Solinas minaccia i sindaci: “Il Piano casa va applicato”

“Nonostante sia stata impugnata dal governo, la legge è attualmente vigente, efficace e deve essere applicata fino a quando non vi sarà un’eventuale dichiarazione di incostituzionalità completa o parziale”. È l’ultimatum contenuto nella missiva che si sono visti recapitare il 1º giugno scorso tutti gli enti locali della Sardegna. A firmare l’assessore all’Urbanistica della Sardegna, Quirico Sanna, fedelissimo del presidente Christian Solinas.

Tema del contendere i troppi rifiuti posti da Comuni e Sovrintendenze ad applicare i dettami del “Piano casa”, la legge regionale n. 1 del 2021, approvata lo scorso 14 gennaio dalla maggioranza di centrodestra dopo una maratona di 14 sedute consiliari. Una norma che il governo ha impugnato, contestando 27 articoli su 31, un record, sulla scorta delle censure mosse dai ministeri dell’Ambiente, della Cultura e dalla Protezione civile nazionale.

I motivi per spedire tutto alla Consulta non mancano, come sostenuto fin da subito da opposizioni e ambientalisti, i quali avevano raccolto in pochi giorni 38.800 firme contro la legge. Critiche fatte proprie dal governo, che nel testo di impugnazione certifica come la norma conceda aumenti di cubature “sproporzionati” e contrari alle norme, esponendo in particolare le campagne al rischio di effetti ambientali “devastanti in termini di frammentazione degli agro-ecosistemi”. Non solo, la legge apre a “un condono edilizio” regionale surrettizio e a una distorsione della concorrenza nell’accesso ai fondi del superbonus edilizio.

In pratica, la legge tanto voluta da Solinas è un colpo di spugna al sistema di regole e tutele finora in vigore in tema ambientale, perché rende più semplice costruire, ristrutturare e ampliare praticamente ovunque, anche nelle zone agricole in lotti minimi di un ettaro (prima il limite era tre), con l’eccezione della fascia protetta dei 300 metri dal mare (nella prima versione era compresa anche la costa), dalle zone umide e da laghi, stagni e bacini artificiali. Il testo facilita anche l’iter per l’abitabilità di soppalchi, sottotetti, seminterrati e pilotis, il che in una regione che soffre di dissesto idrogeologico e inondazioni, non è certo una grande idea. Ciliegina sulla torta, il Piano casa consente aumenti di cubature per seconde case e hotel, introducendo un mercato dei crediti volumetrici e proroga gli incrementi di cubature fino a tutto il 2023.

Gli enti locali, però fino sono stati restii ad accettare progetti che poggiano su norme così contestate e oltretutto sub iudice. In particolare le Sovrintendenze di Cagliari e Sassari hanno puntato i piedi (anche perché la legge bypassa completamente il loro ruolo e pure il Piano Paesaggistico Regionale, norma di rango superiore). Solinas non ha gradito e non solo ha imposto al suo assessore Sanna di “ricordare” ai sindaci che chi non obbedisce commette “omissione di atti d’ufficio”, ma ha anche impugnato gli atti di rifiuto delle Sovrintendenze. Un cortocircuito legale inedito: “Con questi ricorsi – sostiene il governatore – riaffermiamo i nostri diritti sacrosanti riconosciuti dallo Statuto, a partire dalla potestà legislativa esclusiva in materia di edilizia e urbanistica e di piani paesaggistici”.

Spettatore interessato è Silvio Berlusconi, il quale – come scriveva ieri Il Tempo – da 30 anni cerca di coronare il suo sogno di costruire il villaggio turistico di Costa Turchese e che il 14 gennaio scorso sembrava finalmente esserci riuscito. Non a caso, durante il dibattito sulla legge, proprio gli eletti di Forza Italia erano stati i più attivi: “Sembrava un mercato delle vacche – racconta un consigliere – coi colleghi di FI che mercanteggiavano come pazzi sulle volumetrie alla disperata ricerca del massimo consentito”. Il sogno di B. è stato per ora fermato, paradossalmente, dal ricorso della ministra degli Affari regionali, Mariastella Gelmini.

Cingolani resuscita anche il gasdotto caro a Usa e Israele

Tutto faceva pensare che l’opera sarebbe rimasta un disegno sulla carta. Non solo perché i termini per la fine dei lavori erano ormai ampiamente superati (6 giugno 2021), ma soprattutto perché il governo italiano si era opposto al progetto di una nuova infrastruttura pensata per importare metano. “Sicuramente in questo momento il governo non ha alcuna sensibilità per realizzare il tratto finale di Poseidon come originariamente progettato – aveva detto nel maggio del 2019 l’allora premier Giuseppe Conte – non siamo disponibili a consentire un approdo a Otranto come preventivato originariamente”.

A mettere in dubbio l’intera opera, e non solo il punto di approdo, ci aveva pensato poi il Piano Nazionale Integrato Energia e Clima (Pniec), presentato dal governo di Roma alla Commissione europea a gennaio del 2020: il Poseidon, è scritto nel Piano, “potrebbe non rappresentare una priorità”. Sembrava la mazzata finale per il gasdotto progettato per portare in Italia il metano estratto nel Mediterraneo Orientale, tra le acque di Cipro e quelle di Israele, con punto di approdo a Otranto, 20 chilometri a sud dallo sbocco di un altro gasdotto, il Tap, entrato in funzione giusto sette mesi fa. E invece Poseidon, nel silenzio generale, è resuscitato.

“I termini per la realizzazione del progetto Metanodotto IGI Poseidon tratto Italia… sono così prorogati: il termine per l’avvio dei lavori è prorogato al 1° ottobre 2023 e il termine per la fine lavori è prorogato al 1° ottobre 2025”. È questo il testo del decreto con cui lo scorso 26 marzo il ministero della Transizione ecologica ha rimesso in pista il tubo da 10 miliardi di metri cubi di capacità. Poseidon è l’ultimo segmento del tubo Eastmed, 1.900 chilometri d’acciaio fortemente voluti soprattutto da Israele (con l’appoggio di Usa e Ue), che punta così a creare un collegamento fisico attraverso cui esportare il suo metano in Europa aggirando la Turchia. Insomma, il ministro Roberto Cingolani ha deciso che il Poseidon serve e si farà, concedendo quattro anni di tempo in più per realizzarlo alla società costruttrice, la IGI Poseidon, joint venture tra l’azienda di Stato greca, Depa, e la Edison, controllata italiana del gruppo francese Edf.

Sebbene inedita, la notizia su Poseidon non stupisce. La scelta di puntare sul gas è infatti perfettamente congruente con quanto il governo Draghi sta facendo da quando si è insediato. Cingolani lo ha detto da subito: “Noi abbiamo un target di decarbonizzazione al 2050 e uno parziale al 2030 – è stata una delle prime dichiarazioni pubbliche del ministro – quindi dobbiamo fare uno sforzo concreto per abbattere la parte di fuel di natura fossile. Credo che il gas sarà l’ultimo a sparire perché ci consentirà di portare avanti la transizione”.

Il governo Draghi punta dunque a eliminare prima il carbone, poi il petrolio e, alla fine, il gas. Il punto è quando avverrà questa fine, perché se tutti sono d’accordo sul fatto che un periodo di transizione (per passare dalle fossili alle rinnovabili) ci debba essere, le opinioni differiscono di molto quando si tratta di definire le tempistiche di questo passaggio.

Per dirla in parole più semplici, molti credono che non abbia senso costruire nuovi gasdotti, che sono opere pensate per il lungo termine, se il loro fine deve essere solo quello di funzionare da ponti temporanei tra il passato e il futuro. “Rinnovare l’autorizzazione a un gasdotto come il Poseidon – dice ad esempio Elena Gerebizza, dell’associazione Re:Common – è la riprova che il ministero della Transizione ecologica è una farsa. Si sarebbe potuto chiamare ministero del gas, o del collasso climatico. È impensabile che si continuino a costruire nuovi gasdotti, invece di orientare gli investimenti verso la necessaria transizione dal modello delle fossili, cosa che in molti credevano fosse il mandato di questo ministero, ma evidentemente non è così”.

Una critica non molto diversa, nella sostanza, da quella fatta lo scorso maggio da John Kerry, inviato speciale del presidente Joe Biden per il clima: “Il ministro Cingolani mi ha mostrato le mappe dei gasdotti, esistenti e in discussione. Ma attenzione: il gas naturale è comunque un combustibile fossile, composto all’87% circa di metano, quando lo bruci crei CO2, e quando lo sposti possono esserci perdite molto pericolose. Dobbiamo affrontare un discorso assai più ampio sulla rapidità con cui passare a un’economia basata sull’energia pulita che alla fine non dipenda nemmeno dal gas naturale”, ha detto Kerry in un’intervista al Corriere della Sera. Detto dal Paese che guida la classifica dei maggiori produttori di gas al mondo, la critica non appare molto credibile, anche perché gli Usa puntano a esportare il loro metano in Europa via nave. Che i gasdotti possano però diventare presto delle palle al piede non lo dice solo Washington. Il caso è stato studiato da Artelys, una società di ricerca francese. Sebbene la Banca europea per gli investimenti (Bei), braccio finanziario della Ue, abbia annunciato di voler smettere di finanziare progetti fossili entro la fine di quest’anno, Artelys ha calcolato che attualmente ci sono 32 progetti di gasdotti finanziabili prima della scadenza, per un esborso pari a 29 miliardi di euro.

Tra questi c’è anche l’Eastmed-Poseidon, per il quale Bruxelles ha già speso 34,5 milioni di euro: secondo i piani del Green New Deal annunciato dalla Commissione europea, però, entro il 2030 i consumi di gas nel Vecchio continente dovrebbero ridursi del 29% rispetto al 2015. Per questo Artelys ha calcolato che il denaro dei cittadini andrà molto probabilmente perso. Perché, quando saranno pronti, molti di questi serpentoni d’acciaio risulteranno inutili a causa del calo dei consumi di metano. Per i pugliesi che si sono battuti contro il Tap e ora si oppongono al Poseidon, sarebbe una doppia beffa. Ma il governo tira dritto. Nel decreto Semplificazioni, tra le opere meritevoli di autorizzazione veloce nel settore gas, sono stati inseriti anche gli “impianti per la diversificazione della capacità di importazione”. Proprio come il Poseidon.

Custodia cautelare. Scherzo leghista

La custodia cautelare è la misura restrittiva che si può adottare nei confronti di chi è raggiunto da gravi indizi di colpevolezza per determinati delitti e sempre che ricorrano esigenze cautelari che lo impongano. Tale istituto esiste in ogni Paese al mondo per l’ovvia ragione che non si può lasciare libero di impedire l’assunzione di prove, di fuggire o di continuare a delinquere chi, ad esempio, ha appena scippato una persona o svaligiato un appartamento. Anzi, in altri Stati, il rigore è ben maggiore: negli Stati Uniti d’America (da cui gli autori del codice di procedura penale credevano di aver copiato il processo accusatorio, che laggiù è una cosa seria) per una felony (l’equivalente di un nostro delitto) la polizia, quando ritiene sussistere la probable cause (cioè indizi di colpevolezza), arresta il supposto autore, come del resto si vede nei film americani. Non si tratta, come da noi, dell’arresto in flagranza (che presuppone che l’autore sia stato colto sul fatto mentre commetteva il reato) o del fermo (che presuppone il pericolo di fuga). Questo spiega il largo ricorso alla cauzione negli Usa, dal momento che inizialmente vengono arrestate persone che da noi non lo sarebbero mai.

In Italia la percentuale di detenuti in custodia cautelare, è più elevata che in altri Paesi perché da noi gli imputati sono considerati in custodia cautelare anche dopo la condanna in primo grado, quella in appello e persino in ipotesi di annullamento con rinvio da parte della Corte di cassazione per la sola rideterminazione della pena. All’estero, dopo la condanna in primo grado, si è in espiazione pena. Del resto la Convenzione europea dei diritti dell’uomo prevede che ogni persona accusata di un reato sia considerata innocente “fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata” (art. 6 comma 2), mentre, secondo la Costituzione Italiana, “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva” (art. 27 comma 2), ma l’art. 111 comma 7 stabilisce che contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale è sempre ammesso ricorso in Cassazione.

Ma torniamo alle esigenze cautelari, che secondo l’art. 274 del codice di procedura penale, devono essere attinenti a) al concreto e attuale pericolo per l’acquisizione o la genuinità della prova; b) alla fuga dell’indiziato o al concreto e attuale pericolo che si dia alla fuga; c) al pericolo di reiterazione di reati, che riguarda la maggior parte dei provvedimenti cautelari emessi.

Il terzo quesito del referendum abrogativo riguarda appunto quest’ultima ipotesi.

Proviamo a fare chiarezza: l’art. 274 del codice di procedura penale sul punto stabilisce: “c) quando, per specifiche modalità e circostanze del fatto e per la personalità della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato, desunta da comportamenti o atti concreti o da suoi precedenti penali, sussiste il concreto e attuale pericolo che questi commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata o della stessa specie di quello per cui si procede. Se il pericolo riguarda la commissione di delitti della stessa specie di quello per cui si procede, le misure di custodia cautelare sono disposte soltanto se trattasi di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni ovvero, in caso di custodia cautelare in carcere, di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni nonché per il delitto di finanziamento illecito dei partiti di cui all’articolo 7 della legge 2 maggio 1974, n. 195, e successive modificazioni. Le situazioni di concreto e attuale pericolo, anche in relazione alla personalità dell’imputato, non possono essere desunte esclusivamente dalla gravità del titolo di reato per cui si procede”.

Il terzo quesito referendario propone di abolire le parole: “O della stessa specie di quello per cui si procede. Se il pericolo riguarda la commissione di delitti della stessa specie di quello per cui si procede, le misure di custodia cautelare sono disposte soltanto se trattasi di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni ovvero, in caso di custodia cautelare in carcere, di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni nonché per il delitto di finanziamento illecito dei partiti di cui all’articolo 7 della legge 2 maggio 1974, n. 195, e successive modificazioni”.

Pertanto potranno essere sottoposti a misura cautelare solo coloro nei confronti dei quali sussiste il concreto e attuale pericolo che costoro commettano gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata. Per esempio non potranno più essere posti in custodia ladri, bancarottieri, corrotti e corruttori, falsari ecc.

Provo a spiegare quale sarà l’effetto: uno scippatore arrestato in flagranza, dopo l’arresto dovrà essere rilasciato perché non sarà possibile disporre la custodia cautelare. Altrettanto avverrà per il ladro che ha appena svaligiato un appartamento. Ovviamente l’eventuale abrogazione comporterà la cessazione della custodia cautelare anche per quelli che sono attualmente detenuti.

La repressione concreta dei reati non può essere (in un mondo in cui le frontiere sono diventate evanescenti) troppo diversa da quella attuata in altri Stati, perché se è più alta si esporta criminalità, se è più bassa si importa criminalità. Sarà ragionevole attendersi l’arrivo in Italia di un ulteriore cospicuo numero di ladri, visto che per i furti non si potrà essere posti in custodia cautelare.

Quello che colpisce di più è l’adesione della Lega a tale quesito referendario. La Lega si qualifica come partito di destra e – in tutto il mondo, ma evidentemente non in Italia – la destra vuole legge e ordine. Del resto non avevano i leghisti insistito per la modifica della normativa sulla legittima difesa in modo da consentire di sparare a chi entrava in un’abitazione o nelle pertinenze? Ancora, il leader di quel partito aveva fatto del contenimento degli immigrati irregolari uno dei suoi punti programmatici. Nelle carceri italiane circa un terzo dei detenuti (quasi tutti in custodia cautelare) sono stranieri irregolari che verranno quasi tutti scarcerati. Forse è troppo pretendere la coerenza, ma un po’ di buon senso non guasterebbe. Speriamo che sia uno scherzo.

 

Consiglio di Stato, i miracoli di Frattini: promosso con ben 13 anni di assenze

Un prodigio così non si vedeva dai tempi belli in cui il centrodestra umiliò il Parlamento giurando che sì, Ruby Rubacuori era davvero la nipote di Mubarak, pure se non ci credeva nessuno alla bubbola utile a salvare la faccia e non solo al caro leader, Silvio Berlusconi.

Sarà per l’antica consuetudine con l’ex Cav. che anche a Franco Frattini un tempo suo delfino prediletto, è riuscito un piccolo miracolo: è stato promosso ai vertici del Consiglio di Stato che gli ha conteggiato pure 13 anni di assenze, causa mandato elettorale. Riuscendo così ad agguantare per ragioni di anzianità di servizio il posto di presidente aggiunto a Palazzo Spada e a prevalere su altri concorrenti che non l’hanno affatto presa bene e ora alcuni tra loro minacciano di fare ricorso. Con quante speranze? Pochine, giacché a decidere in ultima battuta sarebbe lo stesso Consiglio di Stato di cui Frattini è diventato numero 2 appena un gradino sotto al presidente Filippo Patroni Griffi, che potrebbe liberargli il posto tra pochi mesi.

Ma riavvolgiamo il nastro. In lizza per l’ambita poltrona cinque candidati con curriculum e pedigree eccellenti: oltre a Frattini, Giuseppe Severini, Luigi Maruotti, Carmine Volpe e Gianpiero Paolo Cirillo, tutti da oltre 30 anni consiglieri di Stato e tutti ormai da almeno un decennio presidenti di sezione a Palazzo Spada. E qui però iniziano le acrobazie perché Frattini, se è vero che pur di pochissimo era quello che ha preso servizio per primo, è anche il candidato che ha esercitato meno le funzioni effettive di magistrato amministrativo. Perché tra una elezione e l’altra in Parlamento o per via dei molti incarichi governativi, per un lunghissimo periodo – come ha fatto notare qualcuno – le aule di giustizia le ha viste solo col cannocchiale. E che problema c’è?

Del resto l’organo che ha deciso sulla promozione a presidente aggiunto del Consiglio di Stato ha più volte dato prova di grande discrezionalità: in passato ha scelto sulla base dell’anzianità di servizio che a lungo è stato un criterio granitico. Salvo poi farne coriandoli in tempi più recenti quando si è invece deciso in talaltri casi di premiare la particolare attitudine all’incarico.

E nel caso di Frattini? È tornato ad applicare il criterio dell’anzianità di servizio, benché nella sua situazione fosse solo formale, ma valorizzando pure la sua lunga carriera parallela: chi si è speso in suo favore ha sostenuto che comunque pur nella mischia politica si è pur sempre occupato “di temi che non possono dirsi eccentrici rispetto alle questioni rilevanti anche per la magistratura amministrativa (con incarichi) che sono stati da lui svolti nel nome della Repubblica nella sua interezza e non nel nome di una sola parte”. Come avvenne infatti anche per la legge sul conflitto di interessi che porta il suo nome fatta per gli italiani tutti, mica per B. come sostennero al tempo i maligni. Non è tutto. Chi lo ha sostenuto ha rispolverato precedenti seppure dell’altro secolo utili a dimostrare che no: la passionaccia di Frattini per la politica non fa velo all’immagine di autonomia e indipendenza della magistratura.

Non è forse vero che un eroe della Resistenza quale Lionello Levi Sandri, era stato partigiano delle Fiamme Verdi, militante del Psiup e poi del Psdi di Saragat oltre che membro della direzione del Partito socialista, prima di diventare presidente del Consiglio di Stato nel 1979? E che dire dell’altro padre della Patria, Meuccio Ruini? Non era salito in montagna ma sull’Aventino sì pur di opporsi al fascismo a cui aveva pagato un prezzo salatissimo, l’allontanamento dall’insegnamento, dall’avvocatura e non solo. “Ruini, come tutti sanno era stato espulso dal Consiglio di Stato nel 1927, poi riammesso alla caduta del regime… La storia ci dice che i migliori consiglieri di Stato hanno avuto anche percorsi nella vita politica italiana”.

Ergo, Frattini un tempo partigiano delle brigate berlusconiane merita una medaglia, anzi si più, una promozione. Se poi l’ex ministro non è il nipote di Mubarak, pace.

“No al carcere per i giornalisti, salvo per diffamazione grave”

La Corte costituzionale cambia le norme sulla diffamazione, fa sparire, ma non del tutto, il carcere per i giornalisti e chiama di nuovo in causa il Parlamento, sordo al suo monito dell’anno scorso. Ieri sera, i giudici hanno dichiarato incostituzionale l’articolo 13 della legge del 1948 che prevede il carcere obbligatorio (pena da 1 a 6 anni) per i giornalisti condannati per diffamazione a mezzo stampa compiuta mediante l’attribuzione di un fatto determinato. Rimane in vigore, invece, perché “ritenuto compatibile con la Costituzione”, l’articolo 595, terzo comma, del Codice penale, che prevede, per “le ordinarie ipotesi di diffamazione compiute a mezzo della stampa o di un’altra forma di pubblicità”, la reclusione da sei mesi a tre anni oppure, in alternativa, il pagamento di una multa. In attesa delle motivazioni, la Corte spiega che quest’ultima norma, che ha superato il vaglio di costituzionalità, “consente al giudice di sanzionare con la pena detentiva i soli casi di eccezionale gravità”, per il resto si tratta di multe.

La Corte, però, torna ad appellarsi al Parlamento, anche se il suo monito a legiferare in materia è caduto nel vuoto, tanto che ieri è stata costretta a intervenire perché i 12 mesi di tempo che aveva concesso erano scaduti: “Resta attuale la necessità di un complessivo intervento del legislatore, in grado di assicurare un più adeguato bilanciamento – che la Corte non ha gli strumenti per compiere – tra libertà di manifestazione del pensiero e tutela della reputazione individuale, anche alla luce dei pericoli sempre maggiori connessi all’evoluzione dei mezzi di comunicazione”.

I giudici ordinari, in realtà, hanno sempre comminato multe e non pene carcerarie, un fatto messo in rilievo, ieri, dall’Avvocatura dello Stato, che si era schierata perché fossero rigettati i ricorsi di incostituzionalità presentati dai giudici di Salerno e Bari, che si rifacevano anche alla Cedu. Maurizio Greco, avvocato dello Stato, aveva sostenuto che non c’era nulla da cambiare perché era già possibile una interpretazione “costituzionalmente orientata”. Ha poi spiegato che “nel bilanciamento delle circostanze aggravanti e attenuanti si ha la possibilità di bilanciare le aggravanti e ritenerle eccezionali, e nelle ipotesi attenuanti sanzionare solo in maniera pecuniaria”, riteneva un errore “demolire un sistema che salvaguarda una posizione costituzionalmente garantita, cioè l’onore del singolo o l’offesa alle autorità pubbliche”.

Invece, l’avvocato Francesco Vitiello, che ha rappresentato l’Ordine dei giornalisti, aveva chiesto di cancellare tutte le norme sulla diffamazione “perché il lavoro della stampa non può essere pregiudicato dal pericolo di una sanzione che ne impedisca il libero esercizio” e, in subordine, aveva chiesto di dichiarare incostituzionale la cumulabilità tra carcere e multa, “con il carcere da applicare solo in casi espressamente indicati ove ricorra la grave lesione di altri diritti fondamentali”. E la Corte ha trovato il “bilanciamento”.

“Conta solo la politica, non il Concordato”

“Se la Chiesa vuole opporsi al ddl Zan lo può fare sul piano politico, non certo appellandosi al Concordato”. A dirlo è il professor Francesco Margiotta Broglio, tra i massimi esperti dei rapporti tra Stato e Chiesa e presidente di quella Commissione governativa che negli anni 80 portò alla revisione dei Patti Lateranensi.

Professor Margiotta Broglio, perché la Chiesa non può rifarsi al Concordato?

Il diritto è una scienza esatta, non è questione di opinioni. E il Concordato non prevede assolutamente nulla che possa essere invocato per bloccare un disegno di legge come il ddl Zan. La Chiesa può portare avanti una legittima battaglia politica attraverso la sua influenza su deputati e senatori, ma il Concordato regola i rapporti con lo Stato, non c’entra niente. Faranno testo solo le maggioranze parlamentari.

Le argomentazioni della Chiesa sono infondate?

Non dico questo, perché in effetti alle scuole private cosiddette di tendenza, come quelle cattoliche, nessuno può imporre una giornata festiva, che sia per celebrare il contrasto all’omofobia o per altro. Ma non c’è bisogno di scomodare il Concordato, se la legge fosse approvata così com’è sarebbero le scuole a dover rivendicare la propria libertà di scelta e in quel caso la legge potrebbe finire alla Consulta. Ma non è compito del Vaticano. Questo mi fa pensare che il vero motivo della levata di scudi della Chiesa sia un altro.

Cioè?

Sappiamo che la Chiesa ha al suo interno problemi enormi nel gestire i continui scandali legati all’omosessualità. Fossero rimasti in silenzio poteva lasciare immaginare che volessero tenersi lontani dal tema, come se avessero la coda di paglia o fossero conniventi.

Cosa può succedere adesso?

Il Concordato prevede che in caso di divergenze interpretative si convochi una commissione paritetica tra tecnici del Vaticano e dello Stato italiano. Ma non credo ci si arriverà mai, il problema è tutto politico e si risolverà in Parlamento, con la Chiesa che tenterà di modificare il ddl attraverso i lavori parlamentari.

Esiste anche la strada di un ricorso giuridico da parte della Chiesa?

Bisognerebbe trovare un giudice abbastanza matto da accettarlo.

Crede che il Concordato debba essere rivisto?

Negli anni 80 riuscimmo a rivedere i Patti lateranensi sulla spinta dei referendum sul divorzio e sull’aborto. Rispetto all’accordo del 1929, il nostro testo è già molto snellito. Mi sembra che la società sia sempre più scristianizzata: c’è un rapporto dell’Istituto Pew secondo cui nel 2050 il cattolicesimo sarà presente quasi solo in Africa e in America Latina. In Europa ci si battezza e ci si sposa sempre di meno. Questo per dire che già oggi il Concordato serve a poco, visti i cambiamenti della società. Ma, come ho detto, per arrivare alla firma fu comunque necessaria una forte spinta dell’opinione pubblica dopo i risultati dei referendum. E oggi un Marco Pannella, che allora fu decisivo per quel cambiamento, non c’è.

Il Vaticano fa l’eutanasia alla legge anti-omofobia

Quando ieri pomeriggio si sono visti in Senato per una riunione informale, i capigruppo di maggioranza non avevano dubbi: “Il ddl Zan ora è clinicamente morto, encefalogramma piatto”, è stata la diagnosi che andava per la maggiore. L’intervento a gamba tesa del Vaticano sulla legge anti-omofobia firmata dal deputato Pd Alessandro Zan che da un anno spacca la maggioranza – favorevoli Pd, M5S e LeU, contrari Lega e Forza Italia – adesso rischia di essere la pietra tombale di una norma che già correva su un binario stretto. Il Corriere della Sera ieri ha rivelato, confermato in giornata da fonti della Curia, che il 17 giugno il Vaticano è intervenuto con una mossa senza precedenti nella storia repubblicana: il segretario per i rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato, l’arcivescovo Paul Richard Gallagher, ha consegnato all’ambasciata italiana in Vaticano una “nota verbale” (una comunicazione formale) secondo cui il ddl Zan in discussione in Senato violerebbe il Concordato tra Stato e Chiesa del 1984 sulla “libertà di organizzazione” e “libertà di pensiero” dei cattolici. Una questione che in giornata diventa anche diplomatica visto che della nota dovrebbe essere stato informato anche il consigliere diplomatico di Palazzo Chigi Luigi Mattiolo e Mario Draghi ieri, durante la conferenza stampa con Ursula von der Leyen, è stato costretto a rispondere a una domanda sul tema con grande scorno del suo staff comunicazione. “Risponderò domani (oggi, ndr) in Parlamento” ha detto.
A finire nel mirino è soprattutto l’articolo 7 della legge che imporrebbe anche alle scuole private di istituire una giornata contro l’omofobia (libertà di organizzazione), ma anche le norme sulla libertà di espressione dei cattolici che, secondo la Curia, potrebbero comportare “rischi giudiziari” per gli uomini di Chiesa. Secondo fonti vaticane, l’intervento del 17 giugno non serve a “bloccare” la norma ma a “rimodularla”. Peccato che politicamente, come confermano fonti di maggioranza, adesso il rischio che la legge finisca definitivamente su un binario morto è concreto. E ad ammetterlo è lo stesso segretario del Pd, Enrico Letta, che di prima mattina a Radio 1 dice di voler “sostenere la legge” ma allo stesso tempo di essere “pronto al dialogo e a guardare i nodi giuridici”. Una dichiarazione che viene interpretata dal centrodestra come un passo indietro rispetto alla posizione irremovibile dei dem delle scorse settimane, pronti ad andare allo scontro con la Lega in Parlamento chiedendo la calendarizzazione senza relatore della norma. Tant’è che dopo le grida di giubilo di Matteo Salvini (“stop e revisione del ddl Zan come chiedeva la Lega”) fonti del Nazareno sono costrette a precisare che “rimaniamo convintamente a favore del ddl Zan”.
Ma Letta ha anche un problema in casa, perché parte del suo gruppo parlamentare su questa legge vuole spingere il più possibile, mentre i cattolici dem tacciono (qualcuno nota che Romano Prodi sul ddl Zan non si è mai espresso). In mattinata il segretario telefona al ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, per avere informazioni sulla nota verbale vaticana e attiva anche i suoi canali diplomatici con la Santa Sede per iniziare un dialogo. Aprendo la riunione dei senatori Letta prova a placare i suoi: “La nostra posizione non cambia: il ddl Zan è una legge di civiltà”. Ma dalla Lega, che sta facendo ostruzionismo al Senato, sfruttano l’occasione per lanciare l’amo nel campo avversario. Il presidente della Commissione Giustizia Andrea Ostellari, leghista, si dice pronto “a sedersi a un tavolo con Letta per il dialogo” e Salvini ripete lo stesso concetto. Una trappola, dicono i dem, per affossare la legge perché una modifica del testo lo farebbe tornare alla Camera con l’allungamento dei tempi a ridosso di fine legislatura. La maggioranza è spaccata: se la responsabile Diritti del Pd Monica Cirinnà spiega che “il ddl Zan non cambia”, il M5S è attendista (non parlano né Conte nè Di Maio) ma spiega che “il Parlamento è autonomo” mentre la sinistra grida “all’ingerenza”. I renziani chiedono modifiche. Di fronte a questa babele, la prossima mossa del Pd sarà quella di chiedere la calendarizzazione del testo in aula in conferenza dei capigruppo e, visto che mancherà l’unanimità, spetterà al Senato votare su quando discutere la norma provocando una frattura nella maggioranza. Una soluzione considerata l’extrema ratio perché la maggioranza rischia di andare in mille pezzi. Adesso è un’ipotesi concreta.

5 Stelle, il post e la lista: la guerra dei due Beppe

A forza di liti e rinvii sono finiti sull’orlo del precipizio. E ora i Cinque Stelle, tutti, guardano di sotto e sentono freddo. Hanno paura che il rifondatore Giuseppe Conte si stufi delle lungaggini e dello scontro con Beppe Grillo per tornare al progetto originario, una lista sua, una lista Conte: e chi ci volesse entrare sarebbe benvenuto, ma alle sue condizioni. Dall’altra parte resterebbero i cocci del M5S, con il Garante, proprio, Grillo, che proverebbe a tenere assieme la sua creatura rivendicando il ruolo di padre fondatore, e salvando gli ultimi paletti rimasti, a partire dal vincolo dei due mandati.

Siamo ancora nel condizionale, nelle ipotesi peggiori per il Movimento che non sa essere normale. “Però le sensazioni non sono per nulla buone” scuotono la testa gli ufficiali grillini che appaiono in Parlamento. “Beppe non si convince” dicono. Grillo chiede molto di più, al Conte a cui pure aveva affidato tutto, in una domenica dello scorso febbraio. Pretende che il suo ruolo di Garante sia pienamente riconosciuto nel nuovo Statuto, e forse non solo, “vuole comunque avere l’ultima parola, su ogni decisione importante” sostengono più fonti. E poi rivendica “rispetto”, attenzione dall’avvocato. “Beppe e Giuseppe in questi giorni si sono parlati solo attraverso delle email, ma a Grillo questo non piace” raccontano. Non gradisce questo scambio di missive con dentro stralci dello Statuto. E a breve, forse domani, potrebbe essere a Roma per ribadire le sue verità ai big e ai parlamentari, tra cui in diversi rilanciano le ragioni di Grillo “perché il suo ruolo va preservato, non può fare tutto Conte”. Ma circola anche un’altra opzione, perfino più rischiosa. Quella di un post, con cui il Garante direbbe dritto come la pensa. E potrebbe essere una scomunica o una presa di distanza: comunque un meteorite, per l’avvocato.

Per questo nelle ultime ore ha preso corpo l’ipotesi di una ambasciata, con un gruppo di 5Stelle di governo e non pronto a fargli visita anche a domicilio, nella sua villa in Toscana a Marina di Bibbona o nella sua casa di Genova. “Non avevo mai visto Beppe così”, ammette un maggiorente. Ma tanto Conte non si sposterà. L’avvocato lo aveva detto a tutti i big, che sarebbe diventato capo solo potendolo essere, a pieno titolo. “Giuseppe non potrà mai condividere con altri il ruolo” soffia un 5Stelle di rango. Neppure con Grillo.

Tradotto meglio, non vuole ritrovarsi sopra la testa un fondatore pronto a disfare tutto con un video o un post, come è sempre accaduto in questi anni. Il Garante rimarrà, certo, nel suo Statuto. Ma il capo, o meglio il presidente secondo il lessico delle nuove regole, dovrà essere Conte, con due o tre vice di nomina diretta, a cui affidare il coordinamento dei vari organi collegiali. Questa è la rotta, per l’avvocato. E non è disposto a seguirne altre. “E poi lo Statuto Grillo lo aveva ricevuto a inizio giugno” fanno notare ambienti vicini all’ex premier, Per questo lunedì ha calato un chiaro aut aut, sempre tramite fonti a lui vicine: “Se il Garante non è pienamente convinto non si va avanti”. Ovvero, Conte sarebbe pronto a farsi di lato. Ma poi, farebbe una sua lista? Dal suo giro smentiscono: “Non si torna indietro dopo tutto questo lavoro”. Però nel corpaccione del Movimento ne parlano tutti. E già si chiedono quanti resterebbero con Grillo, con il padre. “Ma la verità è che Conte sta alzando l’asticella, e come negoziatore sa il fatto suo” osserva un 5Stelle convinto che “un accordo si troverà”.

Nell’attesa, l’ex pm Antonio Ingroia “benedice” gli ex grillini di Alternativa c’è, che domani in Senato presenteranno la componente del gruppo misto formata con Il popolo per la Costituzione, il partito di Ingroia.

Uefa, l’assist di Merkel contro la finale a Londra

L’asse Roma-Berlino per portare la finale degli Europei in Italia. Così il pallone diventa il terreno dove l’Europa, cioè Draghi insieme a Merkel, sfida il Regno Unito di Boris Johnson, con la cancelliera tedesca che segue il premier italiano: “La Gran Bretagna è una zona a rischio variante, l’Uefa sia responsabile”. I due leader aumentano la pressione su Johnson e il pressing sull’Uefa, che però non mollano, anzi: la Final Four per ora è confermata a Londra. Covid permettendo.

Il Regno Unito viaggia a 10mila casi al giorno, circa il 90% dovuti alla temibile variante Delta, che ha costretto Johnson a rinviare la fine delle restrizioni, con possibili ricadute sul torneo. Si era parlato di Budapest, che ha uno stadio moderno e vive come se il Covid non esistesse. Poi Draghi ha sbattuto sul tavolo l’ipotesi Roma. Per tutelare l’Europa dai contagi, certo. Ma soprattutto per sfidare Johnson e pure Orban, uno di quegli “utili dittatori” che non piacciono al premier.

L’ipotesi Roma è suggestiva. Palazzo Chigi è in fibrillazione, il Comune di Roma si dice pronto. Johnson però di vedersi scippata la Final Four non ne vuole sapere. E nemmeno il n.1 Uefa Ceferin, che è vicino al premier britannico (gli deve la morte della Superlega), e pensa solo a tutelare il business dell’Europeo. Draghi e Merkel non vogliono la finale dove non ci siano troppi contagi, Ceferin dove non ci siano troppe restrizioni. Non è proprio la stessa cosa. La vera trattativa è sulla capienza di Wembley e soprattutto sull’esenzione dalla quarantena per vip e addetti ai lavori. L’intesa su questi punti pare raggiunta (si parla del 75%, oltre 60mila spettatori), quindi il pressing della coppia Draghi-Merkel rischia di andare a vuoto. L’unica possibilità è che sia Londra, cioè Johnson, a tirarsi indietro, se l’emergenza Covid dovesse davvero esplodere. In quel caso l’Uefa avrebbe bisogno di un piano B. Che può essere Budapest. Meglio Roma.

Show Draghi-VdL per l’avviso ai partiti “Farete le riforme”

La cornice scelta – gli Studios di Cinecittà a Roma – è assai suggestiva. Serve ad ammantare di retorica da “dopoguerra” il messaggio pensato per la passerella tra Ursula von der Leyen e Mario Draghi: il Piano nazionale di ripresa (Pnrr), approvato ieri dalla Commissione e presentato in pompa magna, è reso “irripetibile” soprattutto per le “riforme” previste; i partiti non le devono intralciare. “Senza di esse, rimarrà solo un annuncio”, spiega Draghi in conferenza stampa: “Abbiamo la responsabilità di far bene non solo per noi stessi, ma anche per l’Europa”. Un avviso alla sua vasta quanto rissosa maggioranza. “È l’opportunità per fare dell’Italia il motore di crescita dell’Unione”, gli fa eco la presidente Ue.

Tanta retorica è presto spiegata. Il Pnrr prevede risorse per 191 miliardi da spendere da qui al 2026, di cui 68 veri, cioè sovvenzioni, il resto (122 miliardi) sono prestiti, che solo l’Italia ha chiesto per intero: solo metà di essi andrà a finanziare progetti nuovi, quindi con un impatto positivo sul Pil. A questi soldi vanno aggiunti i 30 miliardi di deficit del “Fondo complementare”. I primi soldi, un anticipo del 13%, arriveranno dopo l’ok del Consiglio Ue, entro agosto: 25 miliardi, di cui però solo 8 di sovvenzioni. Il piano, però, è soprattutto un vasto programma: 190 misure di cui 48 riforme e 132 investimenti. In tutto è composto da 525 “pietre miliari” e obiettivi precisi. A differenza dei normali fondi strutturali, il Next Generation EU prevede gli esborsi sulla base dei risultati ottenuti, non dei progetti: niente risultati, niente fondi.

Queste misure sono da eseguire a tappe forzate, ma è soprattutto la parte riforme che interessa a Bruxelles e su cui Draghi calca la mano: “Entro giugno prevediamo il ddl delega per la riforma degli appalti e delle concessioni. Nel mese di luglio la legge sulla Concorrenza, mentre la riforma della Giustizia dovrebbe andare a giorni in Consiglio dei ministri. Questi sono i primi blocchi. L’idea è procedere alla massima velocità”, detta il premier.

I lunghi e complessi documenti tecnici con cui Bruxelles ha dato via libera al Piano, dedicano ampi paragrafi alle riforme: dal fisco al lavoro alla P.A. Un intero capitolo è dedicato al rispetto delle raccomandazioni specifiche per Paese redatte nell’ultimo biennio dalla Commissione (controllo della spesa, attuazione delle riforme pensionistiche, eccetera). Il Pnrr, sostiene Bruxelles, “contribuisce a correggere gli squilibri, incluso l’alto debito e la debole produttività”. L’Italia s’è perfino impegnata a varare un piano di spending review.

Come noto, le riforme “europee” sono assai divisive e faranno vincitori e vinti. Difficilmente verrà trovata una sintesi nella maggioranza, cioè verranno decise dai ministri tecnici e il Parlamento dovrà farsele andare bene. Vale la pena ricordare che il capitolo concessioni tocca i balneari cari alla Lega, a non dire delle “riforme settoriali come quelle previste nei settori energia e acqua”, dove – scrivono i tecnici Ue – “vanno rimosse importanti debolezze rimuovendo le principali barriere” al mercato. Insomma, liberalizzazioni e privatizzazioni nei servizi pubblici. Perfino le stime di Bruxelles sull’impatto del Pnrr rendono chiaro il concetto. Vale 240mila posti e una crescita del Pil del 2,5% al suo massimo, nel 2026, molto meno del 3,6% previsto dal governo inglobando le riforme. Considerando anch’esse, “il Pil italiano potrebbe aumentare di circa il 17% in 20 anni, più dell’11% rilevato per la media Ue”. Si prega il Parlamento di non disturbare.