Cingolani vuole gli inceneritori in italiano, ma è contro in inglese

Dalla lettura dei documenti di lavoro con cui la Commissione europea ha autorizzato il Piano di ripresa italiano si scopre che Roberto Cingolani soffre di quella che chiameremo “sindrome di Yasser Arafat”. Si dice infatti che il leader palestinese parlasse di “due popoli e due Stati” in inglese e di “Palestina libera dal Giordano al mare” (cioè senza Israele) in arabo. Ecco, il ministro della Transizione ecologica ha due versioni sugli inceneritori: una in italiano e una in inglese. Parlando nella lingua del sì, Cingolani s’è posto una domanda: “Mi chiedo se sia giusto impedire persino di parlare di inceneritori. C’è un po’ di stampa che ha questo atteggiamento leggermente terrorista che fa sì che tu questa parola non la puoi pronunciare”. In un’altra occasione aveva sostenuto che “l’argomento è importante, ma divisivo. La discarica deve sparire, ma per farla sparire bisogna fare qualcosa: c’è una riflessione che lo Stato deve fare sugli inceneritori”.

Nell’attesa che il ministro rifletta e dica al Paese quanti inceneritori servono, secondo lui, e in quali province, lo stesso ha inserito nel decreto Semplificazioni i “Nuovi impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili, residui e rifiuti”, ivi compresi quella per la “generazione di energia termica” (cioè gli inceneritori), tra le opere meritevoli di autorizzazione velocissima (fast track) per rispettare gli obiettivi di riduzione delle emissioni climalteranti (sic).

E in inglese? No, nell’idioma di Shakespeare il ministro è contrarissimo a bruciare rifiuti. Si legge nei Commission staff working document allegati al via libera al Pnrr italiano (e disponibili sul sito della Commissione): “L’Italia ha fornito in particolare garanzie che i suoi investimenti nella gestione dei rifiuti non contengono investimenti in inceneritori e sono previsti trattamenti biologici”. Di più: il Pnrr “prevede che l’Italia presenti una nuova strategia per l’economia circolare entro il 2022” che contenga anche “una revisione delle tasse ambientali sui rifiuti per incentivare il riciclaggio a scapito dello smaltimento in discarica e dell’incenerimento”. Ora bisogna solo capire se Cingolani governa in italiano o in inglese.

Il Consiglio di Stato salva l’Ilva. Ma ignora i dati del ministero

L’area a caldo dell’ex Ilva di Taranto resta in funzione. I giudici del Consiglio di Stato hanno annullato l’ordinanza del sindaco Rinaldo Melucci che imponeva il fermo degli impianti perché ritenuti, a distanza di 9 anni dal loro sequestro, ancora fonte di pericolo per la salute degli abitanti del capoluogo ionico. La sentenza, cui era appeso il futuro dell’impianto, era attesa da settimane.

Alla luce degli atti analizzati, si legge, si può “escludere il rischio concreto di un’eventuale ripetizione degli eventi e la sussistenza di un possibile pericolo per la comunità tarantina”. Per i magistrati di Palazzo Spada, evidentemente, non c’è alcun pericolo per chi ci lavora o vive a poca distanza dallo stabilimento. Acciaierie d’Italia, la società composta da Arcelor Mittal e Invitalia, può così continuare a produrre. E quindi a inquinare. Perché, anche se i giudici hanno spiegato che l’istruttoria non mostra “un pericolo ‘ulteriore’ rispetto a quello ordinariamente collegato allo svolgimento dell’attività produttiva dello stabilimento industriale”, una serie di recenti studi hanno invece certificato come proprio la “ordinaria attività produttiva” a Taranto sia tutt’altro che innocua.

La Valutazione del Danno Sanitario commissionata dal ministero della Transizione ecologica, ad esempio, ha certificato che se la produzione d’acciaio tornasse a 6 milioni di tonnellate all’anno, come previsto dall’autorizzazione integrata ambientale, il rischio per la salute dei tarantini sarebbe “inaccettabile”. Non solo. Arpa Puglia e le altre agenzie pubbliche che hanno condotto lo studio, hanno evidenziato la necessità di adottare “ulteriori misure finalizzate al contenimento dell’esposizione agli inquinanti considerati”.

C’è poi lo studio pubblicato il 10 maggio scorso su Nature e condotto da Roberto Lucchini, docente di Medicina del Lavoro alla Florida International University di Miami, che ha accertato come il mix tra inquinanti come piombo e arsenico provochi effetti dannosi sul quoziente intellettivo dei bambini che vivono a ridosso delle ciminiere. E Ancora: il 7 maggio, il sindaco Melucci ha inviato a diversi ministeri i risultati della ricerca presentata al convegno dell’Associazione Italiana di Epidemiologia da cui emerge ancora una volta come nei quartieri “Tamburi”, “Paolo VI” e “Città vecchia-Borgo” – geograficamente più vicini alle ciminiere – sono riscontrabili “eccessi di mortalità” sia rispetto ad altre zone della città che ad altre zone della Regione Puglia. Ed è in particolare dal confronto con i dati regionali che emerge come nel quartiere Paolo VI gli eccessi risultino addirittura “peggiorati” rispetto al passato per “quasi tutto il periodo di riferimento”. I numeri avrebbero raggiunto soprattutto per gli uomini “un elevatissimo livello”: il dato peggiore. secondo quanto scritto nel documento, è infatti “il netto aumento di mortalità negli uomini del quartiere Paolo VI, specialmente negli ultimi 2 anni, con eccessi significativi del 68 percento di mortalità”.

Acciaierie d’Italia – la joint venture tra Mittal e la pubblica Invitalia –, intanto, ha annunciato la volontà di presentare un nuovo piano per la transizione ecologica dello stabilimento: “L’acciaio verde italiano” dovrebbe essere prodotto al termine del processo di innovazione della fabbrica che sarà avviato con i partner industriali Fincantieri e Paul Wurth Italia. Non prima del 2025 e coprirà (a gas e con forni elettrici) solo un a parte della produzione.

La sentenza di ieri ha gelato le aspettative delle associazioni ambientaliste, e di fatto spalancato le porte all’ingresso definitivo dello Stato nella gestione della fabbrica ionica e al suo ruolo attivo nel processo di salvaguardia di Taranto. Il ministro allo Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, ha annunciato che “il governo procederà in modo spedito su un piano industriale ambientalmente compatibile e nel rispetto della salute delle persone” con l’obiettivo di “rispondere alle esigenze dello sviluppo della filiera nazionale dell’acciaio accogliendo la filosofia del Pnrr recentemente approvato”. Al momento, però, non si è nemmeno riuscito a insediare il nuovo cda con i tre membri indicati da Invitalia, tra cui il presidente Franco Bernabè, per i dissidi sul bilancio 2020.

La palla è nelle mani del governo che tra qualche giorno dovrà superare il primo esame: entro giugno dovrà infatti presentare al comitato dei ministri del Consiglio d’Europa il piano di interventi per adempiere alla sentenza della Corte europea dei Diritti dell’uomo che a gennaio 2019 ha condannato l’Italia per la gestione Ilva. Un nuovo piano, l’ennesimo dal 2012, che non prevede la chiusura dell’area a caldo e su cui ambientalisti e amministrazione comunale daranno battaglia: “Ho la coscienza a posto – ha detto Melucci – ho fatto tutto quello che era nei poteri per difendere la mia comunità. La battaglia continuerà finché non ci sarà un tavolo per l’accordo di programma che sancisca la chiusura dell’area a caldo dello stabilimento ionico”.

Pigiami intelligentie il sonno hi-tech

È sempre difficile raccontare il presente. Tanto per cominciare, perché il presente non esiste. E poi perché fa finta di sì. I messicani lo sanno esprimere meglio di chiunque altro: non credono nell’adesso, nell’ahora, e proprio per questo usano un diminutivo e parlano di ahorita, un adesso che è sempre un po’ più in là, che la distanza rimpicciolisce.

E per concludere, almeno per il momento, perché si può raccontare soltanto il passato. L’ha detto in modo ineccepibile, in un presente che dura da allora, il grande Manrique: Y pues vemos lo presente/cómo en un punto se es ido y acabado… (“E vediamo il presente/come un punto che è andato e finito…”). E l’ha confermato il suo miglior discepolo, Francisco de Quevedo: Ayer se fue, mañana no ha llegado./Hoy se está yendo sin parar un punto… (“Ieri è andato, domani non è arrivato./ Oggi se ne sta andando senza fermarsi un attimo…”). Ma anche, soprattutto, perché non sappiamo: io non so, nessuno sa. Ecco, ovvio, da dove viene il piacere di provarci. Negli ultimi cinque anni l’ho fatto due volte al mese. Due volte al mese ho provato a osservare certi aspetti del presente, le modalità in cui le nuove tecnologie creano nuove abitudini e viceversa. L’ho fatto sul settimanale di El País e, a volte, anche su Internazionale; ho continuato a farlo nella mia quotidianità. Volevo esercitare, in un’epoca frammentaria, uno sguardo frammentato: cercare, nei frammenti, certe costanti per tentare di scoprire dove stiamo andando. (…)

Li immagino nei loro piccoli antri, con la barba incolta, gli occhi cisposi, mentre bevono succhi rigorosamente bio o mentre sbocconcellano pizze rafferme, la musica più cool di Spotify, il pavimento un po’ sporco, lì a cercare di immaginare la Prossima Grande Cosa. Ma so che è puro pregiudizio: alcuni la cercano nelle strade più eleganti o più squallide delle loro ricche città, altri nei boschi e nelle montagne e nelle spiagge tropicali, altri sulla sedia di un ufficio pubblico dove sognano di non doversi sedere mai più. In ogni caso, al di là delle piccole differenze, l’idea che fa perdere il sonno sembra essere la stessa: di cosa li potrei convincere? Cosa gli posso dare che ancora non hanno?

Tra le cento start up europee analizzate dalla rivista Wired, le più hot del 2017, ci sono una banca virtuale che permette ai bambini di otto anni di avere carte di credito associate al loro cellulare, una dozzina e mezza che promettono di farti arrivare a casa in meno di due ore verdure biologiche o vini altrettanto bio o sushi o fiorellini o qualsiasi altra cosa – senza che tu debba fare lo sforzo di uscire –, una dozzina che ti permette di vendere o affittare o condividere una qualche forma di veicolo con o senza autista o proprietario, una mezza dozzina che ti offre la possibilità di comprare più a buon mercato o in maniera più attenta o più vicino a te, un’altra mezza che ti propone modi sempre più sofisticati di affittare o condividere abitazioni, ancora un’altra mezza che concentra offerte e domande di lavoro – e una che usa big data perché sia il sistema a scegliere a chi darlo –, due o tre che ti diagnosticano malattie in tre clic, altrettante che ti fanno fare ginnastica per evitarle, altre che aiutano le piccole attività a migliorare la propria contabilità o il loro posizionamento su Google, giochi vari, un editor di foto, un aspirante WhatsApp con un aspetto più intrigante, un consulente finanziario, un programma per migliorare l’efficacia delle pubblicità in Rete, un programma per bloccare le pubblicità in Rete, un altro per predire cosa compreranno tizio o caio, uno per trasformare il tuo cellulare nella tua chiave di casa, un altro per migliorare la resa delle coltivazioni biologiche, un altro per migliorare il rendimento degli investimenti in Borsa, un altro per migliorare l’efficacia delle comunicazioni tra superiori e subordinati, due o tre per trovare l’amore – o quantomeno per farlo, e qualcuno, di sicuro, per migliorarne la qualità. (…) I giovani startupper sognano di essere i prossimi Jobs, Zuckerberg, Bezos. Sono, di già, l’avanguardia di questo sistema che consiste nel creare nuovi appetiti. Dico, credo: il tizio che ha inventato l’ascensore aveva passato diversi anni a salire le scale; quello che ha inventato Twitter deve aver pensato che forse poteva persuadere milioni di persone a dire quello che non dicevano mai, sempre a patto di usare 140 caratteri. Dico, credo: che le invenzioni cercavano un modo per soddisfare le nostre domande; ora invece pensano a quali ci possono imporre. Non si inventa più un oggetto o un metodo; si inventa un bisogno. Tutto consiste, in sintesi, nel farsi venire l’idea che nessun altro ha mai avuto per rendere indispensabile qualcosa di cui la settimana prima non sentivi il bisogno – e offrirti il modo di ottenerla in mezz’ora. In un mondo così pieno, la chiave della ricchezza consiste nel trovare un nuovo buco. Un po’ piú in là, nel mondo che è pieno di buchi, la povertà continua a cercare di riempire quelli che già esistono. Sono due mondi, sempre più vicini, più lontani: si guardano, si minacciano, non si trovano su Facebook; qualcuno si sorprende quando si scontrano. (…)

Un’azienda americana, la Under Armour, ha appena lanciato sul mercato i suoi “pigiami intelligenti”: dicono che siano una creazione di Tom Brady, la grande star del football americano e marito di Gisele Bündchen, che ha scoperto che i raggi infrarossi inviati dalla bioceramica che usava per disinfiammare e rilassare i muscoli lo aiutavano anche a dormire meglio. L’azienda è allora riuscita a miscelare un gel di quella bioceramica nel tessuto dei suoi pigiami, rendendoli confortevoli e, pare, intelligenti. O non tanto, ma quel che conta è l’intenzione: vogliamo controllare anche quello che facciamo quando non facciamo niente che possiamo controllare. Il sonno è, in tal senso, una delle ultime frontiere. (…)

Poco tempo fa il New York Times ha pubblicato un articolo dal titolo “Il sonno è il nuovo status symbol” – e menzionava le invenzioni delle aziende più coraggiose. Anche nel sonno – in quello perso, nella sua ricerca – ci sono tonnellate di denaro. E il pigiama intelligente non è, ovviamente, l’unico a volerne approfittare. (…) Ormai esistono cuscini intelligenti quasi quanto il pigiama, lampade che ti attivano la melatonina, cuffie che ti resettano le onde cerebrali, musiche che ti cullano come una mamma ma che sono molto più pazienti, app che vegliano sul tuo sonno e lo interrompono quando gli pare o lo proteggono quando gli pare e alla fine ti dicono com’è andata e cosa puoi fare per migliorare: per diventare un trionfatore del sonno. (…) Accettavamo – finora accettavamo – che fosse un territorio misterioso, un posto in cui stiamo e non stiamo e siamo e non siamo. Conosciamo, questo sì, i suoi risultati, i suoi effetti: sappiamo che non è facile dormire bene e che, quando lo facciamo, siamo diversi. Lo sanno anche i datori di lavoro: un dipendente che ha dormito male è un dipendente che lavora male, ecco perché ai capi del personale interessa trovare modi per migliorare il sonno dei loro lavoratori. E per questo pagano, per esempio, una Fiera del Sonno come quella che ha organizzato per LinkedIn a New York una signora, Nancy Rothstein, che si presenta come “ambasciatrice del sonno”. (…) È vero che in inglese, perlomeno, le parole “sonno”, sleep, e “sogno”, dream, sono chiaramente diverse. Ma in spagnolo no, sueño sta sia per “sonno” sia per “sogno”, e che oggi il sueño di molti sia non perdere il sueño la dice lunga sui tristi sueños dei nostri tempi.

 

2020 Martin Caparros Casanovas & Lynch Agencia Literaria S.L. © 2021 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino

 

Il Pnrr è il nostro “Good bye, Lenin!”

Ce n’est qu’un début. No, per carità, non è il maggio (né il giugno) francese. È quanto sostiene il vicepresidente della Commissione Ue, Valdis Dombrovskis, su La Stampa: “Questo è solo l’inizio”. E intende il Pnrr italiano, la cui “tabella di marcia” è “un allegato di 566 pagine che elenca nel dettaglio tutti i progressi che verranno richiesti per far partire i pagamenti”. Una fabbrica di San Pietro per 68 miliardi di sovvenzioni in sei anni – il resto sono prestiti – sui quali l’Italia sarà percettore netto, se va bene, per una trentina. La cosa preoccupante è che pure i progetti, gli obiettivi intermedi, la valutazione di risultato e tutto il resto non sono che l’inizio. “Il piano approvato dall’esecutivo Ue prevede la realizzazione di ben 58 riforme” (non una di più, non una di meno) e l’impegno “ad adottare leggi annuali sulla concorrenza nel 2021, 2022 e 2023”: bilancio pubblico bloccato (anche dal ritorno del Patto di Stabilità tra 18 mesi), indirizzi politici decisi tra governo e Bruxelles e nessuno che ride quando Draghi dice agli onorevoli “il ruolo del Parlamento sarà centrale”. In sostanza si tenterà di imporre, dietro modico pagamento, la realizzazione anche di quel poco della paccottiglia ideologica degli anni Novanta – liberalizzazioni, privatizzazione dei servizi pubblici, flessibilità del lavoro, smantellamento dell’intermediazione pubblica del risparmio (pensioni e sanità su tutto)… aka “le riforme” – da cui ci eravamo salvati all’epoca. Roba, sia detto en passant, che pure gli eredi dei Chicago boys ormai sussurrano solo sotto la doccia, ma In Europa la nostalgia del decennio della Terza Via, che poi era la prima, è il vero cemento dell’establishment. In questo senso il Pnrr è un po’ il nostro Good Bye, Lenin!: in quel film un figlio amorevole faceva i salti mortali per non far sapere a sua madre, appena uscita dal coma, che il Muro di Berlino era caduto e la sua amata DDR non esisteva più; qui una classe dirigente continentale che ha collezionato ogni forma di fallimento è disposta a pagare (non troppo) per restare trent’anni indietro. La nostalgia per la propria giovinezza è un ben noto sentimento umano, non riuscire a vivere nel presente una psicosi: tra le due, la Ostalgie del film comunque era più tenera e meno pericolosa.

Marija Judina, genio al pianoforte in grado di ipnotizzare Stalin

Una lunga notte senza sonno, come ogni notte. Il vino georgiano, un bicchiere dopo l’altro, non basta più a fare da sonnifero e a dissolvere le ombre nere che ogni notte lo vengono a visitare. È l’uomo più potente della Russia, uno dei più potenti al mondo, eppure è solo nel silenzio lugubre del Cremlino. Iosif Vissarionovic Dzugasvili lascia la sua scrivania e prova a distendersi sul divano ricoperto da un vecchio Shiraz, stranamente simile a quello su cui un medico ebreo di Vienna faceva sdraiare i suoi pazienti per ascoltare i loro sogni e i loro incubi. Accende l’apparecchio radio, sintonizzato su Radio Mosca, a cui ha ordinato di trasmettere musica ogni notte, per alleviare le pene della guerra contro l’invasore nazista che è arrivato fino a cingere d’assedio per ventinove mesi la città di Leningrado. Stalin ama la musica, quella popolare della sua Georgia e quella classica dei grandi autori europei. Dalle valvole del grosso apparecchio parte l’Adagio del Concerto n. 23 K 488 di Mozart, eseguito dal vivo dall’orchestra sinfonica di Stato dell’Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche. Al pianoforte, Marija Judina. Stalin viene ipnotizzato da quell’interpretazione energica, vibrante, personalissima. Non riesce a trattenere le lacrime. Alla fine dell’esecuzione, in piena notte, chiama di persona, al telefono, Radio Mosca e chiede di avere la registrazione. Panico: quell’esecuzione non è stata registrata; ma non si può dire di no a Stalin. E allora…

Inizia così il romanzo di Giuseppina Manin, firma del Corriere della Sera, compagna di scrittura di Dario Fo in quattro libri. Il suo nuovo volume, Complice la notte (Guanda), è la storia vera di una donna famosa, ribelle e dimenticata: Marija Judina, appunto, una delle grandi pianiste russe del Novecento. Nata ebrea, si converte prima alla rivoluzione socialista, poi, delusa, al cristianesimo ortodosso. Gira nell’Urss di Stalin con un crocefisso al collo, sempre vestita con un lungo abito nero, ai piedi scarpe da ginnastica bianche, incongrue e allora del tutto inconsuete. Quello che guadagna con i concerti e con l’insegnamento nei Conservatori russi lo distribuisce per lo più ai poveri. È una ribelle. Comunista prima della presa del potere, mistica cristiana dopo l’affermazione di Stalin. Ascetica e libera di costumi, bizzarra e contraddittoria. Artista sempre, musicista, interprete al pianoforte della grande musica di Bach, di Mozart, di Beethoven, che reinventa a ogni nuova esecuzione. Ma sente il dovere di suonare anche la musica dei nuovi autori, quelli che non piacciono al regime, Stravinskij, Berg, Messiaen, perfino gli eretici dell’Occidente, Boulez, Stockhausen, Nono. È amica di tutti i ribelli, da Bachtin a Mandelstam, da Evtusenko a Pasternak. Nella sua casetta alla periferia di Mosca, in una sera grigia di nebbia e di neve, Pasternak arriva guidato dalla luce di una candela messa a segnale sulla sua finestra e lì leggerà in pubblico, per la prima volta, un brano del Dottor Zivago, che in Urss non trova editore. Per le sue idee religiose e le sue eresie musicali, la cacciano dal Conservatorio di Pietroburgo, ma poi la devono richiamare a insegnare a quello di Mosca. Prokofiev vuole lei al pianoforte quando dirige il suo Secondo Concerto per pianoforte e orchestra. Stalin non le permette di uscire dall’Urss – per questo resta a lungo così sconosciuta in Occidente – ma non permette neppure che sia perseguitata. Ricorda le lacrime di una notte senza sonno. Le ricorda fino all’ultima notte della sua vita. Per sapere come, per capire che cosa unisce quelle due notti di Stalin – niente spoiler qui – conviene leggere il romanzo vero di Giuseppina Manin, donna libera come la pianista che racconta in questo suo libro.

 

 

Censoria, la vedova di 90 anni vuole il Green pass per l’aldilà

Il fatto ha dell’incredibile, forse non è del tutto vero ma, stante l’impossibilità di accertarne la reale consistenza, tocca dare retta alle voci che corrono e riferirle come tali.

Per farla breve, pare che la palliduccia e tuttapelle Censoria Vadalà, vedova Pisarelli, di anni novanta e passa sia ormai in fin di vita. Dopo una vita passata in merceria e un altro sostanzioso lotto di anni trascorso a organizzare pesche di beneficenza e a lustrare, in compagnia, i pavimenti della chiesa grande, la suddetta Censoria si era ritirata in casa, amorevolmente assistita dalle amiche lustrapietre alle quali, pare, si debba attribuire il diffondersi della notizia di cui sopra.

Ben voluta da tutti, o quasi, il sapere che una colonna del paese, a suo modo, stia per lasciare la terra sulla quale ha ben operato per così tanto tempo, ha sollevato commenti perlopiù intrisi di fatalismo, l’ineluttabilità del destino e varianti (urca! parolaccia, cambio), variazioni sul tema.

Da incrollabile credente qual è, sempre stando alle voci, Censoria Vadalà ha voluto prepararsi come si conviene al fatale momento ottemperando alle misure prescritte quali confessione, comunione, benedizione e quant’altro. Fin qui, si dirà, niente di eccezionale.

Ma ecco la voce (fondata ?, infondata?), che ai più fa pensare di essere al cospetto dell’ennesima bugia, benché in questo caso Facebook non c’entri nulla. Pare infatti che Censoria Vadalà, dopo essersi messa in pace con l’anima, lo voglia fare anche con il corpo, ragione per la quale ha chiesto di essere dotata di Green pass. Il motivo della richiesta, dicunt, è da ricercare nella sua profonda fede nella vita oltre la vita e poiché l’altro mondo è comunque un “estero”, benché incognito, non vuole correre rischi di sorta al momento di attraversare l’ineffabile frontiera. Le solite amiche si sono prestate per soddisfare la sua richiesta ma, ahimé, ahilei, ahiloro!, dalla farmacia alla quale si sono rivolte hanno risposto sì, certo che sì, il Green pass possono rilasciarlo, però no, non ancora, manca il supporto tecnico. Ci vorrà una settimanella su e giù.

Informata, pare, sempre, che Censoria Vadalà vedova Pisarelli abbia emesso un sospiro, fatto un sorrisetto e poi chiuso gli occhi serenamente. Ma non, come si sospetterebbe, per morire. Un pisolo giusto per occupare il tempo in attesa di notizie dall’aldiquà.

 

Il M5s deve emanciparsi dal fondatore Grillo

Il fondatore a un certo punto diventa figura ingombrante per qualsiasi partito che aspiri a radicarsi nella società sul lungo periodo. La Dc e il Pci non sarebbero mai diventati partiti di massa se non avessero deposto Luigi Sturzo e Amadeo Bordiga, anche se hanno visto la luce grazie alla loro iniziativa controcorrente (Antonio Gramsci, per dire, manteneva forti perplessità sulla scissione). Lo stesso fascismo ha dimostrato capacità di perpetuarsi ben oltre la caduta di Mussolini. Allo stesso modo, per il forzaleghismo si prefigura un domani oltre Berlusconi e Bossi.

A differenza dei tanti partitini personali prosperati e decaduti nel legame indissolubile col loro fondatore, il MoVimento 5 Stelle è chiamato a fare i conti con l’anomalo ruolo di Beppe Grillo proprio perché non è mai stato solo il suo megafono. È cresciuto oltre le sue aspettative. Con alti e bassi, perdura sulla scena italiana da ben oltre un decennio. Il Fronte dell’Uomo Qualunque, per fare l’esempio opposto, si è dissolto dopo soli tre anni.

È dunque inevitabile che, in procinto di rifondarsi, e dovendo introdurre regole democratiche di vita interna funzionali a una presenza territoriale finora carente, il M5S sia costretto a fare i conti con una figura gerarchica ambigua qual è il Garante. Garante di che cosa? Ho sempre trovato fastidiosa l’ironia con cui Grillo usa autodefinirsi l’Elevato. Sopra chi e che cosa ritiene di elevarsi, tanto da rivendicare un’investitura a vita, come un monarca o un papa, sia pure travestito da giullare? So bene che ai suoi occhi il sottoscritto altro non è che un fantoccio del potere – qualche volta me l’ha scritto – ma è ai suoi sostenitori che oggi Grillo deve una risposta. Lui che ha avuto l’arditezza di definire “grillino” perfino Draghi, confidando su un senso dello humour anch’esso inevitabilmente datato.

Non a caso la questione si pone adesso nel confronto con un leader, Giuseppe Conte, che a suo tempo fu designato nelle segrete stanze, ma che nel frattempo si è conquistato nell’azione pubblica una significativa credibilità. Davvero Conte, una volta ricevuta l’investitura degli iscritti, dovrebbe lasciare a un Garante l’ultima parola sulle scelte fondamentali del MoVimento? Cercando una giustificazione a tale pretesa, ne trovo solo due, per ragioni diverse entrambe inconsistenti. La prima sarebbe la riconoscenza: il fondatore ha meriti storici che non possono essere disconosciuti, limitarsi ad accantonarlo sarebbe irrispettoso. D’accordo, ma da qui a concedergli la titolarità di un potere di veto, ce ne corre. Ancor meno accettabile è l’altra motivazione: quella, cioè, secondo cui in Grillo risiederebbero innate virtù taumaturgiche; impersonerebbe l’anima del MoVimento per il solo fatto di averlo concepito. Qui però ci addentriamo nel campo della superstizione, una sorta di infallibilità sancita per statuto. Roba d’altri tempi.

Qualcuno lo dovrà pur dire. Il numero di cittadini italiani che fanno dipendere i loro orientamenti politici da una speciale ammirazione per Beppe Grillo, col passare degli anni, si è naturalmente ridimensionato, proprio come avvenne ai fondatori dei partiti che citavo all’inizio. Votare M5S non equivale più a votare Grillo. Lui per primo dovrebbe compiacersene.

Per quanto rimanga indefinito il profilo politico, culturale e sociale di un MoVimento che si immaginò pigliatutto, ma che dall’antipolitica s’è ritrovato al governo, e che infine ha dovuto scegliere di collocarsi nel centrosinistra, le scelte strategiche con cui Conte è chiamato a misurarsi sono ormai di ben altra natura. Personalmente dubito che il M5S possa ritagliarsi un futuro da forza moderata (“liberale e moderata”, per dirla con Di Maio). Chi siano questi famosi moderati in un Paese, l’Italia, che ha visto prosperare da Berlusconi in poi l’anomala figura degli estremisti di centro, devono ancora spiegarmelo. Da Casini e Alfano, fino a Renzi e Calenda, mi pare che i partiti di centro non riescano a schiodarsi da percentuali esigue.

Se invece il potenziale del M5S continuerà a risiedere nella capacità di rappresentare come in passato una protesta radicale e l’aspirazione a cambiamenti strutturali di sistema, non sarà certo più l’icona di Grillo a simboleggiare questo spirito. La sua comunicazione risulta usurata, inevitabilmente. Semmai la brutale semplificazione che la contraddistingue, ha ostacolato fin qui l’apporto degli intellettuali e dei quadri dirigenti senza cui un partito radicato nella società va in affanno. Conte dovrà tentare un loro non facile recupero.

Tanto per cominciare, mi auguro che Conte trovi il coraggio di fare chiarezza sulla spinosa questione del Garante: in bei modi o con uno strappo, faccia lui, ma questo è un passaggio ineludibile. Quanto a Grillo, un grande uomo di teatro sa programmare anche la propria uscita di scena.

 

L’Afghanistan, il ritiro degli usa e la storica intervista a Bin Laden

“Funerali dell’alpino morto in Afghanistan. Berlusconi assente” (Reuters, 21 gennaio 2011)

“L’Italia via dall’Afghanistan.” (Agenzia DiRE, 8 giugno 2021)

2008: la Cnn rivela che rappresentanti del governo afghano e dei talebani si sono incontrati alla Mecca sotto l’egida del re saudita Abdullah. Si va verso un accordo. Un comico italiano scrive sul suo blog: “La notizia clamorosa è che il Mullah Omar ha rotto l’alleanza con Bin Laden. Se è vero, Bin Laden ha i giorni contati”. Il 3 ottobre, nello show di Bill Maher, la giornalista Christiane Amanpour rivela che Bin Laden non si nasconde in una grotta, come sostenevano i media occidentali, ma in una bella villa in Pakistan. 2009: Obama diventa presidente e dice che l’obiettivo in Afghanistan e in Pakistan è “distruggere, smantellare e sconfiggere al Qaeda”. Karzai è una sorta di sindaco di Kabul: dopo anni di guerra, il resto dell’Afghanistan è senza Stato. Gli Usa aumentano le truppe, insediano in ogni zona conquistata un avamposto del governo che tratti i capi precedenti come nemici mortali, e sperano che i locali abbraccino il nuovo ordine. Perché loro sono Capitan America, e i talebani sono l’Hydra. Ma finché il Pakistan aiuta addestra equipaggia protegge i talebani, è impossibile sconfiggerli. Né si può fare guerra al Pakistan: ha l’atomica, è abitato da 224 milioni di persone, e ha come alleata la Cina. 2011: Obama, dimostrando un autocontrollo ammirevole, fa uccidere Osama dai Navy Seals: era in un complesso residenziale ad Abbottabad (Pakistan). 2021: Usa e alleati lasciano l’Afghanistan. È la lezione del Vietnam: una volta che le cose si mettono male, non sono destinate a migliorare. Come in una storia d’amore. Questa guerra è stata comunque un’ottima esercitazione per la Nato, nel caso si trovi in futuro ad affrontare un esercito vero. Adesso i talebani possono riprendersi il Paese e tornare a conculcare le libertà civili in santa pace, sempre che ne trovino ancora qualcuna. (5. Fine)

E vai, nella moda, con gli abiti dai colori squillanti, abolito il grigio che fa pensare ai superstiti delle Torri Gemelle. (Repubblica, 20 settembre 2001)

Amica intervista Bin Laden

Desiderio di molti, traguardo di pochi, lo stile si riconosce al primo sguardo: è individualismo, originalità, espressione del carattere. Abbiamo chiesto a un personaggio di forte personalità come intende lo stile.

AMICA: Come definiresti il tuo stile?

BIN LADEN: Un mélange di vintage anticonvenzionale con il dettaglio che fa la differenza.

Che cosa non ti sorprenderemo mai a indossare?

I pantaloni pitonati. Pratico l’arte di suggerire più che quella di esibire. Comunque, mai dire mai.

Se dovessi ridurre il tuo guardaroba a due capi, quali sceglieresti?

Un abito lungo e uno corto, per potermi poi sbizzarrire con gli accessori. Ma non ci riuscirei mai: sono famoso per le mie valigie enormi.

Di chi ti piacerebbe saccheggiare il guardaroba?

Madeleine Vionnet, la sarta che inventò il taglio in sbieco.

Se potessi godere di un credito illimitato, in quale negozio andresti a fare shopping?

Ovunque ci sia Tiffany. Ma godo di un credito illimitato dappertutto.

Qual è il segno che più ti distingue?

La semplicità. E il mio kalashnikov.

Che cosa ti fa più orrore?

Le ciccione coi leggings.

 

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Ddl Zan, con il Vaticano occorre un compromesso

“Chiediamo che siano accolte le nostre preoccupazioni”, è la conclusione del documento consegnato al governo italiano dal Vaticano in merito al ddl Zan. Quindi, se anziché dividerci ideologicamente, ci si siede, ognuno presenta i suoi emendamenti, propone proposte di modifica e riflessione e si affronta l’argomento dal confessionismo degli Stati italiani preunitari alla laicità separatista cavouriana del nuovo Regno d’Italia, dalla cosiddetta “riconfessionalizzazione” dello Stato operata con i Patti Lateranensi, all’affermarsi e proseguire di una laicità positiva, di collaborazione, con l’avvento della Costituzione repubblicana. Insomma: la vicenda storica delle relazioni tra Stato e Chiesa in Italia negli ultimi centocinquanta anni è ricostruita e sistematizzata seguendo il volgere delle stagioni con i mutamenti, ogni volta radicali, delle politiche e del diritto in materia ecclesiastica. Il “compromesso” è anche nel 2021 un fenomeno positivo, addirittura una virtù; per certi aspetti il “compromesso” è il proprium dell’arte della politica, nella misura in cui sta a indicare lo sforzo di raggiungere un risultato condiviso da una pluralità di soggetti che partono da posizioni diverse e addirittura contrapposte.

Celso Vassalini

 

Caro Celso, lo Stato italiano non deve fare alcun compromesso con altri Stati sulle proprie leggi. In Italia decide il Parlamento italiano, punto.

M. Trav.

 

Diritti ai gay: la politica cambia, ma il Vangelo no

Un compromesso sulla legge Zan è il minimo che si possa chiedere. Non si può pretendere che la Chiesa cattolica cancelli alcune pagine del Santo Evangelo che naturalmente hanno una natura esclusivamente maschilista. Che io sappia tutte le religioni, se non lo sono ancora adesso, perlomeno maschiliste lo sono state in passato. E poi non è questione solo di religioni, è la società che è cambiata. Basta pensare al caso Pasolini espulso dal Pci per “indegnità”. Sono abbastanza anziano per ricordare la posizione degli ecclesiastici, dei ricchi e dei poveri appartenenti a tutte le idee politiche, cinquant’anni fa sull’omosessualità. Naturalmente nessuno deve rimpiangere quei tempi in cui era tollerata persino in qualche forma la violenza e la discriminazione, ma si deve garantire la libertà di opinione a chi non fa alcun male fisico e non offende.

Pietro Ferretti

 

Al Quirinale Zagrebelsky farebbe la differenza

Rispondo all’amico lettore Buccianti. Innanzitutto non credo che Mattarella andrà a casa perché Draghi non può lasciare la “cassa” adesso che si sta riempendo. Ammettiamo invece che sbagli e che si debba decidere per un nuovo presidente. Ebbene, l’unico candidato che veramente possa rompere con il passato e che non ha niente a che vedere con nessun partito politico è senza dubbio Zagrebelsky: capace, autorevole e senza macchia alcuna e che di sicuro potrà rappresentare il “popolo” italiano nei valori della nostra Costituzione: questo sì che sarebbe un candidato diverso, anzi diversissimo!

Raffaele Fabbroncino

 

Campania: il certificato arriva dopo il vaccino

La lettera di Vito Pindozzi sul Fatto del 22 giugno mi ha molto sconcertato, confermandomi l’idea che burocrazia è sinonimo di stupidità. Infatti, io cittadino casertano, ho ricevuto la certificazione dell’avvenuta vaccinazione al momento di lasciare la caserma Garibaldi subito dopo la somministrazione della seconda dose. Ma non basta. Alla certificazione era allegata una busta contenente, insieme con una lettera del presidente De Luca che ne illustrava le modalità d’uso, una tessera, identica a quella riportante il codice fiscale, con lo stemma della Regione Campania, completa di tutti i miei dati personali, che attestava l’avvenuta vaccinazione. Ora, al di là dell’effetto propagandistico di questo attestato, almeno nella Regione Campania c’è chi ha avuto l’idea di snellire le procedure consegnando seduta stante a ciascun vaccinato la relativa certificazione. Forse per qualcuno una cosa così semplice potrà apparire un’impresa titanica.

Michele Spirito

 

La Coca-Cola fa male, ma al calcio serve

Caro Marco, sul tavolo delle conferenze stampa dell’allenatore della Nazionale di calcio, il signor Mancini, campeggiano due bottiglie di Coca Cola. Ma l’ultima trasmissione di Report ha documentato, con dovizia di particolari, i riflessi di simili bevande sullo stato di salute. Era proprio necessario ricorrere a simili finanziatori? Come si concilia l’invito rivolto ai giovani a praticare le attività sportive, ricorrendo poi a simili bevande per dissetarsi?

Mario Querques

 

Sono in conflitto d’interessi. La Coca-Cola piace anche a me.

M. Trav.

 

Lettera “da un ragazzo”: la risposta di un lettore

Caro G.S., prima di arrenderti al responsabile delle politiche abitative del Comune di Laveno, dovresti fare l’accesso agli atti (legge 241/90) per conoscere i nominativi degli assegnatari di alloggi pubblici nel tuo Comune. Sarai probabilmente sorpreso. Buona fortuna di cuore.

F. Colombo

Fine vita “Io, medico laico, e i tanti dubbi ancora irrisolti sull’eutanasia”

 

 

Gentile redazione, l’attenzione sull’eutanasia è ritornata di nuovo nelle aule giudiziarie diventando argomento di attualità. Vorrei porvi alcune mie considerazioni, da cittadino e medico (laico), sul delicato confine tra l’inizio e la fine della vita. Sempre arduo è stato il quesito sull’inizio della vita, ma quanti si interrogano sulla sua fine? Fortunatamente, la Chiesa non se ne è mai interessata e questo disinteresse ha favorito il progresso della scienza dei trapianti, a differenza delle tecniche di fecondazione assistita o dell’aborto, che cozzano contro il dogma dell’“animazione”, sancito nel 1869 da Pio IX nell’Apostolicae sedis. A questa conclusione si è giunti dopo che sulla spinosa questione si erano espressi tutti i maggiori studiosi cristiani, da Tertulliano a Sant’Agostino, fino a giungere a Sant’Alberto Magno, che candidamente asseriva che il maschio possedeva un’anima dopo 40 giorni dal concepimento, mentre la donna dopo 90, e San Tommaso d’Aquino, che sosteneva la tesi dell’“animazione ritardata”, prima della nascita, ma molto tempo dopo la fecondazione. Non mi dilungo perché vorrei invitare a meditare sul preciso momento della morte. Pochi sanno che il cuore adoperato per un trapianto è perfettamente pulsante, anche se il vecchio proprietario ha il cervello che non funziona più (elettroencefalogramma piatto). Una situazione identica a tanti ricoverati da anni, senza speranza, nei nostri centri di rianimazione, anche loro con il cervello distrutto, ma con un cuore o i polmoni malandati che non interessano per un trapianto. Se a questi soggetti asportassimo il cuore senza utilizzarlo sarebbe eutanasia? E come mai non lo è se l’organo serve per un trapianto? Alcune cellule resistono alla mancanza di ossigeno più delle altre, ad esempio le cellule pilifere vivono fino a 6 giorni dopo la morte ufficiale, anche dopo il seppellimento del corpo. In caso di morte traumatica in un giovane è impressionante, vegliando il cadavere, scoprire che al mattino ci vorrebbe il barbiere. La delicata linea di confine tra l’inizio e la fine della vita mal si presta a essere delineata con precisione: la risposta unicamente biologica non può soddisfare pienamente. Una verità difficile da accettare per il laico, che non voglia travalicare nella scienza come dogma. Un argomento che diverrà sempre più scottante e che ha costituito per oltre cinquant’anni per il sottoscritto, come medico e come libero pensatore, oggetto di studio e riflessione, senza speranza ormai di una risposta soddisfacente e definitiva.

Achille della Ragione