell’esecutivo Johnson; direzione premiata alle urne nel 2019, non solo con la schiacciante vittoria sul Labour ma anche con la scomparsa di fatto del terzo partito, quello Lib-Dem che nel 2010 era arrivato al governo in coalizione con i Tories e che ha scontato il suo europeismo. D’altro canto la scelta, questa imposta dalla pandemia, di accantonare l’ortodossia conservatrice in materia di spesa pubblica aprendo i cordoni del Tesoro ha tolto armi e appeal al programma laburista. Ma un mandato elettorale così netto e reiterato per una leadership decisionista e populista, sorretta da una martellante retorica anti-sistema, ha fatto esplodere le contraddizioni fra parlamento ed esecutivo, con una tendenza sempre più estrema del governo a bypassare il dibattito parlamentare, a partire dalla sospensione dell’assemblea di Westminster nel settembre 2019 poi sanzionata dalla Corte Suprema.

Che Brexit finisca per costare al Regno Unito anche la sua integrità territoriale è da vedere: ma per saziare il nazionalismo inglese ha accelerato la spinta centrifuga della Scozia, dove la leader indipendentista Nicola Sturgeon ha impostato la sua premiership sulla necessità di staccarsi da Londra per restare in Europa, e riacceso lo scontro latente fra unionisti e repubblicani in Irlanda del Nord. Proprio quello dell’Irlanda del Nord è il frutto più avvelenato, perché mette in pericolo gli accordi di Pace del 1998 di cui Europa e Usa si sono fatti garanti, e perché condiziona i rapporti con l’europeista Joe Biden, presidente di origine irlandese che ha chiarito la sua irritazione per la gestione britannica del protocollo.

Di conseguenza i rapporti con l’Europa sono sempre più tesi, improntati alla sfiducia e sull’orlo di una guerra commerciale, mentre quella legale è già avviata. Qual è finora il costo economico di Brexit? Secondo una rielaborazione dell’Ons, l’Istituto di statistica, il calo degli scambi con l’Ue è stato del 21% da aprile 2019 ad aprile 2021. Ma è una fotografia oscurata dall’impatto del lockdown, le variabili troppe per avere dati chiari. Resta l’incalcolabile: il costo sociale. Non quello in mancate risorse per il welfare, completamente stravolto dalla pandemia: il prezzo, invece, di una società divisa, diffidente, lacerata da visioni e percezioni opposte del presente e del futuro. Secondo un sondaggio dell’Università di Stratclyde, pubblicato ieri, dopo 5 anni i britannici sono spaccati esattamente a metà fra Leavers e Remainers. All’orizzonte, lo slogan di Boris Johnson, una Global Britain tutta teorica, senza per ora alcun riscontro nella realtà.

Draghi si gioca la carta del Sahel e spera nell’asse con la Francia

Il passaggio chiave che spiega la posizione italiana in Libia è quando Mario Draghi, ieri al Senato, dice: “Vi ricordate anni fa quando c’erano altri Paesi europei che ritenevano di avere una strategia nazionale e gli interessi del Paese da difendere in Libia? Non ne parlano più, anzi, stanno cercando di rivedere la loro presenza nel Sahel, stanno cercando in un certo senso di ridurre la presenza per affidarsi di più a un’azione collettiva e concordata”.

Il riferimento, nemmeno tanto implicito, è alla Francia che ha annunciato lo scorso 10 giugno di chiudere la sua missione in Sahel sostenendo una “profonda trasformazione” della sua presenza militare nella zona. Soprattutto, contando sulla partecipazione italiana prontamente ribadita ieri da Draghi e istituzionalizzata dalla nomina di Emanuela Del Re, già sottosegretaria agli Esteri M5S, quale rappresentante Ue nella regione a sud del Nord Africa. Regione strategica per il traffico di umani e quindi di penetrazione migratoria oltreché per la presenza diffusa di milizie jihadiste.

Basterà questa riappacificazione con la Francia a evitare di giocare la partita libica favorendo paesi esterni come Turchia e Russia? A Draghi non sarebbe dispiaciuto avere anche gli Stati Uniti nella partita, ma Washington non intende impegnarsi e per questo ora la parola d’ordine, come sottolineato dal ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, a un convegno del suo partito, è “rafforzare il pilastro Ue” dell’alleanza atlantica.

Al momento però il gioco è condotto da chi ha truppe sul campo e non è un caso che la Conferenza di Berlino si sia concentrata sul ritiro dei mercenari stranieri, cioè soprattutto i russi, ma anche le truppe turche. Ritiro favorito sia dal peso politico messo dagli Usa, ma anche dal contestuale accordo tra la Ue e la Turchia che beneficierà al Consiglio europeo che inizia oggi, stando alle indiscrezioni, di un bonus di 3 miliardi per contenere l’immigrazione. Sul campo va segnalato che da qualche giorno, Haftar ha ripreso a muoversi, al confine con l’Algeria, richiamato dal Consiglio presidenziale libico. Il posizionamento italiano, quindi, interessato alla stabilizzazione della Libia sia in chiave economica sia per il controllo dei flussi migratori – il ministro degli Interni libico, Khalid Mazen, ha parlato di “700 mila immigrati illegali” – punterà sull’opzione Ue. Ma questo potrebbe voler dire che occorre mettere mano alle risorse militari.

Berlino2: è la “nuova” Libia. Via i mercenari e voto libero

Si è aperta ieri la seconda conferenza di Berlino voluta dall’Unione europea e sostenuta dall’Onu sulla Libia, ma la situazione sul terreno non lascia presagire nulla di buono. L’uomo forte della Cirenaica, il generale Khalifa Haftar ha lanciato una vasta operazione militare nella regione sud-occidentale della Libia, arrivando a occupare i valichi di frontiera con l’Algeria. A Tripoli, uno scontro interno tra il presidente Mohamed Menfi e la ministra degli Esteri Najla el Mangoush ha messo in mezzo l’Italia, accusata di aver organizzato una conferenza sulla riconciliazione fra le tribù del Fezzan, nel sud del paese nordafricano, circostanza però smentita dalla Farnesina.

Il fallimento della apertura della litoranea che collega la Tripolitania alla Cirenaica, nonostante la cerimonia di apertura di domenica scorsa, è causato dal blocco messo in atto dagli uomini del generale Haftar sul versante orientale della cruciale città di Sirte. Sono due i perni su cui ruota la due giorni di Berlino, i punti delle conclusioni in tutto sono 58.

 

Primo: il ritiro di mercenari stranieri

Sulla presenza dei mercenari della società privata russa Wagner, vicina al Cremlino, e di quelli siriani inviati dalla Turchia, considerata dalla Ue e dall’Onu il vero ostacolo alla stabilizzazione del paese, dopo le iniziali reticenze Ankara e Mosca, secondo fonti Usta è stato raggiunta una prima intesa per avviare un processo di rimozione dei combattenti stranieri dalla Libia. Secondo la fonte, l’accordo non è ancora concluso ma le parti sono pronte a discutere di un ritiro progressivo di circa 300 combattenti ciascuna. Questo dopo che il ministro degli Esteri tedesco, Heiko Maas, aveva avanzato l’ipotesi di un “ritiro graduale e bilanciato”.

 

Le elezioni de l 24 dicembre e la sicurezza

Novità della conferenza Berlino2 è stata la richiesta da parte del segretario generale dell’Onu Antonio Guterres di “misure stringenti” da parte del governo transitorio libico di Abdul Hamid Mohammed Dbeibeh per raggiungere l’obiettivo di un voto “libero e sicuro”. Guterres ha invitato in special modo a “chiarire i presupposti costituzionali” e a emanare le leggi necessarie per arrivare alle urne. A precedere la dichiarazione di Guterres era stato lo stesso premier libico chiedendo a sua volta “alla comunità internazionale di aiutarci a tenere le elezioni in tempo” , considerando, ha aggiunto Dbeibeh “che i conflitti interni purtroppo continuano e il bilancio dello Stato non è ancora stato approvato e che servono maggiori sforzi per unificare le istituzioni militari” .

Il documento uscito dall’incontro tedesco di ieri, quasi perfettamente sovrapponibile alla bozza in 51 punti anticipato da Agenzianova, denominato “Zero Draft”, contiene sei sezioni divise per temi, tra cui: sicurezza, processo politico, riforme economiche e finanziarie, rispetto del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani. Le conclusioni riconoscono da una parte i progressi rispetto alla prima conferenza del gennaio 2020, dall’altra, però, si sostiene che le parti dovrebbero fare di più per “fare in modo che i risultati delle elezioni siano accettati da tutte le parti”. La bozza include anche un passaggio, seppur breve, per “sostenere la Libia nel suo sforzo di proteggere i suoi confini meridionali e controllare il movimento transfrontaliero di gruppi armati e armi”. Non solo: dovrebbe essere sollecitata anche l’istituzione di “forze di sicurezza nazionali, di polizia e militari unificate libiche sotto un’autorità civile unificata”.

 

Il fronte politico: l’unità nazionale

Nelle conclusioni si chiede “al Consiglio di presidenza provvisorio e al governo provvisorio di intraprendere ulteriori passi per riunificare il Paese” e si esorta “tutti gli attori a ripristinare e rispettare l’integrità e l’unità esecutiva, legislativa, giudiziaria e delle altre istituzioni libiche”. A Berlino per l’Italia è presente il ministro degli Esteri Di Maio. Grande assente invece è, non a caso, il ministro degli Esteri russo Lavrov.

 

I migranti: l’impegno internazionale

I partecipanti alla conferenza si sono impegnati ad aiutare le autorità libiche “a sviluppare un approccio complessivo per affrontare le migrazioni”, compresa la chiusura dei centri di detenzione.