Sono passati quattro mesi dall’insediamento del governo Draghi, è forse possibile – al di là del coro estasiato dei grandi media – un primo bilancio sull’operazione innescata da Matteo Renzi. Al di là degli errori e delle contorsioni dovute alla vasta e litigiosa maggioranza che lo sostiene, il nuovo governo segna un riequilibrio verso destra della gestione del Paese: dai temi del lavoro (licenziamenti) a quelli delle infrastrutture (grandi opere), dai consulenti scelti a Palazzo Chigi e nei ministeri fino a un’interpretazione assai a misura d’impresa della transizione ecologica, la natura ideologica del “draghismo” è incistata nel laissez faire che fu la religione ufficiale degli anni 80 e 90, quelli in cui lo stesso premier divenne figura di spicco dell’establishment italiano. Una breve carrellata per temi.
Ambiente. La transizione a misura di grandi imprese
La transizione ecologica, per come disegnata nel Pnrr e nei decreti collegati, è in sostanza una ristrutturazione del sistema industriale a misura di (grande) impresa, peraltro lautamente sussidiata dallo Stato (vedi la Valutazione d’impatto ambientale da concedere subito e con priorità ai progetti più grandi). Di fatto si punta a modificare il mix energetico usato con un occhio di riguardo al gas (un fossile) e spesso secondo progetti già inseriti dai grandi gruppi nei loro piani industriali: i molti gasdotti che in futuro forse serviranno per l’idrogeno misto (Snam) e il progetto di cattura della CO2 (l’Eni nelle piattaforme di Ravenna) ne sono gli esempi più eclatanti. Non mancano scelte di fondo che il ministro Roberto Cingolani non ha mai discusso in pubblico: citeremo solo il caso degli inceneritori, bizzarramente inseriti tra gli impianti sottoposti ad autorizzazione veloce per gli obiettivi fissati dal Pniec (piano per il clima), che teoricamente sarebbe focalizzato sulla riduzione delle emissioni climalteranti.
P.A. Un Recovery di lavoro precario (e non per giovani)
Nella riforma della macchina dello Stato il governo si gioca molto. Dopo un decennio di tagli e blocco del turn over, la P.a. ha un enorme problema di organico e competenze. La via scelta da Renato Brunetta, sperando funzionino i concorsi rapidi per l’ordinario, è di tappare i buchi per il Pnrr con migliaia di lavoratori a termine: precari (persino stagisti) in fondo alla piramide, scelti dall’arbitrio degli enti coinvolti al suo vertice. Le amministrazioni, infatti, potranno assumere dirigenti esterni a chiamata diretta e in misura doppia rispetto al normale. Il portale che Brunetta ha annunciato come il “Linkedin della Pa” sarà alimentato soprattutto con una selezione per titoli. In entrambi i casi difficile che i prescelti siano giovani, specie neolaureati. Quanto ce ne sia bisogno lo spiegano bene i dati del Forum Pa diffusi ieri: al lavoro ci sono 3,2 milioni di statali (peraltro assai meno della media Ocse), il 16,3% oltre i 60 anni, il 4,2% sotto i 30.
Grandi opere. Tanto Tav e torna la legge obiettivo
Con le “semplificazioni”, il ministro Enrico Giovannini si è dotato del potere di gestire le faraoniche (e spesso inutili) opere infrastrutturali sul modello della legge Obiettivo. Oltre al ritorno dell’“appalto integrato” (progettazione ed esecuzione dell’opera allo stesso soggetto), ispirato alla legge dei tempi di Silvio Berlusconi – travolta dalle inchieste e definita “criminogena” da Raffaele Cantone – è la procedura lampo per le “opere di particolare complessità e rilevante impatto”: una lista affidata a un “comitato speciale” che – con Soprintendenza e Commissione Via altrettanto “speciali” – delibera in 45 giorni esprimendo “pareri lampo” che hanno effetto di “variante urbanistica”, aggirando Comuni e stazioni appaltanti. La lista, destinata a crescere, oggi conta 10 mega opere: dall’Alta velocità Palermo-Catania alla Roma-Pescara fino alla diga “foranea” di Genova. Il fiore all’occhiello è però l’alta velocità Salerno-Reggio Calabria (10 miliardi stanziati nel fondo “complementare” al Pnrr, che ne mette altri 25): trattasi del completamento ideologico del Ponte sullo Stretto di Messina, su cui Giovannini ha non a caso riaperto il dibattito.
Lavoro. Il pasticcio sui licenziamenti e poco altro
Il 20 maggio, il ministro Andrea Orlando aveva portato in Cdm una norma che prorogava il blocco generalizzato dei licenziamenti a fine agosto e rendeva gratuita la Cig ordinaria per chi decide di non licenziare. Un asse tra Confindustria (“L’inganno di Orlando”, titolava il Sole 24 Ore) e centrodestra ha spinto Draghi a rimangiarsi la mini-proroga, che pure aveva presentato in conferenza stampa. Senza novità, il blocco scade il 30 giugno e neanche è alle viste l’attesa riforma degli ammortizzatori sociali: Orlando l’ha promessa per luglio, ma le aspettative si sono assai ridimensionate. Il salario minimo è invece sparito dai radar.
Covid. Il Caos eterologa e le giravolte sui vaccini
A maggio il governo si è fatto bocciare dal Garante della Privacy il Green pass: tra le altre cose, non era chiaro chi potesse accedere ai dati sanitari e si demandava parte della disciplina a regolamenti, di rango inferiore alla legge. Tra il 9 e il 16 giugno, dopo varie correzioni, è arrivato l’ok. Nel frattempo si fa avanti e indietro su AstraZeneca. Il 12 maggio il Comitato tecnico scientifico dà via libera alle Regioni sugli Open Day a base di AZ per i “volontari” dai 18 anni in su benché da marzo, per quanto autorizzati senza limiti d’età da Ema e Aifa, i vaccini a vettore virale siano “raccomandati” solo per gli over 60 a seguito delle trombosi rare che hanno indotto alcuni Paesi a eliminarli. Dopo gli appelli di medici e scienziati e la tragedia della 18enne ligure Camilla, l’11 giugno arriva lo stop: AZ vietato agli under 60 anche per le seconde dosi. Come in altri Paesi, i richiami si faranno con i vaccini Pfizer e Moderna, mentre per Johnson & Johnson resta solo la “raccomandazione”. Una settimana dopo, mezzo dietrofront: gli under 60 possono fare AZ col parere del medico.
Scuola. Prima la chiusura poi la sanatoria e il flop estivo
Secondo le stime, quest’anno gli studenti hanno perso in media la metà dei giorni di scuola. L’auspicio del premier di riportare tutti in classe a marzo si è schiantato contro la variante inglese, evidentemente resistente alle precauzioni stilate proprio dal ministro Patrizio Bianchi quando guidava la task force per le riaperture. “Scuola in estate” aveva detto allora Draghi, ma non ci sarà: pochi docenti, pochi soldi, opposizione di presidi e sindacati hanno concentrato le attività a giugno e settembre. Si è riusciti però a fare la semi-sanatoria, cara a Lega e Pd, per i docenti precari, che saranno assunti dopo un anno sul posto. Questo reclutamento senza concorsi andrà a sistema dal prossimo anno per tutti gli altri. A settembre potrebbe non esserci alcuna sorpresa: con quasi 100mila cattedre coperte da supplenti e un concorso (Stem) in velocità che potrebbe non concludersi in tempo.
Giustizia. Per ora il piano Cartabia è un pantano
Da oltre un mese la commissione Lattanzi, voluta dalla ministra Marta Cartabia ha concluso il suo lavoro sulla riforma della giustizia penale, ma l’attesa sintesi politica della Guardasigilli non c’è stata, soprattutto a causa della solita prescrizione, che spacca la maggioranza. La Commissione ha scritto che non c’è alcuna fretta di modificare la legge che la blocca dopo il primo grado, perché gli effetti si avranno dal 2025, ma forzisti, renziani e leghisti, convertitisi sulla via dei referendum radicali, vogliono la bandierina anti-M5S. Non c’è stata una sintesi politica della ministra neppure sulla riforma del Csm: sistema elettorale e porte girevoli per magistrati in politica, i due scogli principali.
Lobby. L’affaire Mckinsey e i liberisti a Palazzo Chigi
L’ultimo segnale della sensibilità marcata per la grande impresa è stata la chiamata a Palazzo Chigi di alcuni esperti assai “pro business” e contrari all’intervento pubblico: Carlo Stagnaro, direttore del Bruno Leoni, think tank ultraliberista, e dell’economista Riccardo Puglisi. Il primo segnale era stato l’affidamento al colosso McKinsey del “supporto tecnico-operativo di project management per il monitoraggio dei filoni del Pnrr”: le consulenze fioccheranno.
Parlamento. Camere passacarte, decide Draghi
Da almeno tre decenni il Parlamento, contrariamente a quanto prescrive la Costituzione, ha perso il suo ruolo di centro della vita politica a vantaggio dei governi, vera sede anche del potere legislativo. La natura stessa del governo Draghi estremizza questa situazione: una maggioranza che non è in grado di accordarsi su quasi nulla trova la sua sintesi solo nel premier e questo è vero per il Covid come per l’economia o le nomine. Paradossale che, invocato per mettere fine al presunto sconcio democratico dei Dpcm, questo esecutivo abbia costretto le Camere ad analizzare per settimane decreti sulla pandemia già superati da altri decreti. Ancor più evidente la situazione del Pnrr: non solo il testo Draghi non è mai passato dal Parlamento prima di arrivare a Bruxelles, ma anche i quattro decreti approvati finora (a non dire delle “riforme” che seguiranno) sono ora all’esame dei rappresentanti del popolo sostanzialmente blindati nelle linee fondamentali.
Comparse. Più di metà governo non tocca palla
Alzi la mani chi se li ricorda tutti. L’impressione è che anche i più interessati abbiano perso le tracce di una decina di ministri. Vuoi perché Draghi decide da solo, vuoi perché con una maggioranza così è dura farsi sentire, c’è poca traccia della loro attività. Mara Carfagna, per esempio, è interpellata più per i destini del centrodestra che per il ministero del Sud. La 5 Stelle Fabiana Dadone ha lanciato qualche provocazione (il test antidroga per i politici) ma delle Politiche giovanili si sa poco o nulla. Stefano Patuanelli ha un importante ruolo diplomatico nel M5S, ma l’Agricoltura fatica a ritagliarsi spazio nell’agenda. Nell’ombra sono anche la leghista Erika Stefani (Disabilità), Maria Cristina Messa (Università), Massimo Garavaglia (Turismo). E persino il ruolo di Luigi Di Maio agli Esteri finisce ridimensionato, vista la rete di rapporti internazionali del premier.