Roma, Pd di sollievo. In 45 mila salvano le primarie dal flop

A fine giornata dal Nazareno tirano un sospiro di sollievo. Perché oltre alla vittoria scontata di Roberto Gualtieri alle primarie del centrosinistra per la corsa a sindaco di Roma (dovrebbe attestarsi sopra al 60%), il flop sulla partecipazione che si temeva dopo gli 11 mila di Torino di domenica scorsa alla fine non c’è stato: secondo fonti del partito, l’affluenza alle 21, ora di chiusura dei gazebo, si è attestata intorno ai 45 mila votanti (di cui 3 mila online). Eguagliando, quindi, le primarie del 2016 che incoronarono Roberto Giachetti, poi sconfitto da Virginia Raggi, con 43 mila partecipanti. “Ma quelle erano primarie diversissime e più conflittuali – è il leit motiv dei vertici dem – nessuno si aspettava questa partecipazione a giugno, in una fase post covid”. Restano comunque un miraggio i 100 mila del 2013 in cui correvano Ignazio Marino (vincitore), David Sassoli e Paolo Gentiloni, ma anche la soglia dei 50 mila individuata a inizio della corsa non è stata raggiunta.

Sul fronte dei risultati quando questo giornale va in stampa, alle ore 22.30, dai primi 42 seggi su 190 (uno su quattro) Gualtieri ha ottenuto il 62% dei voti. Alla fine dovrebbe attestarsi tra il 57 e il 65%. Sarà lui dunque il candidato sindaco del Pd alle prossime comunali di Roma. Un risultato considerato soddisfacente nel suo inner circle visto che l’ex ministro dell’Economia non aveva veri rivali: “Se Roberto dovesse vincere molto sotto il 60% sarebbe un problema” dicevano a urne chiuse i suoi. Ma la soglia è stata superata. Al secondo posto dovrebbe arrivare l’urbanista ed ex assessore della giunta Marino Giovanni Caudo (14% nei primi 20 seggi), sostenuto proprio dall’ex primo cittadino, l’attivista Lgbt Imma Battaglia (7,6%) e il consigliere regionale Paolo Ciani (7,4%). Più indietro il deputato di LeU Stefano Fassina(5,6%), Tobia Zevi(2,6%) e Cristina Grancio(1%). La vittoria di Gualtieri a Roma e Lepore a Bologna, i due candidati appoggiati dai vertici dem, è stata commentata così dal segretario Enrico Letta che ha votato al gazebo di Testaccio: “Il successo di Lepore e Gualtieri dimostra che abbiamo avuto ragione a non aver paura a fare le primarie perché il popolo di centrosinistra è con noi” ha scritto su Twitter.

L’affluenza più alta c’è stata nei quartieri del centro, da Prati a San Giovanni, passando per Testaccio e Monteverde mentre molto più bassa la partecipazione in periferia: alle 12 a Tor Bella Monaca, dove nei giorni scorsi erano arrivati sia Letta che Gualtieri, avevano votato 50 persone. A votare sono andati soprattutto over 60 mentre di giovani se ne sono visti pochi. Immancabili le polemiche ai gazebo. Il comitato di Caudo ha denunciato “irregolarità” per “leggerezze nei controlli dei documenti o palesi violazioni” e qualche problema si è registrato per il voto dei 16enni e dei cittadini stranieri. Ha fatto molto discutere il fac simile della scheda pubblicato sui social dal Pd in cui si indicava il voto a Gualtieri. Una mossa che ha fatto gridare allo scandalo Carlo Calenda, candidato sindaco di Azione e dei renziani che ha rifiutato di partecipare alle primarie del centrosinistra di ieri: “Alla voce primarie aperte. Un vero esercizio di democrazia. Daje” ha ironizzato l’ex ministro dello Sviluppo economico

Oltre a Letta e al vicesegretario Peppe Provenzano, sono andati a votare, entrambi a Prati, anche l’ex segretario Nicola Zingaretti e Massimo D’Alema (“il miglior candidato è Gualtieri”) mentre a Monteverde si è rivisto Nanni Moretti. Pace fatta al seggio tra Goffredo Bettini ed Enrco Sabri, segretario del XIV Municipio che nei giorni era stato sospeso per aver criticato l’uomo ombra di Zingaretti. Sul fronte giallorosa ieri si è mosso qualcosa a Torino dove domenica Stefano Lo Russo, contrario all’alleanza coi 5S, aveva vinto le primarie dem. Luigi Di Maio ha rilanciato la sindaca M5S Chiara Appendino nel quinto anniversario della sua elezione: “Brava Chiara Appendino – ha scritto su Facebook il ministro degli Esteri – a questa esperienza si deve dare continuità. Il tuo lavoro è sotto gli occhi di tutti e noi sosteniamo la tua azione amministrativa con la massima convinzione”. Un post che viene interpretato come una spinta alla ricandidatura dopo il pressing dei giorni scorsi. E non è un caso che venerdì Di Maio e Letta si siano incontrati per un’ora a Barcellona.

Ma mi faccia

Cosa ci mettono. “Sì al mix di vaccini. Draghi ci mette il braccio” (Libero, 19.6). “Quella decisione di offrire il corpo” (Repubblica, 19.6). Loro invece offrono la lingua. E meno male che i vaccini non si fanno sul gluteo.

Minzolingua. “Travaglio… patacca del giornalismo… si diletta a leggere il casellario giudiziario tranne il lungo capitolo dedicato a lui alla voce ‘diffamazione’” (Augusto Minzolini, neodirettore del fu Giornale, 16.6). Il mio lungo capitolo consta di una multa di 1000 euro per aver diffamato Previti (reato tecnicamente impossibile). Il suo, oltre alle diffamazioni e a un abuso d’ufficio prescritto, consta di una condanna a 2 anni e mezzo per peculato per aver derubato la Rai di 65 mila euro di spese ingiustificate in 18 mesi. Peculate, peculate, qualcosa resterà.

Povera stella. “Da due anni Cesare Battisti è detenuto in regime di alta sorveglianza, di fatto in isolamento… Lo Stato italiano non sembra avere per Battisti un’urgenza di giustizia bensì un’urgenza di vendetta. Nulla giustifica l’alta sorveglianza per un uomo quasi settantenne condannato all’ergastolo per omicidi commessi più di quarant’anni fa” (Mattia Feltri, Stampa, 18.6). È solo un pluriassassino sfuggito alla giustizia per 36 anni: perché mai sorvegliarlo?

Slurp. “Mario Draghi. Il ritorno del Cavaliere Bianco” (titolo del libro di Roberto Napoletano). “Draghi, il tecno-politico che può cambiare tutto. Per il suo ‘realismo realizzatore’ l’autore accosta la figura del premier a quella di De Gasperi. ‘L’ex presidente Bce è un ammaliatore, in dieci minuti può sfilare i calzini a chiunque senza togliergli le scarpe’” (Messaggero, 17.6). Un po’ come quei giornalisti che riescono a leccarti il culo senza toglierti le mutande.

Slurp al quadrato. “C’è ancora un Cavaliere nel destino dell’Italia… Un nuovo De Gasperi?… L’esperienza del governo Draghi potrebbe davvero segnare un nuovo Rinascimento per la Politica italiana” (Renato Farina, Libero, 18.6). Betulla lecca Napoletano che lecca Draghi: cercasi volontario che lecchi Betulla.

Stampa di destra. “Virus, spie e vaccini. Un’operazione di intelligence. Non per spiare le basi Nato ma per ottenere tutti i segreti sul Covid e sul modo di contrastarlo. Ecco come la missione ‘Dalla Russia con Amore’ ha permesso al Cremlino di difendersi dal virus e realizzare di corsa Sputnik-V. Ingannando il governo italiano” (Repubblica.it, 17.6) “I russi hanno capito come fermare il Covid studiando Bergamo. Com’è nato lo Sputnik V” (Libero, 18.6). “‘Repubblica’ spara a zero su Conte: ‘Favorì Putin, ora indaghi il Copasir’” (Giornale, 18.6), Uahahahahahah.

Trova le differenze. “Giù la mascherina” (Giornale, apertura di prima pagina, 18.6). “Stop mascherine all’aperto” (Repubblica, apertura di prima pagina, 18.6). Finalmente è rinata “La Padania”.

Il Grillo (non) parlante. “M5S, Grillo pone il veto sul doppio mandato. Per Conte strada in salita sul nuovo statuto” (Repubblica, 9.6). “Pechino fa litigare Grillo e Conte: ‘Giuseppe si sta allargando’” (Foglio, 17.6). “Sfida finale tra Conte e Beppe per prendersi i 5S” (Giornale, 17.6), “Lo statuto di Conte emargina Grillo: non deciderà la linea. Rabbia del comico, che dice di non essere disposto a un ruolo fantasma” (Stampa, 18.6). “Conte fa fuori Grillo (che è furioso)” (Libero, 18.6). “Guerra aperta Conte-Grillo” (Giornale, 19.6). “M5S, alt di Grillo a Conte: ‘Non voglio una mini-Dc. Mi vuoi esautorare? Non permetterti, sai…’” (Messaggero, 19.6). “Statuto, Grillo deluso da Conte”, “Cina e statuto, Grillo contro Conte” (Repubblica, 19.6). Accipicchia quante cose dice Grillo da quando ha smesso di parlare.

Radicali liberi. “Per riformare la giustizia ci vuole uno come Salvini. Il leghista è coerente… Avevo Padellaro del Fatto e la Lezzi ex M5S con gli occhi sbarrati, come se avessi detto bestialità” (Gaia Tortora, vicedirettrice Tg La7, Libero, 14.6). Già, proprio come se.

Next Rigeneration. “Sono rigenerato, ho ritrovato il sorriso. Berlusconi mi ha telefonato l’altra sera per darmi il benvenuto” (Marcello De Vito, presidente Consiglio comunale di Roma, ex M5S ora FI, Foglio, 18.6). Nel club degli imputati. Sono soddisfazioni.

Il titolo della settimana/1. “Draghi, arriva il plauso del Financial Times” (Claudia Fusani, un’intera pagina del Riformista, 18.6). Ma tu pensa.

Il titolo della settimana/2. “La libertà di licenziare non sarà un catastrofe” (Foglio, 14.6). Per chi licenzia, no di sicuro.

Il titolo della settimana/3. “L’India chiude il caso dei Marò. Le mogli: ‘Carne da macell’’” (Giornale, 16.6). I due pescatori indiani, ovviamente.

Il titolo della settimana/4. “Uccide anziano e due bimbi senza motivo” (Libero, 14.6). Strano, di solito hai sempre un sacco di validi motivi se uccidi un anziano e due bimbi.

“Sono sempre tra i miseri dove nessuno vuole stare. Nemmeno loro”: D’Amico reporter di lotta e sangue

“Il tradimento, l’abbandono sono ingredienti necessari a una bella immagine, a un soggetto contundente. Per affilare le immagini della misericordia”. Più di cinquanta scatti, in un bianco e nero che ferma il tempo, tra i più rappresentativi di una produzione in cui arte, vocazione e mestiere si fondono. Diversi restano ben stampati nell’immaginario collettivo, nonostante tutto. “Irrompono dagli strappi della storia quando c’è conflitto. Si rendeva conto che solo chi cerca, chi ha bisogno di quei lampi, può vederli, e forse coglierne qualcuno. Per gli altri non c’era che tenebra”.

Misericordia e tradimento (Mimesis Edizioni) è il nuovo libro di Tano D’Amico, il “fotografo dei movimenti” degli anni Settanta. Un reporter irriducibile, per passione e furore ideale. Il suo occhio meccanico e intriso di altra umanità ha documentato in presa diretta lotte e guerriglie di piazza, fatti controversi di cronaca divenuti pagine storiche tra le più abiurate. E anche di questo dà conto il volume fotografico, attraversato dalle riflessioni senza sconti dell’autore.

Trattenere strenuamente una memoria urticante, contro la rimozione e “la convenienza dell’oblio”: parola d’ordine, nella lunga stagione del riflusso, lo “svecchiamento degli archivi”. L’obiettivo di D’Amico sempre acceso nel mezzo dell’incendio, a pochi metri se non centimetri dalle molotov e dalle P38, dalle lacrime di gioia/dolore e da candelotto, dalle cariche della polizia e dalle barricate degli autonomi. Istantanee sopravvissute alla dannazione, che continuano a dirci molto più di tanti saggi postumi.

Nato nel 1942, scattava a rischio della sua stessa incolumità fisica quando Giorgiana Masi venne uccisa e fu il primo a conficcare nel senso di colpa nazionale il corpo esanime di Carlo Giuliani a Genova, nel 2001. E poi ancora, tutti riprodotti nel libro, ecco gli occupanti delle case sfitte della Magliana, gli operai di Mirafiori, i migranti di ieri e di oggi, la Napoli post-terremoto, i pugni chiusi, le imbianchine in pausa pranzo a Palermo, le morti bianche, il giorno della cacciata di Luciano Lama dall’università La Sapienza, gli spari dei carabinieri al funerale di Walter Rossi.

Generazioni dopo, Tano non s’arrende e continua a fotografare, a ribellarsi contro l’ordine costituito, estetico e dei valori “di classe” dominanti. Reduce, mai, e “un amore sconfinato” per gli ultimi. “Stare dalla parte dei miseri porta solo svantaggi. Nessuno vuole stare da quella parte. Nemmeno i miseri”.

Scarlett, “Vedova nera” per 15 milioni di dollari

“La Vedova Nera è integerrima. È un grande personaggio. Non ha paura di ammettere quando ha torto. È tenera, a suo modo. È curiosa di se stessa e degli altri. E questo la distingue”. Per Scarlett Johansson Black Widow, al secolo Natasha Romanoff, è un romanzo di formazione cinematografica, perfino esistenziale: “Certamente oggi ho meno paura di quanto non ne avessi dieci anni fa. Ma solo se parliamo di paure non fisiche”.

La prima volta che ha incarnato la creatura Marvel è stato nel 2010 con Iron Man 2, e due lustri più tardi qualche recriminazione c’è: “Anche se è stato divertente, il mio personaggio era fortemente sessualizzato. Come se la Vedova Nera fosse un pezzo di qualcosa, qualcosa da possedere”, ha dichiarato qualche giorno fa a Collider, mettendo spalle al muro Tony Stark, interpretato da Robert Downey Jr: “A un certo punto la chiama ‘pezzo di carne’ e forse in quel momento sembrava un complimento”.

Johansson ha servito Black Widow in altri sei film: The Avengers, Captain America: The Winter Soldier, Avengers: Age of Ultron, Captain America: Civil War, Avengers: Infinity War e infine Avengers: Endgame, in cui si sacrifica per sventare la minaccia planetaria di Thanos: “Sapevamo già quale sarebbe stato il finale per Natasha. Volevamo assicurarci che fosse una scelta responsabile. Abbiamo dovuto lavorare a ritroso in modo che arrivasse in un posto dove fosse possibile: qui doveva risolvere i traumi del passato ed evolversi”.

Dal 7 luglio in sala e dal 9 luglio in streaming su Disney+ con Accesso Vip, Black Widow è la sua prima avventura in solitaria: “All’inizio è davvero sola per la prima volta. È sempre stata parte di qualcosa che a sua volta era parte di un tutto più grande… ora è fuori gioco e si rende conto di avere infinite possibilità davanti ed è davvero soffocante. Poi viene presa alla sprovvista da questa persona (Yelena, ndr) che viene dal suo passato, che ha un’energia folle, è pericolosa e piena di vita, e sebbene non sia bisognosa ha bisogno di lei. È così sconvolta dal gioco, ed è fantastico vederla così: non capiterà più”.

Le vicende narrate si collocano subito dopo Civil War, allorché Natasha infrange gli Accordi di Sokovia e gli Avengers si sciolgono. La ritroviamo intenta a fuggire dal Segretario di Stato Ross e abbandonare il suolo americano: nel cast Florence Pugh quale Yelena, David Harbour alias Alexei/The Red Guardian e Rachel Weisz per Melina, il formato è famiglia, la Stanza Rossa, la Guerra Fredda riscaldata, il piano più complottista che cartesiano e la violenza di genere, supereroico e femminile insieme.

Black Widow è il primo film della Fase quattro dell’Universo cinematografico Marvel (Mcu), dirige Cate Shortland, produce il dominus Kevin Feige: “L’idea di esplorare il passato, il presente e il futuro dell’Mcu è sicuramente nelle carte di tutti i nostri personaggi”. Per ora “scopriamo capitoli della storia di Natasha di cui gli spettatori non hanno la benché minima cognizione: ne esploriamo la famiglia, gli amori e le passioni”, promette la regista, e Scarlett non batte ciglio: “Rispetto a Iron Man 2, sono decisamente più a mio agio nel prendere rischi, nel saltare verso l’ignoto e vedere che succede”. Non solo i rischi, Scarlett deve accettare pure gli scherzi: chi non ricorda l’iconica posa della Vedova, accovacciata, sguardo indomito e capelli al vento? “Ho passato dieci anni a costruirla con un tale impegno e in pochi secondi Yelena l’ha distrutta!”. Nondimeno, l’amore per Marvel non si discute: “Tutti noi abbiamo fatto parte di grandi produzioni prima, ma Marvel è famiglia, un posto unico, caldo e invitante”. Pensavamo fosse amore e invece erano i 15 milioni di dollari ricevuti da Scarlett Johansson per Black Widow? Chissà.

“Le confidenze di Tognazzi, Monicelli con lo spazzolino e la timidezza di Haber”

Anno 1975, la strada giusta la traccia Ugo Tognazzi: “La prima volta che ci siamo conosciuti mi prese subito da parte e con una confidenza inaspettata mi raccontò una vicenda personale e in teoria indicibile, un qualcosa che forse uno potrebbe confessare solo a un amico. Dopo aver terminato questa confessione capii che si aspettava lo stesso da me, cercava una dichiarazione di debolezza”. E lei? “Di sfighe, di cadute e guai già ne possedevo un menu ricchissimo, quindi fu semplice ‘l’anch’io’. Questa tecnica di conoscersi attraverso una dichiarazione di debolezza è di un’efficacia assoluta, si diventa immediatamente amici. Da allora l’ho adottata”.

Da allora Pupi Avati è uscito dalle tenebre dell’insuccesso, per diventare uno dei registi da Gotha, da traguardo per l’attore in cerca di un curriculum di livello: è uno dei pochi che ancora insegna cinema, spiega la parte, le intonazioni; lui, a 82 anni, si gode questo ruolo, è talmente solido da poter ribaltare il gioco attraverso l’autoironia e la memoria, è una sorta di Cassazione della storia del lungometraggio. E oltre a girare lo Stivale e il mondo per incontri, conferenze e premi da ricevere (il 26 giugno è a Benevento per un riconoscimento alla carriera), già pensa al prossimo film, dedicato a Dante.

Per gli stessi attori, sul set è un maestro di cinema.

In realtà punto sugli aspetti umani.

Psicologo.

È fondamentale, ed è necessario essere pronto a cambiare ruolo a seconda della situazione: quindi divento parroco, medico, papà, nonno, fratello maggiore, o qualunque altra trasposizione necessaria per permettere all’interlocutore di fidarsi. E immediatamente. Come dicevo prima, me lo ha insegnato Tognazzi; (ci pensa) al nostro primo incontro mi trovavo nella situazione più difficile: ero reduce da due film disastrosi, due film sessantottini tipici del tempo, quando si portava sullo schermo una prosopopea che andava contro il cinema stesso e il suo pubblico.

Quindi?

Ugo intervenne nella mia vita con modalità miracolistiche; credo ai miracoli, quindi si avverano, chi non crede è evidente che non li merita.

Lineare.

Questo può apparire anche un discorso sgradevole; insomma, in quel momento Tognazzi era l’attore più quotato, io il peggior regista, quindi il dialogo era decisamente sbilanciato, eppure decise di girare con me La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone ; (ci pensa) quell’incontro era nella sua casa al mare, dove organizzava il torneo di tennis, ed ero emozionato, con un po’ di tremolio.

E lì la confidenza.

Riguardava la sfera sentimental-sessuale. La sera precedente aveva avuto un problema con una ragazza.

Disarmato.

Esatto, e da allora capisco bene la paura di un attore che si presenta sul set e ha davanti ottanta persone che lo guardano con aria scoglionata, senza il desiderio di stare lì, mentre lui deve dare il meglio in un lasso di tempo brevissimo.

Accorsi ha raccontato il suo primo provino, era con lei, emozionato…

Alla fine della giornata dovevo scegliere tra due ragazzi; lo chiamai: “Uno è stato migliore dell’altro. Tu non sei il migliore”.

Perché lo prese?

Era simpaticissimo, con una grande carica, e poi la sua fidanzata del tempo mi ha pressato in maniera mortale; (pausa) quando Stefano racconta l’episodio parla sempre della madre, ma non è vero, fu la ragazza: cercò ogni chiave seduttiva, fino a dirmi che avrei dato una chance a un ragazzo che altrimenti si sarebbe suicidato.

Leggerissima.

Non le credetti, però mi parlava di una vita complicata che si sarebbe potuta risolvere con quel ruolo; ecco, quando ti coinvolgono in questioni così personali, è difficile distrarsi, e poi Stefano si presentava con lo spirito di chi si aspetta un grande risultato. È l’atteggiamento giusto.

Altrimenti.

Non sopporto chi ha sul viso la sconfitta, magari entra nel tuo ufficio con lo sguardo obliquo e nell’animo la convinzione che vanno avanti solo i raccomandati: questa categoria di persone non vede l’ora di ottenere un “no” per avvalorare la propria visione negativa del mondo, dove vince chi va a letto con il produttore, e crearsi un alibi per non impegnarsi più di tanto.

I facilitati esistono.

Certo, ma le persone che alla fine ce la fanno, non sono quelle lì: chi utilizza la scorciatoia dura poco; (ci pensa) uno deve sempre sentirsi inadempiente rispetto alla vita.

Anche lei?

Avrei potuto impegnarmi di più, ho la sensazione di non aver ancora girato il film della mia vita, ed è qui che trovo la forza per continuare.

Ne ha molti nel curriculum.

Ci sono registi più prolifici; (sorride) a Roma, Monicelli abitava sopra di me e l’ultima volta che l’ho incontrato è stato per caso mentre usciva da una farmacia con uno spazzolino da denti in mano. Lo fermo, e senza salutarlo esordisco: “Scusa Mario, quanti ne hai girati?” E lui, prontissimo: “65”. “Non ti raggiungerò mai”. A quel punto ho visto una luce di gioia nei suoi occhi da anziano.

A quanti film è?

54, non lo raggiungo. E oltre alla qualità conta pure la quantità: il numero testimonia il trasmigrare attraverso le stagioni del cinema, restando sempre in piedi; un tempo i miei colleghi erano Blasetti, De Sica e Antonioni, oggi ci sono i D’Innocenzo ed Emma Dante.

È un giudizio di qualità?

No, parlo di anagrafe.

Su Sette Chiara Rapacini, vedova di Monicelli, racconta delle riunioni casalinghe tra suo marito e i grandi sceneggiatori. Lei con chi si confronta?

Age, Scarpelli, Benvenuti e altri? Non li frequentavo: del mondo cinematografico derogavo solo per Fellini, poi Mario in quanto vicino di casa, e qualche volta Scola.

Come mai?

Mi tenevo fuori perché erano fortemente seducenti; grazie a Laura Betti entrai nel clima delle terrazze romane, dove trovavi Pasolini, Bellocchio, Siciliano, Moravia: li ascoltavo, ingurgitavo tutto quello che potevo, poi il giorno dopo ripetevo pappagallescamente i loro concetti. Mi spersonalizzavo. Per questo ho chiuso; (ci pensa) da sempre sono spugnoso, ricettivo, mi innamoro facilmente delle persone e delle situazioni, e subito voglio diventare altro. Sono un po’ Zelig, ed è un pericolo per un autore, perché una volta uno vuole girare alla Fellini, l’altra alla Visconti.

Si è emarginato.

Ne ho giovato, aiutato pure dalla mia non appartenenza politica ad alcuno schieramento, se non a un mondo cristiano, e non mi sono avvantaggiato dei gruppi o delle famiglie.

Fellini era molto affascinato dall’esoterismo.

Anche io da ragazzo, perché come Federico provengo da una cultura contadina: l’idea di andare oltre è nella nostra storia, con una matrice religiosa pre-conciliare, dove tutto era concesso.

Torniamo agli attori: per Voglino sono fragilissimi.

Bruno ha ragione, e lui è stato uno dei migliori talent-scout dello show business italiano. I grandi artisti con i quali ho lavorato sono persone profondamente timide; la timidezza è una delle opportunità per diventare un osservatore dell’esistenza altrui, mentre gli estroversi, quelli che alle feste dominano, rimorchiano, raccontano barzellette, si risolvono nella vita e dalla vita non raccolgono quasi niente.

Lei?

Come uno che nelle serate si piazza in un angolo, osserva, terrorizzato che qualcuno lo interroghi; i migliori attori sono timidi o ex timidi, in grado di attraversare la scuola del dolore: nel pugilato chi perde può raccontare il match, perché ci ha pensato, rimuginato, analizzato e sofferto.

Nel cinema?

Sono i film d’insuccesso che ti permettono di crescere.

Come Il ragazzo d’oro.

Quella pellicola mi ha esposto a recensioni di una violenza pure personale, e ho patito sia a livello artistico che finanziario.

Il suo attore preferito è Haber: timido?

È il più bravo, e copre la timidezza con una finta arroganza; ne Il signor Diavolo ha combinato qualcosa di sbagliato, e l’ho redarguito davanti alla troupe. Il suo sguardo mortificato raccontava un’altra realtà, ed è la sua bellezza: con lui è tutto finto quel che appare. E sul set porta la verità.

Nei fatti?

Se uno ha degli attori non in grado di offrire il meglio di se stessi, basta inserire Alessandro e tutto diventa vero. Anche Tognazzi era così: entrava in una scena ed era come un coro di montagna, che permetteva agli altri di intonarsi insieme a lui.

Associa Tognazzi a Haber.

Nei momenti di intimità non vedono l’ora di aprirsi, come i bimbi con la madre; Ugo, durante le riprese di Ultimo minuto, reagì male a una mia indicazione, come se io fossi un regista qualunque, così lo presi da parte. Una volta a casa disse a tutti che l’avevo rimproverato. E Ricky, anni dopo, mi ha rivelato: “Era abbattuto, sosteneva di essere stato sgridato”.

Tra i cinque colonnelli del cinema, il suo preferito.

Alberto Sordi ha offerto le prove maggiori, però Ugo è stato il più coraggioso, si è lanciato in film spericolati; gli altri si sono più cautelati.

Per Fabio De Luigi è autoironico e cinico.

Ammettere i propri errori e utilizzare l’autoironia è fondamentale per un leader; il cinema deve restare un gioco e noi coscienti del privilegio: quando la mattina saluto mia moglie e le dico “vado a lavorare”, lei deve ridere.

Un gioco molto serio.

Appaghiamo l’egotismo, e come diceva Lucio (Dalla) “la necessità di essere amati” che è un segno di infantilismo perenne.

Cesare Cremonini l’ha definita “straordinario e un po’ bugiardo, come Dalla”.

Nella vita è fondamentale mentirsi: se la mattina, quando mi alzo, dovessi fermarmi davanti all’immagine da vecchio riflessa nello specchio, è evidente che non andrei sul set. Invece uno si racconta quello che non è, e poi si affida all’auto-illusione che il film che stai girando metterà in discussione la storia del cinema mondiale; (ci pensa) oramai si è rinunciato all’ambizione, non ci sono più persone che ti dicono “questa volta prendiamo l’Oscar”.

Ci è andato vicino.

Con Il testimone dello sposo siamo arrivati nella cinquina del Golden Globe e a Los Angeles mi avevano annunciato la vittoria: al momento della proclamazione del miglior film straniero, mi sono alzato, mi sono mosso, e nel frattempo sentivo nominare il titolo di un altro.

Sensazione terribile.

Agghiacciante. La notte mi sono trovato a passeggiare con mio fratello per le strade della città augurandomi di finire sotto un camion.

Nonostante la riapertura, gli incassi al cinema sono oltre il drammatico.

Si è persa l’abitudine, eppure i film italiani sono tornati di qualità: abbiamo superato il periodo terribile delle commedie, dove per dieci anni hanno recitato gli stessi attori, gli stessi registi e i soliti intrecci; per fortuna Lei mi parla ancora è uscito sulla piattaforma e con risultati straordinari: quasi un milione di spettatori.

Le serie tv le piacciono?

Non molto, però grazie a loro si lavora tanto: oggi è complicato trovare un direttore della fotografia o un parrucchiere. Il problema è per gli esercenti (pausa). In un contratto che sto per firmare ho inserito la clausola che il film possa uscire bypassando i cinema.

La Sandrelli si è lamentata per le poche inquadrature in Lei mi parla ancora.

È un suo rammarico, e ha ragione, ma il film si fonda sulla morte di lei: se non moriva come cazzo facevo a raccontare la storia?

Serena Grandi si ritiene la sua musa.

Donna buonissima, punita dalla vita come accade alle persone troppo generose che hanno vissuto un successo dovuto all’avvenenza. È un problema che capita con le attrici.

Si riferisce alla Antonelli?

Sì, ma non solo a lei.

Di chi avverte l’assenza?

Di me stesso: non so pensare alla mia di assenza, e non perché mi ritenga necessario, ma perché so che nel momento in cui non ci sarò, causerò un dolore infinito alle poche persone che mi sono vicine.

Chi è lei?

L’alternativo; di tutti i film che ho girato il titolo in cui mi rispecchio di più è Il cuore altrove, perché sono veramente e volutamente alternativo: ho sempre cercato di stare da una parte che fosse solo mia.

Emilia-Romagna, i Comuni vanno all’assalto dei castelli

In Italia possediamo 40mila fra torri, rocche e castelli e li vorremmo tenere lì intatti? Ma “spettacolarizziamolo” questo immenso patrimonio per lo più seminato in tanti piccoli borghi, magari con ricostruzioni penose, fantocci di pezza colorata, fuochi finti e ciaffi vari, oppure giochi d’acqua e nebbie artificiali e naturalmente parcheggi per auto e pullman. Cosa stiamo a fare imbranati con le mani in mano?

A Torrechiara, vicino a Parma, Comune di Langhirano famoso per il prosciutto, uno dei più poderosi e monumentali castelli d’Italia di fine 400, preziosamente affrescato, tutelato insieme al paesaggio circostante dai Beni Culturali, la Giunta civica ha presentato numerose varianti ai Piani esistenti per far costruire abitazioni ai privati approfittando del fatto che la Regione sta elaborando una nuova legge urbanistica (la prima, pessima e favorevole ai privati, è stata, se ben ricordo, sonoramente bocciata). L’assessore regionale eletto nel febbraio 2020, Raffaele Donini, aveva scritto con chiarezza che non si poteva costruire nuova edilizia residenziale, ma soltanto completare quanto già costruito (comunque uno sfregio al Castello) prima del gennaio 2018.

Il Comune – protestano i comitati e le associazioni di cittadini costituitesi nel frattempo – presenta dunque varianti che vanno contro la legge. E per questo hanno presentato un esposto documentato a Provincia, Regione e Comune firmati da un esperto in campo urbanistico, l’avvocato Federico Gualandi. Il Comune va avanti lo stesso col nuovo assessore Barbara Lori sostenendo che la Regione riesce nell’acrobatico intento di dimostrare che non può obbligare i Comuni… a rispettare la legge. Piuttosto vaga e attendista almeno per ora, secondo chi protesta, la posizione della Soprintendenza. L’unica voce ufficiale di vero dissenso è risultata quella dell’Azienda Regionale per l’Ambiente (Arpae) che ha bocciato la delibera per il consumo di suolo e però il funzionario responsabile è scomparso sostituito da un altro invece, oibò, favorevole. Nel consiglio comunale del 15 maggio 2021 si sono approvati i parcheggi attorno a Villa Peroni che rientra nella tutela di Torrechiara. Di più: il PDC (permesso di costruire) è stato sottratto al processo democratico adozioni-osservazioni-approvazioni. Chi può fermare questa deriva cementizia in uno dei più bei Castelli rinascimentali d’Italia, atto d’amore di Pier Maria Rossi per Bianca Pellegrini, iniziato nel 1464 sotto la protezione (meno male) della Madonna? Ovviamente il soprintendente Corrado Azzolini sin qui silenzioso. Probabilmente aspetta i progetti. Auguriamocelo.

Ma in Emilia-Romagna c’è un altro grande castello ridicolizzato dalle pretese di spettacolarizzazione ed è Castel Sismondo di Rimini, opera ormai certa di un grande, Filippo Brunelleschi, per Sigismondo Pandolfo Malatesta. Gli stessi storici dell’arte locali che condussero coraggiosamente la battaglia per il restauro (alla fine quasi filologico) del bel Teatro Comunale “A. Galli” semidistrutto dai bombardamenti, Gianni Rimondini e Angelo Giovagnoli, hanno promosso una polemica raccolta di firme per dare a Castel Sismondo la dignità e l’integrità che aveva.

Essi denunciano che il sindaco, Andrea Gnassi, “dopo aver degradato il castello a contenitore di un mucchio di ciaffi felliniani” ora sta cercando soldi dagli imprenditori per erigere davanti al maniero “una sagoma del transatlantico Rex di altezza superiore alle prime mura del Castello”. La sagra del cattivo gusto che Federico detestava continua con l’installazione nell’antico fossato di un macchinario idraulico che solleva nebbie artificiali e pareti d’acqua sulle quali proiettare i film felliniani.

Rimondini e Giovagnoli fanno appello ai consiglieri di maggioranza perché votino contro la manomissione di Castel Sismondo, alle associazioni per la tutela fin qui silenti anche quando sono stati abbattuti i platani centenari di piazza Malatesta oggi cementata e salvino il platano bicentenario dal quale in Amarcord lo zio Matteo gridava ossessivamente: “Voglio una donnaaaaa!”. Si appellano a Italia Nostra, al FAI, agli intellettuali riminesi, alcuni di fama nazionale, fin qui silenziosi, “a spendersi per Rimini”.

I monumentali Castelli di Torrechiara (Parma) e Castel Sismondo (Rimini) sono due formidabili emblemi del nostro primo Rinascimento. Possibile che debbano essere sviliti a residenza privata, a parcheggio, a fondale per spettacoli di bassa lega, a una desolante e volgare spettacolarizzazione?

Dimensioni, colori e forme: la sostanza compone l’ironia

“Quando si tratta di rossetto, la cosa importante non è il colore, ma accettare la decisione di Dio su dove finiscono le tue labbra”. Jerry Seinfeld

 

ELEMENTI DI SEMIOTICA DELL’ARTE VISIVA

Continuiamo a esplorare alcuni aspetti della comunicazione visiva che sono preziosi per il sabotaggio divertente dell’immaginario.

Unità cromatiche

Le unità cromatiche si articolano in tre cromemi: dominanza (blu, rosso, &c.), saturazione, e luminosità. I cromemi non hanno assi semantici, ma assi simbolici. Il significato psicologico della dominanza è soggettivo, quello della saturazione e della luminosità è comune a tutti (felicità, ostentazione, energia, eleganza, calore).

Unità texturali

La texture è una proprietà della superficie, come il colore. I suoi elementi microtopografici sono disposti in maniera aleatoria, ma se danno origine a una forma, assumono un’orientazione. I parametri texturali (texturemi) riguardano gli elementi ripetuti e la regola della ripetizione. Le unità texturali sono descrivibili in base a supporto, materia, e maniera. Supporto e materia sono distinti, nella pittura; coincidono invece nella scultura e nelle immagini tv. La ripetizione è il prodotto del supporto e del gesto (la maniera). I segni texturali sono tridimensionali: direttamente (la grana) o indirettamente (le macule); i tratteggi sono macule con effetto direzionale. L’asse simbolico che corrisponde ai texturemi è temporale: nelle lezioni al Bauhaus, Klee chiama la texture “movimento della superficie fondamentale”, e suggerisce che il suo significato è il passaggio del tempo. L’action painting di Pollock ci mostra innanzitutto questo: non lo spazio, ma il tempo. Anche il collage è innanzittutto texture, cioè tempo.

 

Il codice plastico

Il codice plastico si fonda su opposizioni strutturali relative a forma, colore, texture (alto/basso, chiuso/aperto, semplice/composto, centrale/periferico, chiaro/scuro, liscio/granuloso, &c.). Tutte le suddivisioni di un’entità plastica hanno natura contrastiva. La percezione visiva agisce per accentuare le somiglianze e i contrasti; e per distinguere figura, sfondo, contorni, bordi (Gruppo di Liegi, 1992).

Interazione dei formanti

Nel codice figurativo, pittura e scultura sono mimetiche, cioè rappresentano oggetti della realtà. Nel codice plastico, pittura e scultura sono non mimetiche, cioè il loro significato prescinde dalla rappresentazione. Le unità del significato figurativo (formanti figurativi) e quelle del significato plastico (formanti plastici) interagiscono, determinando il gradiente iconicità/astrazione (Greimas, 1984). Il valore semantico dei formanti plastici (per esempio, le dimensioni, le forme, i colori, le texture) si fonda sull’opposizione di categorie topologiche (l’organizzazione spaziale: alto/basso, sinistra/destra, centrale/periferico, circoscrivente/circoscritto, &c.); eidetiche (l’organizzazione delle linee, delle geometrie e dei contorni); cromatiche (l’organizzazione delle tinte, della saturazione e della luminosità); texturali (l’organizzazione dei materiali e dei loro effetti tattili) (Gruppo di Liegi,1992). Il contenuto dei formanti figurativi e plastici fa tanto più clamore quanto più riesce ad attivare logiche, archetipi, simboli e sistemi delle strutture dell’immaginario (li vedremo in una prossima puntata): così, per esempio, l’immagine di una parrucca che galleggia sull’acqua ci turba, anche se non sappiamo che ha evocato in noi il sangue mestruale. Un artista lascia il segno quando scova analogie suggestive come questa, o come quella bianco = orrore del Moby Dick di Melville; magari sovradeterminando l’immagine, come fa Fellini mettendo Anita Ekberg (simbolo della femminilità) dentro una fontana (simbolo della femminilità).

Quanto all’enunciazione dell’opera, le marche (indicatori o tracce della produzione dell’opera) possono essere soggettivate (per esempio, il volto visto di fronte equivale a “io-qui-ora”) oppure oggettivate (per esempio, il profilo equivale a “egli- altrove-allora”). Altre marche: la prospettiva (nella cultura russa, la prospettiva rovesciata indica il soggetto “Dio”, che guarda il mondo dallo sfondo; in occidente, il punto di fuga prospettico indica “oggettività”); l’ombra; la firma. In un dipinto figurativo, vanno considerati i vari elementi dell’azione rappresentata (la scena, l’epoca, i personaggi) e lo schema astratto (la suddivisione degli spazi) che struttura la scena dipinta: tale schema può rivelare correlazioni di natura allegorica fra gli elementi raffigurati, e suggerire contenuti altrimenti non rilevabili dall’analisi. Al significato di un dipinto, infine, contribuiscono vari aspetti della forma del significante:

la superficie (il “movimento della superficie fondamentale” di Klee);

la cornice (dal XIV secolo, la cornice delimita lo spazio pittorico: è un’isotopia, di cui sono uno scarto significativo le cornici di forma e/o disposizione spaziale irregolare; quelle su cui prosegue il dipinto; le anti-cornici di Magritte, che mettono in discussione la concezione illusionistica dell’immagine usandone lo stesso codice iconico; le cornici che seguono il profilo degli oggetti rappresentati; le cornici vuote; la cornice incollata sopra la tela in Jasper Johns);

il contorno (una linea sottile conferisce delicatezza; un contorno ispessito, o l’assenza di contorno, danno enfasi, come nelle illustrazioni di Gruau);

l’organizzazione spaziale (in ogni sociocultura, il campo pittorico attribuisce valori simbolici a quelli topologici: alto/basso, destra/sinistra/centro, primo piano/sfondo, &c.);

le dimensioni (grande e piccolo hanno un valore simbolico, che l’artista può confermare, oppure irridere, come fa Oldenburg con il suo “Hamburger gigante”). “Ogni uomo si interroga sulle dimensioni del suo pene. Sei da solo, a letto, di notte, e pensi: “Ho un pene piccolo, o delle palle gigantesche?” (Dave Attell)

(60. Continua)

Regionali: Macron teme la botta, Le Pen favorita

È l’ultimo test elettorale prima delle Presidenziali del 2022, tra meno di un anno. Oggi 47,7 milioni di francesi sono chiamati alle urne per eleggere i presidenti di regione e i consiglieri dei dipartimenti. I sondaggi dicono che il partito di estrema destra di Marine Le Pen, il Rassemblement national (RN), è in vantaggio in sei regioni su tredici. Potrebbe arrivare in testa al primo turno tra l’altro anche in Borgogna, Aquitania, Bretagna e soprattutto in Provenza-Costa Azzurra. Qui il suo candidato, Thierry Mariani, ex ministro di Sarkozy, raccoglie il 41% delle intenzioni di voto ed è dato vincitore anche al ballottaggio.

In chiusura di campagna, la stessa Marine Le Pen, che si mostra più moderata e liberale, è andata a sostenerlo a Tolone. Lo spettro dell’ultradestra aleggia dunque sullo scrutinio. L’esito al ballottaggio (il 27 giugno) dipenderà dalle alleanze tra i partiti. Macron, che si pone come sola alternativa all’estrema destra, ha schierato diversi ministri, ha compiuto un “tour de France” per tastare l’umore dei francesi (di cui però si ricorda solo lo schiaffo ricevuto da un simpatizzante dell’estrema destra), ha distribuito pillole di buon umore, abolendo la mascherina all’aperto e anticipando la fine del coprifuoco, incassa la simpatia dei giovani usando con astuzia i social, ma i sondaggi non gli sono favorevoli: dopo i risultati catastrofici delle Municipali di un anno fa, in piena emergenza sanitaria, il suo partito LaRem rischia una nuova débâcle. Dall’Eliseo si minimizza lo scrutinio: “Non tirerò conclusioni a livello nazionale da queste elezioni locali”, ha assicurato Macron. Pure se i suoi ministri saranno bocciati, non ci dovrebbero essere rimpasti di governo. I due “pesi massimi” schierati nella regione Hauts-de-France, i responsabili della Giustizia e dell’Interno, Éric Dupont-Moretti e Gérard Darmanin, non superano il 10-15% delle intenzioni di voto. Ma la sfida nel nord della Francia è di peso: il favorito è Xavier Bertrand, presidente di regione uscente della destra Les Républicains (LR), e soprattutto candidato già dichiarato per l’Eliseo e che nel 2022 vorrebbe giocare da terzo uomo mentre si anticipa un nuovo duello Macron-Le Pen. In Hauts-de-France, Bertrand (34%) è tallonato dal candidato RN Sébastien Chenu (32%).

La sola speranza di Macron sembra essere Marc Fesneau, centrista del Modem, partito alleato di LaRem, e ministro delle Relazioni con il Parlamento, candidato nella Valle della Loira, dove al primo turno però è dato favorito Aleksandar Nikolic del RN: Fesneau potrebbe vincere al ballottaggio in un’alleanza con LR. In Île-de-France, la regione di Parigi, la favorita è Valérie Pécresse, candidata di destra al secondo mandato (34%). La gauche, che arriva divisa, senza candidati forti, incapace di rinnovarsi, potrebbe essere ancora sanzionata.

Raisi presidente, ma per Amnesty è un criminale da processare

È un presidente a metà quello emerso dalle urne iraniane. Ma ciò non significa che Ebrahim Raisi si tratterrà dal mettere in pratica i voleri del proprio mentore, Ali Khamenei, la spietata guida suprema della Repubblica islamica sciita. Il magistrato ultraconservatore Raisi è risultato il vincitore delle consultazioni presidenziali a cui ha partecipato però solo il 48,8% dei 59 milioni di iraniani aventi diritto. Si tratta della percentuale più bassa dalla nascita della Repubblica teocratica in seguito alla rivoluzione khomeinista del 1978. Ebrahim Raisi, che ha guidato la sanguinosa repressione delle manifestazioni del 2019 conclusasi con almeno mille morti e migliaia di arresti, intanto è già entrato nel Guinness dei primati. È infatti il primo presidente a entrare in carica con un corredo di sanzioni. È stato infatti sanzionato dal governo degli Stati Uniti per il suo coinvolgimento in un’esecuzione di massa di prigionieri politici quasi tre decenni fa. Amnesty international e Human rights watch (Hrw) vogliono un’inchiesta su di lui per crimini contro l’umanità.

La sua elezione tuttavia non dovrebbe inficiare le trattative in corso per il rientro degli Stati Uniti nell’accordo sul nucleare del 2015 dopo la fuoriuscita voluta 4 anni fa dall’ex presidente Trump. È prevedibile che Raisi non sarà disposto ad accordare agli Stati Uniti tutto ciò che chiedono per tornare a far parte dei Paesi membri dell’accordo. Tra le richieste ci sono lo stop al sostegno dei gruppi estremisti nella regione come, ad esempio, gli Hezbollah libanesi e gli Houthi nello Yemen e l’inclusione nell’accordo del programma sui missili balistici e sulle armi convenzionali, finora disgiunti dal trattato sul nucleare. Dopo il ritiro statunitense, l’Iran negli ultimi due anni ha aumentato l’arricchimento dell’uranio. Il Segretario di Stato americano, Antony Blinken, ha avvertito che, “a meno che non venga controllato il ritmo delle violazioni dell’accordo nucleare iraniano, potrebbe ridursi a una questione di settimane il tempo necessario al paese per realizzare un’arma nucleare”. Il capo negoziatore iraniano sul nucleare, Abbas Araqchi, ha detto in un’intervista televisiva che “buoni e tangibili progressi” sono stati compiuti a Vienna, ma si è ben guardato dal dire che un accordo sia imminente. Secondo il New York Times, l’accordo potrebbe essere firmato dal governo uscente, per scaricare sui moderati eventuali fallimenti.

Snowden, otto anni dopo. La vita anonima a Mosca

“Otto anni fa, è iniziata la mia vita”. Comincia così il bilancio dell’esistenza di Edward Snowden, otto anni dopo la sua scelta di rivelare i programmi di sorveglianza della National Security Agency (Nsa), la più potente e tecnologicamente sofisticata agenzia di intelligence al mondo, capace di intercettare le conversazioni telefoniche e via Internet dell’intero pianeta. Un leviatano grande tre volte la Cia, capace di assorbire da sola un terzo del budget che gli Stati Uniti riservano all’intelligence e che nel 2020 è stato di 85,8 miliardi di dollari.

A fare un bilancio è Snowden stesso, che ormai vive in esilio in Russia da quel 23 giugno 2013 in cui atterrò all’aeroporto Sheremetyevo di Mosca, mentre era in volo da Hong Kong verso l’Ecuador di Rafael Correa. Subito dopo le sue rivelazioni, infatti, gli Stati Uniti lo avevano immediatamente incriminato con l’Espionage Act, una draconiana legge del 1917 che non fa alcuna distinzione tra le spie che passano documenti segreti al nemico e i whistleblower che li passano alla stampa per denunciare crimini di guerra, torture, sistemi orwelliani di sorveglianza. È la stessa legge per cui oggi il fondatore di WikiLeaks, Julian Assange, rischia 175 anni di prigione. Mosca non era nei piani di Snowden: fu l’Amministrazione Obama a intrappolarlo lì, dopo aver cancellato il suo passaporto. I critici della Russia avevano previsto per lui una vita miserabile. La giornalista Julia Ioffe presagì che sarebbe diventato uno strumento della propaganda di Vladimir Putin, forse con uno show sulla tv Russia Today e una moglie russa. “Snowden si siederà nella sua piccola cucina moscovita, bevendo Nescafè mentre Svetlana cucina qualcosa di unto e insapore, e lui siederà a fissare il suo caffè nero istantaneo, odiandola”, scriveva Ioffe. Facendole eco, la sovietologa Anna Zafesova, sul quotidiano La Stampa, evocò la fine di spie come l’inglese Kim Philby, che tradito il loro paese, erano finite in Russia a condurre una vita squallida e all’insegna dell’alcolismo. E poco importa che la scelta di Snowden non avesse nulla a che fare con quella di Philby, come dimostrano le ripetute sentenze delle corti federali americane e della Corte dei Diritti dell’Uomo, che gli hanno dato ragione sulla sorveglianza di massa. Ma in ogni caso l’ex contractor della Nsa non è affatto sprofondato in un’esistenza miserevole. Della sua quotidianità, sappiamo poco per ovvie ragioni di sicurezza, ma qualche dato oggettivo ce l’abbiamo. Nessuno show su Russia Today.

L’utilità di Snowden per la propaganda russa sembra essere nulla, se non il messaggio al mondo che l’Occidente libero predica bene quando si tratta di libertà di stampa, ma poi razzola molto male. Gli Stati Uniti hanno tenuto in galera per otto anni una delle più grandi fonti giornalistiche di tutti i tempi, Chelsea Manning, la fonte di WikiLeaks, portandola tre volte sull’orlo del suicidio. Hanno costretto Snowden all’esilio per non fare la sua fine. E quanto a Julian Assange, da quando nel 2010 ha rivelato i crimini di guerra e le torture della War on Terror, non ha più conosciuto la libertà. Snowden non ha sposato nessuna Svetlana. Si è unito in matrimonio alla sua fidanzata storica, l’americana Lindsay Mills, che si è trasferita a Mosca e sei mesi fa hanno avuto un bambino. La scorsa settimana ha iniziato a pubblicare sulla piattaforma Substack, dove ormai stanno migrando grandi firme del giornalismo. Né dipende economicamente dal Cremlino. Nell’ottobre scorso, in seguito a una causa civile che gli ha intentato il governo americano, è emerso, dai documenti giudiziari, che, dal 2015 al 2020, Snowden ha incassato 1,2 milioni di dollari con le sue conferenze pubbliche. E secondo il Guardian, il governo americano ha ordinato il sequestro di 5,2 milioni di dollari che l’ex contractor ha accumulato tra discorsi pubblici e royalties del suo libro, tradotto in tutto il mondo. Le autorità Usa hanno chiesto e ottenuto il sequestro perché ritengono che, essendo un ex dipendente della Cia e della Nsa, prima di scrivere e tenere conferenze, doveva sottoporre i suoi testi alla loro revisione. Non risulta, però, che il governo Usa abbia preteso il sequestro dell’anticipo che l’editore gli ha versato per il libro e il cui importo non è pubblico. Snowden appellerà la sentenza per difendere la sua indipendenza economica? “Non ha fatto appello, perché sarebbe inutile”, ha dichiarato al Fatto Quotidiano il suo avvocato Ben Wizner, dell’American Civil Liberties Union.