È sempre difficile raccontare il presente. Tanto per cominciare, perché il presente non esiste. E poi perché fa finta di sì. I messicani lo sanno esprimere meglio di chiunque altro: non credono nell’adesso, nell’ahora, e proprio per questo usano un diminutivo e parlano di ahorita, un adesso che è sempre un po’ più in là, che la distanza rimpicciolisce.
E per concludere, almeno per il momento, perché si può raccontare soltanto il passato. L’ha detto in modo ineccepibile, in un presente che dura da allora, il grande Manrique: Y pues vemos lo presente/cómo en un punto se es ido y acabado… (“E vediamo il presente/come un punto che è andato e finito…”). E l’ha confermato il suo miglior discepolo, Francisco de Quevedo: Ayer se fue, mañana no ha llegado./Hoy se está yendo sin parar un punto… (“Ieri è andato, domani non è arrivato./ Oggi se ne sta andando senza fermarsi un attimo…”). Ma anche, soprattutto, perché non sappiamo: io non so, nessuno sa. Ecco, ovvio, da dove viene il piacere di provarci. Negli ultimi cinque anni l’ho fatto due volte al mese. Due volte al mese ho provato a osservare certi aspetti del presente, le modalità in cui le nuove tecnologie creano nuove abitudini e viceversa. L’ho fatto sul settimanale di El País e, a volte, anche su Internazionale; ho continuato a farlo nella mia quotidianità. Volevo esercitare, in un’epoca frammentaria, uno sguardo frammentato: cercare, nei frammenti, certe costanti per tentare di scoprire dove stiamo andando. (…)
Li immagino nei loro piccoli antri, con la barba incolta, gli occhi cisposi, mentre bevono succhi rigorosamente bio o mentre sbocconcellano pizze rafferme, la musica più cool di Spotify, il pavimento un po’ sporco, lì a cercare di immaginare la Prossima Grande Cosa. Ma so che è puro pregiudizio: alcuni la cercano nelle strade più eleganti o più squallide delle loro ricche città, altri nei boschi e nelle montagne e nelle spiagge tropicali, altri sulla sedia di un ufficio pubblico dove sognano di non doversi sedere mai più. In ogni caso, al di là delle piccole differenze, l’idea che fa perdere il sonno sembra essere la stessa: di cosa li potrei convincere? Cosa gli posso dare che ancora non hanno?
Tra le cento start up europee analizzate dalla rivista Wired, le più hot del 2017, ci sono una banca virtuale che permette ai bambini di otto anni di avere carte di credito associate al loro cellulare, una dozzina e mezza che promettono di farti arrivare a casa in meno di due ore verdure biologiche o vini altrettanto bio o sushi o fiorellini o qualsiasi altra cosa – senza che tu debba fare lo sforzo di uscire –, una dozzina che ti permette di vendere o affittare o condividere una qualche forma di veicolo con o senza autista o proprietario, una mezza dozzina che ti offre la possibilità di comprare più a buon mercato o in maniera più attenta o più vicino a te, un’altra mezza che ti propone modi sempre più sofisticati di affittare o condividere abitazioni, ancora un’altra mezza che concentra offerte e domande di lavoro – e una che usa big data perché sia il sistema a scegliere a chi darlo –, due o tre che ti diagnosticano malattie in tre clic, altrettante che ti fanno fare ginnastica per evitarle, altre che aiutano le piccole attività a migliorare la propria contabilità o il loro posizionamento su Google, giochi vari, un editor di foto, un aspirante WhatsApp con un aspetto più intrigante, un consulente finanziario, un programma per migliorare l’efficacia delle pubblicità in Rete, un programma per bloccare le pubblicità in Rete, un altro per predire cosa compreranno tizio o caio, uno per trasformare il tuo cellulare nella tua chiave di casa, un altro per migliorare la resa delle coltivazioni biologiche, un altro per migliorare il rendimento degli investimenti in Borsa, un altro per migliorare l’efficacia delle comunicazioni tra superiori e subordinati, due o tre per trovare l’amore – o quantomeno per farlo, e qualcuno, di sicuro, per migliorarne la qualità. (…) I giovani startupper sognano di essere i prossimi Jobs, Zuckerberg, Bezos. Sono, di già, l’avanguardia di questo sistema che consiste nel creare nuovi appetiti. Dico, credo: il tizio che ha inventato l’ascensore aveva passato diversi anni a salire le scale; quello che ha inventato Twitter deve aver pensato che forse poteva persuadere milioni di persone a dire quello che non dicevano mai, sempre a patto di usare 140 caratteri. Dico, credo: che le invenzioni cercavano un modo per soddisfare le nostre domande; ora invece pensano a quali ci possono imporre. Non si inventa più un oggetto o un metodo; si inventa un bisogno. Tutto consiste, in sintesi, nel farsi venire l’idea che nessun altro ha mai avuto per rendere indispensabile qualcosa di cui la settimana prima non sentivi il bisogno – e offrirti il modo di ottenerla in mezz’ora. In un mondo così pieno, la chiave della ricchezza consiste nel trovare un nuovo buco. Un po’ piú in là, nel mondo che è pieno di buchi, la povertà continua a cercare di riempire quelli che già esistono. Sono due mondi, sempre più vicini, più lontani: si guardano, si minacciano, non si trovano su Facebook; qualcuno si sorprende quando si scontrano. (…)
Un’azienda americana, la Under Armour, ha appena lanciato sul mercato i suoi “pigiami intelligenti”: dicono che siano una creazione di Tom Brady, la grande star del football americano e marito di Gisele Bündchen, che ha scoperto che i raggi infrarossi inviati dalla bioceramica che usava per disinfiammare e rilassare i muscoli lo aiutavano anche a dormire meglio. L’azienda è allora riuscita a miscelare un gel di quella bioceramica nel tessuto dei suoi pigiami, rendendoli confortevoli e, pare, intelligenti. O non tanto, ma quel che conta è l’intenzione: vogliamo controllare anche quello che facciamo quando non facciamo niente che possiamo controllare. Il sonno è, in tal senso, una delle ultime frontiere. (…)
Poco tempo fa il New York Times ha pubblicato un articolo dal titolo “Il sonno è il nuovo status symbol” – e menzionava le invenzioni delle aziende più coraggiose. Anche nel sonno – in quello perso, nella sua ricerca – ci sono tonnellate di denaro. E il pigiama intelligente non è, ovviamente, l’unico a volerne approfittare. (…) Ormai esistono cuscini intelligenti quasi quanto il pigiama, lampade che ti attivano la melatonina, cuffie che ti resettano le onde cerebrali, musiche che ti cullano come una mamma ma che sono molto più pazienti, app che vegliano sul tuo sonno e lo interrompono quando gli pare o lo proteggono quando gli pare e alla fine ti dicono com’è andata e cosa puoi fare per migliorare: per diventare un trionfatore del sonno. (…) Accettavamo – finora accettavamo – che fosse un territorio misterioso, un posto in cui stiamo e non stiamo e siamo e non siamo. Conosciamo, questo sì, i suoi risultati, i suoi effetti: sappiamo che non è facile dormire bene e che, quando lo facciamo, siamo diversi. Lo sanno anche i datori di lavoro: un dipendente che ha dormito male è un dipendente che lavora male, ecco perché ai capi del personale interessa trovare modi per migliorare il sonno dei loro lavoratori. E per questo pagano, per esempio, una Fiera del Sonno come quella che ha organizzato per LinkedIn a New York una signora, Nancy Rothstein, che si presenta come “ambasciatrice del sonno”. (…) È vero che in inglese, perlomeno, le parole “sonno”, sleep, e “sogno”, dream, sono chiaramente diverse. Ma in spagnolo no, sueño sta sia per “sonno” sia per “sogno”, e che oggi il sueño di molti sia non perdere il sueño la dice lunga sui tristi sueños dei nostri tempi.
2020 Martin Caparros Casanovas & Lynch Agencia Literaria S.L. © 2021 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino