“BIden, sanzioni inefficaci. Contro il regime di Putin”

L’oppositore ed ex deputato della Duma, Dmitry Gudkov, risponde al telefono da Kiev, dove è fuggito quando la pressione delle autorità russe, all’alba delle elezioni di settembre, è diventata minacciosa. In attesa che la famiglia lo raggiunga in Ucraina, per rifugiarsi in seguito in Bulgaria dove abitano i suoi parenti, Gudkov parla del kafkiano procedimento giudiziario aperto contro di lui.

Signor Gudkov, di cosa la accusano formalmente le autorità a Mosca?

Nel caso giudiziario non sono coinvolto io direttamente, ma mio zio, che ha affittato un podval, un seminterrato, che ha ristrutturato in previsione di avviare una scuola. I problemi sono cominciati quando gli sono state richieste le stesse mensilità d’affitto che aveva pagato già tre volte, dopo aver contratto un debito. L’azienda ha fatto bancarotta e hanno incolpato tutti i parenti di mio zio di complicità, una formula con cui puoi accusare chi vuoi. Io, in quel seminterrato, comunque non ci sono mai stato e nel business che voleva avviare non sono mai stato coinvolto. Perfino il nome che mio zio aveva dato all’azienda l’ho appreso solo quando si sono presentati per arrestarmi. Sono venute a prelevarmi a casa, con auto blindate, una decina di persone con armi semiautomatiche. Mi sembra che nemmeno i terroristi vengono arrestati cosi. È un caso che comunque, normalmente, sarebbe stato risolto da una corte civile con un risarcimento danni, non un reato penale. E tutto è accaduto sei anni fa, secondo lei, perché ne parlano oggi?

Perché, signor Dmitry?

Hanno “disseppellito” questa vicenda prima delle prossime elezioni parlamentari di settembre. Con il mio caso giudiziario hanno stabilito un precedente: un individuo può essere messo dietro le sbarre anche se non ha alcuna relazione diretta con l’azienda sotto accusa. Mio zio è finito in un centro di detenzione, in carcere insieme agli assassini. Io sono stato invece tre giorni in una cella di cinque metri, con un buco nel pavimento al posto del bagno. Il letto era lungo un metro e mezzo e sono alto quasi due metri. Quando l’attenzione mediatica è calata, ci hanno liberato. Poi hanno chiamato persone vicine al Cremlino per dire che avevo qualche giorno per lasciare la Russia, oppure potevo tornare in prigione insieme a tutti i miei parenti.

Nello stesso giorno in cui hanno arrestato lei, quando era già seduto in un aereo che stava per decollare verso Varsavia, è stato ammanettato Aleksandr Pivovarov, ex direttore di Open Russia, l’organizzazione fondata dall’oligarca avverso a Putin, Mikhail Khodorkovsk.

Pivovarov è in una prigione a Krasnodar, l’accusa contro di lui è aver fatto parte di un’organizzazione finita nella lista degli “agenti stranieri”. Dietro le sbarre è stato appena messo anche il candidato indipendente di San Pietroburgo, Maksim Reznik, per “possesso di narcotici”, che non ha mai usato ovviamente.

Esilio o prigione: sembra l’unica alternativa per gli oppositori russi, non solo per i radicali come Aleksej Navalny, ma anche per i moderati come lei.

Con il 25% nei sondaggi, io a settembre avrei vinto e lo hanno capito, ma un giovane onesto e carismatico, tra le tribune parlamentari, sarebbe un pericolo per il governo. Io comunque non considero Navalny un radicale: sì, forse è più radicale di me, ma ha cercato di partecipare alle elezioni in maniera legale e non glielo hanno concesso, proprio come a tutti gli altri. Quando le proteste pacifiche non portano ai risultati desiderati, comincia la radicalizzazione, ma ora, i radicali sono solo le autorità.

Il presidente Biden ha detto a Putin durante il loro ultimo incontro che la morte di Navalny ‘sarebbe una tragedia’.

Non sono parole formali, è uno scambio di posizioni con un omologo. Ci saranno sanzioni Usa, ma io non credo che gli Stati Uniti abbiamo davvero gli strumenti per cambiare il regime di Putin.

Cosa può farlo?

Qualche processo interno già avviato si paleserà alle prossime elezioni presidenziali del 2024. È chiaro a tutti che la politica usata finora è in un tupik, un vicolo cieco, e, prima o poi, penso che vincerà il buon senso. La Russia attuale, che isolata si scontra con il resto del mondo civilizzato, non ha futuro.

Tornerà a Mosca?

Continuerò a fare tutto quello che facevo prima, tranne, ovviamente partecipare alle prossime elezioni. Mi occuperò di giornalismo contro la propaganda governativa, di istituire un’università russa in Europa con gli insegnanti epurati dalla Federazione. Voglio coordinare i cittadini della diaspora russa che risiedono all’estero per stilare riforme per la Russia che verrà dopo Putin. Voglio tornare a Mosca, ma quando lo farò, dipenderà dalla storia del mio Paese.

Yoga-ansia-Covid: relazione virtuosa

Ieri, 21 giugno,era il Solstizio d’estate, giorno più lungo dell’anno, festeggiato dai pagani con diversi riti. È stato scelto per celebrare la giornata mondiale dello Yoga. Questa pratica, un vero rito che coinvolge mente e corpo, ci è arrivata dall’Oriente e oggi è diffusa anche in Occidente. Gli effetti benefici sono ormai noti, ma non credevamo potessero riguardare anche la possibilità di impiego contro SarsCoV2. Il primo a parlarne è stato il premier indiano Modi che, fervente di Ayurveda e di altre pratiche tradizionali, lo scorso anno, in piena pandemia, alla vigilia del solstizio, ha pubblicato un invito a praticare Yoga: “Ha un potenziale benefico per le sfide della mente, del corpo e psicologiche. Fatelo, ma restate dentro casa”. Studi effettuati anche in Italia hanno evidenziato i benefici in molti aspetti della malattia. Il principio sul quale è fondato l’uso dello Yoga durante la pandemia è che un fisico sano e il buon umore sono validi avversari delle forme più gravi e possono fortificare il corpo contro l’infezione. I suoi esercizi caratterizzati dalle aperture del petto, che provocano un’ottima areazione degli alveoli polmonari, torsioni che stimolano la peristalsi del sistema vascolare e linfatico e il mantenimento del ritmo respiratorio lento assicurano un equilibrio assoluto delle funzioni vitali con conseguente protezione e potenziamento del sistema immunitario. Unitamente a questo effetto è certamente un’evidente attività sedativa dell’ansia. Forse è questo l’effetto che decantano i praticanti. Imparare a gestire le emozioni e dominare le ansie è una pratica molto utile anche fra i malati ricoverati. Molti medici che hanno seguito malati Covid, anche nelle terapie intensive, hanno evidenziato che i malati con un maggiore stato d’ansia necessitavano più frequentemente della respirazione assistita e presentavano anche disturbi cardiaci. È noto che ansia e stress possano causare un aumento del ritmo respiratorio anche in una condizione di riposo, spesso accompagnata da tachicardia. È assodato che in qualsiasi momento della nostra vita, affrontarla con più serenità possibile è un bene anche per la nostra salute.

*Direttore microbiologia clinica e virologia del “Sacco” di Milano

“È facile mentire con la statistica E senza, è peggio”

Misurare. “Misura ciò che è misurabile, e rendi misurabile ciò che non lo è” (Galileo Galilei).

Stelle. Il numero di stelle nell’Universo osservabile è compreso tra 2 x 1.023 e 4 x 1.023.

Statistica. “È facile mentire con la statistica. È ancora più facile mentire senza” (Frederick Mosteller).

Google. Il matematico Edward Kasner chiese a suo nipote Milton, che all’epoca aveva nove anni, che nome assegnare al numero 10.100. Risposta: “Googol”. Kasner e il nipote coniarono anche il nome googolplex, equivalente a 10 google. Il googolplex è un numero che non potrà mai essere scritto per intero, perché nell’Universo non c’è abbastanza spazio per contenerlo.

Universo. “Meno si conosce l’Universo, più è facile spiegarlo” (Léon Brunschvicg).

Contare. Per contare fino a 31 con una sola mano si stabilisca che il mignolo, l’anulare, il medio, l’indice e il pollice valgano i numeri 1, 2, 4, 8, 16. Si combinino poi le dita della mano in modo da rappresentare le cifre mancanti: per esempio, alzando il mignolo e l’anulare si vorrà dire 3, il mignolo e il medio il 5, eccetera, fino al 15 – pollice abbassato e le quattro dita alzate – e al 16 (pollice alzato e le altre quattro dita giù). Se si impiegano le due mani, il sistema consente di contare fino a 1.024.

Soldi. “Se riesci davvero a contare i soldi, allora non sei ricco” (Jean Paul Getty).

Zanzibar. Immaginando di mettere tutti gli abitanti del mondo uno di fianco all’altro, e assegnando a ciascuno un lembo di terra di 30 centimetri per 60, l’intera umanità potrebbe essere sistemata sull’isola di Zanzibar.

Tardi. “Come abbiamo fatto a fare così tardi così velocemente?” (anonimo).

Egitto. Nell’antico Egitto il giorno e la notte venivano suddivisi in 12 parti uguali. Di conseguenza le ore notturne avevano praticamente sempre una lunghezza diversa da quelle diurne.

Gravità. “Ho spiegato i fenomeni del cielo e del nostro mare attraverso la forza di gravità, ma non ho ancora assegnato una causa alla gravità” (Isaac Newton).

Fungo. L’organismo vivente più grande al mondo è un esemplare di Armillaria solidipes, un fungo selvatico delle Blue Mountains, nell’Oregon, che cresce sottoterra e si estende su un’aerea di 9,6 km quadrati. Ha un’età compresa tra i 1.900 e gli 8.650 anni e una massa stimata attorno alle cinquecento tonnellate, come quella di cinque balenottere azzurre.

La formica più grande del mondo è lunga quattro centimetri.

Musica. “La musica è il piacere che la mente umana prova quando conta senza essere conscia di contare” (Gottfried Leibniz).

Metro. Durante la Rivoluzione francese il metro fu definito così: un decimilionesimo della distanza tra il Polo Nord e l’equatore calcolato sul meridiano di Parigi (e quindi la distanza tra polo e equatore veniva fatta pari a 10 milioni di metri, ovvero diecimila chilometri, il che non è). Tra il 1889 e il 1960 il metro fu ridefinito in riferimento a una barra campione. Nel 1960 si ricorse a questa descrizione: 1.650.763,73 lunghezze d’onda nel vuoto della radiazione corrispondente alla linea di emissione rosso-arancio nello spettro elettromagnetico dell’atomo di krypton-86.

Istruzione. “Se pensate che l’istruzione sia costosa, aspettate di vedere il prezzo dell’ignoranza” (Barack Obama).

Notizie tratte da Andrew C. A. Elliott, “È grande questo numero?”, Raffaello Cortina, 432 pagine, 25 euro Giorgio dell’arti

I dittatori miopifregati dall’ego

“Rimandatelo a quella puttana di sua madre. Non è una fonte ma un disinformatore”. C’è molto di Stalin nella nota che scrive il 16 giugno 1941. Ostinazione e diffidenza al limite della paranoia, tanto da rifiutarsi di credere al NKVD, il suo servizio segreto, che gli fa arrivare il rapporto di un ufficiale tedesco che annuncia l’invasione di lì a sei giorni.

Non è la prima volta che i sovietici sono stati allertati. A marzo e ad aprile prima gli americani – tramite il sottosegretario di Stato Sumner Welles, che parla più volte con l’ambasciatore di Mosca – poi gli inglesi fanno sapere a Stalin che la Germania si sta preparando ad attaccare. Lo stesso Churchill gli invia un memorandum riportando movimenti di truppe corazzate in Polonia.

Il Vozhd, il Capo, però, non reagisce. Pensa a un complotto degli Alleati per costringerlo a dichiarare guerra alla Germania o crede che possa reggere ancora il patto Molotov-Ribbentrop, il trattato di non aggressione diventato ormai un reciproco gioco d’inganni, o si illude di trattare ancora con i nazisti. Ma un avvertimento più circostanziato era già planato sulla sua scrivania. La fonte ancora una volta è una spia – e che spia: Richard Sorge, azero di padre tedesco e madre russa assoldato da Mosca per mettere su una rete di agenti in Giappone. Sorge fa bene il suo lavoro, riesce a mettere le mani su documenti dell’ambasciata di Germania a Tokyo e il 19 maggio fa sapere che “l’attacco inizierà il 20 giugno, è possibile un giorno o due di ritardo”. La risposta dei suoi capi? “Dubitiamo della veridicità delle sue informazioni”.

Il 14 giugno, il generale Georgij Zukov, che diventerà uno dei più grandi strateghi della Seconda guerra mondiale e soprattutto l’uomo che avrebbe salvato l’URSS, chiede a Stalin di cominciare a mobilitare l’esercito. Lui rifiuta. “Sarebbe la guerra” gli risponde seccamente.

Ormai l’orologio corre veloce. È il 21 giugno. Con tempismo eccezionale, il truce Lavrentij Berija, uno degli uomini più fidati e servili del dittatore, fedele esecutore delle purghe staliniane e capo del NKVD (che non si fida dei suoi agenti) dichiara entusiasta: “Il mio popolo e io, Iosif Vissarionovich Stalin, ricordiamo bene la tua saggia previsione: Hitler non ci attaccherà nel 1941!”.

Poco dopo, alle 9 di sera, un geniere tedesco raggiunge le linee sovietiche nella Polonia occupata, dice ai soldati che lo catturano di essere un compagno marxista (era vero) e che tra poco migliaia di suoi commilitoni avrebbero attraversato il fiume Bug. A mezzanotte e mezza ancora Zukov, accompagnato dai generali Timosenko e Vatunin, si fa ricevere da Stalin per convincerlo a dichiarare lo stato d’allarme.

Ma è troppo tardi, quella notte porta l’ombra lunga della catastrofe. Alle 3.15 del 22 giugno le sentinelle dell’Armata Rossa che sorvegliano il ponte sul Bug a Koden sono invitate dai militari tedeschi a parlare “di una faccenda importante”. Quando li raggiungono, sono abbattute a colpi di mitragliatrice. L’Operazione Barbarossa è cominciata.

Adolf Hitler scaglia la sua gigantesca massa d’urto, trasportata per mesi e mesi a est impegnando 17.000 treni: 3.600.000 soldati, compresi finlandesi e rumeni, supportati da 3.600 carri armati e 2.700 aerei, oltre a 7000 cannoni e più di mezzo milione di veicoli motorizzati.

La più grande forza d’invasione della storia europea, divisa in tre gruppi d’armate, seguite dagli Einsatzgruppen, le unità di sterminio create per annientare ebrei, zingari, oppositori politici, civili, prigionieri, partigiani.

Di fronte, Iosif Stalin comanda 2.500.000 militari e dispone di 10.000 carri armati e 8.000 aerei. Ma le sue armate sono impreparate. E la colpa è sua. Le purghe, gli omicidi di massa degli anni 30, hanno eliminato gli uomini migliori: molto più della metà degli ufficiali è in carica da meno di due anni, nessun comandante di reggimento ha frequentato l’Accademia militare. Non esiste un piano razionale di difesa.

È subito una catastrofe, i tedeschi sfondano su tre direttrici verso Leningrado, Mosca, Odessa, un fronte di migliaia di chilometri lungo il quale l’Italia fascista si accoderà per pagare il suo altissimo tributo di vite umane.

Non si può dire che l’invasione non fosse nei programmi di Hitler: nel suo delirante manifesto ideologico, il Mein Kampf, aveva messo nero su bianco quindici anni prima: “Se oggi parliamo di nuovi territori in Europa, allora non possiamo che pensare in primo luogo alla Russia […] Il colossale impero dell’Est è maturo per il crollo, e la fine del dominio ebraico in Russia sarà anche la fine della Russia come Stato”. Tutto tronfio, il 5 ottobre il Führer urla al popolo che “il nemico a est è stato schiacciato e non si rialzerà mai più”.

In quel momento i nazisti hanno occupato un terzo dell’Unione Sovietica, strappato la metà della produzione di ferro e carbone, si sono impadroniti del 30 per cento delle forniture agricole.

Ma Hitler non sa ancora che l’operazione Barbarossa segna l’inizio della fine sua e del Terzo Reich. I generali tedeschi, convinti che avrebbero affrontato al massimo 200 divisioni, scoprono ad agosto che sono diventate 360, e a dicembre 400. Una valanga umana. Hitler non aveva capito che il Giappone – suo alleato – non avrebbe mai dichiarato guerra alla Russia e che quindi Stalin era libero di sguarnire il suo fianco orientale per concentrare tutti gli uomini e i mezzi sulla difesa e il contrattacco. E così nell’inverno del ’41 l’avanzata della Wehrmacht si ferma davanti a Leningrado e a Mosca, complici le temperature polari e la determinata riorganizzazione dell’Armata Rossa.

L’errore fatale del Führer e della sua cricca fu soprattutto quello di sottovalutare la capacità di mobilitazione del nemico bolscevico. Come ricorda lo storico Max Hastings, lo spostamento delle industrie sovietiche lontano dal fronte coinvolse oltre 1500 fabbriche, delle quali 1300 con impianti giganteschi. La metà delle strutture fu trasferita sugli Urali, il resto sul Volga, in Siberia e nell’Asia centrale, muovendo 1.500.000 di vagoni ferroviari e impegnando 16 milioni di operai in condizioni estreme, assicurando così un flusso ininterrotto di cannoni e carri armati.

Quattro anni dopo l’invasione la bandiera rossa sventolava sulle rovine del Reichstag a Berlino. L’incapacità di leggere le intenzioni dell’avversario – e di conoscerne lo spessore prima di sfidarlo – era costata alla Grande Madre Russia di Stalin 30 milioni di morti, alla Germania di Hitler la distruzione totale.

 

La7, 20 anni fa sfidammo il patto rai-b. È valsa la pena

Giusto vent’anni fa nasceva La7, televisione assai male accolta dal duopolio Rai-Mediaset nel mentre si approssimava il ritorno al governo di Silvio Berlusconi. Era il 2001. Che il progetto venisse percepito come un intralcio fastidioso, e non come un arricchimento dell’offerta competitiva, Fabio Fazio e io lo avevamo intuito al volo, allorquando Enrico Mentana ruppe il “patto di ferro” stipulato fra noi tre per andare insieme alla sfida. Poco prima del varo cambiò idea, accettò il rilancio economico di Mediaset e rimase al Tg5.

Per paradosso, ad aggravare la nostra posizione giunse l’ottimo 13% di share conseguito nella diretta televisiva inaugurale (ultima apparizione pubblica di Indro Montanelli). Rischiavamo di allargarci troppo, meglio darci un taglio. Fazio, poco dopo, venne pagato per andarsene. La buona sorte di una liquidazione toccò pure al sottoscritto. Ma siccome ero personaggio meno importante, dunque ritenuto innocuo, a me fu offerto di proseguire la collaborazione. Tanto, la vera star era Giuliano Ferrara.

Con l’indimenticabile Lillo Tombolini tirammo felicemente la carretta per dieci anni, proponendo La7 come tv alternativa di qualità. E non fu facile, nel 2010, ottenere dai vertici aziendali Telecom di vincere le esitazioni diplomatiche e prendere con noi il figliol prodigo Mentana; rimasto senza lavoro perché, secondo i berlusconiani, non dirigeva col dovuto zelo filo-governativo il tg da lui fondato. L’arrivo di Mentana a La7 segnò la svolta, gli ascolti che già crescevano cominciarono a volare, con l’ulteriore prezioso apporto di Maurizio Crozza.

A quel progetto di nuovo polo televisivo ho dedicato una dozzina di bellissimi anni, prima di percorrere altre strade. Posso solo abbracciare chi allora ci ha creduto e fare gli auguri di buon compleanno a chi oggi ci lavora. Tra di noi diciamocelo: ne è valsa la pena.

Pagelle a sinistra: dallo 0 di Marcucci al 10 di Bersani

Si parla da anni di “campo progressista”, ovvero l’accordo tra Pd, M5S, sinistra (cosiddetta) radicale e società civile. Le Amministrative, che sono uno sport a sé ma qualcosa dicono, stanno rivelando tutti i problemi esistenti. Basti pensare a Roma e Torino. Ma pure alla Calabria, dove il vizio atavico della sinistra di giocare all’“io sono più puro di te” ha già fatto sì che la candidata unitaria della “Ditta” sia sotto bombardamento dei “giovani del Pd” (che non la ritengono espressione del territorio) e della sinistra massimalista (che vorrebbe Mimmo Lucano). Tutti questi atteggiamenti non fanno che regalare ulteriori praterie alla destra. Il punto resta quello di sempre: chi crede davvero, nel centrosinistra e nei 5 Stelle, al “campo progressista”? Facciamo una rapida ricognizione, esprimendo un voto che non fotografi il merito, bensì la voglia reale di alleanza.

Conte 9. È uno dei più convinti. Il leader del M5S punta a riproporre l’alleanza del Conte-2, ovviamente senza l’amico di Bin Salman (che del resto non ha più elettori, quindi serve unicamente a dare un senso alle vite di Luciano Nobili e Maria Teresa Meli). Il problema di Conte sarà quello di crederci tanto, sì, ma senza con ciò snaturare il M5S. Che deve restare espressione di radicalismo civico e non un accrocchio analcolico di iper-moderati.

Bersani 10. È quello che ci crede più di tutti. Ci crede così tanto che in qualche modo ci provò pure nel 2013. Quella volta in realtà chiese un poco praticabile “appoggio esterno”, e dall’altra parte trovò un Crimi ai minimi storici (cioè come adesso, più o meno) e una Lombardi gradevole come una detartrasi effettuata col tritolo. Se tutti fossero come Bersani, il campo progressista sarebbe oggi cosa fatta. Ma Bersani e Speranza hanno il 3 per cento, non il 30.

Letta 6. Non si è ancora capito quanto il segretario del Pd creda a questa alleanza. E secondo me non lo ha capito neanche lui. Men che meno gli elettori. Problema non di poco conto.

Marcucci 0. Cito questo soggetto unicamente come espressione di quel renzismo ancora dominante tra i parlamentari Pd e tuttora molto forte in non poche realtà locali (Toscana, Piemonte). Fino a quando ci sarà anche solo un ultrà renziano nel Pd, il Pd non avrà futuro. O meglio: lo avrà, ma nel centrodestra.

Fratoianni 7. Benissimo essere il pungolo per stimolare l’alleanza da sinistra. Il rischio è però quello di pungolarla così tanto da sfociare nel mero bertinottismo. Fratoianni non è pazzo, ma qualcuno con la fregola di spaccare tutto – anche solo per sentirsi vivo – a sinistra c’è sempre.

Di Maio 8. Nel M5S è uno di quelli che ci crede di più, e due anni fa sarebbe stato impensabile. Il partito (basta con ’sta storia del “Movimento”) ce l’ha in mano lui e, per capire dove andrà il M5S, basta guardare Di Maio.

Di Battista 5. L’ex parlamentare M5S è molto meno contrario di quel che sembri a un tale accordo. Per lui i problemi sono due: che quell’accordo non diventi “organico” (questione di lana caprina) e che il M5S esca dal governo Draghi (questione enorme, perché il M5S dal governo non esce). Il campo progressista può e deve fare a meno dei talebani politicamente tragicomici à la Lezzi, ma non può prescindere da chi saprebbe alzare l’asticella su temi rilevanti (ambiente, questione morale, etc). Senza i Di Battista, il M5S rischia di diventare un ameno circolo Pickwick tipo post-Dc cattocomunista. Molto catto e poco comunista.

Quindi? Quindi buona fortuna. La strada sarà parecchio lunga e complicata.

 

L’informazione seduta sul virus nella gabbia della pandemia

Sembra che l’informazione non voglia, o non sappia, uscire dall’emergenza Covid. Sia chiaro che chi scrive pensa che quella della pandemia non sia stata, e non sia, un’evenienza come le altre, e che pertanto essa meriti tutta l’attenzione drammatica che i media le hanno riservato. La tv poi si è ripresa la sua centralità, forte di quella responsabilità professionale e di un controllo editoriale che, così carenti nel web, sono quanto mai essenziali per diradare le nebbie della confusione in epoche piene di paura e di fake news. Ma è da oltre un anno che anche nei momenti di minore incidenza o meno drammatici della malattia, l’informazione tv batte sempre gli stessi tasti, manda in onda lo stesso racconto: con gli stessi soggetti, le stesse sceneggiature, gli stessi plot narrativi. In una replica infinita dello stesso film.

Uno “spettacolo”, tra l’altro, che non appassiona più, come ci dicono anche le cadute degli ascolti di questi mesi per programmi che nel corso della prima ondata avevano raggiunto audience più elevate e importanti. La cosa però non riguarda solo i talk, che anche in chiusura di stagione dimostrano di non sapere uscire da un format mesto e ridondante. Anche i telegiornali sono come in preda a una paralisi nella funzione di raccontare il Paese, ingessati tra le insulse dichiarazioni fotocopia dei politici e la rinuncia a qualsiasi autonoma tematizzazione: un’inchiesta, un servizio che scopra una visuale inedita, una campagna di denuncia civile.

In questo il virus che ha travolto il Paese sembra essere diventato, per la maggior parte dell’informazione pubblica e privata, un formidabile alibi per alimentarne una patologica pigrizia. Che per inciso in tv non è solo appannaggio del genere informazione. È come se a un certo punto ci si sia “seduti” sul virus, in fondo la merce più a buon mercato a disposizione, appagati e senza voglia di nuovi stimoli. E il modo più facile e spiccio per raccontarlo, il virus, è diventato da un certo momento in poi la stucchevole recita dei virologi, che quasi nessun giornalista è stato capace di arginare con un utilizzo più sobrio dell’esperto. La presenza debordante e seriale in video di medici e specialisti, pure tanto utile in epoche come questa (al netto degli eccessi di vanità dei singoli), da un certo momento in poi è diventata “teatrino”. A volte finanche gossip. Tale e quale a quello della politica, e non sempre per colpa dei primi. Perché qui, più che le ferree leggi dell’infotainment, hanno giocato le gravi responsabilità di conduttori e giornalisti, privi di un’idea altra di come fare informazione nonostante la pandemia: solo qualche programma (le solite eccezioni) ha provato a uscire da questa comoda gabbia in cui si sono chiusi da oltre un anno talk e tg. Il colpevole risultato di tutto ciò è stata una netta perdita di credibilità della scienza: tirato quotidianamente per la giacchetta l’esperto è diventato un opinionista qualsiasi, cui può essere contrapposto polemicamente, come per la politica, un altro opinionista.

La scienza dunque è divenuta opinione; per essa peggio non poteva andare. Non so se negli altri paesi europei lo spettacolo si sia replicato come da noi, ma ne dubito, considerato che altrove la televisione non vive l’intossicazione da talk e politica che abita quella italiana. Ancora oggi decine di virologi sono chiamati a comparire su tutte le principali reti, soprattutto nei programmi. Alcuni si sono fatti un addetto stampa. Non se ne può sinceramente più. Ci vorrebbe, anche qui, un cambio di passo.

Ps: per gli amanti delle statistiche tra gli scienziati (Agcom di maggio) nelle tv il primo è Pregliasco (170 minuti), poi Galli e Bassetti (157’ e 148’), indi la Viola (77’), Nino Caltabellotta (76’) e Burioni (33’).

 

Firenze tra l’illegalità e il degrado: che fare?

“Ragazzi, la piazza è nostra e abbiamo il diritto di pisciare ovunque!”. Lo ha proclamato qualche giorno fa, fra gli applausi, uno dei manifestanti che si sono riuniti sul sagrato della chiesa di Santo Spirito per protestare contro i divieti che il Comune di Firenze ha emanato per combattere il degrado che da anni affligge la piazza. L’avevano detto e l’hanno fatto. Venerdì sera, in margine a un’altra manifestazione di protesta sul sagrato della Chiesa, durante la quale hanno tagliato i cordoli di protezione e rovesciato i basamenti di cemento che li sorreggevano, i più zelanti si sono alternati a orinare sul muro della Chiesa.

Sono immagini che fanno male. Firenze ha insegnato al mondo il vivere libero e civile. Oggi è agli occhi del mondo inerme e indifesa contro chi la deturpa e la offende come se fosse, giuste le parole del manifestante, una cosa privata e ha la sfrontatezza (o è pura ignoranza?) di protestare contro la privatizzazione degli spazi pubblici. Possibile che Firenze non abbia le risorse morali e politiche per reagire?

La città non è una oggetto da consumare o una merce da vendere. È un bene da rispettare. La Repubblica non può e non deve arrendersi a chi vuole farla da padrone negli spazi pubblici, non importa se sono imprenditori o popolani. Deve saper agire con fermezza e saggezza. Molti fiorentini si sono chiesti perché le forze dell’ordine non siano intervenute venerdì sera contro i manifestanti che occupavano il sagrato della Chiesa. Non sono un esperto, ma sono convinto che i responsabili dell’ordine pubblico abbiano valutato che un’azione di forza in una piazza con centinaia di persone sedute ai tavoli dei bar e dei ristoranti avrebbe comportato rischi seri per la sicurezza. Poco saggia è a mio giudizio anche l’idea di una cancellata collocata attorno alla scalinata della Chiesa. Ammesso che sia efficace, sarebbe una vera e propria offesa, questa volta permanente, alla bellezza della Chiesa e della piazza. Rimarrebbe la via della limitazione degli accessi. Ma come, e con quali criteri?

L’unica via possibile è il controllo da parte delle forze dell’ordine, con la consapevolezza che occorreranno mesi, forse anni, per rimediare a decenni di assenza delle istituzioni e di dissennate politiche di privatizzazione. Andrebbe tentata anche la via del confronto con i giovani che hanno manifestato contro le disposizioni del Comune per separare chi si sente padrone della città da chi vuole avere libero accesso agli spazi pubblici nel rispetto dei diritti di tutti.

Non occorre grande sapienza per capire che le vicende di Santo Spirito hanno un significato politico nazionale. Non solo perché si tratta di Firenze, ma anche perché se il Comune non riesce a difendere la città dal degrado e dall’illegalità, Salvini e Meloni proclameranno a gran voce che i governanti di centrosinistra sono inetti e imbelli. Faranno il pieno di voti.

Se la sinistra non sa tutelare l’ordine pubblico e imporre il rispetto delle leggi, i cittadini votano la destra. È una vecchia storia. Mi auguro che a sinistra l’abbiano capita.

Ed è pure una vecchia storia che Firenze (e l’Italia) deve combattere contro due nemici: la plebe licenziosa (oggi la chiamano populista) che ritiene di avere il diritto di fare quello vuole senza riconoscere alcun dovere; e la mentalità autoritaria che vuole soffocare i diritti in nome dell’ordine. Se non riesce a sconfiggere l’una e l’altra, Firenze si condanna a un declino irreversibile.

 

Mail Box

“Bella Ciao”? Io ricordo invece “Bandiera Rossa”

Qualche giorno fa un lettore ha scritto che si ricordava quando suo fratello partigiano cantava Bella Ciao. Io ho dei ricordi del tutto diversi. Non ho mai sentito cantare Bella Ciao dai partigiani subito dopo la liberazione e negli anni immediatamente successivi. La canzone che i partigiani comunisti cantavano era invece Bandiera Rossa. Almeno fino alla fine degli Anni 60 non ho mai sentito cantare Bella Ciao nemmeno in quelle che erano considerate le feste “ufficiali”, cioè il 25 Aprile e il Primo maggio. In queste ricorrenze, nei cortei, Bandiera Rossa era sempre cantata anche se in misura decrescente fino a sparire del tutto. Nulla di tutto questo è invece accaduto per Bella Ciao che, se non ricordo male, non si cantava nemmeno durante il ’68.

Pietro Volpi

 

Là dove c’è povertà non si rispetta la Carta

La povertà è anticostituzionale. Se c’è – e addirittura aumenta come ha certificato l’Istat – vuol dire che la Carta non è interamente applicata. L’articolo 38 parla chiaro: “Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale”. L’innovazione di queste poche parole è immensa. Si passa dal povero senza dignità affidato alla carità del ricco, al rispetto del diritto di ogni persona senza lavoro di poter risolvere i propri bisogni essenziali – “vivere” – senza dover suscitare pietà. La destra “compassionevole” ha nascosto dietro un divano questo precetto, ritornando così al vecchio principio ottocentesco che “il povero è solo un pigro che non va assecondato”. Una teoria-crema che deterge i doveri fiscali, conserva elasticità alla coscienza e toglie quei brutti punti neri di senso di colpa.

Massimo Marnetto

 

Open Day, nessuno vuole assumersi responsabilità

Riguardo alla puntata di Otto e mezzo del 17 giugno, dopo aver ascoltato gli interventi di Paolo Mieli e di Linda Palmerini su chi avesse la responsabilità degli Open Day per i giovani, mi è venuta in mente una battuta del film L’Ora Legale. Nella fabbrica gli operai commentano su chi avesse mai votato il sindaco arrestato per corruzione e a un certo punto, visto che tutti negano di averlo mai fatto, la moglie di Valentino dice: “Vuoi vedere che si è votato da solo”. Dato che non si può dire che il commissario straordinario ha qualche colpa, ho pensato: “Ma vuoi vedere che la povera ragazza morta ha organizzato in solitaria l’Open Day e si è somministrata da sola il vaccino?”. Triste Paese quello in cui nessuno si assume mai una responsabilità.

Giuseppe Caudullo

 

Ho fatto la seconda dose ma non ho il certificato

Domenica 13 giugno, ore 14, seconda dose di vaccino presso l’Auditorium di Roma. Dopo 48 ore si potrebbe scaricare dal sito Salutelazio.it il certificato di vaccinazione. Da martedì 15, verso le 19, avvio una serie di tentativi con la procedura attraverso il codice Spid: colleziono una decina di “codici Sms per l’autenticazione di livello 2 di sicurezza” provando fino alle due di notte o alle sei del mattino. Ogni volta clicco sul rettangolino azzurro per scaricare l’attestato, ma non succede nulla! Quasi in modo beffardo il “sistema” mi invia un Sms invitandomi a scaricare la certificazione, ma tutto è inutile. Provo più volte a contattare il numero 06.99500 per informazioni e vengo scoraggiato dalle lunghe attese previste: fino al 17 giugno. Dopo le ore 13 il risponditore automatico mi informa che sono il numero 153: attendo un’ora e 54 minuti e finalmente vengo informato che la mia chiamata è la “prima in attesa”. Ora non si sente neppure più il risponditore automatico, non risponde più nessuno e, dopo altri 9 minuti, vengo invitato ad esprimere un giudizio sulla qualità del servizio: da 1 a 9! Digito 0, perché non ho ricevuto alcun servizio, ma la voce metallica insiste: da 1 a 9! E digito tre volte 1! Presidente Zingaretti, assessore D’Amato, penso che mi dobbiate delle scuse e che comunichiate a tutti i cittadini del Lazio come si fa ad avere l’attestato di vaccinazione attraverso il codice Spid e soprattutto abbiate potenziato il call center! Questo accadrebbe in un Paese “normale”, e io sono convinto che anche il nostro debba essere tale.

Vito Pindozzi

 

DIRITTO DI REPLICA

Nel 2007 il Comune di Lodi ha avviato l’iter di un’operazione di project financing (procedura che prevede la realizzazione di un’opera pubblica con costi interamente a carico di soggetti privati, il cui investimento viene in seguito ripagato dai proventi della gestione in concessione dell’opera stessa) per la costruzione della nuova piscina comunale coperta e la gestione di una delle 3 piscine comunali scoperte pre esistenti e in funzione da decenni: pertanto, nessun “grande impianto sportivo con tre enormi piscine”. Per quanto riguarda i “cinquecentomila euro di perdita il primo anno e trecentomila il secondo”, come è normale per una nuova attività imprenditoriale in fase di avviamento il piano finanziario del gestore privato prevedeva per i primi esercizi chiusure in perdita, che alla riprova dei fatti si sono rivelate inferiori a quanto programmato e che sono state compensate da riserve societarie, senza nessun esborso da parte del Comune. Non c’è stato quindi nessun “buco”, né effettivo né potenziale, nel bilancio comunale, e nessuna necessità di mettere “toppe” affidandosi “ai privati”, considerato che l’impianto è stato costruito a spese di privati e gestito da questi fin dall’apertura nel 2013. Dal terzo esercizio, in anticipo rispetto ai programmi, la gestione della nuova piscina comunale coperta è passata in utile e da allora si è costantemente consolidata, consentendo di rispettare puntualmente ogni impegno economico, compreso il rimborso del prestito bancario ottenuto per finanziare la costruzione, garantito (come consentito dalla legge) da una fideiussione del Comune, il cui importo si riduce progressivamente in proporzione alla riduzione del debito.

On. Lorenzo Guerini

 

La controversia giudiziaria che ha coinvolto il sindaco di Lodi nasce dalla necessità di rendere sostenibile finanziariamente la gestione di una delle tre piscine comunali. Era questo l’assillo del dott. Uggetti, successore del ministro alla carica di primo cittadino, da cui prende le mosse l’inchiesta. Ed è un fatto incontestabile. Se era un “disavanzo programmato” super gestibile e anzi addirittura minore del previsto perché tutto quell’assillo?

A. Cap.

Da un medico “La pessima gestione dei vaccini va contro la deontologia”

Gentile redazione, sono un medico e sono profondamente turbato per l’intollerabile conduzione di un atto medico come la vaccinazione, affidato da una parte alla logistica militare di un Generale pluridecorato e dall’altra al “buon senso” di un presidente del Consiglio dei ministri, che si arroga il diritto, intollerabile deontologicamente, di consigliare le modalità di tale atto medico.

Il nostro codice deontologico condanna l’esercizio abusivo della professione medica. È come se il sottoscritto, da medico, consigliasse vivamente un certo prodotto ingegneristico per migliorare la struttura del ponte Morandi crollato a Genova. Il problema non è nella confusione della comunicazione, ma nell’autorevolezza e competenza di chi si arroga il diritto di diffonderla. Il problema non sono gli innumerevoli virologi, “scienziati” e via dicendo entrati in campo per dare ognuno un parere differente su pandemia e vaccinazioni, ma chi ha loro permesso di assurgersi a “divinità” che propinano il loro sapere, inevitabilmente incerto, a una popolazione necessariamente ignorante. In questo i media, mi concederete, hanno una loro grave responsabilità.

Giorgio Di Mola, Cernusco sul naviglio (Mi)