E dio creò cappelli e vermi

L’Egitto è una porzione di cuore, una libbra di carne. La schiavitù è dentro di noi: sono quattromila anni che il popolo ebraico si interroga sulla propria identità a partire da quell’Esodo quasi controvoglia, benché fosse una fuga dalle catene e dal faraone, “lo strappo”, in ebraico.

Anche il maestro Haim Baharier – talmudista, psicoanalista, ermeneuta… – torna a interpellare le Scritture su schiavitù e salvezza, giogo e dono, in un saggio squisito per erudizione, ironia e apertura di senso. Il cappello scemo – appena edito da Garzanti – è una creatura ibrida, geometrica quanto cangiante, rizomatica, come il suo autore. Consta di due parti, più una appendice dedicata all’“Ultimo dei Giusti”: i primi capitoli si concentrano su Pèsach e le “ricorrenze dei verbi e delle Coppe”, ovvero i cinque verbi e le altrettante coppe di vino e brindisi, che commemorano l’uscita dall’Egitto durante il sèder di Shabbàt. I verbi sono: “Vehotséti: vi farò uscire; Vehitzàlti: vi soccorrerò; Vegaàlti: vi riscatterò; Velakàhti: vi prenderò come popolo; Vehevéti: vi condurrò (verso il paese che ho giurato a mano alzata di dare ad Abramo…)”.

Spiega Baharier: “Uscire è sempre un entrare in altro”, è una mossa, un movimento che ha a che fare con la verticalità, il pericolo, l’incertezza, lo smarrimento. “Non è facile smettere lo statuto di schiavo… Allo schiavo che dice ‘amo il mio padrone’ la Torà prescrive che venga forato un orecchio”. “Uscire dal male”, come uscire da se stessi, può essere una “pia illusione”, e infatti nessuno “freme per uscire dalla schiavitù d’Egitto”; ci vorrà un outsider come Mosè per convincere il popolo ebraico. Perché “salvarsi è un’uscita”. Faticosa, pericolosa, ma possibile.

La salvezza – per Haim – è totem e tabù: nato nel 1947 a Parigi da genitori di origine polacca reduci dai campi di sterminio, Baharier si interroga sin da bambino su cosa significhi davvero salvarsi, non soltanto sopravvivere: così, a ogni sèder, osserva con curiosità e sospetto suo padre e gli altri ospiti scampati al lager, “uomini salvi che non si sono salvati… L’abito del sarto non copriva mai del tutto l’uomo con il pigiama a righe”. Anche qui, l’appiglio amico arriva dai patriarchi, da quel Noè che, dopo il diluvio, dopo avercela fatta insomma, si ubriaca, “confermando quanto poco abbia stima di sé”.

Di altro sapore è, invece, la seconda tranche del libro, apparecchiata con meno erbe amare: qui si indagano “le dieci creazioni dell’ultimo momento” di Dio, prima del riposo di Shabbàt. Dieci doni last minute, apparentemente bizzarri e ambigui ma indispensabili, a cui l’autore, per gioco ermeneutico e sfida filosofica, immagina di aggiungerne altri, come appunto il “cappello scemo” del titolo, il kova tembel, un berretto da pescatore molto usato durante la nascita e la costruzione dello Stato di Israele. Poche illusioni, però: la Torà racconta “soprattutto fallimenti e insuccessi, genealogie deviate e malsane”; persino la creazione è avvenuta dopo 26 tentativi fallimentari. Per la tradizione, i dieci oggetti – “parole-cose” li chiama Baharier – sono gli ultimi a venire al mondo alla vigilia del Sabato di riposo divino: tre di essi sono bocche, una parola che in ebraico ha valore numerico di 85, così come 85 sono le lettere minime di una pergamena per avere dignità di libro. La bocca della terra (che inghiotte Korah, il contestatore di Mosè, ma non lo uccide); la bocca della sorgente (aperta nella roccia per dissetare i figli di Israèl); la bocca dell’asina (animale legato alla prostituzione, bocca che maledice, che insinua, che devia). Poi ci sono l’arcobaleno, ambivalente perché necessita della pioggia; la manna, cibo anche dell’anima, di cui non si può fare scorta o prevedere nulla, coltura e cultura; il bastone; il verme (lo shamìr che fu indispensabile per costruire il Santuario di Gerusalemme); la scrittura; lo scritto; le tavole dell’alleanza. Come sempre non lineare e sorprendente, la tradizione ebraica annovera anche altri cadeau dell’ultimo minuto: i dèmoni; la tomba di Mosè (morto molto prima di raggiungere la terra “donata”: un luogo di fallimento, un monito contro l’idolatria); l’ariete di Abramo; le tenaglie fatte con le tenaglie.

Ma Dio dov’è, in tutto questo? Ammonisce Haim: “La domanda (al Signore) non è ‘dove sei?’ ma ‘meno male che non ci sei!’”, come una installazione contemporanea, un’opera d’arte senza la presenza ingombrante del suo creatore, che brilla per assenza. “Ne paghiamo il prezzo, è vero, ma questo è il prezzo della crescita, dello sviluppo, del diventare un’umanità adulta”. Un’umanità che non si accontenta solo di scrivere la “Storia di pentole e pannolini”.

Sulle tracce del Che, sepolto due volte eppure mai morto

Accanto al luogo dove Guevara venne seppellito per la prima volta, sorge il centro anti-Covid di Vallegrande, la cittadina dove venne trasportato in elicottero il cadavere del Che prima che fosse esibito nella lavanderia dell’ospedale. La clinica anti-Covid è stata allestita all’interno del Centro Cultural Guevara, un edificio realizzato per commemorare il 50° anniversario della morte del guerrigliero argentino. Il Che venne seppellito due volte ed è curioso per un uomo che, in fondo, non è morto mai.

La notte tra il 10 e l’11 ottobre del 1967 il colonnello Zenteno e il tenente Selich ordinarono che i cadaveri di Guevara e di altri sei guerriglieri fossero distrutti. Era troppo rischioso dare una tomba al Che. I corpi vennero caricati su un camion che raggiunse la caserma accanto all’aeroporto di Vallegrande. La benzina per bruciarli era pronta, ma iniziò a piovere e si scelse di seppellirli.

Oggi il Che, che non doveva avere una tomba, ne ha addirittura due. Una a Vallegrande e l’altra a Santa Clara, Cuba.

I resti suoi e degli altri guerriglieri vennero ritrovati il 28 giugno 1997. Fu facile riconoscere il suo corpo. Era l’unico senza mani. Gliele amputarono e le spedirono chissà dove per confermare che quel guerrigliero magro e sporco era il Che.

A ordinare l’amputazione fu Quintanilla, pezzo grosso dei servizi segreti boliviani il quale, nel 1971, divenuto console ad Amburgo, venne ucciso da Monika Ertl, una donna bavarese che utilizzò una pistola che apparteneva a Giangiacomo Feltrinelli, l’attivista politico al quale Castro affidò I diari del Che in Bolivia e che lui pubblicò per primo.

Si dice che Quintanilla venne colpito dalla “maledizione del Che”, la condanna che Dio, la malasorte o i servizi segreti cubani inflissero a gran parte dei responsabili della cattura, della morte e della sparizione del corpo di Guevara.

Honorato Rojas, il contadino che condusse la retroguardia del Che verso un’imboscata organizzata dall’esercito, venne ucciso dai militanti dell’Esercito di Liberazione Nazionale. Il Che si fidava di Rojas, sei mesi prima si era fatto fotografare mentre teneva in braccio i suoi figli. René Barrientos, il dittatore che diede l’ordine di giustiziare il Che, morì carbonizzato all’interno del suo elicottero precipitato. Anche Zenteno e Selich, i due militari che ordinarono la distruzione del corpo del Che morirono di morte violenta.

Il primo, nominato ambasciatore in Francia, fu assassinato in un parcheggio vicino al Pont de Bir-Hakeim, dove Marlon Brando incontra Maria Schneider in Ultimo Tango a Parigi. Selich, che alcuni ritengono abbia insultato il Che mentre questi era rinchiuso, sospettato di aver organizzato un golpe fallito, venne ucciso a bastonate dai servizi segreti di La Paz.

Per Mario Terán, il soldato che uccise il Che sparandogli, pare, chiudendo gli occhi, il contrappasso è stato beffardo. Non è stato ucciso. Dopo aver vissuto anni con il terrore della vendetta di L’Avana, nel 2006, venne operato a un occhio da una brigata di medici cubani. La solidarietà internazionale medica è una caratteristica del governo cubano. Decine di medici, lo scorso anno, sbarcarono in Italia per occuparsi dei malati di Covid. Colui che sparò al Che venne operato gratuitamente da una équipe di dottori cubani. La migliore vendetta possibile. A Cuba venne dato grande risalto all’episodio. Venne scritto che Terán recuperò la vista con quell’intervento. Lui minimizzò parlando di una semplice operazione di cataratta. È difficile trovare la verità quando si ha a che fare con un mito.

Il mito del Che nacque a La Higuera, un villaggio povero e polveroso dove vivono una ventina di persone. Negli ultimi mesi si è spopolato. Il turismo guevarista, un turismo non massivo ma costante, è scomparso per via del Covid. Agli abitanti de La Higuera oggi non resta altro che coltivare patate, mais e pascolare vacche.

A La Higuera nessuno si è ammalato di Covid, ma si segue l’andamento della pandemia nella speranza che la morte del virus riporti gli appassionati nel luogo della morte del Che. Lo spera anche una coppia francese che gestisce un ostello ricavato nella Casa del telegrafista, dove Coco Peredo, uno dei guerriglieri, andò a telefonare e seppe che l’esercito aveva individuato la guerriglia. Poco dopo, Peredo cadde sotto i colpi dei ranger boliviani, soldati addestrati dai berretti verdi americani. Fu allora che il Che decise di lasciare La Higuera e rifugiarsi in una gola chiamata Quebrada del Churo. Per raggiungere il luogo in cui venne catturato c’ho messo due ore. Il cammino era pieno di spine. Mi ha accompagnato Isaías, un anziano che dice di ricordarsi il passaggio dei guerriglieri nel ’67. Oggi più che un guevarista è un evangelico. Anche negli sperduti villaggi boliviani la chiesa cattolica perde fedeli.

In fondo alla Quebrada del Churo, circondato dalle montagne che allora pullulavano di soldati, ho pensato che il Che sapesse di non avere più scampo. Il Che perse presto i contatti con Cuba, si perse più volte nella montagne e non vi fu un solo contadino che scelse di unirsi alla guerriglia. Non fu una missione ben organizzata. L’aveva preparata troppo in fretta, spinto da quell’inquietudine che è stata croce e delizia della sua vita.

Cosa resta del Che oggi? Il suo essere scandaloso. Nell’epoca più conformista che si ricordi è scandaloso che un uomo diventato presidente della Banca centrale e ministro dell’Industria abbia rinunciato a privilegi per andare a combattere in un Paese non suo e finire ammazzato dopo aver patito fame e attacchi d’asma. Nell’era della sondaggiocrazia, dove i politici attendono le rilevazioni demoscopiche prima di aprire bocca, è uno scandalo pensare a un uomo politico, perché il Che lo era, capace di mettere la passione davanti al calcolo, il romanticismo al posto del cinismo e la ricerca della buona morte al posto della comoda vita.

Sulla porta della scuola de La Higuera c’è scritto: “Da qui un uomo è passato all’eternità”. Il Che continua ad accendere la passione di milioni di persone che non si sentono rappresentati dalla politica professionista, dal politicamente corretto e dal gelido calcolo.

Pare che rivolgendosi a Terán, il quale esitava prima di sparare, disse: “Tranquillo, stai solo uccidendo un uomo”. Un uomo sì, il cui mito come scrive Pago Ignacio Taibo II, “passa attraverso i miti di grandezza del neoliberalismo”. Quel neoliberalismo nemico del Che e di milioni di dannati della terra. Un nemico oggi ancora vivo proprio come l’esempio del Comandante Guevara.

Catalogna, la grazia è poco I separatisti: “Referendum”

Probabilmente non verrà mai scattata la scomoda foto dei nove detenuti separatisti catalani all’uscita dal carcere. Questo perché – sebbene l’indulto non richiesto e concesso ieri dal governo Sánchez sia immediato dopo la firma del Re e la liquidazione del Tribunale supremo oggi – molti di loro già staranno usufruendo del permesso per il ponte della festa di San Giovanni, una delle concessioni della Generalitat per alleviare loro il carcere. Foto o no, i nove, che hanno finora scontato più di 1.300 giorni di reclusione per sedizione e malversazione dei fondi in relazione al referendum illegale per l’indipendenza del 1° ottobre 2017, saranno perdonati e liberi.

“È la decisione migliore per la Catalogna, per la Spagna e quella che più si confà allo spirito di concordia e convivenza della Costituzione”, ha ripetuto il premier ieri dopo il Consiglio dei ministri, pur ribadendo che “non si tratta di svuotare di valore la sentenza del Tribunale supremo che aveva condannato Junqueras, i consiglieri Dolors Bassa, Joaquim Forn, Raül Romeva, Josep Rull e Jordi Turull, l’ex-presidente del Parlament Carme Forcadell; i leader associazionisti Jordi Sànchez e Jordi Cuixarte dai 9 ai 13 anni di prigione. Argomento questo dei detrattori dell’indulto – dai Popolari a Ciudadanos a Vox, costituitosi parte civile nel processo e che ora pensano al ricorso – che sono tornati in piazza a Madrid per chiedere la testa di Sánchez. Anche ai baroni socialisti – vedi l’ex premier Felipe Gonzalez – la grazia non era piaciuta per questioni giuridiche. “Per la Costituzione il presupposto del perdono è il pentimento”, ha tuonato Gonzalez contro Sánchez, e “i separatisti non sono pentiti”. Forse anche per questo il premier ha ribadito che la sua decisione – revocabile in caso di reiterazione di reato e che non azzera l’inabilitazione dalle cariche pubbliche – “ha ragioni politiche e sociali”. Dalla ricerca di una soluzione al conflitto politico in Catalogna al “miglioramento della convivenza in una Spagna unita” nel solco della normalizzazione delle relazioni tra governo e Generalitat.

“Non mi aspetto che l’indulto faccia cambiare idea ai separatisti – ha spiegato Sánchez dalla scalinata della Moncloa. Ma apre un nuovo orizzonte”, il cui obiettivo è “che la Catalogna resti unita al resto di Spagna”. E l’ottimismo del premier è stato ripagato solo a metà: se da una parte il presidente catalano, Pere Aragonés domenica sarà alla cena con il Re Felipe VI a Barcellona al Mobile World Congress e il suo gabinetto lavora a un vertice con Sánchez nei prossimi giorni. Dall’altra tiene il punto: “Vogliamo l’amnistia e il referendum per l’indipendenza della Repubblica catalana, altrimenti non cambia nulla”, ha dichiarato ieri aggiungendo che “l’indulto non è idea del premier ma è conseguente alla richiesta del Consiglio d’Europa di liberare i detenuti e rivedere il reato di sedizione cosa che farebbe rientrare gli esuli come Carles Puigdemont.

L’Afghanistan merita un “sistema islamico” È la parola del mullah

Per governare l’Afghanistan dopo il ritiro completo delle truppe statunitensi e della Nato e porre fine alla guerra con il governo filo-occidentale di Kabul, il cofondatore e vice leader dei talebani Abdul Ghani Baradar sostiene sia necessario un vero sistema islamico: “Un vero sistema islamico è il mezzo migliore per la soluzione di tutti i problemi degli afghani”. Cosa ciò significhi realmente per il potente mullah che ha contribuito a ricostruire l’esercito ribelle degli “studenti di Dio” e a condurlo alla riconquista di buona parte di questo Stato cuscinetto devastato da decenni di guerre d’occupazione, non è dato saperlo con precisione. Dalle sue affermazioni più recenti emerge, per esempio, che le donne dovrebbero essere protette nei loro diritti, ma quali siano questi diritti non è per nulla chiaro.

Le parole del mullah sono deflagrate come una bomba a Kabul dove il presidente Ashraf Ghani non sa più quali mezzi e uomini adottare per bloccare l’avanzata dei talebani. Nonostante sostenga davanti alle telecamere che “le forze regolari sono perfettamente in grado di bloccare l’avanzata dei talebani”, il capo dello Stato ha fatto un nuovo rimpasto di governo sostituendo i ministri chiave per la sicurezza e stabilità, ovvero i titolari dei dicasteri della Difesa e Interni. Dopodiché ha invitato i talebani a scegliere tra la pace e l’inimicizia con il governo ottenendo una risposta beffarda: “Rimaniamo impegnati nei colloqui di pace, ma l’unico modo per arrivare a una conclusione pacifica è stabilire un vero sistema islamico”. Come dire: dobbiamo vincere noi. I negoziati di pace tra i militanti islamici post mullah Omar e il governo afghano sono in stallo ormai da molti mesi e la violenza è andata aumentando in tutto il paese da maggio, quando le forze armate statunitensi hanno iniziato il loro ritiro definitivo previsto per l’11 settembre. Specialmente nella capitale, dove dalla cacciata dei talebani, vent’anni fa, le donne hanno ottenuto più possibilità di integrazione nella vita sociale e in ambito professionale, sta crescendo il timore che se questi tornassero al potere reimporrebbero la loro oscurantista e brutale versione della legge islamica, la sharia, in base alla quale le bambine erano bandite dalla scuola e le donne accusate di crimini come l’adulterio venivano lapidate negli stadi. Abdul Ghani Baradar per tentare di dimostrare la propria buona fede e volontà di dialogo ha spiegato in una nuova nota: “La nostra stessa partecipazione ai negoziati… indica apertamente che crediamo nella risoluzione dei problemi attraverso la (reciproca) comprensione”.

Parole che non hanno convinto la controparte e gli americani anche perché il mullah ha aggiunto che la definizione di questo sistema islamico per quanto riguarda la questione femminile “rientra solo nell’ambito dei negoziati intra-afghani”. L’inviato speciale delle Nazioni Unite in Afghanistan, Deborah Lyons, ha affermato che i talebani hanno preso più di 50 dei 370 distretti da maggio, avvertendo che l’aumento del conflitto “significa una maggiore insicurezza per molti altri paesi, vicini e lontani”. Inoltre questa travolgente avanzata ha spinto migliaia di afghani che hanno lavorato con le forze straniere a fuggire per evitare ritorsioni. Baradar ha provato, invano, a fermarli assicurando che non verranno puniti. In questo clima di guerra civile sempre più sanguinosa, con centinaia di soldati governativi che ogni giorno rimangono sul campo di battaglia e attacchi contro i civili anche da parte del gruppo Khorasan, cioè i terroristi islamici affiliati all’Isis, il portavoce del Pentagono, John Kirby, ha affermato che ci potrebbe essere un rallentamento nelle procedure e ritmo del ritiro statunitense. La scadenza fissata nel giorno simbolo di questa guerra, l’11 settembre, non dovrebbe però cambiare. Sta proseguendo intanto la furiosa battaglia per la conquista del principale valico di frontiera dell’Afghanistan con il Tagikistan, nella provincia settentrionale di Kunduz. “Presto assisterete ai nostri progressi in tutto il Paese, non solo qui”, ha detto il portavoce generale dei talebani, Ajmal Shinwari. Il presidente degli Usa Joe Biden afferma che il ritiro americano è giustificato poiché le forze statunitensi si sono assicurate che l’Afghanistan non possa tornare a essere una base per i jihadisti stranieri che vogliono complottare contro l’Occidente. Un alto funzionario delle Nazioni Unite, che ha chiesto l’anonimato ha invece spiegato che al Qaeda è ancora “fortemente radicata” tra militanti talebani. “Non esiste una soluzione militare in Afghanistan. Ai Talebani ribadiamo che il percorso militare non porterà alla legittimità e che il mondo non riconoscerà l’insediamento di alcun governo imposto con la forza”, ha detto ieri l’ambasciatrice americana all’Onu, Linda Thomas-Greenfield, durante una riunione del Consiglio di Sicurezza. Fino a ieri sera l’amministrazione Biden ha lanciato un appello per “cessare” le violenze in Afghanistan e per “negoziati seri”.

Rep. si agita su Dibba, ma sulla P2 non si scompone

Repubblica se la prende con il “Che di Roma nord” perché va a presentare il suo libro Contro (edito da Paper First, casa editrice della società che edita Il Fatto) a San Felice al Circeo in una manifestazione organizzata da “Amor per Circeo”. L’associazione è presieduta da un ex tessera P2 (la 1729) intestata al generale Serafino Liberati. Repubblica ricorda che “Amor per Circeo”, “a cui il Comune ha concesso per cinque anni gratis i suoi gioielli”, è guidata dall’ex piduista e ha tra i soci il finanziere Stefano Balsamo, fondatore dell’esclusivo Canova club, Erminio Fragassa, presidente di Micromegas comunicazione, società impegnata nell’area dell’Event Management, che a San Felice aveva realizzato “Notte di plenilunio alla Villa dei Quattro Venti”, il commercialista romano Alessandro Zadotti, il sindaco di San Felice Circeo, Giuseppe Schiboni, e il consigliere comunale d’opposizione Eugenio Saputo. Ma che tutti costoro si facciano presiedere da un ex piduista non dà scandalo, lo scandalo è solo la presenza di Di Battista (peraltro presente perché invitato dal presentatore dell’evento, il giornalista di La7 Andrea Pancani, pure lui ignaro della figura del generale, al punto di averne chiesto le dimissioni). Puoi aver fondato la P2, e Repubblica non se ne cura, ma se ti chiami Di Battista…

Razzismo, Letta e la religione del buonismo

Pur se fosse dettata dalle migliori intenzioni quell’“inginocchiatevi tutti”, rivolto da Enrico Letta agli Azzurri del calcio che domenica scorsa hanno ripetuto in ordine sparso il gesto che ricorda l’omicidio di George Floyd, appare per almeno un paio di motivi una frase sbagliata. Lo è perché qualsiasi gesto simbolico scopre nell’autenticità di chi lo compie la sua sacralità. Lo fai perché ci credi e non perché te lo ordina qualcuno. Se invece mettere un ginocchio per terra in uno stadio è solo un modo farisaico, e assai teatrale, di seguire la corrente – vedete sono anche io contro il razzismo –, il risultato è una manifestazione triste di conformismo. Ma ciò che il segretario del Pd dovrebbe evitare come la peste è di prestare il fianco alla velenosa propaganda della destra che descrive la sinistra – e in primo luogo il partito più votato di quell’area – come una sorta di autonominata Buoncostume. Un coacervo di occhiuti guardiani del politicamente corretto impegnati a fustigare, censurare, imbavagliare qualsiasi opinione che non sia quella imposta dalla (direbbe il Salvini&Meloni) religione del buonismo. Forse non è un caso che le polemiche seguite all’appello lettiano di piegare il ginocchio vadano a incrociarsi con l’interferenza vaticana, senza precedenti, che pretende di modificare una legge all’esame del Parlamento della Repubblica Italiana. E dove, soprattutto, la legge Zan violerebbe il Concordato? Nell’attentare alla “libertà di pensiero” della comunità dei cattolici, risponde la Segreteria di Stato. La stessa accusa rivolta da Salvini&Meloni quando sostengono che le norme di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza sull’orientamento sessuale e all’identità di genere sarebbero il cavallo di Troia della sinistra per imbavagliare e sanzionare qualsiasi opinione contraria a una non meglio precisata dottrina omotrans. Una gigantesca balla (da ieri accreditata nei Sacri Palazzi) che ci presenta un mondo capovolto in cui il Pd è il trinariciuto poliziotto di una ideologia imposta (tutti in ginocchio). E intanto a destra le nuove vestali della libertà di pensiero intonano il piagnisteo vittimista. In una nuvola d’incenso.

Sulla legge Zan inaudita interferenza dello Stato Vaticano

Giustamente il Corriere della Sera, che ieri ha fatto lo scoop, ci ha aperto il giornale. Giustamente non solo perché la notizia era un’esclusiva, ma soprattutto perché il quotidiano milanese dava conto di un fatto mai accaduto. Come i lettori sanno, dopo l’approvazione alla Camera, è all’esame della commissione Giustizia di Palazzo Madama il ddl Zan contro l’omotransfobia. Il Vaticano è intervenuto, con una violazione inaudita della sovranità italiana. Monsignor Paul Richard Gallagher, segretario per i Rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato (il ministro degli Esteri) lo scorso 17 giugno ha consegnato “informalmente” al primo consigliere dell’ambasciata italiana presso la Santa Sede una “nota verbale”. In cui si sostiene che alcuni contenuti della proposta legislativa riducono la libertà garantita alla Chiesa Cattolica dall’articolo 2 dell’accordo di revisione del Concordato. In sostanza i timori d’Oltretevere riguardano la libertà di organizzazione, di esercizio del culto, di esercizio del magistero e del ministero episcopale e la libertà di riunione e di manifestazione del pensiero. Nessuno stupore, la contrarietà della Chiesa al ddl è nota quanto ovvia. La Cei è peraltro già intervenuta ufficialmente.

Qui però il punto non è di merito, se il Vaticano abbia ragione o no. Mettiamo che le loro posizioni siano corrette o non del tutto scorrette (cosa che forse vale per l’istituzione della giornata contro l’omofobia e la previsione di iniziative nelle scuole, per quanto riguarda gli istituti confessionali, anche se l’attuale formulazione non pare prevedere un obbligo), la questione fondamentale è la decisione di intervenire a gamba tesa nei lavori del nostro Parlamento, durante la fase di approvazione di una legge. E poco importa che ieri sia stato precisato che la nota è stata “informalmente” consegnata. Il concordato del ’29 (così come l’aggiornamento del 1984) non è strumento che si possa invocare per interferire o fare pressioni (“Serve a regolare alcune specificità religiose”, ha detto ieri il professor Ainis). Questa mossa è un maldestro tentativo di pressione che deve essere rispedita al mittente con estrema fermezza, perché mette in pericolo la sovranità e il principio di laicità dello Stato: Italia e Vaticano sono, a norma di Costituzione, “indipendenti e sovrani” (art.7). Non può essere consentito ad uno Stato di ingerire nei processi democratici di una Nazione, nemmeno nel caso “particolare” del Vaticano (il quale peraltro non manca mai di rivendicare con risolutezza la propria autonomia). Invece? Invece Enrico Letta, segretario del principale partito progressista, ha commentato a caldo: “Siamo sempre stati favorevoli a norme molto forti contro la omotransfobia”. Ma, attenzione: “Guarderemo con il massimo spirito di apertura ai nodi giuridici”. Ora, noi non ci dimentichiamo che Letta è stato segretario dei giovani democristiani europei e vicesegretario del Ppi: basta che smettiamo di fare finta che stiamo parlando di un partito di sinistra. Le posizioni dei cattolici sono note, i tentativi della Chiesa di condizionare il dibattito pubblico un retaggio antico (basta ricordare i passaggi decisivi per la laicizzazione dello Stato, in tempi non così lontani: i due referendum, per divorzio e aborto). Oggi il premier dirà la sua, e bisogna che anche il Parlamento, attraverso i presidenti di Camera e Senato, riaffermi con forza la propria autonomia. Se mai il ddl Zan vedrà la luce (cosa sempre più difficile), ci sarà modo per i cittadini e le istituzioni italiane di chiedere alla Consulta una verifica costituzionale della legge. Che non può essere pretesa preventivamente da un altro Stato, invocando un trattato internazionale. Una cosa che, purtroppo, non sembra chiara nemmeno ai nostri parlamentari.

 

Quale lavoroPrepariamoci al cottimo, all’erosione dei diritti e ai licenziamenti

Tra una settimana esatta, alla mezzanotte del 30 giugno, la dichiarazione di guerra (un’altra!) contro i lavoratori sarà consegnata nelle mani dei gruppi industriali italiani. Si tratta delle fine del blocco dei licenziamenti, che produrrà moltissimi nuovi poveri, privati del diritto fondamentale di cui parla l’articolo 1 della Costituzione. Le stime più ottimistiche (!) dicono di centinaia di migliaia di nuovi disoccupati – sono 56 mila soltanto quelli delle aziende che siedono ai 99 tavoli di crisi aperti al ministero – che salteranno come tappi il primo luglio. La vulgata confindustriale (appoggiata da tutta la destra, da Forza Italia a Italia Viva) è che bisogna licenziare per ripartire e assumere di nuovo, che è come dire che per bere un bicchier d’acqua è giusto prima morire di sete.

La realtà è molto più semplice: l’obiettivo è quello di ridisegnare le dinamiche del lavoro salariato in modo da espellere chi ha ancora vecchi diritti e vecchie garanzie e di assumere (semmai) con diritti e garanzie minori. In sostanza, una grande ristrutturazione del Lavoro a beneficio dei profitti. Traduco: chi lavora sarà più povero e meno protetto; chi fa profitti sarà più ricco e più tutelato. La riforma degli ammortizzatori sociali, tanto sbandierata, è una faccenda di chiacchiere stantie, il salario minimo è scomparso dai radar, e vagano nell’aria tante belle dichiarazioni d’intenti e progetti luminosi che finiranno, al solito, come lacrime nella pioggia.

Nel frattempo, un’indagine dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro (2020) certifica che il 72 per cento delle aziende che operano nel settore della logistica presentano irregolarità. Delle famose cooperative che fanno da serbatoio di braccia (quelle che “somministrano” il lavoro, tipo supposta, insomma), il 78 per cento è fuori legge. Settantotto per cento (lo ridico), cioè quasi otto su dieci. Domanda: quale cazzo di Stato arriva a permettere un’illegalità sul mercato del lavoro che raggiunge in certi segmenti (lo ridico) il settantotto per cento?

Il 5 può essere fisiologico, il 10 una disgrazia, il 15 un segnale inequivocabile che qualcosa non funziona. Ma per arrivare al 78 per cento significa che non stiamo parlando di un incidente o di un’anomalia, ma di una precisa volontà politica, granitica, coesa, un’intesa larghissima per cui negli ultimi vent’anni e pure di più, la guerra al mondo del lavoro è stata costante, precisa, agguerrita. In una parola: un’ideologia.

La trappola dialettica che “bisogna difendere il lavoro e non i lavoratori”, sbandierata spesso da chi freme dalla voglia di licenziare, significa alla fine che ciò che producevano in due lo produrrà uno solo, e l’altro cazzi suoi. Si riproporrà, insomma, su larga scala il cottimo e l’erosione dei diritti che vediamo oggi sui piazzali e sui camioncini della logistica.

Per vent’anni, ogni legge sul lavoro si è sovrapposta ad altre leggi sul lavoro, e poi deroghe, regali, decontribuzioni, incentivi, centinaia di contratti diversi, sempre, a ogni passaggio, con un cedimento di posizione dei lavoratori.

Risultato: secondo la conferenza dei sindacati europei su dati Eurostat, oggi in Italia, il 12,2 della popolazione lavorativa è considerata “povera”, cioè pur lavorando resta sotto la soglia di povertà.

C’è poco da scomodare categorie storiche e apparati filosofici, la realtà è più forte delle chiacchiere: questo sistema di organizzare il lavoro in una grande democrazia che lo sbandiera come primo diritto non funziona e diventerà presto intollerabile.

 

Letta e Conte vadano in piazza con i sindacati

Se Enrico Letta e Giuseppe Conte volessero inviare un messaggio di unità e di dialogo nei confronti di una base sociale molto ampia e troppo abbandonata dalla politica, potrebbero farsi vedere insieme sabato 26 giugno nelle piazze convocate da Cgil, Cisl e Uil.

I sindacati manifestano per molte cose, ma soprattutto per chiedere una nuova proroga dei licenziamenti – quella attuale scade il 30 giugno – dopo che il tentativo del ministro Andrea Orlando di rinviare, sia pure per una parte dei lavoratori, la facoltà di espulsione dal posto di lavoro è stata bloccata da Mario Draghi su input di Confindustria.

I sindacati manifestano in realtà per molte cose: gli ammortizzatori sociali universali, la possibilità di continuare ad andare in pensione a 62 anni se si hanno i contributi, la governance del Recovery Fund, il Fisco, i rinnovi contrattuali. Questioni in larga parte sindacali, certo, ma si tratta di una serie di punti che hanno molto seguito tra le persone in carne e ossa che, nel momento in cui l’emergenza Covid tende a sfumare, di quello parlano e di quello si preoccupano.

Sia Conte che Letta hanno cercato di inviare dei segnali in questa direzione. Molto timidamente, il Pd ha messo agli atti la propria predilezione per la proroga del blocco dei licenziamenti, ma Orlando alla fine si è dovuto piegare al diktat di Draghi. E lo stesso ha fatto Letta quando la sua modesta proposta di una tassa sui patrimoni per finanziare i giovani maggiorenni è stata scartata dal presidente del Consiglio senza nemmeno l’onore di poterla discutere.

Con più nettezza, Conte ha ribadito, nel corso della sua presenza a Napoli, che il Reddito di cittadinanza “è una cintura di protezione sociale”, facendo riferimento all’articolo 36 della Costituzione, che parla di retribuzione “proporzionata e sufficiente per assicurare” al lavoratore “e alla sua famiglia un’esistenza libera e serena”.

Commentando, poi, la morte del sindacalista Si Cobas, Adil Belakhdim, ha fatto riferimento alla necessità di un “nuovo Statuto dei lavoratori” accanto a uno “Statuto delle imprese” per evitare “sfruttamento, ricatti e caporalato”. Conte non ha precisato in che direzione vorrebbe uno Statuto dei lavoratori “nuovo”, se ad esempio nella direzione in cui si è mossa la Cgil che ha indicato come priorità l’allargamento dei diritti a tutti i lavori e a tutte le tipologie di lavoratori.

Lo stesso Maurizio Landini, commentando con Il Fatto tale ipotesi, non potendosi esprimere sulla proposta di Conte ha però voluto precisare che riterrebbe “utile e necessario che le forze politiche, che si ritengono progressiste o comunque alternative alla destra del nostro Paese, si pongano il tema di ripartire dal lavoro e dalla sua rappresentanza”.

La domanda, allora, è chiara: si vogliono porre il tema del lavoro e della sua rappresentanza forze come il Pd e il M5S? Vogliono ingaggiare sul serio una corsa a chi rappresenta meglio il mondo del lavoro e del non lavoro in tutte le sue sfumature?

I problemi non mancano a entrambi. Nel Pd è chiaro da tempo che esiste una componente preponderante, forse maggioritaria, che considera questa prospettiva una pugnalata al cuore di una prospettiva pseudo-riformista che tanto piace ai “liberisti da divano” per citare una espressione fortunata (tanto che il divano, quei liberisti, lo hanno portato a Palazzo Chigi).

Ma anche nel M5S esistono problemi come dimostra quell’emendamento al dl Sostegni che inaspriva i requisiti per beneficiare del Reddito di cittadinanza costringendo gli utenti ad accettare lavori stagionali sottopagati. Allo stesso tempo, ci sono rilanci importanti come quello che Roberto Fico ha fatto proprio su questo giornale e che riguardano la proposta del salario minimo in questo caso paradossalmente boicottata proprio dai sindacati (che temono di perdere il proprio potere contrattuale).

Ci sono contraddizioni evidenti, dunque, ma il post-Covid non può essere monopolizzato solo dalla quantità degli appalti pubblici e dalla solita filosofia liberista dello “sgocciolamento” che non ha mai funzionato. C’è un enorme tema di diritti sociali, di retribuzioni eque, di dignità del lavoro, di pratiche mafiose e violente da parte di un padronato incattivito dalla crisi. Tutto questo è diventato uno scarto della politica, buona a occuparsene solo quando ci scappa il morto. Ma in realtà è la vita reale di milioni di donne e uomini. Se si deve parlare di possibili coalizioni contro la destra si dovrebbe cominciare da qui. E andare in piazza con il sindacato sarebbe un bel segnale.

 

Da un ragazzo “Di sfratto in sfratto, io e la mia famiglia siamo disperati”

Gentile redazione, il problema qual è? È il Reddito di cittadinanza a essere alto o forse sono le buste paghe troppo basse e improponibili? “Sei lazzarone! Guarda quanti sarebbero disposti a farlo anche a bassa paga! Be’, se non ti sta bene, avanti il prossimo!”: queste sono le frasi riservate a noi giovani. La verità è che il Rdc ha permesso per la prima volta alle categorie fragili di non essere più ricattabili da chi poteva sfruttarle tranquillamente grazie alla scusa della crisi prima, del Covid poi, e grazie ai contratti per stagisti/tirocinanti: un escamotage per rendere uno sfruttamento moderno tutto legalmente regolare. Ma perché lo Stato lo consente?

Io sono un ragazzo di 23 anni, vi scrivo dalla provincia di Varese. Il mio nucleo familiare è composto da tre componenti: io, mia mamma (56 anni, invalida civile dal 2007) e mio papà (67 anni). Viviamo da sempre in affitto e io, sin da bambino, ho visto tanti traslochi causati dagli sfratti per l’aumentar via via degli affitti liberalizzati. Avremmo tutti i requisiti, da tempi non sospetti, per entrare nelle graduatorie delle case popolari, ma non ci è stato mai consentito. Ecco perché siamo in locazione dai privati dal 1997: io, dopo essermi diplomato nel 2018, ho affrontato un tirocinio retribuito a 550 euro mensili di rimborso spese, pur essendo un lavoratore a tutti gli effetti, non solo per le 40 ore settimanali che dovevo svolgere (a 2 euro l’ora) ma per le vessazioni e i soprusi subiti, tipici dei caporali verso i braccianti. Tutto è avvenuto in un negozio di una nota catena di negozi di scarpe e tuttora soffro gli strascichi di questa esperienza, tanto da avere problemi di depressione e forti attacchi di panico. E oggi sentire dalle tv – anche quella pubblica – che i giovani sono lazzaroni o presuntuosi mi fa ancora più male. È vergognoso perché si dà una comunicazione volutamente sbagliata per attaccare una misura come il Rdc che contrasta la povertà. In Italia ci sono diversi problemi di welfare: il salario minimo garantito dovrebbe essere una priorità…

Vi scrivo questa lettera, che ritengo “ultima spiaggia”, soprattutto per la mia famiglia, vittima di una grossa ingiustizia: i funzionari pubblici che avrebbero dovuto capire e aiutare persone in vera difficoltà come noi, in realtà ci hanno creato solo disagio e disperazione. Oggi – dopo otto traslochi – confido ancora in una soluzione abitativa popolare nel mio comune, Laveno. Poiché solo così potrò tirarmi fuori dalla depressione. Io non ho i mezzi per risolvere questo problema se non quelli di denuncia.

G. S.