Per la versione moderna della Via della Seta voluta da Pechino, Roma sembrava rappresentare la porta d’accesso perfetta al cuore dell’Europa. Paese fondatore dell’Unione europea, membro della Nato, terza maggiore economia dell’Eurozona, membro del G7: il 23 marzo 2019 l’Italia firmava il memorandum d’intesa del progetto cinese della Belt and Road Initiative (Bri) lanciato nel 2013, oltre a 29 accordi bilaterali, dieci dei quali nel commercio del valore stimato – all’epoca – tra 5 e 20 miliardi. Ma rispetto al 2017, quando a Davos il presidente cinese Xi Jinping aveva riscosso un grande consenso con il suo discorso sulla globalizzazione, il 2019 ha segnato invece l’inizio dell’isolamento internazionale della Repubblica Popolare. Con la pandemia e la nuova amministrazione Biden negli Usa, ormai si parla sempre più apertamente di “nuova guerra fredda” tra l’Occidente e la Cina.
Così, la fuga in avanti italiana di due anni fa è stata riassorbita dalla Ue a trazione franco-tedesca. D’altronde i principali partner di Pechino nel Vecchio continente restano Germania e Francia.
le stime ufficiali sugli investimenti necessari per il successo della Bri oscillano tra i 4mila e gli 8mila miliardi di dollari. Negli anni, le banche pubbliche cinesi hanno aumentato i finanziamenti alla Via della Seta, che nel biennio 2019-20 sembravano però in calo. Ma in realtà Pechino ha continuato a prestare denaro all’estero più velocemente di quanto segnalato dai dati sulla Bri, con un aumento del 21% nel 2020, il maggiore dal 2016. Insomma, non c’è alcuna riduzione del finanziamento cinese alla Via della Seta. Ciò è dovuto anche alla rapida crescita del settore bancario cinese, che ormai conta asset per 45mila miliardi di dollari – più di quello Ue -, in cerca di investimenti all’estero, sollecitando richieste da molti Paesi a medio e basso reddito.
L’Italia ha molti ottimi motivi per mantenere buoni rapporti con Pechino. Secondo il rapporto di Fondazione Italia-Cina – CeSif, in Cina e a Hong Kong ci sono circa 2.200 imprese italiane con 190mila addetti e un fatturato di 37,5 miliardi. Poi ci sono le imprese cinesi in Italia: a fine 2018 nella Penisola erano presenti 340 gruppi della Repubblica popolare o di Hong Kong, con 638 imprese italiane partecipate, per un’occupazione complessiva di quasi 42mila addetti e un giro d’affari di 23,4 miliardi.
Secondo l’Istat, però, l’appeal del Made in Italy in Cina è in calo: se l’export nel 2017 valeva 13,5 miliardi, 13,1 nel 2018 e 12,97 nel 2019, l’anno scorso, complice la crisi dei commerci mondiali innescata dalla pandemia, si è ridotto di un ulteriore 0,6% a 12,89 miliardi. Al contrario, Covid o non Covid l’import italiano dalla Cina continua a crescere: nel 2017 era di 28,4 miliardi, 30,8 nel 2018 e 31,6 nel 2019, mentre a fine dicembre ha sfondato i 32,14 (+1,52%). Il saldo commerciale nel 2020 ha così toccato il record negativo di 19,3 miliardi (+3% su base annua).
Bruxelles però non è rimasta a guardare. Ue e Cina il 30 dicembre scorso hanno raggiunto l’accordo globale sugli investimenti (Cai). Rispetto al passato, la Cina si è impegnata a garantire un miglior livello di accesso al proprio mercato per gli investitori Ue, ad assicurare un trattamento equo per le aziende Ue e la parità di condizioni in Cina, anche nei confronti delle imprese statali, con la trasparenza sulle sovvenzioni e norme contro il trasferimento forzato di tecnologie, ha accettato nuove regole sullo sviluppo sostenibile e la ratifica delle convenzioni internazionali sul lavoro, compreso quello forzato. Va considerato che dal 2003 a novembre scorso la Cina ha ricevuto dal Vecchio Continente investimenti diretti per 4.771 miliardi di dollari: 1.832 dalla Germania e 804 dalla Francia, con l’Italia quinta a quota 271 miliardi dietro Olanda (427) e Spagna (283). A sua volta, Pechino ha investito in Europa 1.817 miliardi di dollari, 788 in Germania, 215 in Francia e 68 in Italia, col dato 2020 ai massimi dal 2016.
La Germania ha però deciso di attuare una strategia di salvaguardia dei propri interessi strategici per proteggere la sua economia dagli investimenti cinesi. Sull’onda del Covid, Berlino ha convinto 14 Stati europei, tra cui Italia e Francia, ad aumentare i propri controlli sugli investimenti di Pechino sino a bloccare diverse acquisizioni da parte di aziende cinesi, specie nel settore dei semiconduttori.
La Cina è il maggior consumatore mondiale di chip, col 53% del mercato globale e un import di circa 200 miliardi di dollari. Tentativi cinesi di acquisire aziende straniere nel settore sono stati bloccati da Usa, Taiwan, Corea del Sud e Italia: ad aprile, Roma ha esercitato il “golden power”, il veto governativo, per stoppare la mossa di Shenzhen Investment Holdings che voleva conquistare il controllo di Lpe, un produttore nazionale di chip.
Che Pechino riscuota anche in Italia simpatie calanti lo conferma Philippe Le Corre, senior research fellow alla Harvard Kennedy School, specializzato nelle relazioni Cina-Europa. “Lo stato attuale dei rapporti Italia-Cina è piuttosto complesso, con diverse dimensioni da valutare. Sta diventando chiaro che, di per sé, il protocollo sulla Via della Seta ha poco contenuto. Inoltre, dal 2019 il governo italiano è già cambiato due volte. La mia impressione è che la situazione globale non abbia aiutato l’immagine della Cina in Italia. I progetti Bri non segnano successi e l’opinione pubblica non ha apprezzato la propaganda di Pechino durante la pandemia. Sebbene alcune parti della comunità italiana degli affari rimangano favorevoli alla Cina, in termini di accordi commerciali nulla si sta concretizzando per davvero. Gli investimenti di successo sono vicini a zero e il turismo ha risentito della pandemia. Se per il governo cinese l’importante è poter sbandierare che l’Italia ha firmato l’accordo per la Via della Seta, per Roma è diverso perché l’Italia si aspetta risultati concreti”.
A livello Ue, dice ancora Le Corre, “l’accordo globale sugli investimenti del 30 dicembre scorso con la Cina ora è congelato a causa delle sanzioni di Pechino contro i parlamentari europei, seguite alle sanzioni Ue contro la Cina per la questione della minoranza uigura. Ai recenti incontri del G7 e della Nato, i Paesi occidentali si sono dimostrati preoccupati e hanno cercato di imporre un modello diverso nei rapporti con Pechino. Le democrazie cercano di stabilire principi comuni per assicurarsi che il mercato cinese sia aperto e che la Cina contribuisca all’economia globale non nel suo precedente modo individualistico, ma come stakeholder responsabile”, conclude il ricercatore.
Tre le ricadute possibili del “grande freddo”, secondo il rapporto CeSif – Fondazione Italia-Cina. La prima è il cosiddetto decoupling, lo sdoppiamento dei canali di fornitura: per minimizzare i rischi di sicurezza e le vulnerabilità in caso di guerra commerciale, molte aziende stanno valutando il trasferimento degli insediamenti produttivi dalla Cina verso altri Paesi, in particolare nel sudest asiatico, con possibili contraccolpi per la Cina in termini occupazionali. C’è poi la risposta di Pechino che punta all’autarchia: Xi Jinping ha più volte fatto appello all’autosufficienza tecnologica cinese, specialmente nella tecnologia, con un forte impulso agli investimenti nella ricerca. Infine, la conseguenza più estrema: una sorta di nuova “grande muraglia” online. Se ciò avvenisse, si avvererebbe la profezia dell’ex amministratore delegato di Google, Eric Schmidt, secondo la quale tra un decennio al posto del web mondiale potrebbero fronteggiarsi due ecosistemi internet separati: uno legato agli Usa, l’altro alla Cina.
Comunque vada, ciò che accade fuori dai confini cinesi avrà effetti sulla leadership di Pechino, che l’anno prossimo sarà impegnata nel congresso del Partito comunista. Nonostante la sua apertura, all’Italia non resta che assistere.