“Su molte cose non la penso come Piercamillo Davigo, ma sul quesito referendario che tocca l’art. 274 del codice di procedura penale e la custodia cautelare non posso non dargli ragione”.
Paolo Borgna, magistrato oggi in pensione, ex procuratore aggiunto e poi reggente a Torino, nel 1999 costituì proprio nella procura subalpina il primo pool d’Italia sulla “sicurezza urbana”.
Di che reati si occupa una struttura come quella? E c’entra con i ragionamenti di Davigo?
Davigo, a sostegno della sua giusta affermazione, cita come si fa sempre in questi casi le fattispecie più estreme: i corrotti e i corruttori, i bancarottieri, i falsari. Ma c’è anche una quotidianità illegale che potrebbe trarre da quel referendum vantaggi e riservare più di una sorpresa negativa proprio a chi, oggi, propone il quesito abrogativo.
A che cosa si riferisce?
Agli altri reati, solo all’apparenza “minori” se si tiene conto dell’opinione pubblica e della loro pericolosità sociale, anch’essi citati da Davigo e per i quali, se passasse il quesito, non sarebbe più possibile, dopo il fermo e la convalida dell’arresto, mandare in custodia cautelare i loro autori. Sono quelli commessi da chi, in gergo, è chiamato per esempio scippatore “seriale”, o ladro d’appartamento “seriale”. Se quella parte dell’art. 274 fosse cancellata, i gip dopo aver convalidato l’arresto dovrebbero metterli in libertà.
C’è sempre la possibilità degli arresti domiciliari, però.
Una misura alla quale chiunque si può sottrarre il giorno stesso e reiterare lo stesso reato: fare un nuovo scippo, un nuovo furto, appena evaso dagli arresti domiciliari. Se vogliamo, è una situazione che esiste già e che suscita da anni forti polemiche. Si tratta dei piccoli spacciatori che, nelle strade e nelle piazze, vendono quella che un tempo era la “modica quantità” di droga. La catena dei fermi e dei nuovi fermi non si arresta mai: un gip può convalidare il fermo, ma poi non può mandare nessuno in carcere. E lo spaccio riprende. La cosa che stupisce di più, però, è la posizione tradizionale, su questi temi, di una parte dei propositori del referendum.
Che cosa vuol dire?
Non intendo infilarmi in discussioni politiche. Non mi stupirei, però, se quel quesito fosse sostenuto solo da chi è da sempre contro la custodia cautelare e, in via ancora più generale, critico verso il carcere. Trovo paradossale, invece, che mantenga una simile posizione chi ha sempre fatto di parole d’ordine repressive la propria linea politica. Le conseguenze con l’opinione pubblica, se la norma fosse abrogata, non mancherebbero.
Un ribaltamento di vecchie posizioni?
Be’, quando escono dopo poche ore gli spacciatori di quartiere, le polemiche non mancano mai. Pensate se uscisse uno scippatore e la sera stessa reiterasse il reato, magari nei confronti di un soggetto debole. Come la metterebbe, con le proteste, chi in passato le ha sempre cavalcate, ma poi con il suo referendum ha determinato la nuova situazione?.
Un cortocircuito politico, dunque?
Non lo so, bisognerebbe parlarne con i promotori. Ho l’impressione, però, che almeno una parte di loro abbia preso una cantonata. Ma non è la prima volta che accade.
Una critica allo strumento referendario?
No, assolutamente. Semmai alla cattiva abitudine di mettere assieme, nella stessa tornata referendaria, quesiti troppo eterogenei. Io, per esempio, degli attuali sei, ne condivido uno solo: quello che intende dare la possibilità agli avvocati, oggi già presenti nei consigli giudiziari, di poter votare sulle valutazioni dei magistrati. Lo sostengo anche nel mio ultimo libro, Una fragile indipendenza, scritto con Jacopo Rosatelli e dedicato a tutti i temi e le vicende che oggi agitano la giustizia italiana e soprattutto quella penale. Chi lo leggerà, lo ripeto, scoprirà come sono lontano da molte posizioni di Davigo. Ma sulla custodia cautelare ha ragione lui.