Che il virus non ci voglia abbandonare è ormai un dato di fatto. Ci siamo rassegnati. Vorremmo una convivenza almeno pacifica, ma non siamo ancora certi di raggiungere presto l’obiettivo. Il direttore generale del ministero della Salute, Gianni Rezza, ha dichiarato: “La situazione procede molto bene e anche rispetto ad altri Paesi Ue ci troviamo in una situazione migliore perché, insieme alla campagna vaccinale, sono stati presi provvedimenti ispirati alla cautela”. Quindi gran parte degli effetti positivi sono dovuti alle misure di contenimento che, seppur lentamente, stiamo abbandonando. La campagna vaccinale non è ancora sufficiente, troppi over 60 sono ancora non vaccinati. Guardare al di là dei nostri confini non ci conforta, contagi in aumento da Gran Bretagna e Russia. L’esperienza acquisita ci insegna che ciò che accade altrove, prima o poi ci riguarderà. A non essere troppo ottimista anche il direttore europeo dell’Oms, che persino sconsiglia i viaggi. Colpevole di questo quadro preoccupante è la diffusione della variante Delta. Comparsa a gennaio in India, si è diffusa anche in Europa e oggi costituisce l’85% dei virus isolati in Russia, costituendo l’89% dei ricoverati a Mosca. In Gran Bretagna è diventata predominante. In Italia i dati riportati sono molto inferiori, non solo per un “ritardo” di diffusione, ma anche perché si cerca poco con il cosiddetto sequenziamento (mappatura genetica). Sono minacciate le nostre vacanze? Non credo. È vero che la variante Delta si sta velocemente diffondendo e non saranno le misure prese ai confini europei a proteggerci, ma è altrettanto vero che abbiamo la possibilità di difenderci con i vaccini che si mostrano ancora efficaci anche verso le varianti. Non ci resta che correre con le vaccinazioni in modo da utilizzare anche il vantaggio di tempo che oggi abbiamo guadagnato. I medici di base dovrebbero fare un’azione di responsabilizzazione verso i propri pazienti facenti parte delle fasce a rischio e dovremmo anche far capire ai più giovani che, se anche non corrono il rischio di ammalarsi gravemente, non usciranno dalle restrizioni se tutti insieme non combatteremo il virus.
Quelle parole di Bergoglio in volo da Rio
La cosa (maliziosamente) più acuta l’ha detta al nostro Lorenzo Giarelli, il professor Francesco Margiotta Broglio: “Sappiamo che la Chiesa ha al suo interno problemi enormi nel gestire i continui scandali legati all’omosessualità. Fossero rimasti in silenzio poteva sembrare che avessero la coda di paglia o fossero conniventi”. Detta da uno dei massimi studiosi dei rapporti tra Stato e Chiesa, dopo l’affondo del Vaticano contro la legge Zan, è un’osservazione che introduce nella divampante polemica un elemento di realtà che non può essere sottaciuto. A questo punto non osiamo pensare a come il satiro Stefano Disegni illustrerà nelle sue strisce sul Fatto
quella certa gaiezza curiale (un suo cavallo di battaglia) costretta a tornare nei ranghi dalla reprimenda concordataria. Anche se c’è davvero poco da ridere visto e considerato che la spallata giunta da Oltretevere rischia di affossare definitivamente in Parlamento le norme che puniscono l’istigazione alla violenza contro donne, omosessuali, trans e disabili (questi ultimi quasi sempre non menzionati).
Non a caso una domanda ricorrente riguarda la posizione assunta in proposito da Bergoglio. Che gli addetti ai lavori descrivono, ovviamente, informato della iniziativa della Segreteria di Stato, ma silenzioso. Nel tentativo, si dice, di evitare strappi tra chi nella Curia condivide e chi invece no la brusca interferenza nelle decisioni dello Stato italiano. Però, è lo stesso Papa Francesco che il 29 luglio 2013, sul volo che lo riportava da Rio, rispose sul tema ai giornalisti: “Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla?”. Sì, è lo stesso Papa Francesco che una mattina di qualche anno fa chiamò al telefono Francesco Lepore, ex sacerdote, latinista, saggista, molto attivo sul fronte omosessuale, autore di un libro inviato al Pontefice sul tormentato percorso che lo avevo condotto a lasciare la veste talare. Non fu certo una telefonata di rimprovero quella del Papa, ma anzi di apprezzamento per la coerenza e la trasparenza dimostrate, come Lepore ha raccontato a Daria Bignardi, ieri mattina, su Radio Capital. Non sarebbe bello, emozionante, giusto, se Francesco facesse risuonare di nuovo la sua voce e ripetesse, questa volta rivolto alla Chiesa di Cristo e ai suoi servi: chi siamo noi per giudicare?
Eni, 100 mln sulla strada degli amici di Bisignani
Che bella cosa l’amicizia. Oggi l’amico di Luigi Bisignani, Gianluca Di Nardo, potrebbe vedersi restituire 19 milioni e 328 mila euro. Quei soldi per il giudice di primo grado che li ha confiscati sarebbero “profitto diretto” dell’attività di corruzione internazionale svolta nel 2010 da Di Nardo e dal finanziere nigeriano Obi per la cessione all’Eni di una delle concessioni petrolifere più ricche della Nigeria.
A mettere Obi e Di Nardo in condizione di giocare quella partita allora, grazie ai suoi contatti con Eni, era stato l’amico Luigi Bisignani.
Dopo un’inchiesta penale su fatti complicati sfociata in due diversi processi contro Di Nardo e Bisignani per corruzione (condannato il primo in abbreviato nel 2018, assolto il secondo con rito ordinario nel marzo scorso) oggi la Corte di Appello potrebbe assolvere pure Di Nardo restituendogli i 19,3 milioni di cui sopra. Uno si aspetterebbe che Bisignani sia pronto a chiedere al suo amico un pegno di riconoscenza e invece, sentito dal Fatto, il giornalista amico di tanti potenti della prima e seconda Repubblica, ci sorprende: “Non mi aspetto niente da Di Nardo ma solo di tornare amici come prima. Questa vicenda mi ha allontanato da Gianluca che è un grande amico. Spero che, dopo la sacrosanta assoluzione attesa, le cose tornino come prima”.
Al Fatto che ricorda a Bisignani il suo ruolo (fu lui a mettere dieci anni fa Di Nardo e Obi nelle condizioni di guadagnare 97 milioni di euro circa, dei quali 19 girati a Di Nardo, per la mediazione, lecita secondo la sentenza del 2021, illecita secondo quella del 2018 per l’operazione di cessione della concessione petrolifera Opl245) lui replica: “Io non chiederò nulla se non di riprendere l’amicizia interrotta”.
Di Nardo vive tra la Svizzera e i Caraibi. Ogni tanto fa una puntata in Sicilia. “Non lo vedo e non lo sento da anni. Dopo la sentenza – racconta Bisignani – ho chiamato sua moglie ma io privilegio gli affetti agli affari, come direbbe Andreotti”.
Per capire quanto sia sorprendente la posizione di Bisignani bisogna spiegare cosa sta per accadere oggi. La Corte di Appello di Milano potrebbe annullare la sentenza di primo grado che il 20 settembre del 2018 ha condannato Di Nardo, 53 anni, e il suo presunto collega e complice nigeriano, il finanziere cattolico 50enne Chukwemeka Zubelum Obi, per tutti Obi. Le previsioni sono abbastanza nere per l’accusa. A marzo il Tribunale di Milano (presidente Marco Tremolada) ha assolto l’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi, all’epoca dg Exploration&Production, l’allora numero uno Paolo Scaroni, l’ex ministro del Petrolio nigeriano Dan Etete, Luigi Bisignani e altri imputati.
Mentre tre anni prima il Gup Giuseppina Barbara aveva deciso in senso opposto sulla stessa questione della cessione della concessione Opl245 dal Governo nigeriano a Eni, condannando Obi e Di Nardo a 4 anni per corruzione internazionale. In sentenza il Gup aveva statuito la confisca diretta di 94 milioni e 872 mila dollari contro Obi, mentre a Di Nardo erano stati confiscati 21 milioni e 185 mila franchi svizzeri, pari a 19 milioni e 328 mila euro.
Obi e Di Nardo avevano svolto un’attività di mediazione grazie ai loro contatti sulle due sponde: Obi era in contatto con i nigeriani al Governo e con quelli che possedevano la società Malabu Oil and Gas, titolare della concessione. Invece Di Nardo era in grado – tramite il suo amico Luigi Bisignani – di arrivare all’Eni diretta da Paolo Scaroni.
Eni non ha mai tirato fuori un euro per la mediazione dei due. I soldi di cui si parla vengono dalla società venditrice: la Malabu Oil & Gas dell’ex ministro nigeriano Dan Etete che si era praticamente auto-assegnato la concessione sulla porta mentre il suo Governo chiudeva i battenti nel 1998. Eni aveva trattato prima con Etete mediante Obi ma alla fine aveva comprato dal Governo nigeriano che a sua volta aveva ricomprato dalla società di Etete il blocco petrolifero. Dopo aver chiuso l’affare, e incassati i soldi, Etete non aveva riconosciuto l’opera di Obi. Solo dopo una dura battaglia legale a Londra il giudice Gloster nel 2014 aveva dato ragione a Obi. Così sono arrivati sui conti del nigeriano circa 120 milioni di dollari. Poco dopo il 25 aprile del 2014 dal conto di Obi partono i 21 milioni di franchi svizzeri per Di Nardo.
Oggi tutti i soldi di entrambi potrebbero essere dissequestrati. Se la Corte di Appello assolvesse Obi e Di Nardo, come ha chiesto anche il procuratore generale, e come appare probabile dopo che nel processo principale i presunti complici sono stati tutti assolti, ben 94 milioni di dollari potrebbero tornare a Obi e ben 19,3 milioni di euro potrebbero rientrare lecitamente a Di Nardo.
E Bisignani? Quando fu sentito dai pm disse: “Ci aspettavamo che Obi ci riconoscesse una parte dei compensi che avrebbe ricevuto da Etete. Io e Di Nardo avevamo comunque svolto un’attività nelle trattative e quindi ci aspettavamo un riconoscimento economico”. Bisignani è stato determinante per mettere in pista nel 2009, ai tempi del Governo Berlusconi e dell’Eni di Scaroni, il nigeriano Obi. Ora che i soldi pagati da Obi a Di Nardo tornano disponibili, perché non dovrebbe chiederne una parte?
Nel processo di primo grado Di Nardo ha giustificato il pagamento dei 19 milioni di euro con il suo sostegno finanziario a Obi per pagare i costi della causa londinese, poi vinta, contro Etete. I 19 milioni sequestrati sui suoi conti svizzeri non sarebbero frutto della mediazione (attivata nel 2010 grazie a Bisignani) ma frutto della sua ‘scommessa’ sul successo della causa vinta da Obi nel 2014. Tesi respinta in primo grado dal Gup Barbara che ha confiscato tutto. Se ora Bisignani volesse battere cassa potrebbe invocare un passaggio della sentenza Tremolada: “Le commissioni di Obi non sono affatto illecite, come affermato dalla sentenza del giudice Gloster. Altrettanto deve ritenersi per quelle che Bisignani si aspettava, di riflesso”.
Tra dichiarazioni e pizzini, il mistero dei soldi di Cosa Nostra a Berlusconi
Finora “l’odore dei soldi” scende lungo la penisola fino a oltre lo Stretto di Messina, consacrato nella sentenza Dell’Utri passata in giudicato, che ha attestato come Silvio Berlusconi abbia pagato Cosa Nostra per 18 anni, dal ’74 al ’92, in cambio di protezione e assistenza sul territorio siciliano per l’avvio dell’emittenza privata. “Finanziava Cosa Nostra negli anni in cui furono uccise decine di persone delle istituzioni – ha detto il pm della Dna, Nino Di Matteo, in un’intervista a El Paìs –. Non è una mia opinione, ma un verdetto della Corte Suprema”.
Ma sui flussi in entrata dal profondo sud siciliano alle banche lombarde e svizzere, dalle misteriose finanziarie svizzere che negli anni 70 hanno concesso al giovane imprenditore Silvio Berlusconi accesso al credito illimitato e fideiussioni per miliardi, fino alle parole del boss Giuseppe Graviano pronunciate al processo ’Ndrangheta stragista il mistero sull’origine della fortuna miliardaria dell’uomo di Arcore continua ad attivare indagini giudiziarie, finora concluse nei labirinti di prescrizioni e archiviazioni, alcune per scadenza dei termini necessari alle indagini. L’ultima ad avere avviato la caccia ai capitali oscuri, secondo quanto scritto nei mesi scorsi da L’Espresso, è la Procura di Firenze, dopo le rivelazioni (che non hanno trovato finora riscontri) in aula di Giuseppe Graviano: “Mio nonno, un facoltoso commerciante di frutta e verdura, era in contatto con Berlusconi e sono stati investiti nel settore immobiliare circa 20 miliardi di lire’’. I pm di Firenze riprendono i fili di un’inchiesta archiviata dalla Procura di Palermo dopo le rivelazioni di Massimo Ciancimino, che ai giudici consegnò un pizzino di suo padre: “Io, Berlusconi e Dell’Utri siamo figli della stessa lupa’’ scriveva don Vito, “smorfiato” dal figlio che ai giudici raccontò come i costruttori mafiosi Franco Bonura e Nino Buscemi gli avessero dato soldi da investire a Milano 2 in tre incontri a Milano, a uno dei quali disse di avere partecipato anche la moglie (e madre di Massimo) Epifania Scardino. “Mio padre mi spiegò – disse Ciancimino junior – che incontrava Berlusconi per ritirare i proventi degli investimenti su Milano 2, che poi trasferiva in Svizzera, alla Ubs di Losanna, dove teneva una cassetta e un conto bancario. Anche io, negli anni successivi, l’ho accompagnato diverse volte a Milano quando andava a incassare i guadagni dei suoi investimenti”. E non riuscì a chiarire il mistero di quei (presunti) apporti finanziari neanche la perizia affidata a un dirigente della Banca d’Italia, Francesco Giuffrida, che nel 1999 in aula al processo Dell’Utri, disse di non avere trovato un riscontro per otto versamenti avvenuti su un conto Fininvest, pari a una cifra superiore ai 90 miliardi di lire, alimentando dubbi sulla presenza di fondi occulti, sospetto che non riuscì a evitare fino in fondo neanche il consulente della difesa di Marcello Dell’Utri: “Ricordo che persino il professor Paolo Iovenitti – disse l’ex pm Antonio Ingroia – nel corso del processo fu costretto a riconoscere l’opacità di alcuni flussi finanziari”. E se Berlusconi che paga Cosa Nostra è un dato acquisito fin dai tempi di Giovanni Falcone, che aveva appuntato su un block notes a quadretti la frase: “Berlusconi dà 20 mln ai Grado (boss trapiantati a Milano, ndr) e anche a Vittorio Mangano”, una conferma è arrivata anche da Totò Riina, che nel carcere di Opera confidò ad Alberto Lorusso: “A noialtri ci dava 250 milioni ogni sei mesi”. Solo estorsione o riciclaggio?
Finora le archiviazioni non hanno cancellato l’opacità dei conti: “La scarsa trasparenza o l’anomalia di molte delle operazioni finanziarie effettuate dalla Fininvest negli anni 1975-84 – scrisse il Tribunale presieduto da Leonardo Guarnotta che ha condannato Dell’Utri – non hanno trovato smentite nelle conclusioni del consulente della difesa”. L’unico a chiarire definitivamente ogni dubbio avrebbe potuto essere lui, Berlusconi, ma a Palazzo Chigi, il 26 novembre 2002, davanti il Tribunale scelse il silenzio, avvalendosi della facoltà di non rispondere.
“Il boss De Stefano doveva avere denaro da Milano2”
Il boss Paolo De Stefano “doveva avere soldi da ‘Milano 2’, che li aveva investiti ai tempi di Bontate”. È quanto sostiene il pentito Nino Fiume, ex killer dei De Stefano, dal 2002 collaboratore di giustizia. Sono dichiarazioni prive di riscontri così come quelle del boss Giuseppe Graviano che in aula nel 2020, al processo ’Ndrangheta stragista, ha parlato dei soldi che suo nonno avrebbe dato al leader di Forza Italia per i primi cantieri degli anni 70. Ora Fiume racconta anche un’altra circostanza: il progetto “Milano 2” sarebbe stato realizzato dall’ex premier anche grazie al denaro della ’Ndrangheta e in particolare della cosca De Stefano di Reggio Calabria. È quanto emerge dal fascicolo del processo’ Ndrangheta stragista, che a luglio 2020 ha portato a una condanna all’ergastolo per Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone, accusati del duplice omicidio dei carabinieri Fava e Garofalo, nel 1994. Durante il processo il tribunale ha anche trasmesso ai pm il memoriale di Graviano per accertamenti.
C’è un filo rosso dunque che a detta di Nino Fiume collega la Lombardia al boss Paolo De Stefano, ucciso nel 1985: riguarda il legame di quest’ultimo con Stefano Bontate. Fiume in aula ricorda l’amicizia tra i due: avevano “tutti e due un orologio ‘Costantin’. Erano compari”. De Stefano quand’era al Nord “si faceva chiamare ‘il conte’, il suo sarto personale a Milano in via Montenapoleone, ‘Tincati’… parcheggiava la Jaguar, poi prendeva il Mercedes, il suo autista era un maresciallo dei carabinieri. E in questo circuito, sua moglie diceva sempre: ‘Era meglio che si metteva in società con Berlusconi’, quando dicevano che Berlusconi è un… che sta investendo nelle costruzioni. ‘Hai visto? Berlusconi si è fatto i soldi e vive’, e invece lui aveva investito soldi e non erano nemmeno tornati indietro”.
Fiume in aula ripete cosa gli avrebbe detto la moglie del boss ammazzato: “La signora Errigo aveva una lista perché doveva avere molti soldi, perché suo marito doveva fare a Milano, in Lombardia, con Cosa Nostra…”. Gli elenchi dei creditori però sarebbero stati due. Il pentito lo ha detto pure nel processo “Gotha”: “La Errigo aveva una lista di tutti i soldi che doveva avere suo marito quando lui morì. Poi aveva un’altra lista scritta in codice… ma erano soldi che Paolo De Stefano doveva avere da altre persone su Milano, collegate a quello là che aveva lo stesso orologio suo là, che è stato ucciso… gliel’avevo detto a Pignatone, mannaggia! A Stefano Bontate, perché aveva investito soldi su quando realizzare ‘Milano 2’, poi questi soldi non li ha avuti”.
Le parole di Fiume fanno il paio con quelle del pentito Roberto Moio, nipote del boss Giovanni Tegano, alleato dei De Stefano. Nel 2010 ai pm, Moio racconta che “i Papalia, i Barbaro, i Trimboli, i Marando si occupavano di narcotraffico e di appalti… avevano anche mezzi loro… all’epoca hanno fatto ‘Milano 1’ e ‘Milano 2’… i De Stefano prendevano soldi da tutti questi amici…”. ’ndrangheta stragista, l’udienza Nino Fiume, pentitosi nel 2002, ha reso dichiarazioni durante il processo ’Ndrangheta stragista. Le circostanze da lui riportate sono prive di riscontri. Intanto ieri sul “Fatto” la notizia dell’interrogatoriodi Giovanni Brusca sentito dai pm di Firenze che indagano sulle stragi
Favori ai politici, maxi-inchiesta in Sicilia. Così Girgenti Acque finanziava Miccichè
Hotel, viaggi e persino i biglietti per la finale di Champions League del maggio 2017 a Cardiff tra Juventus e Real Madrid. A beneficiarne era Gianfranco Miccichè, presidente dell’Assemblea regionale siciliana, pupillo di Silvio Berlusconi e uomo di punta di Forza Italia nell’isola, sotto accusa per finanziamento illecito al partito nell’ordinanza emessa ieri dalla Procura di Agrigento che ha portato a otto arresti. A pagare era la Girgenti Acque, concessionaria del servizio idrico di Agrigento, presieduta da Marco Campione. Per gli inquirenti, l’imprenditore si sarebbe mosso con “grande abilità e spregiudicatezza”, tessendo rapporti con “politici anche di livello nazionale” e sarebbe il promotore dell’associazione per delinquere tra 84 persone che avrebbero commesso reati contro la Pubblica amministrazione.
Tra questi, artifici contabili per occultare irregolarità economiche, assenza di depurazione delle acque, truffe nelle tariffe. Ma anche assunzioni segnalate da “politici e funzionari pubblici”, tra cui Angelo Alfano (non indagato), padre dell’ex ministro Angelino Alfano, che avrebbe chiesto a Campione di assumere persone a lui vicine. Girgenti Acque finanziò con 5 mila euro la campagna di Miccichè per le Regionali 2017, che ne raccolse altri 20 mila da Campione Industries (riconducibile a Campione) e 25 mila da Hydrotecne, società collegata alla Girgenti.
L’ultima somma però non risulta iscritta a bilancio, da qui l’accusa di finanziamento illecito. Nell’indagine è finito pure il deputato di Italia Viva, Francesco Scoma, all’epoca in Forza Italia e mandatario della campagna elettorale di Miccichè (nella foto LaPresse): per gli inquirenti avrebbe attestato un contributo di 5 mila euro, ma in realtà erano 8 mila. Miccichè, scrivono i magistrati, avrebbe “tentato di ricambiare” i favori della Girgenti Acque facendo “di tutto per candidare Campione alla Camera” nel 2018. Ma durante la stesura delle liste emersero le indagini su Campione. “Un po’ di difficoltà ci sono, ma non per il Collegio, che è libero, e non so chi metterci se non metto te”, diceva Miccichè al telefono a Campione, al quale spiegava che “gli alleati” non erano disposti a “fare tutta la campagna elettorale sugli impresentabili”. La candidatura di Campione poi saltò. Tra gli indagati anche Giovanni Pitruzzella, ex presidente dell’Antitrust e oggi avvocato generale della Corte di giustizia Ue.
Nicola è vivo Ritrovato da un giornalista Rai
Solo qualche graffio, ma in salute. Nicola, il bimbo di quasi due anni scomparso ieri nei boschi dell’alto Mugello, è stato ritrovato sano e salvo intorno alle 9 di ieri mattina in fondo a una scarpata a pochi chilometri da casa. Le ricerche avevano coinvolto oltre 200 persone tra mezzi del Soccorso alpino, Vigili del fuoco e volontari. Ma a localizzare il bimbo è stato Giuseppe Di Tommaso, giornalista Rai del programma Vita in diretta, che si trovava nella zona per seguire la storia della scomparsa. Allertati i militari, il comando della stazione di Scarperia ha recuperato Nicola nel burrone. “Nel punto in cui ho preso in braccio il piccolo – ha raccontato il luogotenente Danilo Ciccarelli – l’erba non era schiacciata e la mia impressione è che lì non avesse passato la notte”. I cani molecolari avevano già perlustrato l’area vicina alla scarpata, senza però fiutare la presenza del bambino. L’ipotesi è che abbia vagato tutta la notte, cadendo poi nel burrone: questo spiegherebbe i graffi. Ma gli elementi non hanno convinto la Procura di Firenze che ha comunque aperto un fascicolo senza indagati.
Uk come a inizio febbraio, ma non rinuncia al calcio
I nuovi casi positivi ieri nel Regno Unito erano 16.135 (su 821.585 test), un incremento del 43.9% sulla settimana. I morti 19, in aumento del 53%. I ricoveri 211 al giorno, su del 24.8%. Il contesto: circa il 99% dei casi sono ora da ricondurre alla variante Delta B.1.617.2, identificata nel Paese a metà aprile e che ha ormai soppiantato la variante Alpha individuata in Kent. Con un tasso di infettività di circa il 60% in più rispetto alla Alpha, alla Delta sono bastati due mesi per diffondersi al punto da indurre il governo britannico a rimandare di quattro settimane il ritorno alla normalità pre Covid prima fissato al 21 giugno, ma non a rinunciare alle imminenti finali di Euro 2020 come auspicato anche da Mario Draghi e Angela Merkel. Dall’India, scrive Nature, la B.1.617.2 si è diffusa in Nepal e nel Sud-Est asiatico. Secondo uno studio di Public Health England del 22 maggio, la Delta ha un resistenza moderata ai vaccini, specie dopo la prima dose: una dose singola, sia di Pfizer che di AstraZeneca, riduce del 33% il rischio di sviluppare sintomi di Covid, contro il 50% rispetto alla variante Alpha. Il ciclo completo con Az protegge fino al 60% contro la Delta (è il 66% contro Alpha) mentre la copertura di Pfizer è più alta, l’88% rispetto al 93. Il rischio di ospedalizzazione per il momento appare doppio.
E sempre secondo Public Health England, al 14 giugno i ricoveri da Delta erano stati 806 in totale, di cui 527 non vaccinati, solo 84 avevano ricevuto entrambe le dosi (ma non ci sono dettagli sulle età e condizioni preesistenti). L’82% dei britannici hanno ricevuto almeno una dose, il 60% entrambe, e il vaccino è disponibile dai 18 anni, ma appaiono fuori controllo i focolai nelle scuole, fra minorenni non coperti da vaccino e dove non ci sono efficaci misure di contenimento. E gli altri Paesi chiudono al Regno Unito: lunedì l’Italia ha imposto una quarantena di 5 giorni fino al 30 luglio; la Francia consente l’arrivo a chi ha concluso il ciclo vaccinale, previo test negativo, ma per i non vaccinati limita l’accesso a casi eccezionali e impone una settimana di quarantena. In Germania dal 23 maggio dal Regno Unito si entra solo se cittadini o residenti tedeschi o per gravi ragioni umanitarie.
“Alla Salute errori e ritardi, manca la programmazione”
Sottosegretario Pier Paolo Sileri, lei ha detto giorni fa alla Stampa che il ministero della Salute ha fatto “errori di comunicazione” su AstraZeneca. Ce lo spiega meglio?
È dall’inizio della pandemia che si fanno errori di comunicazione. Non solo al ministero. Ricorda i tamponi, specie agli asintomatici? Anche nella comunità scientifica c’era chi diceva di sì e chi diceva di no. Problemi di comunicazione ci sono sempre stati a cominciare dall’Oms, specie su problemi nuovi. Sui vaccini succede anche a livello europeo: Ema non mette limiti su AstraZeneca, alcuni Paesi dicono solo sopra i 55 o i 65 anni, Aifa fa una raccomandazione…
Ma il 12 maggio il Comitato tecnico scientifico, non il ministero, dice che si possono fare gli Open day con Az per i “volontari” 18 anni in su, nonostante la raccomandazione. E l’11 giugno Mario Draghi dice che non si possono più fare i richiami con Az agli over 60…
Non lo dice Draghi. Lo dicono Roberto Speranza e alcuni tecnici. E per gli under 60 avrebbero potuto eliminare anche Johnson & Johnson.
C’è chi dice, in privato, che non volevano danneggiare Janssen Italia, guidata da Massimo Scaccabarozzi di Farmindustria.
Non ci credo, il numero degli eventi gravi con J&J è più basso. Anche nel Regno Unito è stato limitato l’uso di Az prima sotto i 30 e poi sotto i 40 anni a causa del possibile nesso con le trombosi trombocitopeniche. Così ai primi di maggio avevo proposto di limitarne l’uso per le donne sotto i 50 anni e per tutti sotto i 30. Diverso è il discorso per la seconda dose, perché il numero di complicanze è di gran lunga inferiore. Qui è giusto lasciare libertà di scelta a chi chiede Az, secondo una valutazione del medico, pur consigliando l’eterologa. Che va bene anche sopra i 60 anni, fermo restando che i vaccini a vettore virale, Az e J&J, sono sicurissimi per quella fascia d’età. E comunque dev’esserci una ragione medica.
Sì, come ha detto e fatto Draghi su consiglio medico e, si suppone, sulla base di un test sierologico, secondo una procedura che non esiste tant’è che lei oggi ha chiesto al ministero di pronunciarsi. C’è chi chiede di fare come Draghi, ma negli hub rispondono che non è previsto. Altro errore di comunicazione?
Non so cosa abbia fatto Draghi, quali siano i motivi. Ma non è questo il punto. Il messaggio sull’eterologa è giusto.
Facciamo tutti il sierologico tra prima e seconda dose?
Non darei questa indicazione. Ma se uno vuole fare Pfizer e poi Az? Non è previsto, ma è possibile? La terza dose con Az è possibile? Devono dirlo i tecnici e il ministero deve tradurlo in atti.
Gli scienziati sono per lo più per abbandonare i vaccini a vettore virali. Sbaglio?
Non è detto che sia così, ci sono lavori che li prevedono per la terza dose, la scienza lo dirà nel tempo.
Non è ingeneroso prendersela con Speranza, bersagliato come l’uomo delle chiusure quando le chiusure ci hanno salvato, anzi semmai in autunno e poi a febbraio sono state tardive?
Non ce l’ho con Speranza, semmai con certi ritardi di parte della struttura ministeriale. E il problema non sono le chiusure: è la mancanza di programmazione. Ai primi di maggio bisognava dire che, di lì a due mesi, si sarebbero potute togliere le mascherine all’aperto: se il 50 per cento è vaccinato con una dose, se non ci sono varianti pericolose, ecc… Invece si è arrivati all’ultimo. Se io la opero e le tolgo un tumore, le dico che tra 15 giorni salvo complicazioni può riprendere progressivamente la sua vita. Bisogna guardare avanti. Per esempio dovremmo dire ora se a ottobre potranno riprendere le lezioni in presenza all’università, sempre che le vaccinazioni proseguano e non ci siano allarmi per le varianti. Ripartirà il campionato di calcio: vogliamo dire che gli stadi potranno riempirsi, non al 100 per cento, ma almeno al 25, al 50 secondo una progressione nota? Facciamo troppa navigazione a vista: un anno fa era inevitabile, con i vaccini alcune cose le puoi programmare. La programmazione delle riaperture, per me, è stata la novità positiva introdotta da Draghi.
Queste cose le ha dette a Speranza?
Certo e gliele dice anche il sottosegretario Andrea Costa. Non si può fare oggi, ma diamo una scaletta in base all’andamento delle vaccinazioni e dell’epidemia, osservando gli altri Paesi.
Non è pericoloso dare segnali di “liberi tutti”?
Allora che fai? Manette preventive? Devi educare, spiegare che c’è il rischio di morire. Certo non chiudi Roma perché tutti parcheggiano in doppia fila. Servono regole e controlli: nei ristoranti, nelle discoteche, con il Qr code. Se no diventa davvero una dittatura…
Ma, insomma, Sileri si candida a ministro della Salute?
No, mi candido solo alla sala operatoria. E ripeto il problema non è il ministro, è una parte della struttura.
Non la ascoltano?
Non dico che non ascoltano, sono spesso intempestivi. Lo dicono diversi scienziati e non da adesso. Prenda i viaggi con l’isolamento breve e il tampone: li proposi all’inizio dell’estate scorsa. O la quarantena: 14 giorni erano troppi ma ci hanno impiegato tre mesi. Altri tre mesi per i test rapidi. Altri tre per le cure con gli anticorpi molecolari. E ancora, sapevamo che il problema erano le varianti e che l’Italia era indietro con il sequenziamento, a gennaio ho promosso un consorzio di laboratori, che non è mai stato finanziato. Si muovono adesso. Purtroppo al ministero mi è successo anche che il capo di gabinetto indicasse all’allora coordinatore del Cts, Agostino Miozzo, di non considerare le mie proposte.
Puglisi, il Grande Twittatore ultimo acquisto dei Migliori
Non molto tempo fa, una banda di cretini 2.0 aveva diffuso la fake news che io mi fossi finta un controllore di volo per rispondere a me stessa in un post su un episodio accaduto in aereo. Roba che già farebbe ridere così, se non fosse che il controllore di volo esisteva col suo nome e il suo cognome e si palesò per spiegarlo ai diffidenti.
L’unico nome vagamente noto che ci credette e diffuse la fake news non mancando di sbeffeggiarmi su twitter fu tal Riccardo Puglisi, economista, professore associato all’Università di Pavia. E fin qui, direte “chi se ne frega”. In effetti non è questa la parte interessante. Quello che trovai illuminante sull’indole del personaggio è che da me invitato a cancellare il tweet perché palesemente falso, rispose di sì, aggiungendo però il consiglio “la prossima volta stai più attenta”. Lui, a me. Io avrei dovuto prestare più attenzione, non lui alle scemenze che diffondeva. Questo dà l’esatta idea del personaggio Puglisi, uno che su twitter è considerato una sorta di caso umano, una specie di Carlo Calenda un po’ meno fotogenico e di Chef Rubio un po’ più bullo.
Ecco, oggi Riccardo Puglisi è nella task force del Recovery per monitorare l’utilizzo delle risorse europee assieme ad altri quattro componenti tra cui Carlo Stagnaro, tanto per ribadire che questo è il governo dei migliori. Ora, a parte che Puglisi è esperto di analisi delle politiche pubbliche quanto io di ingegneria aerospaziale, per la serie “dimmi cosa twitti e ti dirò chi sei” vale la pena, appunto, fare un excursus sulla frenetica attività social dell’economista perché una cosa è evidente: ci vorrebbe una task force incaricata di monitorare i suoi account. Una task force di migliori, in grado di mettere un freno alla sua bulimia 2.0 perché Puglisi, incapace di imbrigliare rancori e antipatie, è un inquietante mix di gaffe e livori sparsi, roba che saperlo lì, a gestire il Recovery, mi preoccupa non poco: se si sveglia male, magari perché ha letto il tweet di uno che gli dà del pirla, è capace di giocarsi tutto il fondo europeo sulla ruota di Venezia, per sfregio. La principale caratteristica di Puglisi sui social è la sua sbandierata superiorità intellettuale, estetica, morale su tutto e tutti, che ribadisce attraverso tweet esilaranti tipo “Mia velocità di lettura: 100 pagine all’ora. Uno vale uno chi?”. O anche “Caro Marco Congiu, mi spieghi come personaggi come Borghi o Dragoni riescano a essere invitati a Sky tg 24 senza essere AFFETTATI da un economista come il sottoscritto?”. Ma a parte queste tenere auto candidature tv, a risultare ancora più spassosi sono i commenti sulle sue stesse performance televisive. Va in tv a Coffee Break con la Bordonali della Lega e twitta: “Dialogo immaginario tra Bordonali e Luca Morisi: “Puglisi mi ha massacrata! Non potete mandargli contro Borghi o Bagnai?”. Risposta di Morisi: “Eh i due hanno strizza!”. E certo, Salvini ha paura di Puglisi, mica della Meloni. A ogni duello tv Puglisi vs Lega, la Lega cala di almeno 6 punti nei sondaggi, è risaputo. Del resto, la tv è la grande ossessione di Puglisi, che addirittura – indaffaratissimo – investe il suo tempo in preziose attività, per esempio quella di annunciare esposti ad Agcom e Antitrust “intorno al ruolo giocato dalle agenzie di comunicazione rispetto agli ospiti nei talk show politici”. Una questione di interesse nazionale, roba che l’esposto medio del Codacons sui Ferragnez è più appassionante. Ma la sua modestia investe anche il mondo Lgbt a cui dedica il tweet: “Ai pasdaran dell’adozione di coppie dello stesso sesso: ce ne avete da mangiare di pastasciutta, prima di discutere di econometria con me”. Ma l’indole del bulletto virtuale viene fuori in numerose occasioni, specie durante campagne aggressive nei confronti del nemico di turno, preferibilmente nel ramo dell’economia (ad esempio Marta Fana è stata più volte presa di mira e aggredita dai suoi follower, Borghi aveva querelato Puglisi perché lo sbeffeggiava chiamandolo “stupido”). Non a caso il suo hashtag di riferimento è #sdeng, usato per sottolineare una chiusura o una botta violenta. Il tenero Puglisi è sempre convinto di scrivere tweet terribilmente ficcanti, di infilzare gli avversari e di tramortirli, quindi chiude sempre con #sdeng. In questo esilarante delirio narcisistico, il professore è famoso anche per la consolidata abitudine di bloccare e sbloccare utenti compulsivamente, per ragioni che devono avere a che fare con importanti sbalzi umorali. Interessanti poi le sue posizioni sul Covid. A novembre, in piena seconda ondata, scriveva “Vedo segni di miglioramento nei dati epidemiologici” e Burioni lo sfotteva: “Vedo segni di miglioramento nei dati macroeconomici”. Ma anche ad agosto aveva capito tutto: “Non si governa un paese con la paura inculcata dai mass media!”. E poi, a dicembre: “Non si decide in base alle foto degli assembramenti. Matteo Renzi metta fine a questo scempio!”.
Per la cronaca, Renzi era quello che voleva riaprire tutto a maggio 2020. Se qualcuno gli avesse dato retta, oggi saremmo morti tutti. Ma ne aveva anche per il governo Draghi: “Covid e restrizioni che esperienza nostalgica dell’Urss”, twittava un mese fa. O anche, a marzo 2021: “Continuo a non capire perché Speranza e Cts siano ancora al posto che avevano nel governo Conte-2”. O ad aprile 2021: “Io mi sono stancato di essere trattato dal mio paese come un suddito cretino!”. E alla fine Draghi lo ha accontentato: da suddito cretino a componente della task force sul Recovery è stato un attimo. Il tempo di un tweet. E per gli italiani: #SDENG.