Licenziamenti: ecco il decreto di Chigi con i blocchi selettivi

Un decreto che porti alla proroga selettiva del blocco dei licenziamenti: è la soluzione sulla quale stanno lavorando a Palazzo Chigi. Infatti, il conto alla rovescia per la fine del blocco generalizzato è ormai ufficialmente partito. Alla data della scadenza – 30 giugno – mancano ormai sette giorni. La mediazione politica, che poi si riflette a livello parlamentare, è ancora in corso: solo domani in Commissione Bilancio inizia la discussione vera. Con posizioni ancora distanti e tempi incerti. Infatti, è molto difficile che si arrivi all’approvazione degli emendamenti al decreto Sostegni bis in tempi rapidi: la Commissione dovrebbe cominciare a votarli lunedì, praticamente fuori tempo massimo.

E così a Palazzo Chigi stanno lavorando a un decreto, che proroghi il blocco selettivamente, per il tessile e per le grandi crisi aziendali. Un accordo con la maggioranza Mario Draghi l’ha cercato dall’inizio e di certo dovrà blindarlo in questi giorni. Anche stabilendo i tempi della proroga. Che le cose non siano tutte ancora risolte lo dice anche il diverso comportamento dei partiti. Perché se Pd, Cinque Stelle e Leu si sono espressi – anche presentando degli emendamenti segnalati – sulla proroga, almeno selettiva, il resto della maggioranza ha posizioni decisamente meno chiare. Tanto è vero che non ci sono da parte di Lega, Forza Italia e Italia Viva emendamenti sul tema. Questo, però, non significa la contrarietà definitiva.

Per dirla con un deputato leghista, membro della Commissione, bisogna “chiedere al governo”. Come dire, a questo punto la soluzione per decreto appare l’unica possibile. Al Nazareno non solo lo sanno, ma ci stanno lavorando. Sperando che poi si arrivi a un blocco selettivo, come punto di caduta. D’altra parte, l’ha fatto capire Enrico Letta lunedì sera a Otto e mezzo: “Sui licenziamenti, la partita non è chiusa, e la selettività è per noi fondamentale. È la nostra proposta, è quello che ci vuole e spero che Draghi la accolga”.

Anche se almeno la direzione da parte di Palazzo Chigi pare decisa, al ministero del Lavoro parlano di “situazione ancora in alto mare”. Perché poi il testo finale in Consiglio dei ministri andrà portato. E fino ad ora le cose non sono andate del tutto lisce.

Era stato proprio il ministro del Lavoro, Andrea Orlando a sollevare la questione, introducendo una norma che prorogava il blocco generalizzato dei licenziamenti dal 30 giugno al 28 agosto (per le piccole imprese e i settori con gli ammortizzatori deroga si va comunque a ottobre). Sollevando un vero e proprio putiferio, a partire da Confindustria. Tanto che era stato accusato di aver fatto un blitz, ovvero di non averne parlato in Consiglio dei ministri. Lui si era difeso, sostenendo di aver mandato la norma – con posta certificata – a tutti i ministeri e di averla illustrata in conferenza stampa. Fatto sta che alla fine era stato lo stesso premier a cancellarla. Risultato? Niente proroga al 28 agosto. Mentre resta invece confermata la possibilità, per le imprese, di ricorrere alla cassa integrazione ordinaria dal primo luglio senza dover pagare le addizionali fino al termine del 2021, con in cambio l’impegno a non licenziare nel periodo in cui si usufruisce di quest’ammortizzatore.

Da quando la questione è balzata al centro della scena, è passato circa un mese. Gli strascichi restano: Draghi ancora considera Orlando il ministro che ha cercato di far passare la norma in maniera non esattamente trasparente, ma sul merito è ancora alla ricerca di un punto di caduta. Che tenga dentro il più possibile tutti. Non a caso la Lega si è fatta notare nelle ultime settimane per i continui cambi di posizione sul tema. Anche se – su tutte – fanno fede le parole del sottosegretario all’Economia, Claudio Durigon, che nelle scorse settimane ha aperto a una proroga selettiva.

Va dettoche il tessile, dall’inizio, è stato il settore che praticamente tutti hanno indicato come quello in maggiore difficoltà. Il comparto moda, infatti, prima del 2022 non conta di tornare a rivedere la luce. Per questo, i sindacati contano che tra abbigliamento, pelli, calzature e occhialeria, a rischiare di perdere il posto sono in 140mila.

E intanto, ieri Maurizio Landini è tornato a esprimere preoccupazione: “È sbagliato che dal primo luglio” si sblocchi il divieto mettendo a rischio “migliaia di lavoratori. Noi chiediamo che si proroghi al 31 ottobre, in modo da dar vita alla riforma degli ammortizzatori sociali che permetta un’uscita graduale”. Da qui al 30 giugno, i dettagli della prima soluzione.

Qualcuno volò…

Il 27 febbraio 2020, mentre l’Italia piange i primi morti per Covid, il premier X invita il presidente francese Emmanuel Macron a Napoli per un bilaterale su nuove misure europee contro la pandemia. Il 23 marzo consulta i leader di altri 8 Paesi Ue (Francia, Spagna, Portogallo, Belgio, Grecia, Irlanda, Lussemburgo e Slovenia) e con loro mette a punto una “Lettera dei Nove” al presidente del Consiglio europeo Charles Michel per proporre “uno strumento di debito comune emesso da una Istituzione dell’Ue per raccogliere risorse sul mercato a beneficio di tutti gli Stati membri… per un finanziamento stabile e a lungo termine delle politiche utili a contrastare i danni della pandemia”. È il primo cenno agli Eurobond o Coronabond. Germania e Paesi “frugali” del Nord guidati dall’Olanda rispondono picche: Eurobond mai, al massimo un Mes sanitario con condizionalità sospese sino a fine emergenza (all’Italia andrebbero 36-37 miliardi di prestiti). Il premier X rifiuta.

Il 26 marzo, al Consiglio europeo, sei ore di scontro fra i Nove e il fronte del Nord più Merkel, che dice: “Noi preferiamo il Mes, no ai Coronabond”. Il premier X lancia l’idea, perfezionata con Macron, di “titoli europei vincolati alla crisi Covid ed emessi una tantum”: gli “European Recovery Bond”. E avverte: “Nessuno vuole mutualizzare i debiti: ciascun Paese risponderà del proprio e l’Italia ha le carte in regola. Qui servono strumenti innovativi e adeguati a una guerra che dobbiamo combattere tutti insieme. Se qualcuno di voi pensa a meccanismi di protezione personalizzati del passato, non disturbatevi, potete tenerveli: l’Italia non ne ha bisogno”. E farà da sé con gli otto alleati. Merkel: “Il Mes è lo strumento che abbiamo, non capisco perché Giuseppe voglia minarlo”. Premier X: “Angela, tu e non solo tu guardate la realtà di oggi con gli occhiali di dieci anni fa. Il Mes è stato disegnato nella crisi dell’euro per i Paesi che hanno commesso errori”. Macron: “Il Mes serve per gli choc asimmetrici, questa pandemia è uno choc simmetrico. Ci riguarda tutti”. La presidente Bce Christine Lagarde si schiera coi Nove. I nordici chiedono un rinvio senza decidere. Il premier X pone il veto sulle conclusioni finali. E ottiene un nuovo testo che impegna i cinque europresidenti (Commissione, Consiglio, Parlamento, Eurogruppo e Bce) a presentare in 14 giorni un “Recovery Plan adeguato”. Risate e pernacchie sulla stampa italiana, che pressa il premier X perché chieda i 36 miliardi di Mes e lasci perdere la follia del Recovery. Per convincere i popoli dei Paesi più riottosi ad accettare i Coronabond, il premier X si fa intervistare da tv e giornali di tutta Europa.

Il 9 aprile l’Eurogruppo sospende le condizionalità al Mes, ma rinvia al Consiglio la decisione sui bond. Salvini e Meloni accusano il premier X di “alto tradimento” per aver chiesto il Mes di nascosto. Polemiche a non finire perché il premier X risponde che è tutto falso. Il 23 aprile, al Consiglio Ue, il premier X illustra la proposta dei Nove: un “Recovery Fund finanziato con bond comuni”. Von der Leyen l’appoggia e così pure, a sorpresa, Germania e frugali, che però non vogliono sussidi a fondo perduto, ma solo prestiti. Il 18 maggio, mentre l’Italia esce dal lockdown, Macron (per i Nove) e Merkel (per i frugali) propongono alla Commissione un Recovery Fund di 500 miliardi a fondo perduto raccolti con titoli comuni. È la metà di quanto chiedono la Von der Leyen e il premier X. Che dice: “Buona base di partenza, ma l’importo deve salire”. Il 27 maggio la Von der Leyen presenta un Recovery Fund di 750 miliardi (500 a fondo perduto, 250 di prestiti). All’Italia andrebbe la fetta più grossa: 172 miliardi, di cui 81,8 di sussidi e 90,9 da restituire.

Il premier X consulta le parti sociali e la società civile agli “Stati generali” per raccogliere idee sul Recovery Plan, sbeffeggiato dall’intera stampa italiana. Poi, in vista del decisivo Consiglio Ue del 17 luglio, incontra i colleghi Costa, Sánchez, Rutte e Merkel: “Non si scende di un euro sotto i 750 miliardi”. La stampa italiana invoca Draghi e vaticina che il premier X tornerà sconfitto: sia sul potere di veto dei singoli governi sui fondi agli Stati, sia sull’importo del Recovery (500 miliardi al massimo). Soprattutto i giornali di destra. Repubblica: “Ue, l’Italia all’angolo”. Giornale: “Conte Dracula. In Europa rischiamo di restare a secco”. Libero: “L’Ue non ci dà i soldi perché non si fida di Conte. Voi al suo posto cosa fareste?”. Verità: “La Merkel ci concederà poche briciole”. Il Consiglio Ue, anziché due giorni, ne dura quattro e all’alba del 21 luglio, dopo lunghe battaglie diurne e notturne con Rutte e i frugali, il premier X ottiene ciò che voleva: 750 miliardi e nessun potere di veto dei singoli Stati (solo un “freno di emergenza” a maggioranza in caso di inadempienze rispetto ai piani approvati dall’Ue). L’Italia ne avrà 36,5 in più del previsto: 81,4 a fondo perduto e 127,4 in prestito. Ora che ha vinto, il nome del premier X scompare dalle prime pagine italiane, sostituito da Merkel e Macron, mentre la stampa estera lo elogia. Ieri, a Cinecittà, la cerimonia per festeggiare la prima rata in arrivo del Recovery Fund, alla presenza della Von der Leyen e del premier Draghi.

Ps. Dicono gli ornitologi che il cuculo è noto per il “parassitismo di cova”, che consiste nel deporre il proprio uovo nel nido di altri uccelli.

Addio libri “classici”, l’editoria in pandemia è digitale: gli eBook crescono del 43 per cento

È l’anno dei podcast e dei giovani lettori. Il libro di carta da sfogliare, annusare e stropicciare in borsa passa in secondo piano. Il digitale, durante la pandemia, ha trainato i fatturati del mondo dell’editoria con una crescita delle vendite del 47% rispetto allo scorso anno. Lo rivelano le tre indagini presentate ieri, nel capoluogo lombardo, durante l’evento organizzato da BookCity Milano, Intesa Sanpaolo e Associazione italiana editori (Aie).

Il cambio di rotta non si può certo imputare al lockdown, dato che le librerie rientrano tra le attività commerciali che non hanno quasi mai chiuso. L’austerità del primo Dpcm di marzo 2020 per i lettori è durata poco. Il 14 aprile le librerie, dopo un solo mese di chiusura, hanno riaperto. Piuttosto, stando ai dati presentati ieri, certamente si tratta del segno dei tempi, senza trascurare che la digitalizzazione della cultura (eventi, concerti, libri, mostre) sia stata favorita dall’obbligo di restare a casa. Infatti, complice il lockdown, il 64% degli intervistati (tra i 15 e i 75 anni) ha dichiarato di aver iniziato durante le restrizioni ad usare il pc per seguire concerti ed eventi artistico-culturali; il 61% ha partecipato a conferenze; il 59% a rappresentazioni teatrali; il 57% alla presentazione di libri e il 62% alle mostre. Tutto rigorosamente online. A fruirne più dello scorso anno sono stati i giovani (tra i 18 e i 34 anni). La lettura di libri ed e-book e l’ascolto degli audiolibri è aumentata complessivamente del 41% tra queste fasce d’età. Circa la metà degli intervistati sostiene di aver scelto di dedicare maggiore tempo alla lettura. A differenza del passato, però, si predilige l’ascolto. La strategia culturale vincente è diventata il podcast, utilizzato dal 44% degli intervistati con un’impennata delle fruizioni tra gli under 35. La percezione più diffusa è che siano “brevi ma interessanti” e che si possano ascoltare facendo contemporaneamente altro. Tuttavia la risposta degli editori a questa nuova tendenza appare ancora lenta: per quanto concerne gli audiolibri solo il 21% delle case editrici li ha inseriti nel proprio catalogo e solo il 15% ne ha programmato la presenza per il prossimo anno; per quanto riguarda i podcast le percentuali si riducono ulteriormente. Il dato più importante, che mette comunque l’editoria al sicuro, è il fatturato: da gennaio a maggio 2021 le vendite hanno raggiunto 591 milioni di euro, il 47% in più rispetto al 2020.

“Forza Italia”: agli ottavi gli Azzurri trovano l’Austria

Avanti tutta, avanti tutti. Chi in ginocchio e chi no. Quando vinci, e l’Italia vince sempre, hai voglia di accendere falò. I social ci hanno provato, comunque. Poco prima che la partita di domenica cominciasse, il Galles al completo e cinque azzurri – Andrea Belotti, Federico Bernardeschi, Emerson Palmieri, Matteo Pessina (autore del gol), Rafael Toloi – si sono genuflessi in onore del Black Lives Matter, il movimento anti-razzista nato, negli Usa, sul sangue di George Floyd. Domanda: perché “solo” una parte? Risposta di Gabriele Gravina, presidente della Federazione: “Perché noi non imponiamo niente a nessuno. Libero, ognuno, di dimostrare o protestare come più gli garba”. Chi scrive avrebbe aderito, ma guai a stilare classifiche: sono pericolose.

Per recuperare una nazione così vicina alla Nazionale, meglio ancora: così dentro, bisogna risalire al “dopo” Mundial spagnolo. Non al “prima”: al dopo. Alla notte del 3-1 alla Germania Ovest. La fusione eroi-popolo, leggenda-stampa, toccò picchi clamorosi (e di retromarce scandalose). L’Italia-famiglia contagia. Il carro dei Manciniani è già zeppo. Merito loro, sia chiaro. Anche se un minimo di distacco non guasterebbe. Doppio 3-0 a Turchia e Svizzera, 1-0 al Galles (nonostante il turnover del turnover, prima otto cambi e poi altri cinque, portiere compreso). Le cifre crepitano come pallottole: trentesima gara utile consecutiva, striscia che porta il ct al livello statistico di Vittorio Pozzo (però due Mondiali e un oro olimpico); undicesimo successo di fila; muro d’imbattibilità alzato a 1.055 minuti. Nessuno, per adesso, ha avuto la nostra continuità, i nostri lampi. Il ritorno di Marco Verratti era la ciliegina che la torta attendeva, golosa e curiosa. Parafrasando Gianni Brera, occhio a non “ubriacarsi” di se medesimi. Bene ha fatto, Roberto Mancini, a smontare la “tipo” e impiegare le riserve. All’Europeo del 1996, Arrigo Sacchi lo fece troppo presto (già alla seconda) e ne pagò il fio. Al Mondiale del 1978, Enzo Bearzot non lo fece alla terza (già qualificato) e il destino travestito da Arie Haan lo punì.

Con gli ottavi si esce dalla movida dei gironi per entrare nella giungla dell’eliminazione diretta. Austria, dunque. Sabato sera a Wembley. La puntata secca rovescia i nervi. Cruciali diventano gli interpreti. Gli episodi. Gli occhi ambigui del Var. Al diavolo gli scrupoli: senza un domani che possa correggere il destino servono coraggio, leggerezza. Gigio Donnarumma ha profittato del giorno libero per sottoporsi alle visite mediche del PSG. Sei ore. In pieno Europeo. Un segno dei tempi: “Money Qatar Matter”.

Serie tv, God save “The Crown”

Si scrive “minaccia alla diversità culturale europea”, si legge “chi è causa del suo male, pianga la sua Brexit”. O, per dirla col ministro del Mic Dario Franceschini, “se il Regno Unito non è più in Europa ci sono anche le conseguenze di questa scelta”.

Così accade che accanto agli scottanti problemi di transito terrestre di carne congelata con l’Irlanda del Nord e quello marittimo di pesci attorno a Jersey, anche il mondo dell’audiovisivo europeo legato all’on demand, stia alzando le sue barricate contro i sudditi di Sua Maestà perché lo “strapotere” del Made in Uk metterebbe a rischio l’identità dei Paesi rimasti membri. Per dirla in breve, il rischio è che potremmo ben presto non godere più delle visioni di serie tv di culto da The Crown a Downton Abbey, passando per Peaky Bliders e Fleabag perché affliggono la diffusione della cultura degli Eu27 su Netflix, Amazon e le loro sorelle.

La questione è delicata e complessa, e tuttora solo abbozzata in un’esclusiva di ieri del Guardian che ha avuto accesso a un documento pervenuto da Bruxelles dal programmatico titolo extra-large: The disproportionate presence of Uk content in the European Vod quota and the effects on the circulation and promotion of diverse European works (“La sproporzionata presenza del contenuto Uk nelle quote del Video on demand europeo e gli effetti della circolazione e promozione della diversità del prodotto europeo”).

Per quanto ancora allo stato embrionale, la materia è già gravida di non pochi risvolti politico-economici. Ma passiamo ai fatti. Il primo è ineluttabile e riguarda il valore dell’imponente giro d’affari realizzato dal Made in Uk audiovisivo, ovvero 1,4 miliardi di sterline, per la maggior parte ottenute grazie alle vendite internazionali dei diritti Vod a giganti come Netflix e Amazon, che hanno fruttato nel biennio 2019/20 alle casse del Regno la “modica” cifra di 490 milioni di sterline. Ci vuol poco a comprendere che la Gran Bretagna sia il maggior produttore in Europa di cinema & tv. Il secondo fatto è che fino a future decisioni contrarie – che potrebbero avvenire fra tre anni come vedremo in seguito – la produzione audiovisiva britannica continua a essere etichettata europea per appartenenza alla Convenzione sulla televisione transfontaliera del consiglio d’Europa, benché – e qui s’insinua il paradosso – il Regno Unito sia già esterno allo stesso Consiglio.

In virtù di questo, la Gran Bretagna continua per ora a godere dei privilegi assegnati al Made in Eu, come eleggibilità a determinati fondi (esempio Eurimages erogato dal Consiglio d’Europa stesso…) e in generale a tutti i sostegni che vanno dalla produzione alla promozione fino alla diffusione vera e propria sui canali Vod. Ciò vale anche, e soprattutto, nella protezione delle famose quote di prodotto europeo stabilite dalle direttive dell’Audio visual media service (Avms) europeo che prevedono che almeno il 30 per cento dei programmi tv sulle varie piattaforme debba essere europeo. Una percentuale che la Francia vorrebbe elevare al 60 con almeno il 15 da reinvestire in produzioni Eu. Il terzo fatto è che all’interno di quel 30 per cento, in cui a oggi è inclusa Londra, proprio l’industria e il mercato British siano esponenzialmente cresciuti anche a causa dei lockdown da pandemia, con il popolo europeo (e mondiale) chiuso in casa davanti a maratone seriali.

A Bruxelles iniziano a tremare le mani: lo strapotere britannico crea sproporzione con il resto degli europei, serve darci un taglio. E quale miglior occasione della Brexit per metter mano alle “quote Eu” sì da limitare – anzi proprio escludere – tutti gli accenti dal Kent alle Highlands? A sguazzare è anzitutto la grandeur francese: a gennaio partirà il triennio parigino di presidenza europea, ed è possibile che il processo della “Brexit audiovisiva” sia accelerato entro i tre anni di scadenza della convenzione tv, in modo da fare finalmente esplodere il corposo Produit en France di film & tv che notoriamente fa già la parte del leone nell’Europa continentale, prendendosi l’ennesima rivincita su contenziosi secolari marittimi e non. A sostenere i revisori di quote Transalpini sarebbe comunque una forte cordata formata da Italia, Spagna, Grecia e Austria.

Da parte sua, il Regno ha reagito attraverso un portavoce governativo sentito dal Guardian, confermato il diritto britannico allo status europeo per adesione alla suddetta Convenzione, sottolineando che è soprattutto grazie alle agevolazioni Eu che l’industria britannica riesce a produrre serie adorate nel mondo come The Crown: ma forse a Downing Street non hanno ancora ben chiara la levata di scudi in preparazione dall’Eliseo in giù. Per ora, l’unica decisione presa risiede in uno studio avviato dalla Commissione europea sui “realistici” rischi che troppo Made in Uk potrebbe comportare sulle diversità culturali europee.

“Enfatite acuta”, malattia grave del telecronista

Come si può non gioire per i successi degli Azzurri agli Europei e non sperare che le notti magiche durino il più a lungo possibile? Altra cosa è l’esultanza sfrenata che accompagna le partite della Nazionale – tutte giocate in maniera brillante grazie alle qualità di un gruppo valorizzato da Roberto Mancini – ma contro avversari, come si sa, non irresistibili. Infatti, nelle tre partite del girone, l’Italia (numero 7 nel ranking Fifa) ha battuto la Turchia (numero 29), poi la Svizzera (numero 13) e quindi il Galles (numero 17). Negli ottavi incontrerà l’Austria (23), mentre ai quarti potrebbe scontrarsi con il Belgio, che è il numero 1 e lì saranno dolori. Un bignamino Panini per confessare che, domenica sera era tale il fastidio per la fanfara della telecronaca Sky (ma anche la Rai, mi dicono, non era da meno) che mi sono sorpreso a tifare per i rubizzi gallesi. Empatia, lo confesso, provata anche nei confronti degli svizzeri mentre a frenarmi con i turchi è stata la faccia di Erdogan. Insomma, come tutte le fregole anche quella patriottarda ha un limite insuperabile: il senso del ridicolo. Mi piace pensare che a Fabio Caressa (con Beppe Bergomi, eccellenti nelle analisi tecniche delle partite) venga un po’ da ridere nel declamare l’immancabile pistolotto iniziale con cui ci delizia dai Mondiali del 2006 (insuperabile quello di Italia-Turchia: “Ci siamo abbracciati al tricolore perché tra noi non potevamo, soli sui tetti a suonare l’inno, vento nel deserto di una speranza che sembrava più lontana, ne stiamo uscendo”). Con il Galles, all’inizio, vento nel deserto sembrava come placato quando all’improvviso, zac, ha piazzato un tonante: “Vincere!” (per fortuna privo del successivo: “e vinceremo!”). Per poi all’Inno di Mameli esortare chi stava a casa ad “alzare il volume”, da fare invidia al generale Figliuolo. Contro gli elvetici non c’era bisogno del Var per capire che Chiellini prima di segnare aveva toccato non una, ma due volte la palla con la mano, particolare che deve essere apparso insignificante al nostro per impedirgli di erompere in un terrificante “Chiooolliini”, e giù con l’epopea del valoroso “Capitano” che sfonda la trincea avversaria eccetera, mentre costui rinculava mestamente nella propria area. Viene voglia di chiedersi se per caso i sedici mesi di Covid abbiano avuto come effetto collaterale un’epidemia di enfatite acuta, con picchi di contagio nei giornali e nelle tv. Di cui però le principali vittime risultano essere Mario Draghi e Roberto Mancini, che sommersi dagli osanna per aver spezzato le reni al virus e a Pektovic, guardano ora piuttosto preoccupati alla prossima variante e al prossimo Belgio.

Perché non posso tifare Italia. Meglio il Belgio di De Bruyne

Io faccio il tifo contro l’Italia, benché Mancini abbia messo in piedi una bella squadra, che ha un gioco, va costantemente in avanti, abbandonando l’antica abitudine italica, sparagnina ma redditizia, di difesa e contropiede.

Non posso tifare Italia. Non oso immaginare cosa succederebbe se vincesse gli Europei. Draghi si approprierebbe della vittoria come fecero nel 1982 il presidente Pertini e persino Giovanni Spadolini, premier, che non aveva mai visto un pallone in vita sua. Il generale Figliuolo, prendendo da Berlusconi (“il Milan vince perché adotta la filosofia della Fininvest”) direbbe che l’Italia vince perché adotta la sua logistica.

Non posso tifare Italia perché è un Paese di corrotti, a tutti i livelli, anche i più infimi (alla Canottieri, prestigioso Circolo meneghino per la cui iscrizione si pagano circa 1.300 euro, dove vado a nuotare, mi hanno rubato anche le mutande sporche).

Non posso tifare Italia perché non mi ha dato nulla tranne i natali. Vogliamo ricordare Cirano, lo spettacolo televisivo dove, per la prima volta, a 60 anni suonati avevo il ruolo nemmeno di conduttore ma solo di commentatore, bloccato il giorno prima che andasse in onda, senza che nessuno l’avesse visto? Vogliamo ricordare Pagina, il bellissimo settimanale diretto da Aldo Canale, stoppato dai socialisti che ci fecero togliere tutta la pubblicità? Vogliamo ricordare che quando Guglielmo Zucconi mi propose per la vicedirezione del Giorno si mise di traverso il mio ex compagno di banco Claudio Martelli? Vogliamo ricordare l’ostracismo, costante, continuo, capillare, che mi è stato fatto per anni da tutti i principali network televisivi e radiofonici, per cui io posso essere invitato dall’Università di Kyoto ma non da Lilli Gruber la cui carriera comincia perché davanti allo schermo non si mise di fronte ma di traverso, una vera genialata, di grande spessore, giornalistica? Certo, ci sono giornalisti anche importanti che mi stimano (e in passato giornalisti anche più importanti, da Montanelli a Bocca, ma quelli erano altri tempi). Ma mai che a qualcuno di costoro venga in mente di nominarmi anche quando sarebbe ovvio. Dopo il ritiro delle truppe occidentali dall’Afghanistan le Tv e i giornali hanno intervistato tutti, proprio tutti, ma non me che in una serie di articoli e in un libro (Il Mullah Omar) quella sconfitta avevo previsto da tempo.

No, non posso proprio tifare Italia. Tifo Belgio, nonostante i nostri cugini d’Oltralpe chiamino i belgi, non senza qualche ragione, dei “francesi stupidi” (mi pare che questa icastica definizione sia del solito Baudelaire). Tifo Belgio perché vi gioca quello che, a parer mio e non solo mio, è oggi il miglior giocatore del mondo, Kevin De Bruyne. Anche questo cognome ha per me un qualche significato. Il ciclista Fred De Bruyne faceva parte di qual formidabile gruppo di corridori belgi, Rik van Steenbergen, Rik van Looy, Stan Ockers, che negli anni Cinquanta dominarono, insieme agli italiani, Coppi e Bartali, e ai francesi, Louison Bobet, Jacques Anquetil, lo sfortunatissimo Roger Riviere, in quel campo e mi ricordo un tempo in cui non solo i nostri ciclisti erano migliori, ma gli italiani erano migliori, per onestà, spirito di solidarietà (chi non ricorda lo scambio di borracce fa Bartali e Coppi?), senso di appartenenza nazionale.

Io, come Giorgio Gaber, all’Italia di oggi non mi sento di appartenere. Ma torniamo al calcio dei nostri giorni. Giovedì s’è giocata la partita Danimarca-Belgio. C’è stato anche un momento di autentica commozione, non retorica alla Fabio Caressa, quando l’arbitro Kuipers ha fermato il gioco e in omaggio allo sfortunatissimo Chris Eriksen si è messo ad applaudire, seguito dai giocatori e da tutti i tifosi, danesi e belgi.

È stata una partita bellissima. I danesi motivatissimi, per tutto il primo tempo non han fatto toccar palla ai belgi che pur sono molto più tecnici. In campo sembrava che ci fossero solo loro. Il risultato del primo tempo era 1-0 per i danesi.

A questo punto l’allenatore del Belgio Martinez si è trovato difronte a un dilemma. In panchina aveva De Bruyne, ma De Bruyne solo venti giorni fa, nella finale di Champions, era stato vittima di uno spaventoso incidente, testa contro testa, che gli aveva spaccato il setto nasale e l’arcata sopraccigliare, era stato al limite del collasso. Martinez pensava di risparmiarlo per le partite a seguire se il Belgio avesse passato il turno. Ma con quell’1-0 il turno poteva non passarlo affatto. Quindi, alla disperata, ha mandato sul terreno di gioco De Bruyne, senza poter sapere quale fosse la sua condizione fisica e soprattutto mentale. Con De Bruyne in campo è stata un’altra partita. Prima un assist meraviglioso, con una finta mette a sedere due avversari, potrebbe tirare lui ma passa a Thorgan Hazard completamente libero, poi si mette in proprio e segna il gol decisivo del 2-1. Raramente ho visto un giocatore, si chiami pure Cristiano Ronaldo, cambiare in questo modo il corso di una partita. Quindi forza Kevin e fanculo Italia, con tante scuse a Mancini e ai suoi bravissimi ragazzi.

Netanyahu trita l’archivio del potere

I documenti conservati nelle casseforti dell’ufficio dell’ex primo ministro sono stati distrutti poco prima che il successore Naftali Bennett entrasse in carica. Asvelare l’accaduto è stato il quotidiano israeliano Haaretz, a cui fonti vicine a Netanyahu hanno confermato che a ordinare che i faldoni fossero passati al tritacarte sarebbe stato lui stesso. Non è chiaro quanti e quali documenti siano stati distrutti, ma in ogni caso, si tratterebbe di una grave violazione della legge da parte di “re Bibi”. Legge che prevede che “ogni nota, appunto, finanche gli orari lavorativi dei dipendenti dell’amministrazione governativa debbano essere vidimati e catalogati nell’Archivio di Stato”, come ha spiegato l’ex capo archivista israeliano Yaacov Lozowick per sette anni. Proprio per questo per Lozowick il gesto di Netanyahu – che nel frattempo fa smentire dai suoi di aver cancellato la memoria di 12 anni del suo governo – sarebbe “senza precedenti” e “inappropriato per uno Stato democratico”. E inutile sarebbero secondo lui le giustificazioni del gabinetto di Netanyahu secondo cui esisterebbero copie digitali dei documenti. “Durante una riunione, il premier o altri potrebbero scrivere commenti su un documento ufficiale che ha già una copia digitale, ad esempio. Ma tali aggiunte non vengono archiviate digitalmente a meno che il documento non venga scansionato di nuovo. Quindi ci sono certamente documenti con informazioni importanti che non sono digitalizzate”, ha concluso Lozowick. Ma dall’ex premier non ha avuto una risposta al riguardo neppure il Movimento per la libertà di informazione in Israele che ha contattato l’attuale capo archivista, Ruti Avramovitz, chiedendogli di indagare sulla condotta dell’ufficio di Netanyahu. Intanto il nuovo governo ha ben altri grattacapi dopo le tensioni riesplose nei giorni scorsi con Gaza dopo la Marcia delle Bandiere. Ieri dopo l’annuncio di Bennett di domenica ad Hamas che “dovrà abituarsi a un diverso approccio israeliano”, il leader della Striscia, Yahya Sinwar ha dichiarato che l’incontro con l’inviato dell’Onu si è concluso con un fallimento e ha accusato Israele di “cercare di danneggiare ogni palestinese”.

Regionali, Manu umiliato inutile la lezione dei Gilet

È il secondo schiaffone che Macron si prende nel giro di poco tempo, dopo il primo, vero, ricevuto da un simpatizzante d’estrema destra mentre si trovava nel sud a tastare l’umore dei francesi prima delle Regionali di domenica. Il secondo, simbolico, è arrivato proprio dalle urne. I sondaggi delle ultime settimane non erano favorevoli per il suo partito, LaRem, ma il primo turno delle Amministrative è andato anche peggio del previsto: nessuno dei candidati di Macron è riuscito ad affermarsi. La sconfitta più dura l’ha registrata in Hauts-de-France, la grande regione del nord, dove a sostegno del suo candidato, Laurent Pietraszewski, Macron aveva schierato ben cinque ministri, tra i quali il Guardasigilli Éric Dupont-Moretti. Il risultato è stato umiliante: Pietraszewski, con solo il 9,1%, si è dovuto ritirare. In testa è arrivato Xavier Bertrand, presidente di regione uscente della destra Les Républicains (LR) e candidato già dichiarato alle presidenziali del 2022. Con il 42,5% dei voti, Bertrand stacca di molto Sébastien Chenu (24%), candidato del Rassemblement National (RN) di estrema destra.

La situazione, come ironizzava ieri Le Figaro, il giornale conservatore, è piuttosto “comica”: Macron, che con la moglie Brigitte vota sempre a Le Touquet, località balneare proprio in Hauts-de-France, dovrebbe logicamente invitare a votare LR per sbarrare la strada all’ultradestra: ma, si chiede la stampa, il presidente darà il suo voto proprio al candidato che presto potrebbe diventare uno dei suoi principali rivali per l’Eliseo? È stato deludente per Macron anche il risultato in Valle della Loira, sola regione dove poteva riporre speranze: il suo candidato Marc Fesneau, centrista del Modem, partito alleato di LaRem, ministro delle Relazioni con il Parlamento, è arrivato solo quarto (16,65%). In testa è il presidente uscente, di sinistra, François Bonneau (24,81%). La débacle di domenica mostra che, dopo quattro anni al potere, malgrado la lezione dei Gilet Gialli, il movimento di protesta sociale scoppiato nel 2018, LaRem, fondato nel 2016, presente ora per la prima volta con delle liste sue alle Regionali, non è stato capace di radicarsi a livello locale. “LaRem è un partito giovane, non abbiamo presidenti uscenti”, ha cercato di scusare l’ex ministro Christophe Castaner. I sondaggi questa volta hanno saputo prevedere solo l’alta astensione, al 66,74%, mai così elevata. Il RN di Marine Le Pen, che avevano dato in testa al primo turno in sei regioni, è stato meno forte del previsto e perde anzi terreno rispetto al 2015. Anche gli elettori della Le Pen, malgrado le vittorie in prospettiva, hanno disertato le urne. Il RN è primo solo in Provenza-Costa Azzurra, ma Thierry Mariani (36,3%) è tallonato da Renaud Muselier di LR (32%): decisivo qui potrebbe essere un “fronte repubblicano”, con i partiti uniti per impedire all’ultra destra di prendere la regione del sud. Lo scrutinio insegna, a sorpresa, che i partiti tradizionali, dati per morenti dopo la batosta delle presidenziali del 2017, sono ancora vivi; che c’è ancora spazio per la destra moderata tra RN e LaRem; che la gauche, almeno a livello locale, esiste. In Ile-de-France, la regione di Parigi, dove è in testa Valérie Pécresse, presidente LR uscente, la sinistra che si presenterà unita al ballottaggio dietro al candidato ecologista Julien Bayou, può ancora farcela. Sul piano locale escono sconfitte proprio le due forze, LaRem e RN, che sembrano destinate a affrontarsi sul piano nazionale: i sondaggi prevedono il replay del duello Macron-Le Pen nel 2022. Paradossalmente, Macron viene sanzionato proprio ora che la sua popolarità, trainata anche dalle riapertura post-lockdown, è in salita: il presidente raccoglie il 39% di buone opinioni (+5 punti da marzo) e canalizza la simpatia dei giovani che, grandi assenti di questo scrutinio, potrebbero invece mobilitarsi in primavera.

Nucleare, Raisi come Rouhani: “Non negozio all’infinito”

Chi si aspettava un cambio di linea da parte dell’Iran con l’arrivo del nuovo presidente eletto Ebrahim Raisi è rimasto deluso. “Tornate immediatamente all’accordo sul nucleare”, è stato infatti il messaggio che ha lanciato ieri agli Usa nella sua prima conferenza stampa. “Continueremo a negoziare per la revoca di tutte le sanzioni e sosterremo ogni trattativa che garantisca i nostri interessi nazionali, ma non negozieremo all’infinito”, ha fatto sapere Raisi davanti a una platea di 380 giornalisti, all’indirizzo di Joe Biden che – ha detto – non ha intenzione di incontrare. Questo il giorno dopo la fine del sesto round di negoziati di Vienna tra Iran, Germania, Cina, Francia, Regno Unito e Russia sugli accordi nucleari con l’Iran, e “in preparazione di quello che dovrebbe essere l’ultimo round”, come ha annunciato su Twitter l’ottimista negoziatore russo, Mikhail Ulyanov”. Nucleare a parte – Raisi ha anche spiegato che “una nuova situazione è emersa in Iran e gli americani devono sapere che la loro politica di massima pressione non funzionerà” e che “gli europei devono smettere di piegarsi alle pressioni americane e mantenere i loro impegni nell’accordo del 2015”. Quanto alle accuse a suo carico sulle cosiddette “commissioni della morte” che negli anni 80 mandarono all’impiccagione migliaia di oppositori, il presidente ultraconservatore non ha confermato i fatti, ma ha dichiarato che ogni decisione è stata da lui presa per “difendere i diritti, la sicurezza e il benessere della nazione”. Soggetto a sanzioni Usa per violazione dei diritti umani, Raisi ha puntato il dito contro Washington, che si “presenta come difensore dei diritti umani ma ha formato gruppi come l’Isis per attaccare il popolo”. Altre conferme sulla linea di Rouhani, Raisi le ha date circa il rifiuto di allargare i negoziati al programma missilistico e alle attività delle milizie di Teheran dal Libano all’Iraq, alla Siria, così come sulle trattative con l’Arabia Saudita per la ripresa delle relazioni. Avvertimento a Israele: “Prima dell’Iran dovrebbe aver paura dei palestinesi oppressi. E l’Iran ha sempre difeso gli oppressi”.