Una volta era il lamento funebre. Oggi è l’esibizionismo. Lo so, l’argomento non è allegro ed è pure urticante. Però va affrontato, perché infine le culture dei popoli da questi riti passano: matrimoni e funerali (più frattaglie: diciott’anni, feste di laurea, ecc.). Nell’antichità il lamento funebre era addirittura un’arte, e le virtù del morto ne erano l’essenza. C’era persino un rituale del pianto. Ernesto de Martino, grande antropologo, ce ne ha consegnato una storia affascinante, con tanto di studio del pianto di Maria. Il lamento generò pure una musica colta, entrata a buon diritto nella storia della musica.
Le forme cambiano. Con il passar degli anni mi vado rendendo conto che c’è però una sostanza diversa e perfino perversa (mi si passi l’aggettivo) nel modo in cui salutiamo i nostri amici. L’idea di dovere dare un senso corale e “partecipato” alla cerimonia, soprattutto – ma non soltanto – nella sua variante laica, scatena infatti il vezzo autobiografico dei presenti. Si dovrebbe parlare di chi non è più con noi e invece si parla prevalentemente di se stessi. L’ultimo saluto diventa un pretesto per infliggere ai presenti proprie memorie che altrimenti nessuno ascolterebbe.
C’è una formula rituale, ovviamente, visto che di rito si tratta. Ed è l’incipit: “Io l’ho conosciuto quando… (o quella volta che)”. E da quell’ “io” non ci si smuoverà più. “Ero andato a Parigi mandato dalla mia azienda…”, “Avevo deciso di andare a quella manifestazione…”, “Me lo presentò Giovanni Rossi con cui avevo l’abitudine di frequentare il ristorante Esposito…”. Naturalmente c’è il passaggio di cortesia su colui che dovrebbe essere ricordato: “Lo vidi e mi fece subito una impressione positiva, ci piacemmo, ricordo la sua stretta di mano (o il suo sguardo diretto)”. Poi si torna all’autobiografia. “Erano tempi in cui i giovani come me si chiedevano….”. “Lo incontrai di nuovo due anni dopo. Ricordo che quella volta era con la Lilli” (se la Lilli è presente si commuove e fa un cenno di sì con la testa; tutti sono contenti di avere una notizia privata in più su due dei presenti).
Poi c’è la digressione sulle idee del morto, ma solo per parlare delle proprie: “Lui era convinto che la strategia che perseguiva l’azienda (o il partito, o l’associazione, o lo studio professionale) fosse quella giusta. Io invece avevo dei dubbi. E, data l’amicizia che ci legava, glieli esponevo con franchezza. Una volta mi disse: ma lo sai che hai ragione?”. C’è naturalmente anche la variante generosa: “Oggi però penso (sempre io) che avesse ragione lui.”
Il rito prevede anche che ci sia qualcuno disposto a dissacrarlo, generando un altro rito minore. È quando bisogna tirare le orecchie al morto. “Perché, diciamocelo, visto che è ancora qui con noi: Giovanni era un incazzoso”. “Incazzoso” è la parola fuori dal coro, che sconvolge apparentemente gli stilemi. Ma piace a tutti. Una corrente elettrica sembra passare per gli astanti, contenti di essere amici trasgressivi di una persona trasgressiva. Chi non ricorda il morto essersi arrabbiato di brutto almeno quella volta o più volte? Al suono della parola magica tutti si danno di gomito sorridendo e annuendo: “Oh quanto era incazzoso il Giovanni, te lo ricordi quella volta?”. E nella folla grande o piccola presente è tutto un fluire di ricordi propri.
Né mancano la campagne elettorali abusive: “Sono convinto che oggi, con questa situazione, voterebbe la lista dei pincopallini”. Il morto naturalmente non può reagire, né può dire “ma chi t’ha chiesto niente”. Il pubblico commiato finisce con i saluti ai parenti più stretti, verso i quali quasi tutti affettano frequentazioni semisecolari. Come ha fatto bene la diocesi di Milano: spiacenti, alla fine della messa un solo discorso. Consiglio non richiesto: però, per favore, occhio anche a quello.