L’Ue approva il Recovery Palla ai governi, poi i soldi

L’ufficialità arriverà oggi, con tanto di passerella della presidente Ursula von der Leyen a Roma insieme al premier Mario Draghi agli Studios di Cinecittà. Ma la sostanza è già nota: la Commissione europea ha approvato il Piano di ripresa e resilienza italiano (Pnrr), che da qui al 2026 spenderà, o almeno dovrebbe spendere, i 196 miliardi del piano Next generation Eu di cui solo 70 circa di sovvenzioni (il resto sono prestiti). A questi, peraltro, l’Italia ha aggiunto altri 30 miliardi in deficit del fondo “complementare” dove ha infilato le misure incompatibili con il piano Ue.

Questi soldi, i documenti infarciti di meccanismi burocratici e le riforme a loro connesse, formeranno di fatto la politica economia e sociale italiana del prossimo decennio. La palla passa ora al Consiglio europeo – cioè i governi – che dovrà confermare l’indicazione dei tecnici (e a cui, in futuro, spetterà l’ultima parola in caso di sospensioni e revoche dei fondi). Solo dopo – salvo sorprese – potrà arrivare la prima tranche di anticipo dei fondi, pari al 13%, che per l’Italia vuol dire quasi 25 miliardi. Bruxelles assicura che questo avverrà prima della pausa estiva.

Il via libera è arrivato con promozione quasi piena, la stessa garantita anche alla dozzina e passa di Piani nazionali già approvati. Roma ottiene una “A” per 10 degli 11 criteri: le misure “hanno un impatto duraturo” e “affrontano le sfide individuate nelle raccomandazioni specifiche per Paese”, assicurando un monitoraggio efficace; soddisfano poi gli obiettivi europei del 37% dei fondi destinati a misure ambientali e del 20% di spesa per il digitale (il Pnrr italiano arriva al 24%). Per l’impatto sul clima, Bruxelles si limita a registrare che il piano “non arreca danni” agli obiettivi ambientali fissati dalla Commissione. L’unica B, come per tutti, arriva al capitolo “costi”: nessuno è riuscito a garantire che le stime dei progetti siano affidabili al 100%, ci si è basati sui costi delle misure simili.

Si chiude così il capitolo preliminare di una storia avviata nel luglio 2020 (governo Conte-2) con l’ok al Piano europeo (750 miliardi, di cui 390 di sovvenzioni). L’Italia è l’unico Paese ad aver attinto anche a tutti i prestiti (assai vincolati). I primi 25 miliardi andranno a diversi progetti, dal piano 5G alla riqualificazione di vecchie opere, tra cui bizzarramente compaiono lo stadio Artemio Franchi di Firenze e gli stessi Studios di Cinecittà. In totale, nel 2021, partiranno più di un terzo delle linee di intervento: 120 su 323 (spesa di 13,8 miliardi), dove il capitolo più consistente sono gli incentivi alle imprese (Transizione 4.0, 1,7 miliardi).

A misura d’impresa: Il governo draghi è la svolta a destra

Sono passati quattro mesi dall’insediamento del governo Draghi, è forse possibile – al di là del coro estasiato dei grandi media – un primo bilancio sull’operazione innescata da Matteo Renzi. Al di là degli errori e delle contorsioni dovute alla vasta e litigiosa maggioranza che lo sostiene, il nuovo governo segna un riequilibrio verso destra della gestione del Paese: dai temi del lavoro (licenziamenti) a quelli delle infrastrutture (grandi opere), dai consulenti scelti a Palazzo Chigi e nei ministeri fino a un’interpretazione assai a misura d’impresa della transizione ecologica, la natura ideologica del “draghismo” è incistata nel laissez faire che fu la religione ufficiale degli anni 80 e 90, quelli in cui lo stesso premier divenne figura di spicco dell’establishment italiano. Una breve carrellata per temi.

Ambiente. La transizione a misura di grandi imprese

La transizione ecologica, per come disegnata nel Pnrr e nei decreti collegati, è in sostanza una ristrutturazione del sistema industriale a misura di (grande) impresa, peraltro lautamente sussidiata dallo Stato (vedi la Valutazione d’impatto ambientale da concedere subito e con priorità ai progetti più grandi). Di fatto si punta a modificare il mix energetico usato con un occhio di riguardo al gas (un fossile) e spesso secondo progetti già inseriti dai grandi gruppi nei loro piani industriali: i molti gasdotti che in futuro forse serviranno per l’idrogeno misto (Snam) e il progetto di cattura della CO2 (l’Eni nelle piattaforme di Ravenna) ne sono gli esempi più eclatanti. Non mancano scelte di fondo che il ministro Roberto Cingolani non ha mai discusso in pubblico: citeremo solo il caso degli inceneritori, bizzarramente inseriti tra gli impianti sottoposti ad autorizzazione veloce per gli obiettivi fissati dal Pniec (piano per il clima), che teoricamente sarebbe focalizzato sulla riduzione delle emissioni climalteranti.

P.A. Un Recovery di lavoro precario (e non per giovani)

Nella riforma della macchina dello Stato il governo si gioca molto. Dopo un decennio di tagli e blocco del turn over, la P.a. ha un enorme problema di organico e competenze. La via scelta da Renato Brunetta, sperando funzionino i concorsi rapidi per l’ordinario, è di tappare i buchi per il Pnrr con migliaia di lavoratori a termine: precari (persino stagisti) in fondo alla piramide, scelti dall’arbitrio degli enti coinvolti al suo vertice. Le amministrazioni, infatti, potranno assumere dirigenti esterni a chiamata diretta e in misura doppia rispetto al normale. Il portale che Brunetta ha annunciato come il “Linkedin della Pa” sarà alimentato soprattutto con una selezione per titoli. In entrambi i casi difficile che i prescelti siano giovani, specie neolaureati. Quanto ce ne sia bisogno lo spiegano bene i dati del Forum Pa diffusi ieri: al lavoro ci sono 3,2 milioni di statali (peraltro assai meno della media Ocse), il 16,3% oltre i 60 anni, il 4,2% sotto i 30.

Grandi opere. Tanto Tav e torna la legge obiettivo

Con le “semplificazioni”, il ministro Enrico Giovannini si è dotato del potere di gestire le faraoniche (e spesso inutili) opere infrastrutturali sul modello della legge Obiettivo. Oltre al ritorno dell’“appalto integrato” (progettazione ed esecuzione dell’opera allo stesso soggetto), ispirato alla legge dei tempi di Silvio Berlusconi – travolta dalle inchieste e definita “criminogena” da Raffaele Cantone – è la procedura lampo per le “opere di particolare complessità e rilevante impatto”: una lista affidata a un “comitato speciale” che – con Soprintendenza e Commissione Via altrettanto “speciali” – delibera in 45 giorni esprimendo “pareri lampo” che hanno effetto di “variante urbanistica”, aggirando Comuni e stazioni appaltanti. La lista, destinata a crescere, oggi conta 10 mega opere: dall’Alta velocità Palermo-Catania alla Roma-Pescara fino alla diga “foranea” di Genova. Il fiore all’occhiello è però l’alta velocità Salerno-Reggio Calabria (10 miliardi stanziati nel fondo “complementare” al Pnrr, che ne mette altri 25): trattasi del completamento ideologico del Ponte sullo Stretto di Messina, su cui Giovannini ha non a caso riaperto il dibattito.

Lavoro. Il pasticcio sui licenziamenti e poco altro

Il 20 maggio, il ministro Andrea Orlando aveva portato in Cdm una norma che prorogava il blocco generalizzato dei licenziamenti a fine agosto e rendeva gratuita la Cig ordinaria per chi decide di non licenziare. Un asse tra Confindustria (“L’inganno di Orlando”, titolava il Sole 24 Ore) e centrodestra ha spinto Draghi a rimangiarsi la mini-proroga, che pure aveva presentato in conferenza stampa. Senza novità, il blocco scade il 30 giugno e neanche è alle viste l’attesa riforma degli ammortizzatori sociali: Orlando l’ha promessa per luglio, ma le aspettative si sono assai ridimensionate. Il salario minimo è invece sparito dai radar.

Covid. Il Caos eterologa e le giravolte sui vaccini

A maggio il governo si è fatto bocciare dal Garante della Privacy il Green pass: tra le altre cose, non era chiaro chi potesse accedere ai dati sanitari e si demandava parte della disciplina a regolamenti, di rango inferiore alla legge. Tra il 9 e il 16 giugno, dopo varie correzioni, è arrivato l’ok. Nel frattempo si fa avanti e indietro su AstraZeneca. Il 12 maggio il Comitato tecnico scientifico dà via libera alle Regioni sugli Open Day a base di AZ per i “volontari” dai 18 anni in su benché da marzo, per quanto autorizzati senza limiti d’età da Ema e Aifa, i vaccini a vettore virale siano “raccomandati” solo per gli over 60 a seguito delle trombosi rare che hanno indotto alcuni Paesi a eliminarli. Dopo gli appelli di medici e scienziati e la tragedia della 18enne ligure Camilla, l’11 giugno arriva lo stop: AZ vietato agli under 60 anche per le seconde dosi. Come in altri Paesi, i richiami si faranno con i vaccini Pfizer e Moderna, mentre per Johnson & Johnson resta solo la “raccomandazione”. Una settimana dopo, mezzo dietrofront: gli under 60 possono fare AZ col parere del medico.

Scuola. Prima la chiusura poi la sanatoria e il flop estivo

Secondo le stime, quest’anno gli studenti hanno perso in media la metà dei giorni di scuola. L’auspicio del premier di riportare tutti in classe a marzo si è schiantato contro la variante inglese, evidentemente resistente alle precauzioni stilate proprio dal ministro Patrizio Bianchi quando guidava la task force per le riaperture. “Scuola in estate” aveva detto allora Draghi, ma non ci sarà: pochi docenti, pochi soldi, opposizione di presidi e sindacati hanno concentrato le attività a giugno e settembre. Si è riusciti però a fare la semi-sanatoria, cara a Lega e Pd, per i docenti precari, che saranno assunti dopo un anno sul posto. Questo reclutamento senza concorsi andrà a sistema dal prossimo anno per tutti gli altri. A settembre potrebbe non esserci alcuna sorpresa: con quasi 100mila cattedre coperte da supplenti e un concorso (Stem) in velocità che potrebbe non concludersi in tempo.

Giustizia. Per ora il piano Cartabia è un pantano

Da oltre un mese la commissione Lattanzi, voluta dalla ministra Marta Cartabia ha concluso il suo lavoro sulla riforma della giustizia penale, ma l’attesa sintesi politica della Guardasigilli non c’è stata, soprattutto a causa della solita prescrizione, che spacca la maggioranza. La Commissione ha scritto che non c’è alcuna fretta di modificare la legge che la blocca dopo il primo grado, perché gli effetti si avranno dal 2025, ma forzisti, renziani e leghisti, convertitisi sulla via dei referendum radicali, vogliono la bandierina anti-M5S. Non c’è stata una sintesi politica della ministra neppure sulla riforma del Csm: sistema elettorale e porte girevoli per magistrati in politica, i due scogli principali.

Lobby. L’affaire Mckinsey e i liberisti a Palazzo Chigi

L’ultimo segnale della sensibilità marcata per la grande impresa è stata la chiamata a Palazzo Chigi di alcuni esperti assai “pro business” e contrari all’intervento pubblico: Carlo Stagnaro, direttore del Bruno Leoni, think tank ultraliberista, e dell’economista Riccardo Puglisi. Il primo segnale era stato l’affidamento al colosso McKinsey del “supporto tecnico-operativo di project management per il monitoraggio dei filoni del Pnrr”: le consulenze fioccheranno.

Parlamento. Camere passacarte, decide Draghi

Da almeno tre decenni il Parlamento, contrariamente a quanto prescrive la Costituzione, ha perso il suo ruolo di centro della vita politica a vantaggio dei governi, vera sede anche del potere legislativo. La natura stessa del governo Draghi estremizza questa situazione: una maggioranza che non è in grado di accordarsi su quasi nulla trova la sua sintesi solo nel premier e questo è vero per il Covid come per l’economia o le nomine. Paradossale che, invocato per mettere fine al presunto sconcio democratico dei Dpcm, questo esecutivo abbia costretto le Camere ad analizzare per settimane decreti sulla pandemia già superati da altri decreti. Ancor più evidente la situazione del Pnrr: non solo il testo Draghi non è mai passato dal Parlamento prima di arrivare a Bruxelles, ma anche i quattro decreti approvati finora (a non dire delle “riforme” che seguiranno) sono ora all’esame dei rappresentanti del popolo sostanzialmente blindati nelle linee fondamentali.

Comparse. Più di metà governo non tocca palla

Alzi la mani chi se li ricorda tutti. L’impressione è che anche i più interessati abbiano perso le tracce di una decina di ministri. Vuoi perché Draghi decide da solo, vuoi perché con una maggioranza così è dura farsi sentire, c’è poca traccia della loro attività. Mara Carfagna, per esempio, è interpellata più per i destini del centrodestra che per il ministero del Sud. La 5 Stelle Fabiana Dadone ha lanciato qualche provocazione (il test antidroga per i politici) ma delle Politiche giovanili si sa poco o nulla. Stefano Patuanelli ha un importante ruolo diplomatico nel M5S, ma l’Agricoltura fatica a ritagliarsi spazio nell’agenda. Nell’ombra sono anche la leghista Erika Stefani (Disabilità), Maria Cristina Messa (Università), Massimo Garavaglia (Turismo). E persino il ruolo di Luigi Di Maio agli Esteri finisce ridimensionato, vista la rete di rapporti internazionali del premier.

“Il risultato di Lepore un segnale nazionale”

“Dopo due anni di lavoro in questa direzione, a Bologna abbiamo superato il girone di qualificazione”. Il 5Stelle Max Bugani, antico teorico dell’apertura al Pd, festeggia così la vittoria di Lepore.

Pd e Movimento si abbracciano per motivi elettorali?

È dalle Regionali del 2019 che a me e al gruppo con cui lavoro arrivano aperture importanti dai dem emiliani e dalle liste civiche con cui collaboriamo.

Vi siete ritrovati per le poltrone, o no?

Gli accordi per le poltrone vengono fatti a tre mesi dal voto. Qui c’è un lavoro di 24 mesi e di posti non ne ha parlato nessuno. Credo che la mia storia e le mie dimissioni da un meraviglioso ruolo a Palazzo Chigi nel 2019 (era vice-capo segreteria di Luigi Di Maio, ndr) per insofferenza nei confronti della Lega dimostrino che a me e al mio gruppo piace fare politica e non certo i calcoli.

La gente del Pd vuole davvero aprire al M5S? Forse la base si è solo adeguata alle indicazioni dei big.

Le primarie sono state vere, combattute. I bolognesi hanno risposto con un’ottima affluenza e il risultato è stato chiaro. Significa che il tentativo di collaborazione fra M5S e Pd piace molto, proprio come la strada che abbiamo indicato quando non ci credeva nessuno.

Crede che il modello Bologna sia replicabile? Altrove, esclusa Napoli, di accordi non ne fate.

Molte novità politiche negli ultimi decenni sono partite da qui: dalla svolta della Bolognina, al V-day del M5S, alle Sardine. Certo, gli accordi non si fanno in vitro, ma col sudore, le liti e le rinunce. Ma non devono essere strutturali, devono essere veri e sentiti.

Ha sentito Giuseppe Conte?

Sì, ed è molto soddisfatto. Ha sostenuto da subito il nostro percorso.

In “Ztl” vince Bonaccorsi. Male gli altri ex deputati

I numeri ufficiali saranno pubblicati in giornata: fino a ieri sera per conoscere le cifre delle primarie romane bisognava andare in pellegrinaggio nella sede del Pd di Testaccio o chiedere un resoconto “ufficioso” a qualche buonanima del partito.

Da quel che risulta l’affermazione di Roberto Gualtieri è piuttosto netta in tutto il territorio cittadino, compresi il municipio III presieduto dal secondo in classifica, Giovanni Caudo, e il municipio VIII dove il presidente Amedeo Ciaccheri sosteneva la candidata Imma Battaglia (arrivata quarta col 6,3%). Secondo fonti del Pd capitolino, Gualtieri ha raggiunto la maggioranza assoluta – oltre il 50% – in tutti i 15 municipi romani.

La sfida vera è stata per le candidature dei “minisindaci”: anche qui non c’è ancora l’ufficialità, ma i risultati premiano 11 candidati del Pd su 13 municipi al voto. Nel primo, quello “nobile” del centro – bastione del “partito della Ztl” (unico a resistere nella vittoria di Virginia Raggi di 5 anni fa) – ha dominato l’ex renziana Lorenza Bonaccorsi, già sottosegretaria al Turismo nel governo Conte-1. Una vittoria resa più agevole dalla rinuncia alla candidatura di Emiliano Monteverde (ex assessore municipale, sostenuto dalla presidente uscente Sabrina Alfonsi). Bonaccorsi è una delle quattro donne che correranno per il ruolo di “minisindaco”, insieme a Francesca Del Bello (II municipio), Titti Di Salvo (IX) e Sabrina Giuseppetti (XIII).

Sconfitti due big del partito romano, ex parlamentari: Marco Miccoli ha perso nella sua Monteverde (XII municipio) contro il giovane Elio Tomassetti; Ileana Argentin è stata battuta da un altro under 40, il classe ‘86 Marco Della Porta, ex assessore della mini giunta (municipio XIV). Tomassetti e Della Porta, meno “blasonati” dei rivali, si erano distinti negli ultimi anni nel lavoro di ricostruzione del Pd locale. Nel III municipio torna la candidatura dell’ex presidente Paolo Marchionne, sostenuto da Caudo (anche se lui aveva annunciato di votare Gualtieri).

Garanzie, ruoli, poteri: le condizioni di Conte a Grillo per i nuovi 5S

Il confronto è tracimato in lite, o meglio in stallo. Una palude che se si allargasse potrebbe inghiottire il Movimento. In bilico, per davvero, perché la sospiratissima presentazione del nuovo Statuto e della nuova Carta dei valori, prevista per giovedì in una sala a Roma, è saltata: forse alla prossima settimana, ma chissà. È sospesa la rifondazione. Con il suo potenziale artefice, Giuseppe Conte, che ora lascia intendere come la sua pazienza non sia infinita, e figurarsi il suo tempo. E parla innanzitutto al Garante, al Beppe Grillo furibondo, sul serio. Sostiene, il padre dei 5Stelle, che non gli avrebbero detto certe cose sullo Statuto e che gli volevano rifilare un progetto chiuso, finito. Prendere e approvare. Soprattutto, sarebbe irritatissimo perché con le nuove norme vorrebbero asciugare i suoi poteri, formali e non. Ma non è questa la verità del rifondatore e capo prossimo venturo, ossia Conte.

L’avvocato fa sapere tramite fonti a lui vicine che per carità, a suo dire non c’è alcuno scontro con Grillo, nessuna frattura, e che al Garante dello Statuto è stato raccontato tutto, con confronti quotidiani. Piuttosto – fanno notare – di scrivere il progetto di rifondazione glielo avevano chiesto proprio Grillo e tutti i big del M5S su una terrazza di un hotel romano, in un soleggiato 29 febbraio. E nella riscrittura dello Statuto, è la tesi delle fonti contiane, “’l’ex premier ha articolato l’organizzazione del Movimento con nuovi organi di garanzia e di rappresentanza, con il risultato che ora vi è una più puntuale e chiara distinzione di ruoli e competenze tra vecchi e nuovi organi, come è normale che sia se una forza politica abbraccia un nuovo corso. Ma non c’è nessun ridimensionamento del ruolo del Garante”. Traduzione, si doveva cambiare qualcosa, e tutti sapevano che l’ex premier lo avrebbe fatto. ora che si fa? “È ovvio che la condizione imprescindibile perché questo progetto vada in porto è che Grillo ne sia ancora pienamente convinto – è il ragionamento – Diversamente, non vi sarebbero le condizioni per rilanciare il M5S”. E sono sillabe affilate, quasi un avviso ai naviganti. Con l’avvocato che fa capire di non avere voglia di cambiare spartito.

Li aveva chiesti gli ampi poteri, subito, sulla terrazza in cui gli avevano chiesto in coro di caricarsi il Movimento senza rotta. E ora non è disposto a mediazioni al ribasso. O così, “o non vi sarebbero le condizioni”. E magari non è proprio un aut aut, ma un pugno sul tavolo sì, e anche bello forte. Però la rogna Grillo è di quelle complicate. PPare che le nuove regole ne conservino i poteri, è vero, ma che tutte le decisioni importanti le dovrà sempre condividere con il capo, cioè sempre con Conte. Insomma, da solo il Garante non potrebbe più imporre o bloccare nulla. Dal Movimento e dal giro contiano non confermano nè smentiscono. Ma le telefonate più che irritate a vari 5Stelle, quelle non le nega nessuno. E quasi tutti ora sospettano che Grillo possa comunque scendere a Roma in questi giorni, per incontrare i parlamentari e ricordare a tutti che “il Movimento è sempre casa sua”, come ricorda un deputato edella vecchia guardia. E potrebbe trovarne, di sponde. Anche perché nella pancia del M5S sta deflagrando il tema simbolo. “In certe bozze del nuovo logo era cambiato perfino il numero delle stelle…” sibila una fonte di peso.

Raccontano di simboli con lo sfondo molto azzurro, “una cosa che neanche Forza Italia”. Sussurri rilanciati anche dalla contraerea interna, che teme un Conte troppo forte. Mentre la preoccupazione per lo slittamento continuo della rifondazione si è fatta allarme. Comprensibile, eccome. “Se si va oltre metà luglio scadranno i termini per presentare alle Comunali liste con il simbolo del Movimento” ricordano atterriti vari grillini. E sarebbe una evidente sciagura. Il segretario dem Enrico Letta guarda da fuori, e a Otto e mezzo schiva così: “Grillo? Sono talmente consapevole di come sia stare in un grande partito che vive con la dialettica interna, che l’ultima cosa che voglio fare è entrare nelle dialettiche altrui. Quindi faccio gli auguri a Conte”. E forse sotto il tavolo faceva gli scongiuri.

Roma, Torino e 5Stelle: le grane di Letta fanno svanire l’effetto primarie

“Allargare la coalizione”. Il giorno dopo le primarie, le parole d’ordine al Nazareno sono queste. Enrico Letta, in un raro momento di sollievo da quando è diventato segretario, lo va ripetendo in ogni sede. Non è stato un risultato brillante, ma le primarie hanno comunque mostrato una relativa tenuta dell’elettorato (a Roma 45mila votanti, al netto delle denunce velate di numeri gonfiati e a Bologna oltre 20mila). Solo che adesso si entra nel vivo della sfida cruciale per la segreteria, ovvero le Amministrative. La chiusura degli accordi non è stata brillante. A Roma, il duo Letta-Francesco Boccia (responsabile Enti locali del Pd) avrebbe voluto Nicola Zingaretti, a Napoli Roberto Fico. A Torino, avrebbe preferito la vittoria alle primarie di Enzo Lavolta, per tentare in extremis un accordo con i Cinque Stelle. E a Bologna ha sofferto la candidatura di Isabella Conti (Iv). Ha pesato in tutta questa vicenda la ricerca di un asse privilegiato con i Cinque Stelle, alla prova della leadership di Giuseppe Conte.

E non è allora un caso se il giorno dopo i gazebo, Letta cerca di trasmettere di nuovo il messaggio che il Pd e il centrosinistra sono la base di partenza. M5S è centrale, ma le perplessità sulle mosse di Conte tra i dem crescono. Lo dice chiaramente in un’intervista Debora Serracchiani che se “Conte molla Draghi si apre un problema per l’alleanza”. Ora, dal Nazareno tendono a smontare questa ipotesi, ma nel Pd in molti si fidano sempre meno dell’ex premier e non escludono ribaltoni. Mentre la frase di “Giuseppi” sul fatto che dove non si fa l’alleanza non ci si straccia le vesti, a molti non è andata giù.

Comunque sia, quella di ieri per Letta è una giornata di ripartenza. Nella quale, prima di tutto cercare di creare le condizioni per i candidati usciti dalle primarie per vincere. Roberto Gualtieri se la deve vedere con Carlo Calenda e con Virginia Raggi, oltre che con Enrico Michetti, che corre per il centrodestra. Sconterà in campagna elettorale non solo la presenza di un competitor al centro, ma anche le difficoltà di scontrarsi con una sindaca, i cui voti potrebbe dover chiedere al ballottaggio. Qualche assaggio di cannoneggiamento interno si è avuto anche negli ultimi due giorni. Lo sfidante, Giovanni Caudo, ha insinuato sospetti di broglio (“stranieri in fila per farli votare con il santino in mano senza sapere nemmeno chi devono votare”, per sentirsi rispondere dalla comunità bengalese che erano effettivamente andati a votare per l’ingegnere Francesco Tieri. Mentre Stefano Fassina chiede conto di queste parole. Soprattutto, però, poi Caudo ha offerto a Gualtieri piena collaborazione per costruire “una proposta politica inclusiva”.

Poi Letta ha incontrato Nicola Zingaretti al Nazareno e gli ha chiesto una mano. Un incontro anche simbolico quello di un segretario e di un ex segretario che si vedono nella sede del partito. Per Roma, prima di tutto, ma non solo. L’ex segretario sarà molto presente in campagna elettorale. Letta così cerca di annoverarlo tra gli alleati e di non spingerlo tra gli avversari.

Per quel che riguarda Bologna, invece, la donna da conquistare alla causa è proprio la Conti. La quale tra ieri e oggi ha ricevuto telefonate di tutti, da Matteo Renzi a Letta passando per il suo avversario, Matteo Lepore. Lei, comunque soddisfatta per il risultato ottenuto, ci ha tenuto a chiarire di essere pronta a mettersi a disposizione del centrosinistra. Al Nazareno, a questo punto accreditano la narrazione che sia pronta a sganciarsi da Renzi. Quel che è certo – comunque – è che lei dall’inizio si è sempre considerata “isabelliana e non renziana”. Dice lo stesso Lepore (che ha ricevuto anche la telefonata di Conte): “Isabella Conti a Bologna vale molto di più di Italia Viva. Credo che la sua candidatura, tanto quanto la mia, abbia dimostrato di saper allargare e di sapere costruire una idea della politica nuova in questa città”.

Letta, infine, ha incontrato anche il candidato del Pd a Torino, Stefano Lo Russo. E invitato anche lui ad allargare la coalizione. Senza i Cinque Stelle, però.

Dal Nazareno ci tengono a chiarire che in realtà chi si sta mettendo fuori dalla coalizione non è certo Conte, ma sono Renzi e Calenda. Il filo da seguire pare chiaro, i fatti diranno quanto è ingarbugliato.

La Carta à la carte

Nell’ultimo soffietto del prof. Cassese al governo Draghi, si legge che è “tornata la normalità costituzionale” perché “non sono state le forze politiche a indicare al presidente della Repubblica il capo del governo”, ma viceversa. Tesi singolare, visto che per la Costituzione “la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti previsti”, cioè attraverso il Parlamento, dove il popolo è rappresentato dagli eletti nelle famigerate forze politiche. Cassese invece trova geniale che sia “stato il presidente della Repubblica a indicare alle forze politiche, dopo averle consultate, il capo del governo” (il che fra l’altro è falso, perché Mattarella chiamò Draghi senza consultare i partiti). Segue un Magnificat al “Consiglio dei ministri rivitalizzato” (purtroppo tutti, tranne lui, sanno che i Cdm sono brevi messe cantate che del “consiglio” – cioè della collegialità prevista dalla Carta – non hanno nulla: qualche ministro dice qualcosa, poi Draghi riunisce i 3 o 4 tecnici e Giorgetti e decide); e ai “frequenti pre-consigli’ (purtroppo tutti, tranne lui, sanno che i pre-consigli sono rarissimi e inutili: i ministri non vedono quasi mai il testo completo dei provvedimenti che devono vidimare al buio). E via delirando.

Ma ormai non è più il premier ad adeguarsi alla Costituzione: sono i costituzionalisti alla Cassese che adeguano la Carta a Draghi. Vedi anche il trattamento riservato al ministro Speranza e al Cts, scelti da Draghi e dunque per definizione “competenti e capaci” (per Cassese, Egli “sceglie le persone in base a competenze ed esperienze”): quelli decidono, con l’Aifa, che i vaccinati con AstraZeneca devono fare il richiamo omologo sopra i 60 anni e l’eterologo sotto. Poi però Draghi decide di farsi l’eterologo anche se ne ha 73. E quelli allora adeguano la scienza al suo capriccetto: eterologo libero per gli over 60, omologo libero per gli under 60. E il povero Sergio Abrignani, immunologo del Cts, rilascia alla Stampa un’intervista che nemmeno Fantozzi: “Draghi non è un cittadino qualsiasi, è il premier e ha il dovere di essere seguito clinicamente meglio di tutti noi”. Ah sì? Quindi tutti gli over 60 con prima dose AZ devono andare dal medico a misurarsi gli anticorpi? “No, perché tutti non sono Draghi. Non ha senso che tutti facciano il test sierologico, specie dopo la prima dose. Magari dopo 15-20 giorni dopo la seconda”. Ma, si sa, i nostri sono anticorpucci gné-gné, mentre quelli di SuperMario sono SuperAnticorpi modello Bce col master a Goldman Sachs che, appena li misuri, recitano il Whatever it takes. Lo spot di una caramella diceva: “Il buco con la menta intorno”. Così sono la Costituzione e la Scienza nell’Anno Domini 2021: due buchi con il Draghi intorno.

“Il rock, che noia!”. Arto, il contaminatore

“C’ero anch’io tra il pubblico accalcato sotto le torri di Bologna ad ascoltare la Lectura Dantis di Carmelo Bene la notte del 31 luglio 1981, alla commemorazione della strage di Bologna. Il rumore della folla era alto quasi quanto la voce del narratore, impegnato a leggere il miglior libro scritto dagli uomini, come Jorge Luís Borges aveva chiamato La Commedia. Bene aveva scelto Dante per interrogare e riaffermare le ragioni dell’umano di fronte all’orrore indicibile della bomba alla stazione. Il lutto, lo smarrimento e il conforto divennero una cosa sola. All’epoca non avevo familiarità con l’italiano del tredicesimo secolo e nemmeno troppo con quello del ventesimo. Fu il suono a impossessarsi di me. Sentivo, respiravo, afferravo qualche parola. Era musica. Nell’anno in cui portiamo tutti il peso di un’altra peste, abbiamo ancora bisogno di ascoltare la voce di Dante. Voglio suonare ancora quella Lectura Dantis, esaltarla, ascoltarla e parlare con lei”. Arto Lindsay da oltre quattro decenni sta cercando di cancellare le linee di divisione tra musica e arte.

In questo crinale ha collaborato con le menti più eccelse: Laurie Anderson, David Byrne, Brian Eno, solo per citarne alcuni. Le sue incursioni nel mondo dell’arte e della letteratura lo portano sempre in territori sconosciuti: le sue performance nei prossimi giorni nel nostro Paese alzeranno l’asticella ancora più in alto. La voce di Carmelo Bene sarà al centro della scena a dialogare con i rumori e le chitarre di Arto e i suoi musicisti, nel- l’intento di ricreare alla sua maniera il paesaggio sonoro della Commedia. Il tour partirà il 23 da Ravenna e proseguirà a Villa Ada a Roma il 25, a Milano al Catello Sforzesco il 27, Firenze il 29 e Otranto il 30. Arto parla un discreto italiano: “Qualche volta prendo le parole di portoghese e aggiungo dei suffissi per parlare italiano. Funziona e funziona anche con lo spagnolo”. Il linguaggio di Dante e di Carmelo Bene sono, a suo parere, universali: “Bene era un grande oratore, c’era un elemento musicale e un elemento drammatico e ovviamente il testo ha una struttura che tu puoi comprendere anche se non capisci la lingua. Possiamo dire che trascende. Evocherò la sua voce per avere una sorta di dialogo con lui. Ricordo che le sue parole arrivavano al pubblico con un impatto molto forte e riuscivo a percepirlo: proverò a ricreare quella magia. Ci sarà molta improvvisazione, tra jazz e musica indiana”. Sul palco Arto porterà il bassista e compositore Melvin Gibbs, il violoncello di Redi Hasa e le voci di Rachele Andrioli e Roopa Mahadevan.

Con Gibbs, in particolare, Arto ha lo stesso rapporto di Thom Yorke con Johnny Greenwood, il cercare attraverso il laptop rumori distorti da applicare alla note: “Il novanta per cento dei musicisti usa ormai il pc come uno strumento musicale, persino quelli di estrazione classica: non sai mai se è un’orchestra o un computer che la suona”.

Lindsay è un vaso di Pandora, ha sempre un aneddoto da raccontare dalle collaborazioni con i grandi intellettuali della musica colta: “Laurie Anderson è una grande scrittrice, una narratrice intelligentissima che usa il linguaggio con una chiave originale e inedita. Di David Byrne ho recentemente visto il suo concerto teatrale, mi ha ricordato Stop Making Sense dei Talking Heads. Sono un fan degli Animal Collective, ho chiesto loro di scrivere una canzone. Brian Eno sa spiegare e far conoscere cose nuove, somiglia un po’ a John Cage: i suoi libri sono stati più influenti della sua musica così come le idee e le interviste di Brian hanno avuto un impatto maggiore delle sue composizioni”.

Arto, nato in Virginia, ha vissuto per molti anni in Brasile collaborando con Caetano Veloso, Tom Zé, Carlinhos Brown, Marisa Monte ed è stato un grande ammiratore del Tropicalismo: “A quel tempo ero un adolescente che cercava la propria personalità; la musica che ascolti tra i 14 e i 18 è importantissima perché ti forma. Non sapevo nulla sulle idee e sulle teorie del Tropicalismo, mi piaceva soprattutto lo stile musicale”. L’esplorazione con i suoi Dna ha creato uno strano connubio, il punk jazz: ”Mi muove la curiosità. Mi piace trovare nuovi accenti, nuovi colori in ogni luogo. Adesso tra i contemporanei mi piacciono Pop Smoke – anche se è prematuramente scomparso – e Nick Hakim. Ultimamente mi sono ritrovato ad ascoltare vecchi dischi di Gal Costa e Marvin Gaye. Il rock no, è troppo noioso. La musica elettronica era interessante negli anni Novanta ora è in una fase di stallo. Conosco bene Lucio Battisti, ha influenzato pesantemente i miei amici Blonde Redhead”.

Israele Bennett, guai a chi gli tocca la sua kippah

Naftali Bennett, che si è insediato la scorsa settimana, è il primo premier nella storia di Israele ad indossare regolarmente la kippah, il copricapo rituale ebraico, a volte chiamato yarmulke o zucchetto. A differenza dei suoi predecessori laici, lui si identifica come un sionista religioso e pratica l’ebraismo ortodosso moderno, che richiede agli uomini di coprirsi il capo. Ma Bennett è anche calvo. Ciò rende una sfida mantenere il piccolo disco all’uncinetto fermo in cima alla sua testa. I metodi tradizionali per fissare una kippah – forcine e fermagli metallici per capelli – non sono utili a Bennett. Eppure la kippah rimane attaccata. Non importa dove sia Bennett – alla Knesset, durante un comizio o un incontro pubblico – la kippa è sempre lì, appoggiata sul suo cuoio capelluto, o talvolta sul sottile strato di capelli corti che circonda la sua zona calva. Naftali Bennett non usa il normale scotch. Il suo adesivo preferito è un prodotto inventato e venduto a partire dal 2013 da Haim Levin, un autista di autobus di 65 anni che vive in un sobborgo prevalentemente ortodosso di Tel Aviv. Il prodotto, chiamato Kippah Keeper, è realizzato con nastro medico biadesivo ipoallergenico riutilizzabile, che consente alla kippah di aderire a teste con pochi o nessun capello. È venduto in confezioni da 40 strip e costa 40 shekel (14 euro), compresa la consegna.

In Israele, dove la scelta della kippah spesso significa identità religiosa e politica, lo stile personale di Bennett – una piccola kippah all’uncinetto – segnala che è un sionista religioso. Al contrario, una kippah di velluto nero lo identificherebbe come Haredi, o ultra-ortodosso, mentre una più grande lavorata all’uncinetto o lavorata a maglia, che potrebbe stare più facilmente su un cranio calvo, è favorita da un sottogruppo di coloni che tendono ad essere più religiosi, apertamente spirituali e nazionalisti. Il fatto che la kippah di Bennett sia piccola e portata verso la parte posteriore della testa, suggerisce che appartenga alla parte più “moderna” della comunità ortodossa moderna.

 

Brasile, non solo virus. La nuova piaga è l’esercito di ragazzi senza un futuro

“Per settimane non sono riuscita ad accedere ai corsi online. Mi sono sentita esclusa”, osserva Gloria, 13 anni, che vive sulle alture di Camaragibe, un sobborgo di Recife. La sua casa è piccola piccola, tre stanzette esigue, neanche un tavolo. Nel marzo 2020, qualche settimana dopo l’inizio della pandemia, il governo locale ha attivato la didattica a distanza. Ma, non avendo gli strumenti adeguati, l’adolescente non ha potuto seguire i corsi online. Il suo insegnante, Arthur Cabral, ha notato che all’appello mancavano una ventina di allievi. Allora, ogni venerdì, ha cominciato a percorrere in lungo e in largo il quartiere per distribuire a mano le fotocopie dei corsi ai suoi allievi. Si è reso conto che alcuni di loro non avevano né il cellulare né l’accesso a Internet, altri disponevano di un solo computer in casa per tutta la famiglia. La storia di Arthur l’ha raccontata un quotidiano locale e da allora sono cominciati a piovere doni, soprattutto telefoni.

Un poco alla volta quasi tutti i suoi studenti hanno potuto ricevere un dispositivo con la connessione ad internet e raggiungere i compagni online. Per Darla, la madre di Gloria, è stato “un dono del cielo”: “Senza, non ce l’avremmo mai fatta”. Darla, che già aiuta gli altri tre figli più piccoli negli studi, è tornata anche lei al liceo lo scorso anno. Nel suo piccolo, Arthur cerca di mitigare i danni della pandemia, ma punta il dito contro le autorità che, a sua avviso, non fanno abbastanza: “È snervante! A marzo, il presidente Bolsonaro ha avuto la faccia tosta di bloccare un progetto di legge che avrebbe favorito l’accesso a Internet ai più svantaggiati”. In Brasile, 4,3 milioni di studenti non hanno accesso alla rete per seguire le lezioni online. A fine aprile, nella regione di Recife, i ragazzi sono tornati in classe, ma a settimane alterne. Ora che in Brasile la situazione epidemiologica torna a aggravarsi, le scuole potrebbero chiudere di nuovo. Il deputato Israel Batista, iniziatore del progetto di legge in questione, accusa il governo di aver “abbandonato l’istruzione durante la pandemia. In un paese grande quanto un continente – dice -, il ministero dell’Educazione non dà nessun aiuto alle autorità locali”. In Brasile, l’istruzione primaria e secondaria è principalmente di competenza dei municipi e dei singoli stati dell’Unione, ma il governo federale, che decide la politica generale, conserva un potere decisionale importante, anche sui finanziamenti. “La maggior parte dei paesi dell’OCSE ha incrementato gli investimenti nel settore dell’educazione durante la pandemia, qui invece li hanno tagliati”, sottolinea il deputato. Il budget 2020, inferiore del 10% rispetto a quello del 2019, è stato il più basso degli ultimi dieci anni. Secondo Andressa Pellanda, coordinatrice della Campagna nazionale per il diritto all’educazione, “queste politiche di austerità non sono una risposta efficace alla crisi”. Né, secondo lei, ci si può aspettare un miglioramento del sistema educativo fintanto che Jair Bolsonaro resta al potere. “La pandemia non ha modificato neanche di una virgola l’agenda ultraconservatrice del governo, che porta avanti a testa bassa la sua crociata fondamentalista”. Quattro ministri si sono succeduti all’educazione dall’inizio del mandato di Bolsonaro e tutti si sono attenuti alla linea del governo. “A Bolsonoro interessano di più i social network”, si dispera Israel Batista. Il governo, spiega, “ha dato la priorità all’homeschooling favorendo le poche migliaia di famiglie che vivono in condizioni più confortevoli, voltando le spalle a milioni di studenti vulnerabili”. Gli abbandoni scolastici sono quasi raddoppiati nel 2020: 1,38 milioni di studenti tra 6 e 17 anni hanno lasciato gli studi, secondo l’IBGE, l’istituto di statistica nazionale.

La precarietà in cui vivono sempre di più i più modesti aggrava il fenomeno. Dopo aver soppresso i sussidi d’urgenza introdotti all’inizio della pandemia, il governo ha deciso di riattivarli, ma riducendoli di molto: i 1200 reais (186 euro) per una madre sola sono diventati 375 (58 euro). Per Darla, la mamma di Gloria, che vive di sussidi, è un duro colpo e la fame si fa sentire. Con la pandemia, Darla, venditrice ambulante, non vende più nulla: “Ho provato a chiedere un prestito, ma non me lo hanno concesso. I prezzi continuano a salire. È difficile dire ai miei figli che hanno fame che non c’è niente da mangiare in frigo”. I bambini che ricevevano tre pasti al giorno a scuola, ora non hanno più nulla. Nella regione di Recife, le famiglie ricevono in compenso 50 reais a settimana a figlio. Un aiuto gradito ma insufficiente, e che non tutti riescono a ottenere. Ecco perché Arthur, l’insegnante, nel suo giro settimanale, oltre alle fotocopie dei corsi, porta anche alcuni prodotti di base alle famiglie in difficoltà. “Per poter studiare, si deve mangiare, e per queste famiglie sfamarsi sta diventando sempre più difficile. Spero di contribuire ad evitare che dei giovani abbandonino gli studi per mettersi a lavorare”. “Esiste un legame diretto tra abbandono scolastico e lavoro minorile”, spiega Eduardo Paysan, presidente del Comdica, il Consiglio comunale per la difesa dei diritti dei bambini e degli adolescenti di Recife. Prima della pandemia, 1,8 milioni di bambini e adolescenti lavoravano in Brasile, un numero in leggera diminuzione dal 2017. Non esistono ancora dati statistici dall’inizio della crisi sanitaria, ma studi parziali in diverse città indicano una tendenza al rialzo. A San Paolo il lavoro minorile è aumentato del 26%, secondo un’inchiesta portata avanti dall’Unicef su 52.000 famiglie in difficoltà. A Recife sono sempre più numerosi i bambini e gli adolescenti che lavorano nelle strade: vendono snack ai semafori, rovistano nei cassonetti alla ricerca di materiali riciclabili o fanno consegne a domicilio tramite le app mentendo sulla loro età. “Questa parte del fenomeno è visibile. Ma esiste anche una parte meno visibile, quella dello sfruttamento sessuale. Certe famiglie trattano i bambini come merce e ottengono cibo in cambio di sesso – osserva Eduardo Paysan –. Le politiche pubbliche si degradano e chi ne subisce di più le conseguenze sono i più svantaggiati”. La lotta al lavoro minorile non è una priorità per il presidente Bolsonaro, che, al contrario, lo difende. Nel 2020 ha accennato ai “vecchi bei tempi in cui i minorenni potevano lavorare. Ora possono fare qualunque cosa, compreso fumare il crack – aveva detto – basta che non lavorino”.

Al di là delle dichiarazioni di Bolsonaro, Eduardo Paysan denuncia lo smantellamento, a livello nazionale, delle strutture che erano preposte alla lotta contro il lavoro minorile. “È ancora profondamente radicata la cultura arcaica per cui il lavoro forgerebbe il carattere dei bambini”, osserva, desolata, Thays Silva, assistente sociale a Recife. Thays sa di cosa parla. Suo padre, che ha iniziato a lavorare molto giovane, non voleva che lei andasse a scuola. Thays è stata la prima della sua famiglia a poter studiare, ma grazie alla determinazione di sua madre. Gli assistenti sociali ricevono le segnalazioni dei casi di lavoro minorile e altri abusi ai danni dei minori all’interno della comunità e si confrontano con gli insegnanti per identificare i bambini che soffrono. Dopo le dovute verifiche, trasmettono la segnalazione alle strutture competenti. “Fare il nostro lavoro è diventato più complicato con la pandemia. La scuola funge da rete di protezione, che è venuta a mancare con la didattica a distanza”, spiega la giovane donna, che dovendo limitare le visite a causa della pandemia, si sta concentrando sui casi più gravi. Ci sono giorni in cui Thays, che è molto stanca, si sente abbattuta e non riesce a trattenere le lacrime quando parla dei giovani che si lasciano trascinare sempre di più nei traffici di droga. “È una delle peggiori forme di lavoro minorile. Il traffico di droga è sempre esistito – dice -, ma dalla pandemia sta reclutando sempre di più giovani”.