L’Egitto è una porzione di cuore, una libbra di carne. La schiavitù è dentro di noi: sono quattromila anni che il popolo ebraico si interroga sulla propria identità a partire da quell’Esodo quasi controvoglia, benché fosse una fuga dalle catene e dal faraone, “lo strappo”, in ebraico.
Anche il maestro Haim Baharier – talmudista, psicoanalista, ermeneuta… – torna a interpellare le Scritture su schiavitù e salvezza, giogo e dono, in un saggio squisito per erudizione, ironia e apertura di senso. Il cappello scemo – appena edito da Garzanti – è una creatura ibrida, geometrica quanto cangiante, rizomatica, come il suo autore. Consta di due parti, più una appendice dedicata all’“Ultimo dei Giusti”: i primi capitoli si concentrano su Pèsach e le “ricorrenze dei verbi e delle Coppe”, ovvero i cinque verbi e le altrettante coppe di vino e brindisi, che commemorano l’uscita dall’Egitto durante il sèder di Shabbàt. I verbi sono: “Vehotséti: vi farò uscire; Vehitzàlti: vi soccorrerò; Vegaàlti: vi riscatterò; Velakàhti: vi prenderò come popolo; Vehevéti: vi condurrò (verso il paese che ho giurato a mano alzata di dare ad Abramo…)”.
Spiega Baharier: “Uscire è sempre un entrare in altro”, è una mossa, un movimento che ha a che fare con la verticalità, il pericolo, l’incertezza, lo smarrimento. “Non è facile smettere lo statuto di schiavo… Allo schiavo che dice ‘amo il mio padrone’ la Torà prescrive che venga forato un orecchio”. “Uscire dal male”, come uscire da se stessi, può essere una “pia illusione”, e infatti nessuno “freme per uscire dalla schiavitù d’Egitto”; ci vorrà un outsider come Mosè per convincere il popolo ebraico. Perché “salvarsi è un’uscita”. Faticosa, pericolosa, ma possibile.
La salvezza – per Haim – è totem e tabù: nato nel 1947 a Parigi da genitori di origine polacca reduci dai campi di sterminio, Baharier si interroga sin da bambino su cosa significhi davvero salvarsi, non soltanto sopravvivere: così, a ogni sèder, osserva con curiosità e sospetto suo padre e gli altri ospiti scampati al lager, “uomini salvi che non si sono salvati… L’abito del sarto non copriva mai del tutto l’uomo con il pigiama a righe”. Anche qui, l’appiglio amico arriva dai patriarchi, da quel Noè che, dopo il diluvio, dopo avercela fatta insomma, si ubriaca, “confermando quanto poco abbia stima di sé”.
Di altro sapore è, invece, la seconda tranche del libro, apparecchiata con meno erbe amare: qui si indagano “le dieci creazioni dell’ultimo momento” di Dio, prima del riposo di Shabbàt. Dieci doni last minute, apparentemente bizzarri e ambigui ma indispensabili, a cui l’autore, per gioco ermeneutico e sfida filosofica, immagina di aggiungerne altri, come appunto il “cappello scemo” del titolo, il kova tembel, un berretto da pescatore molto usato durante la nascita e la costruzione dello Stato di Israele. Poche illusioni, però: la Torà racconta “soprattutto fallimenti e insuccessi, genealogie deviate e malsane”; persino la creazione è avvenuta dopo 26 tentativi fallimentari. Per la tradizione, i dieci oggetti – “parole-cose” li chiama Baharier – sono gli ultimi a venire al mondo alla vigilia del Sabato di riposo divino: tre di essi sono bocche, una parola che in ebraico ha valore numerico di 85, così come 85 sono le lettere minime di una pergamena per avere dignità di libro. La bocca della terra (che inghiotte Korah, il contestatore di Mosè, ma non lo uccide); la bocca della sorgente (aperta nella roccia per dissetare i figli di Israèl); la bocca dell’asina (animale legato alla prostituzione, bocca che maledice, che insinua, che devia). Poi ci sono l’arcobaleno, ambivalente perché necessita della pioggia; la manna, cibo anche dell’anima, di cui non si può fare scorta o prevedere nulla, coltura e cultura; il bastone; il verme (lo shamìr che fu indispensabile per costruire il Santuario di Gerusalemme); la scrittura; lo scritto; le tavole dell’alleanza. Come sempre non lineare e sorprendente, la tradizione ebraica annovera anche altri cadeau dell’ultimo minuto: i dèmoni; la tomba di Mosè (morto molto prima di raggiungere la terra “donata”: un luogo di fallimento, un monito contro l’idolatria); l’ariete di Abramo; le tenaglie fatte con le tenaglie.
Ma Dio dov’è, in tutto questo? Ammonisce Haim: “La domanda (al Signore) non è ‘dove sei?’ ma ‘meno male che non ci sei!’”, come una installazione contemporanea, un’opera d’arte senza la presenza ingombrante del suo creatore, che brilla per assenza. “Ne paghiamo il prezzo, è vero, ma questo è il prezzo della crescita, dello sviluppo, del diventare un’umanità adulta”. Un’umanità che non si accontenta solo di scrivere la “Storia di pentole e pannolini”.