In Afghanistan l’oppio dei popoli sta tra pupazzi, bombe, petrolio e Islam

Continuiamo coi cenni storici per capire meglio, oppure peggio, il casino combinato in Afghanistan dalla ventennale guerra Usa cui abbiamo partecipato in barba alla Costituzione. 1998: Gli Usa bombardano la regione di Khost, facendo strage di civili. I talebani, la cui flotta aerea si riduce a qualche tappeto volante armato di noci di cocco, fanno una proposta a Clinton: indicheranno dove si trova Bin Laden; oppure lo faranno fuori loro, ma gli Usa dovranno attribuirsene l’omicidio, non come fecero con Oswald. Clinton, distratto dai pompini di Monica Lewinsky, lascia cadere la proposta e le sborra in faccia. 1999: la Strategic Review scrive: “La regione Asia centrale-Medio Oriente contiene la più grande concentrazione mondiale di riserve di idrocarburi e merita l’attenzione statunitense”. Gennaio 2001: Bush figlio diventa Presidente: va al potere un’amministrazione guerrafondaia legata agli interessi delle lobby petrolifere. Marzo 2001: primo ultimatum Usa ai talebani: “Consegnateci Bin Laden o vi seppelliamo di petrolio. No, cioè, di bombe, volevamo dire”. Agosto 2001: contro Bin Laden, gli Usa appoggiano Massud, il comandante mujaheddin simbolo della resistenza anti-sovietica e anti-talebana. Ottobre 2001: gli Stati Uniti attaccano l’Afghanistan e in due mesi rovesciano il regime talebano. Il portavoce dei talebani, il mullah Abdul Salam Zaeef, dice: “Domani i talebani cominceranno a consegnare le loro armi. Credo che dovremo tornare a casa”. Ma gli Usa rifiutano la resa: vogliono continuare la guerra per cancellare i talebani dal Paese. Intanto insediano Karzai (che in afghano significa “pupazzo della Cia”) e impongono uno Stato centralizzato di tipo occidentale. Karzai si mette subito al lavoro: amplia il divario fra ricchi e poveri, estende la corruzione a giudici e polizia, coinvolge ministri in scandali immobiliari, e cede l’economia al narcotraffico (suo fratello diventerà uno dei maggiori narcotrafficanti afghani. Nel 2006, l’Afghanistan batterà ogni record nella raccolta di oppio – 6.100 tonnellate, ovvero il 92% della fornitura mondiale – nonostante l’Amministrazione Bush, con l’Europa, avesse fatto piovere in Afghanistan miliardi di dollari per un programma di eradicazione delle piantagioni di oppio. Un funzionario Onu, Anton Maria Costa, attribuisce la colpa ai talebani, anche se i talebani erano sempre stati contro la coltivazione di oppio, in quanto contraria ai princìpi dell’Islam: sotto i talebani, il raccolto dell’oppio era calato del 95%. La guerra alla droga e al terrore, insomma, ha avuto come risultato l’incremento della guerra, della droga e del terrore. L’aspetto positivo è che tutto questo oppio, adesso, sarà molto utile ai reduci Usa). Nelle città un tempo sotto il controllo talebano, dove vigeva la sharia più rigorosa, per la prima volta dopo anni le donne afghane possono togliersi il velo e camminare tranquille per le strade. Zoccole. Qualche anno dopo, Bush dichiarerà: “L’Afghanistan ha oggi una nuova Costituzione, che garantisce elezioni libere e voto alle donne. Si intraprendono nuove attività commerciali, si aprono nuovi ospedali e centri di assistenza, e i bambini sono tornati a scuola. Oh, e come se non bastasse: eroina, eroina, eroina. Ci sono enormi possibilità occupazionali nel ramo eroina”. Cheney propone di adottare la sharia negli Usa. Rumsfeld annuncia una taglia da 25 milioni di dollari a chi cattura Bin Laden, Bin Laden ne annuncia una di 100 milioni a chi non lo fa. Viene preso in Afghanistan John Walker Lynn, un americano ventenne che studiava in Pakistan e stava combattendo insieme coi talebani. L’Fbi definisce il caso il peggior progetto Erasmus di tutti i tempi. (4. Continua)

 

“Liti temerarie, il Senato ha più a cuore il cornoletame che la libertà di stampa”

“Se il cornoletame sta a cuore ai partiti più della libera informazione, non posso farci niente: alzo le mani”. Primo Di Nicola, senatore M5S e giornalista di lungo corso non nasconde il disappunto: il suo disegno di legge per mettere un freno alle liti temerarie intentate contro i giornalisti con l’obiettivo di intimidirli attende l’approvazione da quasi un anno e mezzo. Ma non si trova una giornata di tempo ché c’è l’emergenza coronavirus. Insomma ci sono ben altre priorità. “E ci mancherebbe. Però nonostante l’impegno che i partiti avevano preso in conferenza dei capigruppo, ho visto che il mio testo è stato sorpassato da cose che poco c’entrano con l’emergenza. Vogliamo parlare del passaggio dei comuni di Montecopiolo e Sassofeltrio dall’Emilia alle Marche? E che dire delle pratiche esoteriche dell’agricoltura biodinamica e del cornoletame? Una barzelletta che non fa ridere”.

Da quand’è che il suo ddl è pronto per l’aula?

Dal gennaio 2020. Peraltro dopo una vera via crucis: prima si sono inventati che il testo era in odore di incostituzionalità, poi che l’entità delle somme pretese da chi ha la querelite facile era troppo elevata. Poi che doveva essere accorpato al ddl del forzista Giacomo Caliendo e ho detto tutto. Insomma un ostacolo via l’altro. Finiti gli alibi si è arrivato al momento dell’esame in aula.

Poi è deflagrata l’emergenza

Sì, anche se è una scusa che non tiene, dati i tempi morti e le settimane in cui non ci sono stati lavori d’aula: è mancata la volontà. Non è un mistero che qualcuno ha sempre remato contro.

Chi?

Be’ soprattutto i renziani che dopo aver posto mille ostacoli, obtorto collo si erano piegati a un accordo in seno all’allora maggioranza con M5S, Pd e LeU davanti al ministro della Giustizia Bonafede. Poi c’è stata l’emergenza…

E si è fermato tutto.

Hanno misteriosamente scalendarizzato il ddl con la promessa di dedicarsi solo ai decreti emergenziali e poi passare alle liti temerarie. Sono trascorsi i mesi, ma in aula hanno portato cose che con il Covid non c’entrano niente. Insomma si sono rimangiati la promessa. Roba da treccartisti e sì che a favore di telecamere tutti sono per la libertà di informazione. Solo che nessuno fa niente: la Corte Costituzionale aveva detto al Parlamento di intervenire in tema di carcere ai giornalisti. Risultato? Non lo ha fatto né sono programmati interventi a breve, lo farà la Consulta: il Parlamento è inadempiente come sulle liti temerarie per tacere del resto.

Tipo la lottizzazione della Rai o i conflitti di interessi nel settore dell’editoria?

Eh sì: la mia proposta di riforma per liberare la Rai dalla partitocrazia ci ha messo tre anni solo per essere incardinata in commissione. Quella sul segreto professionale dei giornalisti, zero carbonella e ne vediamo le conseguenze con l’aberrante sentenza del Tar che pretende da Report che sveli le fonti dei suoi servizi di inchiesta. L’altra contro lo sfruttamento dei giornalisti pagati tre euro ad articolo, neanche a parlarne. Dulcis in fundo, il mio ddl per limitare la presenza nell’editoria di imprenditori con business in altri settori come auto, sanità o costruzioni: chi l’ha visto?

Be’ a fare sul serio sarebbero grandi rivoluzioni, a partire dalle liti temerarie.

Provvedimento sacrosanto: i giornalisti devono rispondere di ciò che scrivono, ma qualche responsabilità deve prendersela pure chi li querela. Se lo fa a costo zero sapendo che la querela è infondata, un pretesto per impaurire chi fa onestamente questo mestiere, è giusto che rischi qualcosa.

Cosa?

Pagare minimo il 20 per cento di ciò che ha preteso ingiustamente dal giornalista. Se la querela è una intimidazione, chi la fa deve essere pronto a mettere mano al portafoglio. Il mio ddl è semplice. Per questo mi sono opposto al suo accorpamento con quello Caliendo nel quale rischiava di essere annacquato.

Perché lo ha fatto?

Perché nel testo Caliendo l’abolizione del carcere ai giornalisti sembra avere come contropartita multe insostenibili per le testate, un diritto all’oblio senza garanzie, pubblicazione delle rettifiche senza repliche che ridurrebbero giornali e tg a smentifici permanenti. Norme inaccettabili per chi ha a cuore la libera informazione.

Carcere ai cronisti: Parlamento immobile, decide la Consulta

Un anno di stallo, rinvii e ostruzionismo. Sulle cosiddette “liti temerarie” e sul carcere nei confronti dei giornalisti. Tutto bloccato in Parlamento. Così, un anno dopo il richiamo della Consulta e dopo gli inviti dei ministri della Giustizia Alfonso Bonafede e Marta Cartabia a legiferare, oggi saranno i giudici costituzionali a decidere sul carcere nei confronti dei giornalisti condannati per diffamazione, previsto fino a 6 anni secondo dalla legge sulla stampa del 1948 e fino a 3 secondo l’articolo 595 del codice penale. Il 22 giugno 2020 la Corte Costituzionale, presieduta dall’attuale Guardasigilli Cartabia, era intervenuta su un caso di diffamazione sollevato dai tribunali di Salerno e Bari chiedendo al Parlamento di intervenire e di adeguarsi alle diverse sentenze della Corte europea dei Diritti dell’Uomo che ha più volte spiegato come la pena detentiva per i cronisti sia in contrasto con l’articolo 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo sulla libertà di espressione. Anche la Consulta suggeriva alle Camere di “disegnare un equilibrato sistema di tutela dei diritti in gioco” che contempli il ricorso a “sanzioni penali non detentive nonché a rimedi civilistici e in generale riparatori adeguati” ma anche “efficaci misure di carattere disciplinare”. Da allora il Parlamento è rimasto immobile.

Due i disegni di legge presentati, uno del senatore forzista Giacomo Caliendo sulla diffamazione e l’altro del senatore M5S Primo Di Nicola sulle liti temerarie. Un tema molto sentito dalle associazioni della stampa perché le querele temerarie sono molto comuni nel rapporto tra politica e giornalismo. L’accordo della maggioranza giallorosa era che i due ddl, seppur separati ma con un unico relatore, Arnaldo Lomuti (M5S), sarebbero stati approvati insieme. Peccato che a bloccare la norma di Di Nicola sulle liti temerarie siano stati i senatori di Italia Viva e poi il Covid.

L’accordo dei giallorosa prevedeva che, sulle liti temerarie, se il querelante perde la causa avrebbe dovuto sborsare non più la metà del risarcimento richiesto nella versione originaria, ma un quarto. Un compromesso che comunque non piaceva ai renziani che ritenevano la cifra troppo alta. La proposta non è mai arrivata in aula e nemmeno quella sul carcere ai giornalisti. Anche su questo Pd-M5S avevano trovato un accordo: una pena pecuniaria da 5 a 25 mila euro per la diffamazione semplice o da 10 a 40 mila per il dolo del giornalista, ovvero se c’è “la consapevolezza della falsità” della notizia. Una soluzione che comunque non avrebbe risolto il problema, anzi secondo alcuni lo aggraverebbe: oggi il carcere per i cronisti è solo l’extrema ratio e convertirlo con pene pecuniarie durissime peggiorerebbe la situazione, anche perché la detenzione era ancora l’unica arma di scambio per la stampa per spingere a modificare la legge in proprio favore. Sul carcere per i giornalisti in caso di condanna per diffamazione il Parlamento non ha fatto nulla. E oggi si riunirà la Consulta.

Consip, i pm chiedono di assolvere Verdini ma ribadiscono: “Processate Tiziano Renzi”

Rinvio a giudizio per Tiziano Renzi e altre sei persone. Lo ha ribadito ieri il pm romano Mario Palazzi nell’ambito di uno dei filoni dell’inchiesta Consip, che si sta discutendo davanti al gup Annalisa Marzano. Nella stessa udienza di ieri, il sostituto procuratore ha chiesto invece l’assoluzione “perché il fatto non sussiste” per l’ex senatore Denis Verdini, per l’imprenditore Ezio Bigotti, per l’ex parlamentare Ignazio Abrignani, per l’ex ad di Grandi Stazioni Silvio Gizzi e per l’ex ad di Consip, Domenico Casalino. Per l’imprenditore campano Alfredo Romeo, che non aveva optato per il rito abbreviato, è stato chiesto il luogo a procedere per l’accusa di turbativa d’asta.

Nel caso di Verdini e di altri (tra cui l’ex parlamentare Abrignani), l’accusa è quella di concussione. Secondo il capo di imputazione Verdini nel 2016, quando era ancora parlamentare, “costringeva Marroni”, ad di una “società pubblica i cui vertici vengono designati proprio dal governo”, “a erogare a Ezio Bigotti (…) l’utilità consistita nell’incontrarlo e ascoltarlo in quanto interessato a conoscere notizie riservate sulla gara FM4 e a sollecitare una minore resistenza di Consip nei contenziosi pendenti”. Accuse che però non stanno in piedi secondo il pm, che ha chiesto l’assoluzione di Verdini perché il fatto non sussiste. Diversa la posizione di Tiziano Renzi. Durante una delle scorse udienze davanti al gup, la difesa del padre dell’ex premier aveva fatto sapere di star valutando la possibilità di chiedere il rito abbreviato. Richiesta che poi non si è concretizzata ed è stato scelto dunque il rito ordinario. Ieri per il padre dell’ex premier e altri imputati, il pm Palazzi ha ribadito la richiesta di rinvio a giudizio. Per Tiziano Renzi, indagato inizialmente per il solo reato di traffico di influenze, la Procura molti mesi fa aveva chiesto l’archiviazione, rigettata dal gip Gaspare Sturzo che ha disposto nuove indagini. E così alla fine Renzi si è ritrovato indagato per traffico di influenze e turbativa d’asta in relazione a due gare: l’appalto Fm4 indetto da Consip (del valore di 2,7 miliardi di euro) e la gara per i servizi di pulizia bandita da Grandi Stazioni. A settembre dovrebbe arrivare la decisione del gup, che dovrà ascoltare prima le difese.

Carceri, il Garante: “Contro il Covid-19 sistema ha tenuto”

Detenuti in calo, ma ancora più di quanti potrebbero essercene nelle carceri italiane, 53.608 contro gli oltre 60mila a inizio 2020, ma la capienza è di 47.445. Le carceri, per fortuna, hanno retto al terribile impatto del Covid, a discapito di quanti, ma solo durante il governo precedente, hanno lanciato allarmi ideologici. Sono dati forniti al Parlamento dal Garante per i detenuti, Mauro Palma: “Complessivamente – ha detto – il sistema penitenziario ha retto all’impatto del contagio, rispetto al rischio potenziale di un ambiente chiuso”. I morti per Covid sono stati 15 e questo grazie all’applicazione di regole rigide, specie dopo l’arrivo al Dap del direttore Dino Petralia e del suo vice, Roberto Tartaglia. Palma è intervenuto anche sull’ergastolo ostativo ai boss, chiedendo una norma “non timorosa, fedele allo spirito della pronuncia della Consulta”, che ha dato un anno di tempo al Parlamento per consentire la possibilità anche ai mafiosi detenuti, pur non collaboratori, la libertà condizionata.

Evasori a Dubai, l’Italia ha chiesto la lista a Berlino

L’Italia ha chiesto alla Germania, attraverso l’Agenzia delle Entrate, i dati dei cittadini italiani contenuti nei file acquistati dal governo di Berlino relativi a persone con patrimoni a Dubai. Come avvenuto in passato per la lista Falciani, che comprendeva i dati di 7mila italiani su 130mila clienti Hsbc, la richiesta sarebbe già stata avanzata dall’Agenzia delle Entrate su indicazione del ministero delle Finanze. Il 16 giugno il governo tedesco ha confermato di aver acquisito da un informatore anonimo (pagato 2 milioni di euro, secondo informazioni non confermate) un database con i dati di milioni di contribuenti che hanno beni a Dubai, tra i quali diverse migliaia di cittadini tedeschi. Anche la Direzione generale delle Finanze pubbliche di Parigi nei giorni scorsi ha contattato Berlino e la Germania si è detta disponibile a trasmettere le informazioni in suo possesso sui francesi presenti a Dubai. Il gigantesco database potrebbe consentire di scoprire patrimoni occultati e redditi non dichiarati.

Strage Pioltello, alla sbarra Rfi e 9 persone. Anche 2 neo-commissari alle Grandi opere

Per l’incidente ferroviario del 25 gennaio 2018 sul treno Cremona-Milano dove morirono Giuseppina Pirri, Ida Maddalena Milanesi e Pierangela Tadini, ieri il giudice ha disposto il processo per dieci persone. Tra queste Maurizio Gentile, ex ad di Rete ferroviaria italiana (Rfi) e attuale commissario straordinario per la messa in sicurezza della A24 e A25 e la stessa Rfi. A processo anche: Vincenzo Macello in qualità di Direttore della Direzione Territoriale Produzione (Dtp) di Milano, e oggi commissario Tav per la Brescia-Verona, Umberto Lebruto, già Direttore della Direzione Produzione di Rfi e Marco Gallini, in qualità di Dirigente della struttura Organizzativa di Rfi. Dovrà difendersi anche la società Rfi imputata per la legge 231 sulla responsabilità amministrativa degli enti. Il processo (65 le parti civili) inizierà il 12 ottobre. Gli imputati sono accusati di disastro ferroviario colposo, omicidio colposo plurimo, lesioni colpose e violazione delle normative sulla sicurezza. Per la Procura, quello di Pioltello fu un incidente causato da una lunga serie di “omissioni” nella “manutenzione” e nella “sicurezza”, messe in atto, per i pm, solo “per risparmiare”. Una relazione dei consulenti dell’accusa ha stabilito che l’incidente fu causato dall’ormai noto “spezzone di rotaia” di 23 centimetri che si fratturò nel “punto zero” per “un danneggiamento (…) irreversibile generato da condizioni di insufficiente manutenzione”. “I fatti non sono quelli ricostruiti dalla Procura e lo dimostreremo”, commenta l’avvocato Ambra Giovene, legale anche di Vincenzo Macello. A fine gennaio, come richiesto dall’aggiunto Tiziana Siciliano e dai pm Maura Ripamonti e Leonardo Lesti, erano state archiviate dal gip le posizioni di due dirigenti di Trenord e anche quelle dell’allora direttore dell’Agenzia Nazionale per la Sicurezza delle Ferrovie e di un suo vice, Amedeo Gargiulo e Giovanni Caruso, escludendo per loro “profili di corresponsabilità”. Le condizioni del giunto su quella linea, come ribadito dai pm, “gravemente e visibilmente ammalorato”, erano “state segnalate via emali dagli addetti della manutenzione del nucleo di Treviglio ai loro superiori”. In una chat del 26 novembre, scrisse allora il Corriere si leggeva: “Se accada qualcosa (…) non ce la caviamo”. Per l’accusa lo “spezzone” non “venne sostituito” ed era “evitabile” il disastro ferroviario.

Europei, Draghi vuole scippare la finale a Londra

La variante Delta che corre nel Regno Unito, il picco dei contagi in Russia, le folle dei tifosi in Ungheria. Lo spettro del Covid si aggira per gli Europei. E la finale diventa un caso internazionale. Prevista a Londra, messa in dubbio dai contagi tanto da ventilare un possibile spostamento a Budapest, adesso Mario Draghi la vuole portare in Italia, insieme a migliaia di tifosi da tutto il continente. “No dove crescono i contagi”, dice sfidando Johnson e Orban, facendo sobbalzare Speranza, prendendo tutti di sorpresa, persino l’Uefa che è costretta a smentire. “Non ci sono piani per cambiare la sede”.

Questo strano torneo itinerante, idea suggestiva in tempi normali e sciagurata in quelli di pandemia, più che in 11 città diverse sembra giocarsi su due universi paralleli. Da una parte Monaco, Siviglia, Roma, la più ligia, con gli steward petulanti all’Olimpico e la Fan Zone semivuota a Piazza del Popolo per colpa delle limitazioni. E poi c’è Budapest: 60 mila persone sudate e senza mascherina allo stadio. Il torneo però è lo stesso, e anche giocatori, addetti , tifosi che si spostano, si incontrano e tornano a casa. Proprio ciò che gli esperti temevano.

Alla vigilia, l’European Centre for Deasease Ue ammoniva: “Se grandi eventi di massa si svolgeranno senza misure, c’è il rischio di incrementare la trasmissione del virus e delle varianti”. È ancora presto per capirne gli effetti. Fin qui l’Inghilterra ha giocato solo a Londra, come la Scozia a Glasgow; i 2 mila gallesi di Roma sono gli unici tifosi che hanno viaggiato dal Regno Unito. Ma i belgi sono stati in Russia dove si vive da mesi senza limitazioni, portoghesi e francesi nella calca di Budapest.

Il problema è che la Uefa, preoccupata dalla buona riuscita di una manifestazione da 2 miliardi di ricavi, sembra strizzare l’occhio a Est e mette alle strette i governi attenti all’emergenza. Il torneo si gioca col pubblico per la minaccia di togliere l’organizzazione a chi non avrebbe riaperto gli stadi. Anche l’Italia ne sa qualcosa. L’ordinanza di Speranza che ha reintrodotto la quarantena dal Regno Unito ha dovuto fare i conti anche con gli Europei, ed è stata posticipata a dopo la partita col Galles. All’orizzonte le finali, a Londra. BoJo ha rinviato il “liberi tutti” per la variante Delta e così si è diffusa la voce di uno spostamento a Budapes. Ma adesso c’è anche un’altra soluzione: Roma, parola di Draghi.

Difficile che accada. Sarebbe un grave affronto a Johnson (a cui il n. 1 Uefa Ceferin deve il favore di aver affossato la Superlega), per non parlare dei problemi organizzativi. La vera trattativa è per un salvacondotto per addetti ai lavori e vip, le uniche presenze a cui l’Uefa tiene davvero. Mentre per Wembley ci sarebbe l’intesa sulla capienza a quota 60 mila. Intanto l’Italia si è proposta lo stesso. Ma sarebbe davvero pronta a portarsi in casa la Final Four, 3 partite in 5 giorni, con tutto il carrozzone che le ruota intorno? Già è allarme per il quarto di finale all’Olimpico, quando potrebbe arrivare l’Inghilterra (si spera non i tifosi inglesi: allora sì che l’ordinanza sarebbe provvidenziale). Figuriamoci con la finale. Non con l’Olimpico esaurito, ma almeno al 50% e senza quarantena (la Uefa non accetterebbe): con protocolli e green pass a Palazzo Chigi sono convinti che si potrebbe fare. Meglio non chiedere a Speranza e Cts.

Medici di base su richiami AZ: “Non firmeremo i consensi”

Dopo la decisione del governo di consentire agli under 60 che hanno ricevuto come prima dose di AstraZeneca la libertà di scegliere quale vaccino utilizzare per il richiamo, i medici vaccinatori hanno a disposizione il modulo con il quale il ministero della Salute ha integrato il consenso informato che tutti devono firmare al momento della somministrazione. Modulo con il quale si dichiara il rifiuto della vaccinazione eterologa, che resta fortemente raccomandata, per decidere di completare il ciclo con il vaccino della casa farmaceutica anglo-svedese. Scelta previo parere del medico, però, che con l’anamnesi deve valutare se ci sono, oppure no, condizioni di rischio che lo sconsigliano. Sulla carta, sembrerebbe tutto molto semplice.

Invece no. Mentre a Napoli si registra il flop dell’Open Day AstraZeneca (basti ricordare che alla Stazione marittima del capoluogo campano il 94% dei convocati non si è presentato) nel Lazio non pochi chiedono di fare il richiamo sempre con AZ. Solo che sono tanti i camici secondo cui in queste condizioni nessun medico darà mai il proprio consenso alla seconda dose AstraZeneca. Non, almeno, in un hub vaccinale. “Perché un conto è il medico di famiglia che, che conosce la storia clinica del paziente e un conto è il medico che non ha mai visto né tantomeno visitato chi gli sta davanti e in pochi minuti deve fare l’anamnesi e decidere”, dice Ester Pasetti, segretaria in Emilia-Romagna del sindacato dei medici ospedalieri Anaao. “Una giovane donna – prosegue Pasetti –, potrebbe non sapere che deve dichiarare l’eventuale assunzione della pillola anticoncezionale, qualcuno potrebbe omettere di inserire nel questionario informazioni importanti sulle sue condizioni di salute, perché le considera, da profano, irrilevanti: i fattori in gioco sono tanti”.

Variabili che si accompagnano a mille incognite, come rileva lo stesso presidente della Federazione degli Ordini dei medici, Filippo Anelli. “La pandemia e la campagna di vaccinazione – osserva –, hanno alterato tutte le regole che reggono il rapporto tra medico e cittadino, rapporto che non si può instaurare in pochi minuti. Avevamo già in parte considerato che si potevano verificare situazioni particolari e proprio per questo abbiamo chiesto e ottenuto lo scudo penale, ovviamente non per casi di colpa grave”.

Ma va ricordato che lo scudo non protegge dalla responsabilità civile. E che potrebbe anche verificarsi l’effetto paradosso, come rileva Filippo La Russa, ai vertici dell’Anaao in Calabria. “Prendiamo il caso del collega che non vuole assumersi la responsabilità di fare il richiamo con AZ e spinge, invece, Pfizer – spiega –. Se poi insorge una paralisi facciale, effetto in alcuni casi osservato con il vaccino Usa, siamo al punto di partenza.

Il tema di fondo è che le persone vogliono efficacia e sicurezza al 100% ma nessuna di queste due condizioni si è verificata”. Adesso il vero problema è, secondo Anelli, “che non abbiamo ancora evidenze scientifiche tali da consentirci di individuare in modo certo la popolazione a rischio. Anche per questo stiamo programmando piani di formazione specifici. Ma probabilmente fin dall’inizio la campagna vaccinale avrebbe dovuto essere affidata ai medici di famiglia. Si poteva fare negli ambulatori e in dieci, undici mesi forse si sarebbe conclusa. Fermo restando che il vaccinatore deve essere puntiglioso nel chiedere informazioni al cittadino sul suo stato di salute, il punto ora è come ripristinare al più presto tutte le regole che sono saltate”.

Partite Iva in rivolta Gli aiuti anti-Covid ancora non arrivano

Non sono ancora iniziati i versamenti dei nuovi contributi a fondo perduto previsti dal decreto Sostegni bis per le attività danneggiate dalla pandemia. Il 7 giugno il ministro dell’Economia, Daniele Franco, in commissione Bilancio della Camera aveva annunciato che i bonifici dell’Agenzia delle Entrate sarebbero partiti il 16. A sei giorni da quella scadenza, è ancora tutto fermo. Nessuna informazione sul sito dell’agenzia fiscale incaricata di distribuire le risorse. Il Tesoro tace e rinvia alle Entrate, che una data di partenza non l’hanno mai ipotizzata. Le aziende restano in attesa, nonostante sia passato ormai un mese dal consiglio dei ministri che ha varato il provvedimento con gli ulteriori ristori per le partite Iva che hanno perso fatturato a causa delle restrizioni legate alla pandemia. In Parlamento i partiti si affannano sugli emendamenti al decreto e, con le graduali riaperture, il tema sembra essere passato in secondo piano.

Ma la rapidità è cruciale per tutti i settori che sono rimasti fermi per intere stagioni, dall’organizzazione di matrimoni agli eventi. Comparti che hanno ricevuto – ormai due mesi fa – solo gli aiuti del primo decreto Sostegni, dopo una lunga attesa legata al cambio di governo e al ritardo del nuovo esecutivo guidato da Mario Draghi nel trovare la quadra sul testo.

Come ha fatto notare Michele Boccardi, presidente di Assoeventi, il nuovo stallo non è solo una beffa: rischia di avere gravi conseguenze per attività che con il Covid hanno visto il fatturato crollare anche del 90%. Per imprese “che sono state ferme per 16 mesi e sono ripartite lentamente, poiché lavorano su una programmazione semestrale e annuale”, ha spiegato Boccardi, “anche il ritardo di un solo giorno nel ricevere i sostegni statali può essere fatale e ne può decretare la chiusura definitiva”. Sulle barricate anche Paolo Bianchini, leader di Mio Italia (Movimento imprese ospitalità), che ne approfitta per ribadire la linea aperturista: “È inaccettabile soprattutto per un comparto, quello dell’hotellerie, della restaurazione e dei pubblici esercizi, scelto come capro espiatorio e lasciato morire per mezzo di astruse e penalizzanti restrizioni”.

Anche Il Fatto ha ricevuto nei giorni scorsi molte segnalazioni: “Dal ‘governo dei migliori’ avrei gradito un maggior rispetto delle scadenze”, scrive una lettrice. “O forse avremmo dovuto chiedere di specificare l’anno, per il pagamento dei bonifici tanto attesi, dato che il ministro ha solo indicato giorno e mese?”. Un’altra mail sottolinea che “a oggi i Sostegni bis non sono ancora arrivati, mentre qualcuno tra i politici si sta impegnando per farci togliere la mascherina”. Ora la protesta sta montando sui social, con una tempesta di tweet che chiamano in causa l’intero governo e chiedono lumi sui tempi dell’accredito. Senza risposte, finora, né dal ministero dell’Economia né dall’Agenzia.

Ma a che cosa è dovuta la nuova battuta d’arresto? Per i nuovi ristori il Sostegni bis prevede un meccanismo complesso, a tre livelli. Innanzitutto un contributo automatico che consiste nella stessa somma già riconosciuta con il primo decreto Sostegni (dal 20 al 60% della perdita di ricavi, a seconda del fatturato 2019): un passaggio che non richiede ulteriori verifiche e potrebbe dunque essere attivato subito. Come aveva promesso il ministro Franco, aggiungendo che essendo arrivate meno richieste rispetto al previsto sarebbe stato possibile ristorare con i fondi non utilizzati anche le aziende con fatturato tra i 10 e i 15 milioni, finora escluse. Poi c’è la formula riservata alle attività che hanno più risentito delle restrizioni dei primi mesi del 2021: possono chiedere un ricalcolo del ristoro basato sul fatturato perso tra il primo aprile 2020 e il 31 marzo scorso, invece che nel solo esercizio 2020. Il terzo canale è un conguaglio calcolato sul risultato d’esercizio dello scorso anno. Le percentuali di contributo e i requisiti sono state rinviate a un decreto attuativo del Tesoro, che non è ancora stato emanato. La mancanza di questo tassello, però, non dovrebbe avere alcun effetto sulla partenza dei contributi automatici.