“Tutto vero, così tornano in libertà ladri e scippatori”

“Su molte cose non la penso come Piercamillo Davigo, ma sul quesito referendario che tocca l’art. 274 del codice di procedura penale e la custodia cautelare non posso non dargli ragione”.

Paolo Borgna, magistrato oggi in pensione, ex procuratore aggiunto e poi reggente a Torino, nel 1999 costituì proprio nella procura subalpina il primo pool d’Italia sulla “sicurezza urbana”.

Di che reati si occupa una struttura come quella? E c’entra con i ragionamenti di Davigo?

Davigo, a sostegno della sua giusta affermazione, cita come si fa sempre in questi casi le fattispecie più estreme: i corrotti e i corruttori, i bancarottieri, i falsari. Ma c’è anche una quotidianità illegale che potrebbe trarre da quel referendum vantaggi e riservare più di una sorpresa negativa proprio a chi, oggi, propone il quesito abrogativo.

A che cosa si riferisce?

Agli altri reati, solo all’apparenza “minori” se si tiene conto dell’opinione pubblica e della loro pericolosità sociale, anch’essi citati da Davigo e per i quali, se passasse il quesito, non sarebbe più possibile, dopo il fermo e la convalida dell’arresto, mandare in custodia cautelare i loro autori. Sono quelli commessi da chi, in gergo, è chiamato per esempio scippatore “seriale”, o ladro d’appartamento “seriale”. Se quella parte dell’art. 274 fosse cancellata, i gip dopo aver convalidato l’arresto dovrebbero metterli in libertà.

C’è sempre la possibilità degli arresti domiciliari, però.

Una misura alla quale chiunque si può sottrarre il giorno stesso e reiterare lo stesso reato: fare un nuovo scippo, un nuovo furto, appena evaso dagli arresti domiciliari. Se vogliamo, è una situazione che esiste già e che suscita da anni forti polemiche. Si tratta dei piccoli spacciatori che, nelle strade e nelle piazze, vendono quella che un tempo era la “modica quantità” di droga. La catena dei fermi e dei nuovi fermi non si arresta mai: un gip può convalidare il fermo, ma poi non può mandare nessuno in carcere. E lo spaccio riprende. La cosa che stupisce di più, però, è la posizione tradizionale, su questi temi, di una parte dei propositori del referendum.

Che cosa vuol dire?

Non intendo infilarmi in discussioni politiche. Non mi stupirei, però, se quel quesito fosse sostenuto solo da chi è da sempre contro la custodia cautelare e, in via ancora più generale, critico verso il carcere. Trovo paradossale, invece, che mantenga una simile posizione chi ha sempre fatto di parole d’ordine repressive la propria linea politica. Le conseguenze con l’opinione pubblica, se la norma fosse abrogata, non mancherebbero.

Un ribaltamento di vecchie posizioni?

Be’, quando escono dopo poche ore gli spacciatori di quartiere, le polemiche non mancano mai. Pensate se uscisse uno scippatore e la sera stessa reiterasse il reato, magari nei confronti di un soggetto debole. Come la metterebbe, con le proteste, chi in passato le ha sempre cavalcate, ma poi con il suo referendum ha determinato la nuova situazione?.

Un cortocircuito politico, dunque?

Non lo so, bisognerebbe parlarne con i promotori. Ho l’impressione, però, che almeno una parte di loro abbia preso una cantonata. Ma non è la prima volta che accade.

Una critica allo strumento referendario?

No, assolutamente. Semmai alla cattiva abitudine di mettere assieme, nella stessa tornata referendaria, quesiti troppo eterogenei. Io, per esempio, degli attuali sei, ne condivido uno solo: quello che intende dare la possibilità agli avvocati, oggi già presenti nei consigli giudiziari, di poter votare sulle valutazioni dei magistrati. Lo sostengo anche nel mio ultimo libro, Una fragile indipendenza, scritto con Jacopo Rosatelli e dedicato a tutti i temi e le vicende che oggi agitano la giustizia italiana e soprattutto quella penale. Chi lo leggerà, lo ripeto, scoprirà come sono lontano da molte posizioni di Davigo. Ma sulla custodia cautelare ha ragione lui.

La banda dei referendum. E salvini insulta Davigo

“Davigo ignora il quesito referendario e se lo ha letto ignora il diritto: basta leggere il testo del referendum per capirlo, glielo manderò”. Matteo Salvini, a margine della presentazione dei sei quesiti referendari sulla giustizia assieme a Lorenzo Cesa (Udc), risponde così sulla questione tirata fuori ieri sul Fatto dall’ex pm di Mani Pulite, Piercamillo Davigo, riguardo al quesito proposto dalla Lega che, di fatto, abolisce la custodia cautelare per criminali comuni (dagli scippatori ai ladri), ma anche per i colletti bianchi che commettono reati di corruzione, bancarotta, falso in bilancio e così via. Il terzo quesito infatti eliminerebbe il criterio della reiterazione del reato per disporre il carcere preventivo, limitandolo solo ai reati gravi come quelli commessi con l’uso di armi, contro l’ordine costituzionale o per i reati di mafia. Un quesito esplosivo, come ha spiegato Davigo, perché porterebbe a non disporre più il carcere per buona parte di chi commette un crimine. E soprattutto incoerente per un leader politico, Salvini, che vorrebbe mettere dentro i criminali comuni e immigrati irregolari, pari a un terzo dei detenuti, che verrebbero quasi tutti scarcerati. Giulia Bongiorno, responsabile Giustizia della Lega, alla presentazione di ieri ha fatto orecchie da mercante: “La Lega si ispira alle garanzie e alla certezza della pena, non vogliamo abolire del tutto la custodia cautelare, ma nella parte della reiterazione del reato che viene spesso utilizzata in maniera non corretta e indiscriminata dai giudici”. Una spiegazione che conferma la tesi di Davigo.

La raccolta delle firme partirà il 2 luglio e a organizzare i banchetti ci saranno, oltre alla Lega e ai Radicali, anche gli altri partiti del centrodestra di governo, da Forza Italia all’Udc. Non Fratelli d’Italia che sul tema è scettica e preferisce presentare modifiche alla riforma penale in Parlamento. Ma a impressionare è soprattutto la compagnia di Salvini: tra i politici che hanno annunciato o fatto sapere che firmeranno i quesiti referendari anti-pm ci sono molti indagati, imputati o addirittura pregiudicati che stanno scontando la pena.

B. e Verdini i padri nobili con la condanna in dote

Il primo non poteva che essere Silvio Berlusconi che nell’incontro di domenica sera ad Arcore con Salvini ha ricevuto i sei quesiti referendari dal leader del Carroccio rispondendo che li firmerà e che Forza Italia sosterrà apertamente la battaglia leghista. Berlusconi, dopo la condanna a quattro anni nel 2013 per frode fiscale, oggi continua ad essere imputato per corruzione in atti giudiziari e falsa testimonianza nel processo Ruby Ter e la sentenza è stata rinviata in autunno a causa delle condizioni di salute del leader di Forza Italia. Berlusconi inoltre è indagato anche a Firenze nell’inchiesta sulle stragi di mafia del 1993. Dall’alto del suo curriculum nelle aule di Giustizia – e del casellario giudiziale – non poteva che essere il primo a sostenere i referendum leghisti.

Chi firmerà è anche Denis Verdini, suocero di Salvini (padre della fidanzata Francesca), che a quanto risulta al Fatto firmerà i sei quesiti referendari. Verdini, ex sherpa berlusconiano, padre del Patto del Nazareno, poi infatuatosi di Matteo Renzi fino a formare il partitino Ala per sostenere il governo dell’ex sindaco di Firenze, oggi è ai domiciliari nella sua villa di Pian de’ Giullari a Firenze dopo la condanna definitiva a 6 anni e mezzo per il crac del Credito cooperativo fiorentino. Verdini è stato da sempre promotore di un’ampia riforma della giustizia in senso garantista ed è convinto che a questo governo di larghe intese non riuscirà l’obiettivo di Marta Cartabia: per questo l’ex macellaio di Fivizzano appoggia i referendum di Salvini.

Compagni di strada Cesa, Siri, Centemero e De Vito

Insieme a Salvini ieri mattina, nella sala Nassirya del Senato, a presentare i quesiti referendari c’era anche Lorenzo Cesa, leader dell’Udc dimessosi a gennaio, in piena crisi del governo Conte-2 in cui si parlava di lui come uno dei possibili responsabili, dopo un’indagine della Procura di Catanzaro per associazione a delinquere aggravata dal metodo mafioso. Cinque giorni fa la Dda ha stralciato la posizione di Cesa e quindi il leader dell’Udc è uscito dall’inchiesta. Quest’ultimo però viene ricordato per la vicenda giudiziaria che lo vide coinvolto nel 1993, indagato per corruzione nell’inchiesta sulle tangenti Anas della procura di Roma, da cui ne uscì indenne nel 2003 in Appello per un cavillo giudiziario. Ma l’interrogatorio del ’93 è rimasto nella storia giudiziaria di quegli anni: “Ho deciso di svuotare il sacco” disse. Oggi è tra i sostenitori dei referendum sulla giustizia. Chi firmerà è anche il senatore leghista Armando Siri, imputato a Roma per corruzione, il tesoriere leghista Giulio Centemero, sotto processo per finanziamento illecito. Tra i forzisti si dice che a firmare dovrebbe essere anche il presidente dell’Assemblea capitolina, l’ex M5S Marcello De Vito passato in FI criticando la linea giustizialista del M5S: De Vito è a processo per corruzione nell’inchiesta sullo stadio della Roma.

I due Matteo via libera da Renzi e da Giachetti

Chi firmerà i referendum leghisti sulla giustizia, senza fare campagna attiva, è anche il leader di Italia Viva Matteo Renzi. Il senatore di Scandicci a maggio aveva applaudito entusiasta l’annuncio dei referendum salvinian-radicali: “È un’iniziativa molto utile”. Anche Renzi, spiegano fonti di Iv, dovrebbe firmare i referendum (i renziani ricordano che la riforma della responsabilità civile dei magistrati fu approvata nel 2015 dal governo Renzi) anche se non darà una mano con i banchetti per raccogliere le firme per non essere assimilato al leader leghista. Renzi è ancora indagato dalla Procura di Firenze, insieme a Luca Lotti e Maria Elena Boschi, per finanziamento illecito legato all’inchiesta sulla fondazione Open. Il deputato di Iv e radicale, Roberto Giachetti, ha annunciato che aiuterà leghisti e i suoi ex compagni a raccogliere le firme: “È un’altra straordinaria occasione, un’occasione da non perdere”, ha scritto sul Foglio. Nessuno scandalo che i referendum siano voluti da Salvini: “Se l’obiettivo è ‘il nostro’, ben venga qualunque compagno di viaggio”.

Sondaggite a destra: la guerra dei decimali

“Ma insomma, il sorpasso c’è stato o no?”. L’interrogativo da giorni rimbalza nelle stanze della sede di Fratelli d’Italia in via della Scrofa, a Roma. Perché se un sondaggio di Nando Pagnoncelli per Ipsos aveva dato la cosa per fatta, seppur per pochi decimali, altre ricerche hanno spento gli entusiasmi.

Lunedì sera, però, il consueto sondaggio di Swg presentato da Enrico Mentana durante il Tg di La7 ha ridato i due partiti praticamente alla pari, con un solo decimale in più per la Lega. Secondo quest’ultima rilevazione, infatti, il partito di Matteo Salvini è al 20,6%, un soffio avanti a FdI che sta al 20,5%. Ben distanziato è il Pd col 18,6%, poi M5S al 16% e Forza Italia al 6,8%.

“Non siamo di certo all’opposizione per lucrare nei sondaggi…”, ha detto sul tema qualche giorno fa la leader della destra, tenendo un low profile. La guerra dei numeri è deflagrata da quando (un paio di settimane) ci sono tre partiti stretti in 2 punti percentuali: Lega, Pd e FdI. E, a seconda delle ricerche, è in testa l’uno o l’altro. Tanto che i sondaggisti sono tornati a essere ambiti quasi più dei virologi: Pagnoncelli e Alessandra Ghisleri ricevono inviti quanto Massimo Galli e Andrea Crisanti, Fabrizio Masia è più corteggiato di un Bassetti o di una Viola. “I sondaggi ormai non li guardo più!”, è sbottato giorni fa Carlo Calenda. Ma chi gli crede?

Vediamo, dunque, i numeri che stanno togliendo il sonno ai leader. Tutto è partito dal sondaggio di Pagnoncelli che, un paio di weekend fa, aveva sancito il sorpasso di Fdi sulla Lega. Dando però primo partito il Pd, con il 20,8%, seguito appunto da FdI (20,5) e dalla Lega (20,1). Salvini sbianca, ma indirizza i suoi strali contro i dem. “L’unico sondaggio che vede primo il Pd è della casa di sondaggi che lavora per loro”, attacca il leghista. “Stando al governo con Draghi noi cresciamo mentre la Lega cala pesantemente. Punto”, ribatte Enrico Letta. E pure Pagnoncelli se ne risente: “Noi lavoriamo per diversi committenti. Inoltre ricordo che il leader leghista non aveva nulla da dire quando lo davamo al 35%”.

Nel frattempo arrivano altri dati. Swg una settimana fa riportava la Lega in testa col 20,9%, con Meloni seconda (20,4%) e Pd terzo (19%). Poi arriva Affari Italiani con una ricerca commissionata a Lab 2101: Lega nettamente in testa (22,4%), mentre il Pd (19,6%) riscavalca FdI (18,2). Giovedì scorso eccone altri due. Il primo di Alessandra Ghisleri, la sondaggista preferita da Berlusconi, che conferma i tre partiti in due punti: Lega in testa col 21,2 e FdI (20,3) sopra il Pd (19). Per la cronaca, poi ci sono i 5 Stelle col 16,2%, Forza Italia col 6,6% e Azione di Carlo Calenda col 3,1%.

L’altro è di YouTrend per Agi, con le tre forze principali chiuse in 2,2 punti percentuali: Lega al 21%, FdI al 19,6% e Pd al 18,8%. Roba da diventare matti. Tanto da far dire a Libero: “Meloni e Salvini ignorino i sondaggi”. Come no.

Infine, l’ultima rilevazione di Swg presentata lunedì da Mentana, con Lega e FdI appaiati e dietro il Pd. Che, secondo l’istituto storicamente vicino alla sinistra, sta recuperando dopo il crollo rilevato con l’addio di Zingaretti (era sceso al 16,6). Mentre un altro sondaggio di Antonio Noto, ieri, ha dato un’eventuale lista guidata da Giuseppe Conte tra il 18 e il 20%. Nel frattempo Meloni pregusta il sorpasso definitivo. Lunedì prossimo?

“Se Grillo non è d’accordo mi ritiro, senza fare partiti”

In Senato aveva programmato da giorni un incontro con la candidata giallorosa in Calabria, Maria Antonietta Ventura. Ma Giuseppe Conte ha “colto l’occasione” per incontrare anche i senatori dei 5 Stelle, divisi per commissione, e per confrontarsi con loro sulla faticosa gestazione del nuovo Movimento, che – dopo il divorzio da Davide Casaleggio – ora sta cercando la strada della convivenza pacifica con l’ingombrante fondatore in partenza da Genova. Ha voluto giocare d’anticipo, l’ex premier aspirante capo: perché oggi, a Roma, arriverà Beppe Grillo per incontrare tutti gli eletti M5S. Ha scelto di venire di persona, non di scrivere un post sul blog. E se l’incontro “in presenza”, da una parte, garantisce di essere meno tranchant di qualunque messaggio dato in pasto alla Rete, dall’altro – per il leader in pectore – sarebbe stato un rischio troppo alto lasciare solo a lui la possibilità di “arringare” i gruppi sulle novità dello Statuto. Perché va bene che i rapporti sono “cordiali” e che “nessuna guerra è in corso” – come ha ripetuto ieri Conte ai senatori – ma è pur sempre un rapporto impari quello che vede contrapposti lui, arrivato al vertice del Movimento soltanto tre anni fa, e “Beppe” che di fatto è colui che tutti devono sempre ringraziare se stanno dove stanno.

Il richiamo della foresta, insomma, Conte ha provato a fermarlo sul nascere, anche incontrando un ristretto gruppo di deputati, ieri sera. E ha chiarito per prima cosa a tutti che non ha intenzione di mettere in piedi liste, che non ha nessun partito nel cassetto, consapevole che la “minaccia” che era circolata nei giorni scorsi poteva finire solo per irritare gli eletti che stanno aspettando il suo arrivo. “Il mio progetto è qui – ha spiegato a Palazzo Madama – non ci penso proprio a fare altro: ma io sono venuto per cambiare e il garante deve essere convinto, altrimenti faccio un passo indietro”. E cambiamento significa, nello specifico, rivedere il rapporto tra capo politico e garante, ovvero tra lui e Grillo. Una convivenza “senza accavallamenti”, ha spiegato, “altrimenti non potrei accettare”. Torna a ventilare il passo indietro, l’ex premier, per chiarire a tutti qual è la posta in gioco. “È necessaria una separazione delle filiere – è il senso del suo ragionamento – Al capo politico spetta la titolarità della linea politica, il garante sarà invece il custode dei valori”. Tutti, nel Movimento, sono consapevoli che il “totem” di Grillo non si possa toccare e che sia necessario preservare “una collocazione che lo rappresenti”: “È la nostra storia – ripetono – Giuseppe deve capirlo”. Ma è lo stesso Conte, raccontano, ad avere ben chiaro il concetto. Al punto che, nel nuovo statuto, sarebbe mantenuto intatto il potere di revoca del capo politico che è attualmente nelle mani del garante. Ma ammette pure che “i desideri sono tanti”, che è un modo per dire che – nella trattativa – Grillo avrebbe alzato la posta un po’ troppo in alto, a partire dai poteri sulla comunicazione che avrebbe voluto avocare a sé.

La mediazione, secondo Conte e i suoi fedelissimi, si troverà. Già ieri, i due si sono sentiti al telefono. Ma molto dipenderà dai toni del faccia a faccia che “Beppe” avrà con deputati e senatori oggi pomeriggio. “Se viene, ci vedremo sicuramente”, ha detto l’ex premier: vada come vada, comunque oggi qualcosa si chiude.

Per SuperMario l’Immenso si citano Gesù, Sánchez, Kissinger e Gadda

È il giorno della beatificazione finale. Il Parlamento abdica in via definitiva: i partiti si consegnano al dogma mariano, si inginocchiano al carisma dell’altissimo Draghi. Salivazione pavloviana verso i banchi del governo: ecco i passaggi più intensi e servili.

Andrea Orsini (Forza Italia) – In silenzio: “Mi permetta di dirle che, dopo aver ascoltato il Suo intervento, ben si colgono le ragioni del commento del Primo ministro spagnolo Pedro Sánchez: quando parla Draghi tutta Europa lo ascolta in silenzio”.

Guido Germano Pettarin (Coraggio Italia) – Henry ti presento Draghi: “Molti anni fa Henry Kissinger ebbe a dire che era in difficoltà, perché quando doveva parlare con l’Unione europea non sapeva a chi telefonare. Oggi possiamo risolvere questo problema e comunicare al dottor Kissinger che basta che telefoni a Palazzo Chigi”.

Gennaro Migliore (Italia Viva) – Lo gnommero: “Dobbiamo risolvere questo groviglio che intrappola l’Italia, come avrebbe detto Carlo Emilio Gadda questo ‘gnommero’ bisogna scioglierlo, avere la possibilità di decollare finalmente per un’Italia più aperta e anche più severa con noi stessi (…). Quella che io definirei, in una parola, l’Italia di Draghi”.

Stefano Mugnai (Coraggio Italia) – Il metapolitico: “Io credo che siamo alla vigilia di qualcosa di più importante, di metapolitico (…). La presenza del presidente Draghi a Palazzo Chigi ha un valore simbolico-politico che va oltre anche ai meriti di chi rappresenta nel nostro Paese”.

Valentino Valentini (Forza Italia) – L’interlocuzione: “Vorrei ringraziarla per la resistenza (…). Quello oggi non è uno dei classici dibattiti nei quali ciascuno viene, legge il suo pezzo e se ne va, ma abbiamo avuto con Lei veramente un’interlocuzione”.

Pier Ferdinando Casini (Autonomie) – Draghi e noi: “Adesso parliamo di Draghi e parliamo di noi. Vorrei farlo senza adulazione (…). Il professor Draghi ha accettato di mettere non solo la sua capacità tecnico-politica, ma anche e soprattutto il Suo nome, come ombrello protettivo di un Paese in grandissima difficoltà”.

Pasquale Pepe (Lega) – Ha fatto tutto Lei: “Gli auguri che le rivolgo (…) sono dovuti alla bellissima promozione a pieni voti che ieri ci ha riconosciuto l’Europa per il Piano Italia domani, che ha avuto un importante successo – ricordiamolo per onestà intellettuale – solo ed esclusivamente grazie a questo governo”.

Massimo Ferro (FI) – Sacre scritture: “Presidente Draghi, lei sa che nei Vangeli c’è la parabola dei talenti; uno dei peccati gravi che al catechismo ci hanno insegnato è il peccato di omissione. Lei ha una responsabilità storica, che ci porta a poter rigiocare, attraverso di Lei, un ruolo importante per il nostro Paese; io penso che non Le mancherà”.

Il Papa deluso dal premier: il Vaticano voleva il dialogo

Una mossa papale per ricompattare la Chiesa. È la spiegazione più accreditata nei sacri palazzi della nota verbale con la quale la Segreteria di Stato ha chiesto al governo italiano di modificare il ddl Zan, il disegno di legge contro l’omotransfobia. Il testo è stato letto e approvato da Papa Francesco prima che il suo ministro degli Esteri, monsignor Paul Richard Gallagher, segretario per i rapporti con gli Stati, lo consegnasse all’Italia.

Una scelta tut- t’altro che irrituale, fanno notare Oltretevere, anche in tempi recenti dove le note verbali tra il Vaticano e gli altri Paesi con i quali esistono relazioni diplomatiche sono usate abitualmente. Soprattutto con l’Italia dove vige il Concordato firmato nel 1929 da Benito Mussolini e rivisto nel 1984 da Bettino Craxi.

Una mossa, quella decisa dalla Segreteria di Stato, che ha segnato anche l’enorme debolezza della Conferenza episcopale italiana guidata dal cardinale Gualtiero Bassetti. Per due volte, infatti, la presidenza della Cei era intervenuta duramente sul ddl Zan, ma le sue parole in Parlamento erano rimaste lettera morta. Da qui la decisione della diplomazia vaticana di intervenire ai massimi livelli con il pieno avallo di Bergoglio. Il Papa è da tempo sotto attacco, dentro più che fuori la Chiesa, da coloro che sono delusi per non aver aperto concretamente le porte agli omosessuali e che lo attaccano per aver ripetutamente fatto, in questi otto anni di pontificato, dichiarazioni sibilline sul tema dei gay. Ma anche da coloro che, invece, lo accusano di essere troppo progressista, al limite dell’eresia, soprattutto sui temi etici.

In Segreteria di Stato fanno notare che la nota verbale ha tre destinatari: il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, il presidente del Consiglio, Mario Draghi, e il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio.

Il messaggio è chiaro: il Vaticano chiama in causa lo Stato italiano perché, a suo giudizio, non sia violato l’accordo di revisione del Concordato. Si vuole avviare un’interlocuzione con il governo e non certo uno scontro che porti alla rottura delle relazioni diplomatiche. Uno scenario, chiariscono Oltretevere, assolutamente impensabile e che lo stesso Bergoglio ha messo in chiaro fin da quando sulla sua scrivania gli sono state portate le due pagine della nota verbale.

Anche se il Papa avrebbe sicuramente gradito un rapporto diretto con Draghi che, almeno finora, non c’è stato. Da quando ha preso il posto di Giuseppe Conte, che con Francesco e il cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, aveva un filo diretto, la diplomazia di Palazzo Chigi non ha ancora chiesto un’udienza privata tra il premier, cattolico ed ex alunno dei gesuiti, e Bergoglio. Cosa alquanto irrituale, non solo nei rapporti tra il Vaticano e l’Italia, ma anche con molti altri Paesi dove i neo presidenti corrono subito in udienza dal Papa, fosse pure solo per una photo opportunity. Finora, infatti, due sono state le occasioni di incontro tra Francesco e Draghi. Una fugace stretta di mano all’inaugurazione del 92esimo anno giudiziario del Tribunale Vaticano. E la partecipazione agli Stati generali della natalità, dove Bergoglio ha ascoltato l’intervento del premier e poi ha “benedetto” l’assegno unico per ogni figlio che nasce. Nei sacri palazzi non si nasconde, però, una certa preoccupazione per la dichiarazione con la quale Draghi al Senato ha commentato la discesa in campo della Santa Sede: “Il nostro è uno Stato laico, il Parlamento è sempre libero di discutere e di legiferare”.

Quasi come se, commentano Oltretevere, la nota verbale vaticana fosse già stata archiviata.

Draghi: “Siamo uno Stato laico” Ma scarica tutto sul Parlamento

Non ha voluto prendere una posizione sul ddl Zan perché l’ha sempre ritenuto “un tema parlamentare”. E il motivo è semplice: la maggioranza che lo sostiene sulla legge anti-omofobia è spaccata ed entrare nel merito avrebbe voluto dire aprire un problema politico. Pd, M5S e LeU spingono per approvarla, Lega e Forza Italia per affossarla. Sicché il presidente del Consiglio Mario Draghi, presentando il Consiglio europeo di oggi e domani a Bruxelles sui migranti e pandemia, al Senato preferisce “non entrare nel merito” della discussione ma limitarsi a stoppare l’intervento a gamba tesa del Vaticano che il 17 giugno scorso ha trasmesso alla Farnesina una nota verbale, diffusa ieri, per chiedere di modificare la legge Zan perché violerebbe il Concordato del 1984 e “incide negativamente” sulle “libertà assicurate alla Chiesa cattolica e ai suoi fedeli”.

È una questione di rapporti internazionali e tacere su questo significherebbe mostrarsi proni alla Curia. “Questo è il momento del Parlamento e non del governo – premette Draghi – ma voglio dire che l’Italia è uno Stato laico quindi è libero di discutere e legiferare”. Parole che fanno eco a quelle del presidente della Camera Roberto Fico secondo cui “il Parlamento è sovrano e non accettiamo ingerenze”. PDraghi risponde al Vaticano in punta di diritto: “Il nostro ordinamento contiene tutte le garanzie per rispettare gli impegni internazionali, tra cui il Concordato – conclude – Ci sono controlli preventivi nelle commissioni parlamentari e successivi nella Corte costituzionale”. Poi, per dare un colpo al cerchio e uno alla botte, si corregge un po’ citando la sentenza della Consulta del 1989 secondo cui “la laicità non è indifferenza dello Stato rispetto al fenomeno religioso, bensì tutela del pluralismo e delle diversità culturali”. Applausi, da entrambi i lati dell’emiciclo. Tant’è che un attimo dopo i partiti si prodigano a mettere il cappello sulle parole di Draghi: a sinistra vengono interpretate come una spinta ad approvare la norma, a destra come a chiedere di tenere conto delle considerazioni della Santa sede. “Ci riconosciamo completamente nelle parole di Draghi” twitta il segretario del Pd Enrico Letta che in giornata ha confermato la posizione dei dem di “andare avanti” sulla legge mentre Monica Cirinnà definisce “altissime e sagge” le parole di Draghi. Il presidente leghista della commissione Giustizia Andrea Ostellari la vede diversamente: “Bene Draghi, laicità è rispetto delle sensibilità religiose”. Da Palazzo Chigi si dice che Draghi non avrebbe potuto “osare” di più. Perché se esisteva una ragione istituzionale per intervenire, il premier non ha alcuna intenzione di esprimersi nel merito su un tema che spacca giuristi e teologi.

Ora la palla passa al Parlamento dove però il disegno di legge rischia di finire su un binario morto. Perché l’intervento del Vaticano ha offerto un assist perfetto alla destra che da mesi fa ostruzionismo sulla legge con una serie di audizioni infinite in commissione Giustizia. Ieri sera a ora di cena si è riunita la conferenza dei capigruppo dove si è materializzato lo scontro: Pd, M5S e LeU hanno chiesto di calendarizzare la legge in aula senza relatore la settimana che inizia il 13 luglio, mentre Lega e Fd’I hanno chiesto di fermare l’iter della norma dopo la nota della Santa Sede. Incerti i renziani secondo cui la legge potrebbe non passare. “Il ddl va sospeso” dice Giorgia Meloni. La conferenza dei capigruppo è durata fino a tarda serata e, senza l’unanimità, con ogni probabilità si arriverà al voto in aula di oggi per decidere sull’iter della legge. I giallorosa vogliono evitare che la norma torni nelle secche della commissione Giustizia e decisivi, ancora una volta, potrebbero essere i renziani. Un passaggio delicatissimo perché la maggioranza rischia di spaccarsi.

Un bivacco di turiboli

In attesa del ritorno delle pagine estive del Fatto col cruciverba politico e gli altri giochi, ve ne propongo uno irresistibile: tradurre in italiano i titoli dei giornaloni. Per azzeccare la risposta esatta, basta rovesciarli. L’altroieri Repubblica titolava “Draghi e Merkel, intesa sui migranti”. Ovviamente il titolo andava letto così: “Draghi e Merkel, nessuna intesa sui migranti” (a parte gli altri 8 miliardi regalati a Erdogan, che evidentemente ha smesso di essere un “dittatore”). Ieri il Corriere apriva sull’anatema vaticano: “Legge Zan, interviene Draghi”. Ma il titolo andava letto così: “Legge Zan, non interviene Draghi”. Infatti l’altroieri, alla domanda di un giornalista sfuggito al controllo dei suoi portavoce, il premier aveva evitato di rispondere, promettendo che l’avrebbe fatto l’indomani in Parlamento. Cioè ieri (sei giorni dopo aver saputo la cosa). Quindi, al massimo, il titolo avrebbe dovuto essere: “Legge Zan, interverrà Draghi”.

Ieri in effetti Draghi è intervenuto alla Camera. Ma, oltre a dimenticarsi il nome del premier che ha procurato all’Italia i miliardi del Recovery, s’è scordato di rispondere al Vaticano (l’unica carica dello Stato a farlo è stato il presidente della Camera Roberto Fico: “Il Parlamento è sovrano e non accetta ingerenze”). Anche perché tutti i parlamentari, di maggioranza e di cosiddetta opposizione, erano talmente impegnati a leccarlo whatever it takes da dimenticarsi di sollevare la questione. Dimenticarsi si fa per dire, visto che da Palazzo Chigi avevano raccomandato loro di astenersene. Cioè di rinunciare alla loro unica ragione di esistenza in vita: il controllo sul governo. E l’aula sorda e grigia, spontaneamente ridottasi a bivacco di manipoli, anzi di turiboli, ha prontamente obbedito, evitando di disturbare il manovratore. Con la sola eccezione di Fratoianni, che ha stigmatizzato il silenzio del premier. Draghi, non potendolo più fare alla Camera, gli ha replicato al Senato, ma solo per dire che “lo Stato è laico” (ma va?) e “il governo non entra nel merito della discussione, è il momento del Parlamento” (ma il Concordato è fra governi). Resta da capire che le paghiamo a fare, quelle 945 pecore belanti, se non hanno nemmeno il coraggio di fare una domanda al capo del governo. E dire che, fino a cinque mesi fa, strillavano come ossessi su Mes, rimpasto, prescrizione, governance del Pnrr, cybersicurezza, servizi segreti, Reddito di cittadinanza: le stesse questioni su cui ora tacciono e acconsentono. Ieri era il quarto anniversario della morte di Stefano Rodotà e per un attimo abbiamo rimpianto di non poter sentire la sua voce sul ddl Zan, sul Vaticano e su questo bel regimetto. Ma poi abbiamo concluso che è meglio così: almeno lui s’è risparmiato questo spettacolo penoso.

Iosonouncane, ma è geniale: “Ira” risuona come i Radiohead

Non capita spesso che un disco di un artista indipendente italiano faccia parlare così tanto di sé, dividendo il pubblico in fazioni, tra chi ne è entusiasta e si spertica in lodi e chi lo critica aspramente, talvolta anche in maniera feroce. Quel che è certo è che è un ottimo momento quello che sta attraversando la musica italiana – mainstream e non – e non solo per l’exploit a livello internazionale col rock dei Måneskin.

Parliamo di Ira, nuovo album di Iosonouncane, nome d’arte dietro il quale si nasconde il geniale cantautore sardo, di stanza a Bologna, Jacopo Incani, frutto di un lavoro estenuante, che ha attraversato un arco temporale di circa cinque anni. Un disco di spessore, che partendo da circa 15 ore di bozze e provini, Iosonouncane ha scritto e arrangiato “in ogni singola parte, nota, accento”. Composto da 17 brani per un’ora e 50 di musica (un’enormità per i tempi in cui viviamo, dominati soprattutto dai singoli) nei suoi formati fisici si presenta in un triplo vinile e in un doppio cd. Premessa d’obbligo: Ira non è un disco di facile fruizione, perché richiede dedizione e un ascolto attento, perché impegnativo. Come spiega Incani, Ira è un “atto sovversivo, violento e radicale contro il me del passato”. Lo è nel cantato, con l’italiano in secondo piano, in favore di un idioma in cui si mescolano esperanto, arabo, inglese, francese e spagnolo; lo è per la lunghezza e il numero delle canzoni che lo compongono; per il sound ipnotico (da molti Ira è stato accostato a Kid A dei Radiohead) elettronico e ambient, anche se si apre con un pezzo, Hiver, che fa pensare agli ultimi Artict Monkeys, quelli della svolta con Tranquillity Base, Hotel & Casino, ma che poi si incammina su un percorso tutto suo, in cui a farla da padrone sono i sequencer e i sintetizzatori, la batteria e le percussioni tribali, il mellotron e la musica industrial, come in Ashes e Jabal.

“Le esigenze sono artistiche, poetiche, intime – racconta Iosonouncane – Tutto si mischia ed è impossibile scindere i piani. Ognuno di questi livelli influenza l’altro. Ho sentito il bisogno di rinunciare a qualcosa, alla mia lingua, ma anche alla mia voce. È un’opera che stupisce in primis me che l’ho composto: in esso c’è un percorso intimo che prescinde e si sublima nel gesto artistico”. È un disco ispirato, coraggioso, che genera ansia e ha una dimensione da fine del mondo, meglio, da giudizio universale, in cui ogni elemento concorre alla narrazione. È una moltitudine in viaggio, che ascolta in religioso silenzio.

La riapertura è “Crudelia” e il botteghino poverissimo

Il problema non è che manchino spettatori, il problema è che spettacolo vedono. Domenica 20 giugno la partita Italia-Galles trasmessa da Rai1 alle 18 ha segnato il 60 per cento di share e 11.460.000 telespettatori con picchi di oltre 12,7 milioni, a cui vanno sommati il 9 per cento e gli 1,7 milioni di spettatori di Sky. La stessa domenica le sale cinematografiche aperte in Italia, 2.057, hanno registrato 45.200 presenze per 286.237 euro di incasso.

Non si pesano le mele con le pere, è vero, ma al cinema siamo alla frutta. La ripartenza non c’è stata, dopo la riapertura delle sale del 26 aprile i fuochi di paglia hanno lasciato campo ai fuochi fatui. Che fare?

Innanzitutto, s’è incaricato il daily Cineguru, prendere il polso: l’incasso totale di lunedì 21 giugno, il nono delle riaperture, è stato di 148.118 euro, gli spettatori 24.864 e le sale 1.627, laddove il 10 agosto 2020, nono lunedì delle precedenti riaperture, l’incasso era stato di 56.567, le presenze 11.173 e – attenzione – le sale 323.

Come si cambia per non morire, canta Fiorella Mannoia, ma come si dovrebbe cambiare per resuscitare? Nella settimana dal 14 al 20 giugno, il campione è stato The Conjuring con 288.521 euro di incasso e 44.385 presenze, seguito sul podio da Crudelia (237.969 euro, 38.864) e Spirit (161.870 euro, 26.494): horror, live action disneyana e animazione, l’imbarazzo non è della scelta, ma dei non spettatori. Cineguru estende il paragone tra questa ottava settimana della riapertura, incasso totale di 1.494.577 euro, presenze 246.700 e sale 2.229, e l’analoga delle scorse riaperture: incasso di 411.629 euro, presenze 78.922 e – attenzione – sale 534.

Se nei mesi della pandemia il consumo di audiovisivo ha registrato picchi inediti, al “liberi tutti” si fatica a cambiare passo, a ritrovare l’esperienza cinematografica, che è ben altra cosa dal consumo domestico: moto a luogo (la sala), visione collettiva, emozione condivisa. Vittima collaterale del Covid, la fruizione cinematografica è nella migliore delle ipotesi alla prima dose di vaccino, e il richiamo incerto.

Per un Nanni Moretti che infila due mesi e mezzo tra la presentazione al festival di Cannes (6-17 luglio) e l’approdo in sala (23 settembre) di Tre piani, altri non hanno sciolto le riserve, per esempio il Paolo Genovese di Supereroi, altri ancora hanno buttato il cuore oltre l’ostacolo, ma se il coraggio uno se lo può dare, l’incasso no: Comedians del premio Oscar Gabriele Salvatores ha totalizzato tra il 14 e il 20 giugno 9.161 spettatori per 53.709 euro, che levitano – iperbole – a 130.445 euro dal 10 giugno dell’uscita.

Brutti tempi per le novità: la stagione iniziata il 1° agosto del 2020 e quasi agli sgoccioli ha per primatista il vecchio Tenet di Christopher Nolan (6.761.980 euro), secondo è After 2 (4.157.729 euro), la riapertura solo terza con Crudelia (1.889.708 euro).

Nell’attesa che gli esercenti, e il comparto tutto, affinino le strategie per il ripopolamento, servirebbe un messaggio di speranza, gioverebbe una personalità autorevole che zittisca i profeti di sventura, e certifichi al cinema invenzione e, soprattutto, futuro. Uno come Steven Spielberg, gran sacerdote della Settima Arte, custode della sacralità della sala, cinefilo integerrimo, anzi, integralista. Uno capace di tenere la barra dritta, laddove altri prestigiosi colleghi, quali il Martin Scorsese di The Irishman, cedevano alle sirene degli streamer; uno capace di rampognare l’Academy, allorché apriva gli Oscar ai film in streaming. Le cose in sala potevano andare male, e vanno, ma lui, Spielberg, avrebbe mitigato le nostre paure, allontanato i titoli di coda, confidavamo. Fino all’altroieri, allorché Netflix ha annunciato di aver concluso un accordo pluriennale con lo studio Amblin Partners di Spielberg per la realizzazione di film originali, già da fine 2021. Un colpo clamoroso per il servizio streaming, un colpo letale per i duri e puri della sala, un voltafaccia per il papà di Indiana Jones. Il 12 giugno del 1981 usciva I predatori dell’arca perduta, quarant’anni dopo, Steven s’è scoperto predone.

@fpontiggia1