Trenord. Il report che stronca la (pessima) gestione. Ma la Regione è già pronta al rinnovo senza gara

Una società inefficiente, che non soddisfa la clientela, minata da un oggettivo conflitto di interesse, che ha tradito la promessa di abbattere i costi creando economie di scala. Il paradosso: premiarla con un nuovo contratto (affidato senza gara) per altri 10 anni da centinaia di milioni di euro l’anno. È il ritratto di Trenord (la società ferroviaria di Regione Lombardia, di proprietà del Pirellone e Fs) che scaturisce dal report dei ricercatori del Politecnico di Milano e di META s.r.l. Uno studio indipendente e inedito (letto da Il Fatto in anteprima) che intende fornire elementi di riflessione “dopo l’annuncio del ri-affidamento diretto del contratto a Trenord per il periodo regolatorio successivo al 2021”. L’affidamento diretto a Trenord – in Lombardia sono 820 mila i pendolari e il vecchio contratto di servizio prevedeva un corrispettivo annuo di base dalla Regione di 412 milioni – “è avvenuto nonostante le periodiche criticità dell’azienda e la generale insoddisfazione dell’utenza”, annotano gli autori. Che sottolineano: “L’assenza di gara e affidamento diretto in house è ammissibile, ma richiede che l’amministrazione fornisca, in primo luogo, la giustificazione del ricorso all’affidamento diretto e in secondo luogo la giustificazione dell’affidamento al proprio gestore in presenza di altri potenziali interessati”. Condizioni che a oggi non sono state rispettate dalla giunta Fontana. E sì che di “spunti di riflessione” invece ce ne sarebbero parecchi ripercorrendo, come ha fatto il report, i primi 10 anni di vita della società. Basta confrontare i risultati delle indagini annuali sul grado di soddisfazione dei servizi, l’ultima disponibile è del 2019, per notare che “tutti gli indicatori risultano inferiori”, in particolare quelli “relativi alla puntualità dei treni e alla sicurezza”. “L’indice di puntualità percepita è sceso dall’87,5% del 2015 al 78,3% del 2018, per poi risalire a 80,2% nel 2019. L’indice di soppressione dei treni, inizialmente stabile attorno ad un valore di 30/giorno, è salito nel 2018 a quasi 80/giorno”. Lo stesso calcolo dei ritardi – che oltre un certo limite danno diritto al rimborso – è più che discutibile: l’azienda (l’unica che fornisce dati alla Regione, sua proprietaria ma anche sua cliente, da qui il conflitto di interessi endogeno) calcola infatti come “in ritardo” i convogli giunti al capolinea con oltre 5 minuti di ritardo. Il problema è che nelle fermate intermedie, quelle più utilizzate, spesso i ritardi sono molto superiori, visto che i treni, in prossimità dell’ultima fermata (quando cioè sono pressoché vuoti) vengono “accelerati” per recuperare. Così dalle tabelle spesso giungono al capolinea “in orario” e non fanno scattare il bonus.Una modalità di calcolo bocciata dall’Autorità di Regolazione dei Trasporti che nel 2018 ha stabilito nuovi indicatori di qualità. “L’utilizzo di queste nuove regole restituirebbe una situazione ben peggiore – scrivono i ricercatori – i ritardi delle fasce pendolari sono mediamente maggiori e riferirsi alle sole stazioni capolinea per le linee che transitano nel Passante di Milano (1/3 dei passeggeri) è fortemente distorsivo. Con la definizione attuale, inoltre, l’operatore ferroviario non viene correttamente incentivato a ottimizzare il servizio velocizzando le linee, in quanto questo viene a suo svantaggio nel calcolo dell’indice di affidabilità”.

 

Olanda, la sentenza anti-Shell è un rischio e un’opportunità

Già alla fine degli anni 70 le società petrolifere sapevano del collegamento tra emissione di CO2 derivanti dal consumo di petrolio e gas naturale e il cambiamento climatico. La più grande multinazionale petrolifera al mondo, Exxon, lo sapeva già dal 1977. All’inizio degli anni 90 anche tutti i politici del mondo avevano chiarissimo il ruolo dei gas ad effetto serra come motori del cambiamento climatico se è vero che la Conferenza di Rio delle Nazioni Unite del 1992 chiese ai governi di adottare piani per ridurre le emissioni.

Nulla è stato fatto per un trentennio. A partire dal primo rapporto nel 1990 dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) l’umanità ha bruciato la stessa quantità di combustibili fossili che aveva bruciato in tutta la sua storia precedente. I tempi però stanno cambiando a ritmi vertiginosi. Le società petrolifere cambiano nome una dopo l’altra per nascondere il loro peccato originale. La società norvegese Statoil ha deciso di rinominarsi Equinor in omaggio al sensibilità ambientalista del proprio popolo. Uno dopo l’altro i Governi occidentali, e non solo, prendono impegni sempre stringenti alla decarbonizzazione. L’Unione europea si è impegnata ad un taglio delle emissione del 55% rispetto al 1990.

A rafforzare la lotta al carbonio interviene anche la legge. La Corte costituzionale tedesca ad aprile aveva imposto al governo federale di legiferare in modo specifico su come intendesse tagliare le emissioni. Risultato: il governo Merkel ha approvato una legge per il clima che impegna la Germania a tagliare le emissioni del 65% rispetto al 1990, migliorando il precedente obiettivo del 55%. Anche in Italia un gruppo di associazioni ha recentemente fatto causa allo Stato invocando un taglio delle emissioni del 92% nel 2030 rispetto al 1990.

Ma il caso recente più clamoroso è stata la sentenza di una corte olandese contro l’anglo-olandese Shell: multinazionale petrolifera i cui investimenti hanno spaziato dall’Indonesia al Medio Oriente al Venezuela e che per mezzo secolo è stata tra le dieci aziende più ricche del Pianeta. A seguito di una causa intentata da alcune associazioni ambientaliste e 17mila cittadini, alla Shell è stato ingiunto di ridurre le sue emissioni del 45% non rispetto al consueto anno base 1990, ma rispetto al 2019. E non solo di ridurre le emissioni dai suoi impianti, ma proprio tutte le emissioni, incluse quelli derivanti dal consumo in tutto il mondo di prodotti derivati dal petrolio Shell (in gergo si chiamano tier 3 emissions). Se si tiene conto del fatto che Shell, con poco più di 80mila dipendenti, emette nel complesso quasi quattro volte l’Italia, si capisce bene la portata della sentenza.

I giudici olandesi fondano la sentenza sugli studi scientifici più accreditati, sul fatto che le emissioni non rispettano i confini nazionali e ledono i diritti umani, nonché sul principio di precauzione in particolare nei confronti dei residenti olandesi e ancor più di quelli della regione di Wadden, il cui territorio verrebbe completamente sommerso da un possibile aumento di 1,7 m del livello delle acque.

Non mi pronuncio sul fatto se sia giusto mettere sul banco degli imputati solo i produttori e non i singoli automobilisti che giornalmente si riforniscono alle pompe di benzina, se sia giusto prendersela con le singole aziende piuttosto che coi governi dove queste hanno sede, o se abbia senso incriminare Shell, piuttosto che anche altre società petrolifere, come quelle nazionali dei Paesi produttori, che emettono molto di più di Shell.

Il fatto è che politica, cultura, scienza e, adesso, anche il diritto stanno formando una coalizione contro le fonti fossili. Essa presenta dei rischi e delle opportunità. Dal mio punto di vista il rischio principale consiste nel fatto che la necessaria decarbonizzazione sia affidata esclusivamente alla logica di mercato, quindi alla tassazione del carbonio nonché agli incentivi ad investimenti di carattere remunerativo nelle rinnovabili. Ciò non tiene contro della dilagante povertà energetica, anche nel mondo occidentale, rafforzata dalla liberalizzazione del settore energetico, nonché della plateale ingiustizia rappresentata da incentivi a comprarsi macchine da ricchi come la Tesla. L’opportunità risiede nel fatto che queste cause potrebbero costringere i governi a scelte dolorose, ma necessarie, come il blocco a esplorazione e produzione di idrocarburi. Ciò consentirebbe di lasciare la quota prevalente di una produzione globalmente in calo a Paesi come Venezuela, Iran e Arabia Saudita, per i quali la rendita petrolifera rappresenta ancora un fondamento della tenuta sociale e dell’erogazione di un minimo di servizi pubblici.

Gli interessi strategici. Come e perché Parigi sta stracciando Roma

Il prossimo 6 luglio potrebbe disputarsi una semifinale di Euro 2020 fra l’Italia e la Francia. La diffusa rivalità calcistica fra le due nazioni non pare tuttavia suscitare lo stesso interesse sul campo economico. In questo caso, quando il nostro Paese ambisce a strappare un pareggio mutualmente vantaggioso, troppo spesso finisce per accettare una sconfitta all’ultimo minuto, come nella finale del 2000 finita col “golden goal” di Trezeguet.

Stellantis. In questa partita, giocata a colpi di golden power e golden share, l’ultima azione è stata impostata da Bruno Le Maire al recente Forum Economico Confindustria-Medef. “Stellantis va relocaliser ses productions”, ha dichiarato con enfasi il ministro dell’Economia francese. Pochi secondi dopo, Le Maire ha specificato che la riorganizzazione riguarderà il passaggio al veicolo elettrico, una produzione già ampiamente avviata negli stabilimenti ex PSA in Francia.

Appare sempre più chiaro come l’interesse francese per l’operazione Stellantis riguardasse quasi esclusivamente l’acquisizione dei marchi blasonati (Maserati, Alfa Romeo, Dodge, Jeep), del mercato nordamericano e degli asset tecnologici (Comau) di Fca. E mentre il governo transalpino sostiene l’operazione, presidiando gli interessi nazionali con una partecipazione del 6,2% e attraverso un piano per la filiera dell’automobile da 8 miliardi, il nostro Paese continua a perdere capacità produttiva sulla via dell’obsolescenza tecnologica.

Euronext. Il caso Stellantis è soltanto l’ennesima testimonianza dell’esistente asimmetria fra l’Italia e la Francia sulle questioni industriali di rilevanza strategica. Si guardi ad esempio all’operazione che ha portato Euronext ad acquisire Borsa Italiana lo scorso aprile. Nonostante la diversificazione geografica e l’ingresso nel capitale da parte di Cdp e di Intesa SanPaolo, Euronext e il suo management rimangono fortemente Parigi-centrici. Lo stesso Ceo di Euronext e altri emissari transalpini hanno già preso posto nei Cda delle controllate italiane, che gestiscono importanti piattaforme per il finanziamento delle Pmi italiane e per il trading dei titoli di Stato italiani.

Tim. Altra situazione in cui lo Stato italiano, per opera di un suo emissario pubblico, sembra astenersi dal definire l’interesse strategico rispetto al partner francese è quella di Tim, di cui Cdp è il secondo azionista con il 9,8%, in posizione evidentemente subalterna alla francese Vivendi, che ne detiene il controllo con una quota del 23,7%. Un più forte presidio nazionale sugli assetti industriali delle tecnologie digitali avrebbe potuto scongiurare la vicenda Mediaset-Vivendi, in cui un accordo inizialmente bilanciato fra le parti, è sfociato nel controverso tentativo di acquisizione dell’intera Mediaset da parte del gruppo guidato da Vincent Bolloré.

Fincantieri. Invece, quando le controparti sono in posizioni rovesciate, i francesi mostrano magistralmente come tutelare i loro interessi nazionali. È dal 2016 che la nostra Fincantieri sta cercando di acquisire il controllo di Chantiers de l’Atlantique, il terzo produttore al mondo di grandi navi da crociera, segmento in cui Fincantieri è il leader mondiale. Il governo francese ha ostacolato l’operazione, dapprima assumendone la proprietà, poi cercando di rinegoziare l’accordo. Per capire la determinazione dell’impostazione francese, basti guardare un rapporto del Sénat dello scorso ottobre 2020. “Evitare l’errore strategico” della cessione, si dice esplicitamente nel documento, segnalando la possibilità che Fincantieri trasferisca la produzione verso i siti italiani.

Gli anni 80. Questi casi fanno sistema perché si collocano all’interno di una storia decennale di acquisizioni francesi in terra italica. Fallita nel 1987 l’integrazione con l’Italtel dell’Iri, il secondo produttore nazionale di apparati per le telecomunicazioni, ovvero la Telettra della Fiat, venne acquisita dalla Alcatel nel 1990. Sempre la Fiat nel 2000 vendette la controllata nel settore dei veicoli ferroviari ai francesi di Alstom, che acquisirono la tecnologia “Pendolino” e si consolidarono in Europa, mentre in Italia si perse l’occasione di creare un campione nazionale del settore unendo le forze con AnsaldoBreda.

Lusso e banche. Qualcosa di simile è avvenuto nel comparto alimentare, con la conquista di Parmalat, il principale produttore nazionale del settore, da parte di Lactalis. Ma anche nel lusso, dove l’acquisizione di Bulgari ha ulteriormente consolidato la colonia italiana dell’impero LVMH. Per non parlare del sistema bancario, impenetrabile in Francia, da noi aperto alle acquisizioni di Bnl da parte di Bnp Paribas e di Cariparma da parte di Crédit Agricole, che a inizio mese ha chiuso la sua OPA su Credito Valtellinese e sta finalizzando quella su FriuliAdria, completando così la scorpacciata di ex popolari. Infine, il caso del settore elettrico italiano, nel cui segmento retail Edf rappresenta il secondo operatore attraverso la controllata Edison, senza alcuna reciprocità sul mercato domestico francese.

Chi decide? Bisogna dunque riconoscere la capacità del sistema francese di presidiare gli interessi nazionali attorno ai temi economici strategici, che si rispecchia in una passiva inazione del sistema italiano. La Francia dispone di un Conseil National de l’Industrie in cui vengono discusse le strategie industriali nei vari settori, ha un’organizzazione più coordinata delle partecipate statali all’interno della Agence des participations de l’État, ma soprattutto individua gli interessi nazionali sui settori e sulle tecnologie di sistema.

Un esempio positivo. In Italia si parla spesso di un presunto ritorno della politica industriale. Ma all’atto pratico, chi la definisce? Come la si esegue? In che modo se ne valutano i risultati? Nel passato, la competenza su questi temi veniva talvolta delegata agli enti di gestione delle partecipazioni statali. Non è un caso, forse, che l’unica operazione industriale equilibrata, duratura e di successo fra il nostro Paese e la Francia venne propiziata dall’Iri nel 1987 e si concretizzò nella joint-venture che diede vita a STMicroelectronics, il colosso europeo dei semiconduttori. Gran parte del futuro dell’Italia come economia avanzata è legato alla ricostituzione di una competente intelligence economica, che possa servire gli interessi generali del Paese con un’ottica industriale di lungo periodo.

“Terre rare”, la crociata Ue non potrà aggirare Pechino

L’uscita di scena di Donald Trump ha messo fine a un grande equivoco: senza il tycoon alla Casa Bianca, l’approccio degli Usa verso la Cina non è cambiato. Con la nuova amministrazione democratica la contrapposizione è perfino aumentata. “Non siamo vecchi amici”, ha detto Joe Biden al G7 in Cornovaglia parlando di Xi Jinping. La novità degli ultimi mesi è invece un inizio di saldatura tra l’Ue e Washington sul tema: processo non facile dato che l’anima filo-cinese in alcuni ambienti comunitari rimane forte, basti dire che Pechino è il primo sbocco all’export della Germania (100 miliardi di euro di beni venduti negli ultimi 12 mesi).

Trump era un convinto sostenitore delle dinamiche bilaterali. Biden, invece, si è fatto portatore di un’istanza di maggiore collegialità per formare un asse anti-cinese che vada dall’Europa fino all’Australia passando per l’India e le Filippine. È in quest’ottica che vanno lette le dichiarazioni della presidente della Commissione Ursula Von der Leyen che, al termine dell’incontro col canadese Justin Trudeau e il presidente del Consiglio europeo Charles Michel, ha annunciato la novità: “Stabiliremo una partnership sulle materie prime. L’Ue intende diversificare le sue importazioni lontano da produttori come la Cina: vogliamo intraprendere un percorso di maggiore sostenibilità, contenimento dei danni ambientali e trasparenza sulle condizioni di lavoro”. Musica per l’establishment americano, ma l’uscita lascia perplessi.

Sia chiaro, l’intento è assolutamente condivisibile. L’attuale corsa all’elettrificazione, al di là dei benefici sul fronte dell’inquinamento, presenta infatti un grosso vulnus, quello di accrescere la dipendenza dalla Cina sul fronte della fornitura di alcuni metalli dai nomi stravaganti come neodimio, disprosio e terbio – solo per citare alcuni dei 17 componenti del gruppo delle cosiddette “terre rare” – che sono necessari per la produzione dei magneti e che vengono installati oltre che negli smartphone, nelle turbine eoliche e nelle batterie che alimentano le auto elettriche. Tanto dare l’idea, nel 2019, stando alle stime del US Geological Survey, gli Stati Uniti hanno importato l’80% di terre rare dalla Cina. L’Ue addirittura il 98%.

L’aspetto interessante è che nonostante il nome, di terre rare nel sottosuolo in realtà ce ne sono in larga quantità. Il problema riguarda il processo di estrazione e raffinazione, molto inquinante, al punto da spingere i paesi occidentali ad abbandonarne la produzione, che ora la Cina può sfruttare a suo vantaggio. Allentare il regime di dipendenza dalle forniture cinesi significa, dunque, ristrutturare in toto la filiera. Gli americani sono già un passo avanti: grazie a importanti sovvenzioni statali, la compagnia di estrazione MP Materials ha annunciato di poter iniziare la produzione di terre rare provenienti dalla miniera di Mountain Pass già dal 2023. Molto attiva è anche l’australiana Lynas che si è aggiudicata diversi appalti col governo federale tra cui la costruzione di una raffineria di minerali nel Texas per scopi militari. E in Europa? Bernd Schafer, Ceo del consorzio “EIT Raw Materials”, ha detto il mese scorso che un piano d’azione sarà presentato a breve.

La cautela è d’obbligo. Come si concilia infatti lo zelo sulle tematiche ambientali adottato dalla Ue col reshoring (il rientro) della produzione di materiali altamente inquinanti? Non si concilia affatto, al punto che, secondo gli analisti, è probabile che l’Europa continui a importare materie prime e semilavorati per concentrarsi più sul riciclo che, nel migliore degli scenari possibili, potrà arrivare al massimo a soddisfare il 20-30% della domanda europea entro il 2030. Un passo avanti rispetto alla totale dipendenza attuale verso Pechino ma assolutamente insufficiente ad affrancarsene del tutto.

La Cina ha bollato le conclusioni del G7 come “parole da guerra fredda”. Un avvertimento a Bruxelles: il decoupling dalle forniture cinesi di terre rare comporterà quasi certamente la ritorsione sul fronte delle importazioni. Non solo: l’adesione da parte della Ue al programma di sanzioni al fine di promuovere le democrazie liberali esporrà le aziende europee a conseguenze legali in Cina, dove proprio due settimane fa è stata varata una legge che prevede il rifiuto del visto, il divieto di ingresso, l’espulsione e il sequestro di beni a individui o imprese che aderiscano alle sanzioni straniere.

Siamo pronti ad affrontare questo scenario? Il timore è che, alla fine, alle belle parole non seguiranno i fatti.

 

Cosa resta della Via della Seta? Niente dopo il Covid e Biden…

Per la versione moderna della Via della Seta voluta da Pechino, Roma sembrava rappresentare la porta d’accesso perfetta al cuore dell’Europa. Paese fondatore dell’Unione europea, membro della Nato, terza maggiore economia dell’Eurozona, membro del G7: il 23 marzo 2019 l’Italia firmava il memorandum d’intesa del progetto cinese della Belt and Road Initiative (Bri) lanciato nel 2013, oltre a 29 accordi bilaterali, dieci dei quali nel commercio del valore stimato – all’epoca – tra 5 e 20 miliardi. Ma rispetto al 2017, quando a Davos il presidente cinese Xi Jinping aveva riscosso un grande consenso con il suo discorso sulla globalizzazione, il 2019 ha segnato invece l’inizio dell’isolamento internazionale della Repubblica Popolare. Con la pandemia e la nuova amministrazione Biden negli Usa, ormai si parla sempre più apertamente di “nuova guerra fredda” tra l’Occidente e la Cina.

Così, la fuga in avanti italiana di due anni fa è stata riassorbita dalla Ue a trazione franco-tedesca. D’altronde i principali partner di Pechino nel Vecchio continente restano Germania e Francia.

le stime ufficiali sugli investimenti necessari per il successo della Bri oscillano tra i 4mila e gli 8mila miliardi di dollari. Negli anni, le banche pubbliche cinesi hanno aumentato i finanziamenti alla Via della Seta, che nel biennio 2019-20 sembravano però in calo. Ma in realtà Pechino ha continuato a prestare denaro all’estero più velocemente di quanto segnalato dai dati sulla Bri, con un aumento del 21% nel 2020, il maggiore dal 2016. Insomma, non c’è alcuna riduzione del finanziamento cinese alla Via della Seta. Ciò è dovuto anche alla rapida crescita del settore bancario cinese, che ormai conta asset per 45mila miliardi di dollari – più di quello Ue -, in cerca di investimenti all’estero, sollecitando richieste da molti Paesi a medio e basso reddito.

L’Italia ha molti ottimi motivi per mantenere buoni rapporti con Pechino. Secondo il rapporto di Fondazione Italia-Cina – CeSif, in Cina e a Hong Kong ci sono circa 2.200 imprese italiane con 190mila addetti e un fatturato di 37,5 miliardi. Poi ci sono le imprese cinesi in Italia: a fine 2018 nella Penisola erano presenti 340 gruppi della Repubblica popolare o di Hong Kong, con 638 imprese italiane partecipate, per un’occupazione complessiva di quasi 42mila addetti e un giro d’affari di 23,4 miliardi.

Secondo l’Istat, però, l’appeal del Made in Italy in Cina è in calo: se l’export nel 2017 valeva 13,5 miliardi, 13,1 nel 2018 e 12,97 nel 2019, l’anno scorso, complice la crisi dei commerci mondiali innescata dalla pandemia, si è ridotto di un ulteriore 0,6% a 12,89 miliardi. Al contrario, Covid o non Covid l’import italiano dalla Cina continua a crescere: nel 2017 era di 28,4 miliardi, 30,8 nel 2018 e 31,6 nel 2019, mentre a fine dicembre ha sfondato i 32,14 (+1,52%). Il saldo commerciale nel 2020 ha così toccato il record negativo di 19,3 miliardi (+3% su base annua).

Bruxelles però non è rimasta a guardare. Ue e Cina il 30 dicembre scorso hanno raggiunto l’accordo globale sugli investimenti (Cai). Rispetto al passato, la Cina si è impegnata a garantire un miglior livello di accesso al proprio mercato per gli investitori Ue, ad assicurare un trattamento equo per le aziende Ue e la parità di condizioni in Cina, anche nei confronti delle imprese statali, con la trasparenza sulle sovvenzioni e norme contro il trasferimento forzato di tecnologie, ha accettato nuove regole sullo sviluppo sostenibile e la ratifica delle convenzioni internazionali sul lavoro, compreso quello forzato. Va considerato che dal 2003 a novembre scorso la Cina ha ricevuto dal Vecchio Continente investimenti diretti per 4.771 miliardi di dollari: 1.832 dalla Germania e 804 dalla Francia, con l’Italia quinta a quota 271 miliardi dietro Olanda (427) e Spagna (283). A sua volta, Pechino ha investito in Europa 1.817 miliardi di dollari, 788 in Germania, 215 in Francia e 68 in Italia, col dato 2020 ai massimi dal 2016.

La Germania ha però deciso di attuare una strategia di salvaguardia dei propri interessi strategici per proteggere la sua economia dagli investimenti cinesi. Sull’onda del Covid, Berlino ha convinto 14 Stati europei, tra cui Italia e Francia, ad aumentare i propri controlli sugli investimenti di Pechino sino a bloccare diverse acquisizioni da parte di aziende cinesi, specie nel settore dei semiconduttori.

La Cina è il maggior consumatore mondiale di chip, col 53% del mercato globale e un import di circa 200 miliardi di dollari. Tentativi cinesi di acquisire aziende straniere nel settore sono stati bloccati da Usa, Taiwan, Corea del Sud e Italia: ad aprile, Roma ha esercitato il “golden power”, il veto governativo, per stoppare la mossa di Shenzhen Investment Holdings che voleva conquistare il controllo di Lpe, un produttore nazionale di chip.

Che Pechino riscuota anche in Italia simpatie calanti lo conferma Philippe Le Corre, senior research fellow alla Harvard Kennedy School, specializzato nelle relazioni Cina-Europa. “Lo stato attuale dei rapporti Italia-Cina è piuttosto complesso, con diverse dimensioni da valutare. Sta diventando chiaro che, di per sé, il protocollo sulla Via della Seta ha poco contenuto. Inoltre, dal 2019 il governo italiano è già cambiato due volte. La mia impressione è che la situazione globale non abbia aiutato l’immagine della Cina in Italia. I progetti Bri non segnano successi e l’opinione pubblica non ha apprezzato la propaganda di Pechino durante la pandemia. Sebbene alcune parti della comunità italiana degli affari rimangano favorevoli alla Cina, in termini di accordi commerciali nulla si sta concretizzando per davvero. Gli investimenti di successo sono vicini a zero e il turismo ha risentito della pandemia. Se per il governo cinese l’importante è poter sbandierare che l’Italia ha firmato l’accordo per la Via della Seta, per Roma è diverso perché l’Italia si aspetta risultati concreti”.

A livello Ue, dice ancora Le Corre, “l’accordo globale sugli investimenti del 30 dicembre scorso con la Cina ora è congelato a causa delle sanzioni di Pechino contro i parlamentari europei, seguite alle sanzioni Ue contro la Cina per la questione della minoranza uigura. Ai recenti incontri del G7 e della Nato, i Paesi occidentali si sono dimostrati preoccupati e hanno cercato di imporre un modello diverso nei rapporti con Pechino. Le democrazie cercano di stabilire principi comuni per assicurarsi che il mercato cinese sia aperto e che la Cina contribuisca all’economia globale non nel suo precedente modo individualistico, ma come stakeholder responsabile”, conclude il ricercatore.

Tre le ricadute possibili del “grande freddo”, secondo il rapporto CeSif – Fondazione Italia-Cina. La prima è il cosiddetto decoupling, lo sdoppiamento dei canali di fornitura: per minimizzare i rischi di sicurezza e le vulnerabilità in caso di guerra commerciale, molte aziende stanno valutando il trasferimento degli insediamenti produttivi dalla Cina verso altri Paesi, in particolare nel sudest asiatico, con possibili contraccolpi per la Cina in termini occupazionali. C’è poi la risposta di Pechino che punta all’autarchia: Xi Jinping ha più volte fatto appello all’autosufficienza tecnologica cinese, specialmente nella tecnologia, con un forte impulso agli investimenti nella ricerca. Infine, la conseguenza più estrema: una sorta di nuova “grande muraglia” online. Se ciò avvenisse, si avvererebbe la profezia dell’ex amministratore delegato di Google, Eric Schmidt, secondo la quale tra un decennio al posto del web mondiale potrebbero fronteggiarsi due ecosistemi internet separati: uno legato agli Usa, l’altro alla Cina.

Comunque vada, ciò che accade fuori dai confini cinesi avrà effetti sulla leadership di Pechino, che l’anno prossimo sarà impegnata nel congresso del Partito comunista. Nonostante la sua apertura, all’Italia non resta che assistere.

Accattoni, favori e favorini “Puoi salvarmi solo tu!”. “Non ci sono per nessuno, grazie”

Poi ci sono quelli che chiedono i favori, sempre, e quasi sempre nei momenti più imprevedibili. Tu stai parlando di altro e puntualmente arriva la richiesta di un favore, buttata lì, con una vocetta flebile, a metà tra il finto imbarazzo e la disperazione: “Scusami, mi vergogno tanto, non te lo chiederei se non avessi davvero bisogno, ma tu sei l’unica a cui posso chiederlo!”. E qui scatta la trappola. Come fai a opporre un rifiuto se sei l’unica al mondo da cui dipende la salvezza di quel povero essere umano? Non puoi. E allora cerchi di limitare i danni. Nella maggior parte dei casi la richiesta di un favore è di tipo economico: “Credimi sono disperato, lunedì se non pago il mio debito mi sequestrano i mobili di casa, anzi, la casa intera. Andrò sotto i ponti, aiutamiii!”.

E allora il segreto è arrivare preparati, prevedere l’entità della richiesta, perché se ti chiedono una cifra alta, che so 2.000.000 di lire, la risposta è facile: “Magari li avessi!”, e sei salva. Ma se la richiesta del questuante è bassa, che so 100 mila lire, come fai a rifiutarti? Tutti hanno 100 mila lire. Escluso naturalmente chi te le chiede, l’accattone professionista. Sei costretto a dargliele, e soffri , perché sai che quelle 100 mila non le rivedrai mai più, sebbene ti venga giurato che ti verranno restituite al più presto.

Poi ci sono i cosiddetti favorini: “Scusami cara, ti piacerebbe venire sabato sera a Sgurgola Marsicana a consegnare i premi ai vincitori del torneo di judo?”. E tu sudando freddo cerchi disperatamente una via di fuga: “Adoro il judo, ma sabato ho un impegno di famiglia. Arrivano gli zii da Vigevano, se non mi vedono forse muoiono!” – “Non importa, facciamo dopo i funerali. L’importante è che tu venga, naturalmente non c’è compenso!”.

E tu vorresti urlare: “Noooo!”, ma è troppo tardi, sei già lì, con la tua valigetta sulla corriera, direzione Sgurgola Marsicana.

 

Profeti nazionali. Sovranismo: il vuoto delle idee e l’àncora dei patrioti veri (quando l’Italia non c’era)

Maurizio Viroli ha composto un breviario di preghiera laica intenso e ricco di fede come un testo religioso. Ha scelto i nomi di alcuni grandi italiani che hanno dato un volto e un’identità al Paese e lo hanno fatto esistere molto prima che fosse unito e avesse un passato politico. La loro grandezza è che a questa nazione (che non avrebbe dovuto esistere) hanno dato un futuro diventando i profeti della “emancipazione politica”, quando l’Italia non c’era.

Questo libro (Tempi Profetici, visioni di emancipazione politica nella storia d’Italia, Laterza Editore) ci porta in un un punto alto della nostra Storia per scrutare ciò che l’Italia è stata (e ciò che potrebbe-dovrebbe essere), contemplando il panorama con Dante, Macchiavelli, Savonarola, Guicciardini, Botero, fino a Gioberti e Mazzini, con utopisti e profeti, politici e manipolatori di folla, filosofi e predicatori, ognuno nella doppia missione di vendicatore e annunciatore. Il testo di Viroli è un breviario da consultare ogni giorno, mentre l’Italia si trasforma di ora in ora fingendo di non avere un passato e di non volere un dopo.

Come un breviario avverte il religioso che non è vivibile un mondo senza Dio e i suoi rituali, così il breviario laico di Viroli (con identica intensità e fervore) dice che non puoi resistere a lungo in uno spazio “caduta massi”, da cui sono stati tolti i grandi riferimenti culturali della tua storia nazionale; dunque ogni difesa. Il libro è la risposta, ferma e fervida, alle mascherine tricolore dei leader sovranisti, che celebrano con i colori della bandiera italiana separazione ed esclusione. L’autore ha notato l’invocazione sovranista che cita continuamente “gli italiani” (“lo vogliono gli italiani”, “ce lo chiedono gli italiani”, “dobbiamo farlo per gli italiani”). Quei politici conoscono il misero e umiliante slogan “prima gli italiani”, che nega e ridicolizza l’intera storia di un popolo: agli italiani spetta un privilegio da retrovia, espediente per evitare una sconfitta (data per consueta) riparabile solo per legge e prepotenza.

Ma proprio loro, ossequiosi e pronti a corteggiare anche illegalmente “gli italiani” (vogliono il loro voto) non nominano mai l’Italia. Nella letteratura fascista e fascistoide di questi anni sgradevoli, l’Italia non c’è. E il Paese narrato in questo testo creerebbe un insopportabile effetto di nanismo e miseria, se i cosiddetti “patrioti” apparissero accanto a frammenti di pensiero e storia libera dalle scorie fasciste.

Il valore del libro sta nel restituire, ai lettori, parti essenziali della nostra Storia attraverso personaggi che hanno visto e descritto il grande Paese che non c’era. Ma è anche di impedire che si scarichi (negli spazi vuoti di questo strano intervallo) la parte morta ma ingombrante di ciò che resta del fascismo; che è l’Italia, meno la sua grandezza intellettuale e morale; meno i personaggi che Viroli fa venire avanti, nella nostra memoria e nella nostra vita, come barriera di difesa.

 

Tempi profetici Maurizio Viroli Pagine: 336 – Prezzo: 24 – Editore: Laterza

Il valore della coerenza per il prossimo Sanremo si va verso l’ama-ter

 

Bocciati

C’era chi diceva no. Come è noto le manovre per mettere in moto il carrozzone di Sanremo iniziano con mesi di anticipo. Entro la fine di giugno si deciderà chi condurrà il Festival di Sanremo 2022. Siamo ancora ai “rumors”, ma attenzione: Amadeus potrebbe confermare la propria presenza, dopo averla smentita sia quest’anno che lo scorso. Sull’argomento il conduttore de I Soliti Ignoti ha rilasciato poche dichiarazioni al settimanale “Nuovo Tv” ribadendo che tutte le decisioni saranno prese insieme alla Rai. “Non amo dire di no, ma qualsiasi decisione sarà presa insieme alla Rai e sarà per il bene del Festival, non del mio personaggio”, ha detto Amadeus. Ora bisognerà capire cosa farà Fiorello, il quale ha pure lui smentito un’altra partecipazione all’Ariston. Ora qui bisogna capirsi: ma perché smentite categoricamente per poi fare marcia indietro sistematicamente? E poi: la Rai è davvero convinta che un altro Sanremo con la formula del sequestro di persona (serate che finiscono alle 2 di notte) funzionerà?

 

Promossi

Amar (non sempre) perdona. In occasione di una serata organizzata nel Cortile dell’Archiginnasio dal dipartimento di Filologia Classica e Italianistica dell’Università di Bologna, in cui si è parlato di poesia cortese, Dante e Guinizelli, è uscita un’interessante intervista a Francesco Guccini (ospite dell’evento) sulle pagine di Repubblica. “I miei ricordi su Dante risalgono all’università, però mi piaceva molto la poesia provenzale, e anche il dolce stile, non dimentichiamo poi che Guinizelli era bolognese. Non so se Dante o Guinizelli fossero musicisti, sicuramente lo erano i provenzali; in un certo senso sono gli antenati dei cantautori, quindi si può dire che io sia un esperto del ramo. Diciamo che musica e poesia si sono separate dopo, si sono specializzate, ma certi procedimenti sono continuati, pensiamo ai libretti d’opera, ma anche noi cantautori. In realtà alla fine del magistrale ho scoperto i poeti del dolce stil novo, ricordavo a memoria la poesia ‘Al cor gentil rempaira sempre amore’, ero innamorato di una ragazza e le regalai un librino della Bur, ma non funzionò, fu un amore sfigatissimo, insomma Guinizelli come intorto non ha funzionato”.

 

Non classificati

Mutanda sessista. C’erano una volta gli angeli di Victoria’s Secret (modelle stupende come Helena Christensen, Gisele Bündchen, Heidi Klum). Ma i tempi cambiano, e Victoria’s Secret, che negli ultimi anni ha visto il suo fatturato calare parecchio, ha deciso di dire addio alle “supermodel”. Al loro posto donne come la calciatrice Megan Rapinoe, una figura iconica nel mondo gay e femminista per la sua lotta per la parità di salario fra donne e uomini, l’attrice indiana Priyanka Chopra e l’attivista transessuale brasiliana Valentina Sampaio. Rapinoe ha definito “patriarcale e sessista, vista attraverso la lente del desiderio maschile” la precedente declinazione del marchio. Tutto bene: ma davvero le donne ricominceranno a comprare la biancheria di Victoria’s Secret perché adesso è meno patriarcale?

Morso tua vita mea. Durante la sfida tra Francia e Germania ai campionati Europei di calcio Antonio Rudiger avrebbe mordicchiato Paul Pogba. A molti ha ricordato l’episodio Suarez-Chiellini del 2014, che costò a Suarez 9 turni di squalifica. Il francese si sarebbe sentito “sgranocchiare la schiena”, il difensore del Chelsea e della Germania ha cercato di ridimensionare l’episodio (che in effetti non è parso nulla di che): “Non dovevo andare così con la bocca contro la sua schiena, è ovvio. Sembra brutto. Dopo il fischio finale abbiamo parlato molto amichevolmente con Paul e sia con me che dopo, in un’intervista, ha confermato che non era un morso”. La Uefa non è intervenuta e quindi tutto a posto. Chissà se Suarez nel frattempo ha imparato a “mordere” in italiano…

 

La marcia del vaccino: obbligare e punire è la legge dell’esercito

 

Promossi

Ti fidi di me? C’è una cosa su tutte che abbiamo imparato nel corso di questa pandemia e di questa complessa e affannata campagna vaccinale: non esiste provvedimento massivo che sia destinato ad una buona riuscita in assenza di fiducia. Se i cittadini sono chiamati a fare qualcosa in cui non credono, se non sono persuasi dell’utilità di ciò che viene loro suggerito, tenderanno per natura a mettersi di traverso, e l’intera iniziativa rischierà di pagarne dazio e fallire. È per questo che dopo il balletto d’indicazioni, raccomandazioni, suggerimenti, avvertenze e chi più ne ha più ne metta su Astrazeneca – danza che chiaramente ha disorientato e sconfortato molti cittadini – assumere un atteggiamento assertivo è giusto a patto che non si scavalli nella sordità. Lo spiega bene il democratico Alessio D’Amato, assessore alla Sanità (giunta guidata di Nicola Zingaretti) del Lazio, Regione tra le più virtuose nella gestione della campagna vaccinale. D’Amato ora si trova a fare i conti in prima persona con un inevitabile aumento della diffidenza verso la campagna vaccinale: “Vogliamo siano dissipati tutti i dubbi. Riceviamo fiumi di lettere da cittadini informati, che vorrebbero non cambiare vaccino e mantenersi su Vaxzevria in quanto non sono convinti che il mix sia sicuro. Non si possono trascurare le loro obiezioni, sono circa il 10% dei vaccinandi. La maggior parte dei richiami è stata eseguita utilizzando PfizerBioNTech, come prescrive il ministero. Ma questi casi come li risolviamo? La circolare del ministero e la determina di Aifa sono discordanti. La prima è perentoria, la seconda è possibilista, basta leggere bene l’articolo 2: non esclude che il medico possa decidere in scienza e coscienza quale tipo di vaccino somministrare avvalendosi del meccanismo dell’ “off label” (prescrizione non contenuta nel bugiardino). Oppure dobbiamo ricorrere all’obbligo? L’obbligo è un errore. La via più efficace è quella della persuasione. Non siamo nell’esercito dove bisogna rispettare gli ordini. A mio giudizio al primo posto va messo il raggiungimento dell’obiettivo che ci siamo posti, immunizzare la popolazione nel più breve tempo possibile. Meglio dare una doppia dose di Vaxzevria a chi la chiede, dietro la sottoscrizione di uno specifico consenso informato, che negare la seconda dose, azzardo oltretutto pericoloso visto che se la profilassi non viene completata c’è il rischio di essere infettati dalla variante Delta, la cosiddetta indiana. Un giorno potremmo essere accusati di non aver garantito adeguata protezione a chi, vaccinato a metà, si è preso il virus e ne ha riportato danni”. Il cittadino è chiamato a fidarsi dello Stato, ma lo Stato, dal canto suo, non può impedire ad un cittadino, informato e consapevole, di decidere cosa preferisca sulla sua pelle. Un piano collettivo ambizioso funziona solo se coloro che si accordano per metterlo in atto, dunque Stato e cittadini in questo caso, garantiscono l’uno all’altro capacità di ascolto, rispetto degli impegni assunti ed elasticità mentale.

VOTO 7

 

Procuratori Gattuso-Mendes: e Commisso rifiutò la ricca abbuffata “made in Portugal”

Edire che la Fiorentina poteva diventare il Wolverhampton del calcio italiano. Che non è come dire Real Madrid o Manchester United: e però un tocco esotico alla nostra Serie A l’avrebbe dato. Invece Rocco Commisso ha detto no. Ciao Rino Gattuso (l’allenatore da poco assunto), ciao Jorge Mendes (il suo illustre procuratore portoghese), è stato bello, saluti alla signora. Fine dell’idillio. La Fiorentina resta Fiorentina, di diventare Wolverhampton se ne riparla in un’altra occasione. Domanda: cosa diavolo è successo a Firenze dove a 21 giorni dal matrimonio annunciato in pompa magna Gattuso e Commisso, calabresi doc, si sono detti addio?

Per capirlo, la prima cosa che dovete fare è andare in rete e cercare, appunto, notizie del Wolverhampton: il club inglese fresco di 13° posto nella Premier ’20-’21. Si tratta del club che nel 2017 l’imprenditore Guo Guanchang, al 43° posto nella classifica dei cinesi più ricchi nonché numero 1 di Fosun International, acquistò per 50 milioni di sterline grazie all’intermediazione di Jorge Mendes, boss della “GestiFute” (l’agenzia che cura gli interessi di Ronaldo e Mourinho), il procuratore che in Cina aveva interessi espansionistici di enorme portata. La cosa che subito vi colpirà è l’alto numero di calciatori portoghesi presenti in rosa: il portiere Rui Patricio, il difensore Semedo, i centrocampisti Neves, Moutinho e Vitinha, gli attaccanti Neto, Podence e Fabio Silva (quest’ultimo, per la cronaca, acquistato 18enne dal Porto per 40 milioni di sterline). Ma non è finita. A guidare i Wolves dalla panchina c’è, idealmente seduto alla sinistra del Padre, Espirito Santo, portoghese, ieri portiere oggi allenatore, da 25 anni nella scuderia “GestiFute”, roba che se nel calcio esistesse la carta Fidaty oggi si porterebbe a casa il Colosseo. Ebbene, negli ultimi 10 anni Espirito Santo è stato allenatore di Rio Ave, Valencia, Porto e Wolverhampton, guarda caso i club di cui Mendes muove i fili (in Portogallo il Rio Ave è chiamato “Mendes FC”) per portare avanti i suoi personali interessi.

Pippo Russo, che sul mondo di Mendes ha scritto M. L’orgia del potere (ed. Clichy), in un’intervista concessa alla rivista Contrasti ha spiegato che “uno come Jorge Mendes, in una singola trattativa, può essere al tempo stesso: 1) agente del calciatore trattato; 2) consulente del club che cede e di quello che compra; 3) agente di uno o di entrambi gli allenatori; 4) “amico” dei direttori sportivi che conducono la trattativa e infine 5) titolare di una quota dei diritti economici sul calciatore o rappresentante degli investitori esterni che quei diritti detengono. L’abuso sta tutto qui, nella costruzione di una posizione che va oltre il monopolio per diventare controllo totale del mercato”. Ad esempio: dei 35 milioni pagati dal Manchester City nel 2017 per il portiere Ederson del Benfica, metà sono andati al Benfica e metà se li sono divisi Mendes (7 milioni per il 20% dei diritti d’immagine del portiere) e il Rio Ave o “Mendes FC” (11 milioni: è il club da cui il Benfica aveva acquistato Ederson).

Insomma: grazie al Gattuso-passepartout, Mendes a Firenze stava apparecchiando la tavola e già pregustava anni di libagioni da mille e una notte. I primi piatti erano Sergio Oliveira del Porto e Gonçalo Guedes del Valencia: costosissimi, e altri ne sarebbero seguiti. Commisso però ha mangiato la foglia e ha buttato il tavolo all’aria. Si torna a frittole, sardelle e ’nduja e peperoncino. Alla lunga, si digeriscono meglio.