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Spesso sono i giovani a insegnare agli adulti

Il direttore del Tg di La7 ha voluto riproporre il video della cabinovia precipitata, dopo che per primo il Tg3 lo aveva fatto. La prima domanda che mi faccio è se sia opportuno oppure no mandare in onda immagini di questo tipo al netto delle violazioni di legge su un’indagine in corso. Poi mi chiedo se il principio che si adotta o si sostiene valga sia per la tv privata che pubblica. Il direttore Mentana ha optato per perorare il diritto di cronaca qualunque siano le immagini a testimonianza. Non solo, ha anche ricordato che nel caso “Vermicino” lui c’era e l’ha detto con orgoglio. Stavolta la lezione l’ha presa dai giocatori della Nazionale della Danimarca che hanno fatto scudo sul proprio compagno, ragazzi giovanissimi, spesso senza istruzione elevata, ma pieni di dignità. Alle volte i giovani insegnano, ma spesso gli adulti professionisti ignorano.

Delfino Biscotti

 

Torino città “moderata”: la novità del Movimento

Caro Travaglio, condivido la sua perplessità sulla scelta di Conte di ricorrere al termine “moderati” quando parlano della rifondazione del Movimento. Sinceramente quello di “moderato” è un concetto che dal punto di vista politico non ho mai compreso bene. Mi auguro vivamente che ci si riferisca solo ai toni, quelli che magari Conte sente più consoni al suo “stile”, ma per quello che invece riguarda i valori del Movimento, e i nuovi progetti, spero che la “radicalità” possa continuare a contraddistinguerlo. Vedremo.

Enza Ferro

 

“Repubblica” è per caso passata in quota Lega?

Il 5 febbraio su Repubblica la De Gregorio disquisiva sull’uso del corpo e delle parole in politica, in un articolo “concitato” in cui sbeffeggia ad esempio Conte e il suo presentare una conferenza stampa fuori da Palazzo Chigi (aggiunge perfidamente “senza Casalino”); inoltre rimarca la differenza fra le sobrie parole usate dal Capo dello Stato nell’appello all’unità, con quelle dei politici precedenti, senza notare che quasi le stesse parole le ha pronunciate Conte quando ha chiesto in parlamento la fiducia, in un momento così drammatico. L’autorevole firma di Repubblica, che giorni prima aveva scritto un altro articolo colmo di livore nei confronti di Zingaretti, è per caso passata alla Lega?

Giancarlo Valentini

 

No, non c’è bisogno di passare alla Lega. Basta restare nella “sinistra per Salvini”, attivissima da almeno tre anni a questa parte.

m. trav.

 

AstraZeneca e i dubbi amletici degli esperti

Visti i 127.000 e oltre morti da Covid in Italia e visti certi dubbi amletici come “mascherine sì” e “mascherine no” (all’inizio della pandemia), AstraZeneca sì, AstraZeneca no (adesso). Mi chiedo: ma questi grandi esperti, membri delle commissioni tecnico-scientifiche varie, sono stati scelti perché sono competenti o perché sono agli ordini di Big Pharma e Confindustria?

Claudio Trevisan

 

DIRITTO DI REPLICA

Egregio direttore, sul Fatto Quotidiano di ieri, nell’articolo dal titolo “Calabria, i giallorosa uniti sull’imprenditrice Ventura”, firmato da Wanda Marra e Lucio Musolino, è scritto testualmente: “C’era stato poi un tentativo di chiudere su Enzo Ciconte, ma il Pd locale (rappresentato da figure come Oliverio, Nicola Adamo, Enza Bruno Bossio) non ha mai voluto appoggiarlo”. Per quanto mi riguarda desidero precisare che il Pd locale è rappresentato dal commissario regionale Stefano Graziano e che il sottoscritto, almeno da un anno e mezzo, non è mai stato coinvolto e consultato da nessun dirigente nazionale e regionale sulle proposte per la candidatura a presidente della Calabria. Personalmente, conosco molto bene Enzo Ciconte e nei suoi confronti ho sempre nutrito stima e apprezzamento.

Mario Oliverio, già presidente della Regione Calabria

 

I NOSTRI ERRORI

In merito all’articolo pubblicato ieri e intitolato “Palamara: ‘Ho sbagliato a parlare di Ielo con Lotti’”, dobbiamo correggere due imprecisioni. È vero, come abbiamo scritto, che il pm Stefano Fava durante l’udienza a Perugia citata nell’articolo ha spiegato che il suo esposto al Csm riguardava esclusivamente l’ex procuratore Giuseppe Pignatone, ma non si è trattato di una “precisazione”, piuttosto della conferma di quanto già ribadito sin dal suo primo interrogatorio del giugno 2019. Quando Palamara riferisce di essere stato “male informato” sulle astensioni del procuratore aggiunto Paolo Ielo nei fascicoli citati nell’articolo, infine, l’ex consigliere del Csm ha espressamente escluso di essere stato informato male da Fava poiché ha spiegato che le informazioni errate erano giunte dall’esterno del suo ufficio. Ce ne scusiamo con i lettori e i diretti interessati.

Vincenzo Iurillo e Antonio Massari

È il Solstizio d’estate: in Death Valley si muore già di caldo

In Italia. L’estate è esplosa da Nord a Sud (domattina alle 5.32 avverrà il Solstizio) e la primavera fresca è ormai un ricordo. La prima metà di giugno ha registrato temperature 1-2 °C sopra media su quasi tutta la penisola, normali solo in zona ionica. Negli ultimi giorni l’anticiclone nord-africano ha mantenuto massime spesso oltre 30 °C, anche 35,1 °C domenica scorsa a Linate sotto un debole foehn, 34,5 °C ad Alghero giovedì 17, e una vampata ancor più rovente da oggi porterà i primi 40 °C dell’anno dalla Sardegna alla Puglia. Correnti umide da Sud-Ovest hanno aumentato l’afa e la tendenza a temporali. Con gli acquazzoni in quota sulle Alpi è cominciata la stagione delle piene torrentizie improvvise e localizzate, quasi imprevedibili, e perciò molto pericolose: nella notte tra giovedì e venerdì nubifragio nelle valli Isarco e Sarentino, Bolzano (69 mm di pioggia a Barbiano), strade interrotte e un’auto travolta da una colata di detriti lungo il Rio Pitscher presso Ponte Gardena, salvato l’occupante. Pressoché ogni torrente di montagna può generare tali fenomeni, teniamolo presente in questa estate di escursioni e campeggi, anche se il tuono romba lontano e sulla nostra testa non piove.

Nel mondo. Eccezionale ondata di calore nell’Ovest americano già piagato da siccità e incendi: eguagliati i record storici ai 1.300 m di Salt Lake City, Utah, e a Palm Springs, California, con 41,7 °C e 48,9 °C, inoltre 53,2 °C nella Valle della Morte, non lontano dai 54,4 °C che proprio lì, solo l’anno scorso, avevano stabilito un nuovo primato mondiale in almeno un novantennio. Le autorità invitano a un uso moderato dei condizionatori per scongiurare i black-out. Gli ultimi 12 mesi sono stati i più secchi in 125 anni di misure in California, Arizona e Utah, e il Lago Mead, il più grande invaso artificiale degli Usa, è al minimo livello dal suo riempimento nel 1935. Invece la costa pacifica del Messico e gli stati del Golfo ieri sono stati toccati rispettivamente dalle tempeste tropicali “Dolores” e “Claudette”. Molto caldo pure in Europa con 34,8 °C a Rostock, sulla riva tedesca del Baltico (record per la seconda decade di giugno), ma anche nubifragi con venti tempestosi e allagamenti dalla Spagna, alla Francia, all’Olanda. Alluvioni in Crimea, in Vietnam e Laos al passaggio del tifone “Koguma”, nonché in Nepal e Bhutan, qui con almeno una quindicina di vittime. La Noaa segnala che, nonostante il freddo tardivo in Europa, maggio nel mondo e la primavera boreale 2021 sono stati il sesto e l’ottava più caldi nella serie dal 1880, con 0,8 e 1,1 °C sopra la media secolare. Si parla anche di protezione del clima e inversione della perdita di biodiversità nelle dichiarazioni rilasciate dal G7 in Cornovaglia, e in particolare nel Nature Compact che punta a un’economia basata sulla conservazione degli ecosistemi e non sulla loro rovina. Ma ancora una volta sarà fondamentale passare dalle parole alle azioni, replica il Wwf, e il segretario Onu Guterres si dice deluso e preoccupato dal fatto che i Paesi più ricchi dopo la pandemia abbiano continuato a sovvenzionare petrolio, carbone e gas con miliardi di dollari in più a rispetto alle fonti rinnovabili. Intanto al referendum di domenica scorsa, con 51,6% di contrari, gli svizzeri hanno respinto la nuova legge sul Co2 che tramite un rafforzamento degli incentivi all’efficienza energetica e della tassazione dei combustibili fossili – specie sui biglietti aerei – mirava a dimezzare le emissioni nazionali al 2030 rispetto ai livelli del 1990. Né i cittadini, né le imprese – entrambi a loro modo responsabili dei cambiamenti climatici – vogliono saperne di contribuire ai costi di una transizione che a lungo termine farebbe guadagnare tutti, ma che di questo passo non avverrà.

 

Gita a Tiberiade. Il lago è in tempesta, i discepoli senza fede e Gesù dorme

È sera. Gesù è davanti alla folla presso il lago di Tiberiade, uno specchio d’acqua esposto a improvvise tempeste di vento. Parla da una barca. A un certo punto dice ai suoi discepoli: “Passiamo all’altra riva“. È buio. Non sarà, però, una traversata al chiaro di luna. Il caos sopraggiunge sotto forma di acque tumultuose: d’improvviso ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena.

E Gesù? Il caos non lo turba. Anzi, se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Il contrasto tra la tempesta e la tranquillità di Gesù sul cuscino è fortissimo. Appare poi persino paradossale se paragonata alla reazione dei discepoli che lo svegliarono e gli dissero: “Maestro, non t’importa che siamo perduti?”. Marco ci offre l’unico prezioso testo evangelico nel quale si vede Gesù addormentato. Il Salvatore, il Dio con noi, dorme. E doveva essere profondo questo sonno se Gesù non si sveglia neanche per le frustate delle onde e per l’acqua che aveva invaso la barca! Che avranno fatto i discepoli per svegliarlo? I buoni e obbedienti discepoli che portano Gesù sulla barca come una statua in processione, adesso sono presi dalla paura e hanno reazioni incontrollate, aggressive e venate da vittimismo, proprio contro Gesù. Lo rimproverano. Sono delusi. Che farà Gesù davanti a una forza oscura che sconvolge il mare e i cuori? Che farà davanti allo spavento? È proprio davanti alla situazione limite e alla paura della morte che è possibile chiarirsi l’idea sull’identità vera del Maestro. Gesù si destò, minacciò il vento e disse al mare: “Taci, calmati!”. Il mare per Gesù non è solamente “mosso”: urla, grida, e si dimena come un mostro. Ma poche parole servono a Marco per farci capire che Gesù passa, senza alcun turbamento, dal riposo all’azione: minaccia il caos e si impone sugli elementi cosmici. La paura su di lui non ha effetto. Il caos non disturba il sonno. Dio è sempre padrone della situazione, anche quando dorme. Ed è così che interviene come liberatore. Così si rivela. E allora subito il vento cessò e ci fu grande bonaccia. La potenza di Dio si manifesta nel dominio immediato della confusione che ci piomba addosso all’improvviso. Dio libera dalla paura, esorcizza i mostri ammutolendoli. Non abbiamo forse bisogno di questo per vivere? Se è accompagnata dal fragore delle onde caotiche la vita non può dispiegarsi. Abbiamo bisogno di chi ci liberi da questo frastuono.

A questo punto Gesù può dire ai suoi discepoli: “Perché avete paura? Non avete ancora fede?”. Ed essi furono presi da grande timore. Gesù ammutolisce anche i discepoli per il loro modo cieco e caotico – cioè senza gli occhi della fede – di affrontare la situazione. Non deve sfuggirci il fatto che nel momento in cui Gesù li interroga sul motivo della loro paura, i discepoli sono presi da grande timore. In realtà si tratta di due sentimenti totalmente diversi. La paura qui è lo spavento, mentre il timore è un senso di ammirazione davanti a qualcosa che spiazza. I discepoli sono sconvolti da questo potere che libera dalle minacce di morte e dalla paura sottomettendo a sé il cosmo e i suoi elementi. Così si dicevano l’un l’altro: “Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?”. L’impatto della potenza di Dio, se percepita, sconvolge, disarciona, capovolge la barchetta di un’esistenza timida e incapace di tener testa al caos. Ma è tutta qui la fede, forse: il passaggio dalle nostre paure – e da una vita regolata da esse – a un senso di stupore e meraviglia che ci fa capire e sentire che possiamo fidarci di Dio.

 

Notte prima degli esami per Giorgia Meloni e Fdi

Non si può negare che la candidata Giorgia Meloni, unica donna leader della politica italiana, abbia fatto per tempo un buon numero di cose giuste, per la media della opinione pubblica che la deve giudicare, e utili per lei. Presenta una persona gradevole, un linguaggio prudente, una opposizione ben temperata (segnata persino da cordiali incontri con il leader teoricamente avversario) e si fa trovare a sostare, allo stesso tempo cauta e vivace, nei pressi della incerta opposizione italiana fra destra e sinistra, in uno strano Paese (che alla Meloni è congeniale) in cui non esistono né conservatori né progressisti, e sono tutti in movimento, ma senza una mappa che indichi dove andare. Questo è il problema della candidata di cui parliamo.

Primo, si è preparata per una Italia dove sono finite le litigate di sinistra e si sparge la serenità tenuta con polso fermo ma gentile da una donna stimata. Ma si fa trovare accanto a Orbán, leader schiettamente tirannico, che non ammette confronto, discussione o dissenso, conferma l’inimicizia persecutoria ed esclusivamente fascista per i suoi avversari, sopratutto per Soros, del cui curriculum usa ogni fake news di ben nota origine, non dimenticando di ricordare o far ricordare che è ebreo. Perché, in che senso conviene la compagnia squilibrante di Orbán alla ragazza Meloni, che si è fatta da sola, è stimata dal 20 per cento degli italiani, e di cui molte persone, sopratutto donne, dicono “che ha la testa a posto” per distinguerla da Salvini?

A parte questo errore difficile da spiegare, viene in mente un secondo problema. Giorgia Meloni è sola, ma non è sola. È sola sia nel senso di dovere solo a se stessa il suo successo. Ma è sola anche nel senso di non avere “vice”, non nel senso di fidati assistenti ma nel senso di deputy. Chi mandi in sua vece e con la stessa voce, se la leader ha una gastrite? La Russa? Facile osservare che La Russa è una specie di padre acquisito, affezionato ma non autorevole. Gli altri (anche se ricordati con affetto e nomiglioli da ragazzi nell’autobiografia Io sono Giorgia) erano “il partito” ma hanno cambiato ruolo (retrocedendo) a mano a mano che la Meloni ha fatto gli scatti in avanti che tutti attribuiscono a lei, non al respiro, al pensiero, alla voce di un partito. Adesso sono i funzionari di fiducia apprezzati perché laboriosi, nella struttura bene organizzata che la Meloni ha imposto (unica a esserci riuscita) a un partito che cresce ma non deve sbandare. Questi suoi funzionari, però, hanno una loro esigenza: farsi riconoscere. Hanno un passato, una storia, una identità. E così buttano su un percorso, che altrimenti sarebbe quasi senza ostacoli per la loro leader, questioni come l’equivalenza, anzi la sovrapposizione fra Shoah e Foibe che la storia, ma anche la conoscenza popolare, ha superato da decenni a causa della gigantesca distanza fra due ignobili mali. Ma c’è un’altra questione che sta a cuore ai funzionari in sottordine di Giorgia Meloni, che la fermeranno in quello che sembrava il suo sciolto cammino. Chiedono che fascismo e comunismo siano considerati del tutto equivalenti, lo stesso peso o lo stesso male. Espulsi o accettati nello stesso modo, Meloni dovrà parlarci di fascismo (ne sta sempre alla larga altrimenti non sarebbe al 20 per cento delle intenzioni di voto), dovrà spiegare che il comunismo si è sciolto da solo e che il fascismo è stato abbattuto e cancellato dalla sua stessa guerra. Ma il fascismo fa sapere continuamente di voler tornare. E dovrà aggiungere che il comunismo si trova in tutti i testi di filosofia del mondo, mentre il fascismo appare nei testi di storia come un evento politico italiano con molta diffusione in Europa non come filosofia (che non esiste) ma come incitazione alla morte, ai pugnali, alla guerra.

È evidente che la leader del partito di cui stiamo parlando (Fratelli d’Italia) debba confrontarsi con il fascismo, passato e presente. In questa inevitabile esplorazione la Meloni, che è intelligente, troverà per forza una distinzione che butterà all’aria tutti i discorsi dei suoi colleghi-dipendenti.

Le commemorazioni del delitto delle Foibe, la feroce vendetta del nemico straniero dopo la violenta occupazione italiana, chiama in causa giustamente quel nemico straniero. La caccia totale al popolo ebraico, estromesso da tutto, privato di tutto, derubato di tutto, spossessato anche della propria identità, fino alla morte, organizzata in appositi luoghi di esecuzione di massa, è un delitto italiano, con nostre leggi, nostre ovazioni e nostri intellettuali partecipi. Non serve fare confusioni, non è possibile. Dunque se gli uomini della Meloni vogliono parlare di fascismo, devono prendersi tutto il peso del grande delitto fascista detto Shoah, e tutti insieme ascolteremo che cosa ha da dire Meloni Giorgia, donna, madre, cristiana.

 

Vaccini, il gioco dello scaricabarile

 

“Ognuno è libero di fare la seconda dose con AstraZeneca purché abbia il parere del medico e il consenso informativo”.

Mario Draghi

Qualcuno doveva aver calunniato il dottor A.S.L., stimato medico di famiglia poiché un mattino, senza che avesse fatto nulla di male, egli fu arrestato. Dal processo, che passò alla storia come quello dello Scaricavaccini (o della Seconda Dose) risultò chiaro, anzi evidente, per non dire lampante, solare e dunque provato oltre ogni ragionevole dubbio, come tutti i soggetti, le aziende, le istituzioni, le autorità civili, militari e religiose di ogni ordine e grado (in piedi), incautamente chiamate in causa a opera del solito sensazionalismo deteriore (riposo) avessero ottemperato ai loro precipui obblighi fornendo la più esaustiva documentazione. Che, supportata dalla più autorevole letteratura e veicolata dalla più tempestiva comunicazione, aveva pienamente soddisfatto le prescrizioni postulate e vagliate ai sensi del principio di precauzione e della libertà di ricerca fatte salve. Del resto, le conclusioni convergenti (pur se non metodologicamente coincidenti) di Ema (da non confondere con Ama, municipalizzata raccolta rifiuti della Capitale), Aifa, Aiscat, Aci viaggiare informati, non lasciavano in proposito adito a dubbi, meno che mai a corrosive speculazioni di una certa parte politica. In guisa che le successive, conseguenti deliberazioni cui addivenivano Cts, Commissario Straordinario Generale Figliuolo (in piedi), ministro della Salute, Roberto Speranza (riposo), autorevolmente convalidate da S.E. il presidente del Consiglio (in piedi) non lasciavano adito a dubbi e false interpretazioni. Imperocché, ogni e qualsiasi responsabilità, ai sensi delle normative vigenti e del decreto luogotenenziale, fu demandata al già citato dottor A.S.L (riposo). Medico di famiglia che nella prevista catena di comando fungeva da ultimo anello, capro espiatorio, vittima sacrificale, testa d’asino (per non dire peggio), e dunque ricopriva l’annesso ruolo, congruo e confacente alla bisogna. A quanto risulta alle competenti autorità il predetto A.S.L. comunicava al paziente il relativo parere, e in allegato e vidimato il richiesto consenso informativo, dopodiché costui si sottoponeva alla seconda dose del succitato vaccino. Il resto è noto. Onde evitare per il futuro altri simili spiacevoli contrattempi, ed eliminare le ultime residue perplessità sulla complessa materia, Ema, Aifa, Aci, Aiscat viaggiare informati, Cts, in concerto con le istituzioni ministeriali e commissariali di cui sopra, annunciano l’imminente promulgazione della direttiva FUPCVP (fate un po’ come vi pare).

Antonio Padellaro

Pesci rossi nella neve e moscerini nell’occhio del Sommo Pontefice

Dalle novelle apocrife di Alfredo Oriani. Per prepararci all’esame di quinta ginnasiale, il professore di italiano ci dettò un apologo da commentare: “A una vecchia signora muore il pesce rosso. Lo porta a un vicino, biologo, perché scopra le cause del decesso. Il biologo avvolge il pesce rosso nel fazzoletto, se lo mette in tasca, e va al laboratorio. Ha nevicato. A un certo punto il biologo deve soffiarsi il naso, tira fuori il fazzoletto, e il pesce rosso cade nella neve. Mentre lo sta cercando, arriva una guardia inquisitrice: ‘Cosa sta facendo?’. ‘Sto cercando un pesce rosso’. ‘Un pesce rosso?’. ‘Sì. Un pesce rosso. Mi aiuta, per favore?’. ‘No, ma conto fino a dieci, e se non trova il suo pesce rosso, la sbatto dentro, così impara a fare lo spiritoso’. Il biologo si rimette a cercare frenetico, e un attimo dopo estrae trionfante dalla neve farinosa il pesce rosso: ‘Eccolo!’. La guardia osserva il pesce rosso, poi il biologo, poi scuote la testa e se ne va”. Il mio svolgimento fu il seguente: “In una stessa scena, due reazioni diverse. Per il biologo, che il pesce rosso fosse nella neve era irrilevante. Per la guardia, veder estrarre un pesce rosso dalla neve era un caso singolare. Le cose ci appaiono strane perché le guardiamo solo dal nostro punto di vista. Mettiamo che il Sommo Pontefice, durante un viaggio in treno, si affacci al finestrino. Non sarebbe strano se un moscerino gli entrasse in un occhio; ma quel moscerino direbbe: ‘La mia vita è tutta un romanzo. Stavo inseguendo una moscerina, e indovinate dove sono finito: nell’occhio del Sommo Pontefice!’. Se un autista di ambulanza, che da vent’anni trasporta feriti in ospedale, ha un incidente, l’episodio per lui è normale, prima o poi doveva succedere, sono cose che capitano a tutti gli automobilisti; ma per il ferito che è nell’ambulanza sarà inverosimile: appena raccolto da un incidente, eccolo vittima di un secondo incidente. Lo stesso fatto, che è irrilevante per l’autista, per il ferito aveva una probabilità su un milione di accadere. Una cosa a cui non si pensa mai, però, e quindi non fa parte dei metodi per rendersi più facile la vita, è quella di sfruttare a proprio vantaggio questo tipo di stranezza. Lo dimostrano due esempi. Qualche anno fa, un poveraccio si buttò dal ponte di Waterloo nelle acque del Tamigi. Un poliziotto, per chissà quale assurdo movimento mentale, puntò verso di lui la pistola, dicendogli: ‘Se non esce di lì, sparo’. E il suicida, davanti all’imprevisto, nuotò docilmente verso la riva. Secondo esempio. Alla vigilia di un processo in cui era testimone, un uomo politico uscì da un hotel a Milano. L’impermeabile piegato sul braccio, stringeva una borsa di cuoio nella quale aveva l’aria di custodire documenti schiaccianti. Una squadraccia lo attendeva in strada. Il capo di quelli lo apostrofò: ‘Lei è il tale?’. Invece di rispondere, l’uomo politico gli porse l’impermeabile, glielo fece tenere aperto, si infilò prima una manica, poi l’altra, e se ne andò”. Questi esempi vi sembrano strani? Avevo solo adottato il punto di vista del prof, un vecchio mazziniano. Il suo 8 confermò la bontà del mio argomento.

Dai taccuini apocrifi di Vittore Pisani. Siccome l’espressione “modestia a parte” è di per se stessa superba, in quanto implica la consapevolezza di possedere in sommo grado quella bella virtù che consiste soprattutto nel non sapere di possederla, ogni volta che un oratore dice “modestia a parte” dovrebbe aggiungere una seconda volta “modestia a parte” per farsi perdonare la prima; e poi una terza, per farsi perdonare la seconda, e poi una quarta, per farsi perdonare la terza, e così di seguito, fino allo sgombero sollecito della sala.

 

Il ct mancini convoca il premier agli ottavi

Martedì alle ore 16.30, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen sarà a Roma. Nel corso della visita è prevista una conferenza stampa congiunta con il presidente del Consiglio, Mario Draghi, negli Studi di Cinecittà. Si legge in una nota di Palazzo Chigi. Siamo in grado di prevedere e prevenire titoli di giornale e di servizi televisivi che seguiranno all’incontro: “Draghi salva l’Europa”, “L’Europa e Draghi hanno sconfitto il Covid coi loro corpi”, “Via ai licenziamenti, ce lo chiede l’Europa”, “Draghi mostra a Von der Leyen la via italiana per sconfiggere il coronavirus e far ripartire l’economia”, “Von der Leyen chiede il generale Fiugliuolo in prestito a Draghi”, “Draghi, lezione all’Europa su come si governa un Paese con l’unanimità”, “Applausi scroscianti della folla a Cinecittà per l’arrivo di Draghi”, “Mancini convoca Draghi per gli ottavi di finale”.

La lotta dei padroni: chiedere i danni ai sindacalisti. Il giudice a Pavia dice no

Avevano assoldato uno dei migliori, ma l’avvocato Giampiero Falasca, stavolta, ha fallito. XPO Supply Chain Italy, ramo italiano della multinazionale logistica fra i primi 10 provider al mondo, voleva 2 milioni di euro dai sindacalisti del SI Cobas come risarcimento per degli scioperi, invece ne dovrà pagare 30mila in spese processuali. Lo ha deciso il Tribunale di Pavia. La sentenza firmata dal giudice monocratico Massimiliano Sturiale è del 29 aprile 2021, ma è stata depositata da pochi giorni. Un dispositivo di 11 pagine che parla chiaro: i sindacalisti Marco Villani, Mohamed Arafat Elhanas Ali e Aldo Milani – il segretario nazionale del SI Cobas, sigla che da anni è entrata di forza nei magazzini d’Italia – non sono responsabili in solido per le agitazioni dei lavoratori nel biennio 2017-2018.

Scioperi e picchetti avvenuti nei siti della multinazionale a Stradella, Piacenza, Trezzano sul Naviglio, Caleppio di Settala e Pontenure. In alcuni casi i tre sindacalisti non erano nemmeno presenti. Tanto che – scrive il giudice Sturiale – XPO non ha mai chiarito “specificamente quali condotte siano state poste in essere dagli odierni convenuti” e di fatto quindi non imputato “agli stessi alcuna condotta lesiva”. Del resto “in giurisprudenza si è sostenuto che non possa ascriversi all’Associazione sindacale alcuna responsabilità nell’ipotesi in cui i propri iscritti esercitino illegittimamente il proprio diritto a scioperare”.

Lezione di diritto? La multinazionale e Giampiero Falasca, socio dello studio legale internazionale DLA Piper, già braccio destro dell’ex ministro nel governo Prodi Tiziano Treu e fra i più famosi giuslavoristi della penisola, vengono rimandati a settembre. Chiedevano che i tre uomini, in qualità di dirigenti SI Cobas, risarcissero la società dei danni patrimoniali e non. Stimati in 669mila euro per il blocco dell’attività produttiva avvenuta il 5, 26, 28, 30 aprile e il 7 maggio 2018 e quasi 1,3 milioni per danni d’immagine. XPO contestava la violazione di un accordo fra azienda e sindacato del 2016 che prevedeva un “cuscinetto” di 15 giorni per trovare soluzioni alle vertenze lavorative durante i quali “non dare corso a forme di lotta quali scioperi, blocchi o azioni che compromettano l’operatività del sito”. La sentenza dice che “già a febbraio e poi a marzo l’organizzazione sindacale aveva comunicato lo stato di agitazione chiedendo riscontri alla parte datoriale”.

Colpirne tre per educarne 100? È andata male. Il Tribunale di Pavia ha rigettato la richiesta e condannato le società XPO Supply Chain Italy e XPO Supply Chain Consumer Goods Italy, che avevano intentato la causa, al pagamento di 26.384 euro di spese processuali. Ci proveranno ancora? “Non è la prima volta e non sarà l’ultima”, dice al Fatto un dirigente Cobas. Da tempo le multinazionali della logistica in Italia sognano di trovare una toga o un tribunale che metta nero su bianco la responsabilità civile dei dirigenti sindacali rispetto a eventuali illeciti, tutti da verificare, dei propri iscritti. Un sogno infranto, per ora. Rimane una curiosa nemesi del destino. Si tratta delle stesse multinazionali che quando i loro fornitori – cooperative, consorzi o srl – commettono illeciti fiscali, contributivi o penali per comprimere il costo del lavoro si difendono dietro lo schermo di appalti e subappalti: loro sono solo i committenti, non gli esecutori.

Una prassi ben conosciuta nei palazzi di Giustizia d’Italia, dove alcuni magistrati stanno lentamente ponendo rimedio sopperendo alle assenze della classe politica e del legislatore. Negli ultimi tre anni il Tribunale di Milano ha commissariato prima il colosso francese Ceva Logistics fino al maggio 2019 e poi, per caporalato, la big del food delivery Ubereats che si avvaleva di imprese esterne per reclutare i rider.

Il 7 giugno la Procura di Milano ha aperto un’indagine anche su DHL Supply Chain Italy, controllata dalle Poste tedesche, indagando il presidente Antonio Lombardo e l’ex presidente Fedele De Vita e sequestrando in via preventiva 20 milioni di euro proprio per i comportamenti fiscali su Iva e contributi tenuti dal consorzio e dalle cooperative di lavoro in subappalto.

I Si Cobas in piazza a Roma dopo la morte del loro delegato

Ogni tre cartelloni, ce n’erano almeno due che raffiguravano il volto di Adil Belakhdim, il sindacalista di origine marocchina morto venerdì mattina in provincia di Novara, travolto da un camionista durante lo sciopero della logistica accanto a un polo della catena di supermercati Lidl. Quella che ieri pomeriggio ha sfilato per le vie di Roma non è stata una delle classiche manifestazioni del sindacalismo di base. Aveva qualcosa di diverso, somigliava ai cortei organizzati negli Stati Uniti dal movimento “Black lives matter” dopo l’omicidio di George Floyd. Non ci si batteva solo per i diritti del lavoro sistematicamente negati: c’era una vita spezzata, quella di un amico e compagno di lotte. Già prima della tragedia, alla manifestazione avevano aderito l’Usb, alcune associazioni studentesche e partiti di sinistra radicale. Ieri, c’era una folla in grado di riempire quasi metà Piazza della Repubblica, diverse migliaia di persone, addirittura 25mila secondo gli organizzatori. Un gruppo di Piacenza ha ricordato Abd El Salam, egiziano morto cinque anni fa davanti alla Gls.

Il corteo ha sfilato senza scontri: la sigla aveva visto finire nel sangue diverse delle sue ultime azioni. Certo, non è mancato qualche momento di tensione nelle fasi iniziali, quando la fiumana di gente si era disposta ai nastri di partenza senza che lo schieramento di polizia in tenuta anti-sommossa avesse dato il via libera. Cori contro gli agenti, poi tutto ok. Un giro in via di Santa Susanna, quindi retromarcia per via Cavour e fine corsa in piazza Vittorio Emanuele. Un itinerario che però non ha permesso di lambire i luoghi del potere: né i ministeri di Lavoro, Sviluppo economico ed Economia, che si trovano a poche decine di metri dalle strade calpestate dalla coda di bandiere rosse, né il Parlamento e Palazzo Chigi, il principale bersaglio della manifestazione.

Buona parte dei manifestanti è infatti formata dai facchini stranieri, perlopiù nordafricani, sui quali si regge il mondo della logistica, frammentato in una galassia di appalti e subappalti, caratterizzato da un alto tasso di sfruttamento e irregolarità. I licenziamenti sono già cominciati, per esempio con Fedex-Tnt che ha chiuso il centro di Piacenza mettendo alla porta quasi 300 operai. Ecco perché si teme lo sblocco in arrivo il 31 ottobre e il rischio che generi un forsennato turn over nelle mille cooperative – vere o false – che lavorano al servizio anche dei grandi marchi di supermercati e abbigliamento.

Nel mirino, anche una norma del decreto Semplificazioni che liberalizza i subappalti, prima innalzando la soglia massima concessa dal 40 al 50%, poi facendola scomparire del tutto dal primo novembre.

Infine, SiCobas attacca il rinnovo del contratto del trasporto merci firmato da Filt Cgil, Fit Cisl e Uil Trasporti. Uno dei punti cardine del sindacalismo di base resta la feroce critica al comportamento delle tre sigle confederali.

Il Tar: “Report riveli le fonti sulla Lega”

Un precedente pericolosissimo. Che rischia di indebolire parecchio la libertà di stampa, il lavoro d’inchiesta e la tutela delle fonti. Questo il tono unanime delle reazioni alla sentenza del Tar del Lazio, che ha dato ragione ad Andrea Mascetti sulla sua richiesta di accesso agli atti nei confronti di Report. Secondo il Tar, la Rai ora “dovrà consentire al ricorrente, entro 30 giorni, l’accesso agli atti e ai documenti”. Non tutti, però, solo quelli che riguardano le richieste fatte dai cronisti di Report a soggetti della Pubblica amministrazione nell’ambito dell’inchiesta.

Il servizio in questione è quello sulla Lega e su Mascetti andato in onda nella puntata Vassalli, valvassini e valvassori del 26 ottobre 2020. “È una sentenza gravissima e anticostituzionale, con la quale si chiede di rivelare fonti giornalistiche”, la reazione di Sigfrido Ranucci, conduttore del programma di Rai3. “Cosa deve fare Mascetti con quegli atti? Vuol sapere chi ci ha rivelato le sue consulenze? Deve venire l’esercito a prendere quegli atti, noi non li daremo mai, tuteleremo le nostre fonti fino alla morte”, aggiunge il giornalista. Il quale poi osserva che “se dovesse passare il principio espresso dal Tar, quale fonte si affiderebbe più a Report o a un altro giornalista del servizio pubblico?”.

In serata, però, la Rai annuncia ricorso. E fa sapere di “aver dato mandato per impugnare davanti al Consiglio di Stato la decisione con la quale l’attività giornalistica, ove svolta dal servizio pubblico, è stata inopinatamente assimilata a un procedimento amministrativo”. Viale Mazzini, inoltre, “si attiverà in ogni sede per garantire ai propri giornalisti il pieno esercizio della libertà d’informazione e la tutela delle fonti”.

A leggere la sentenza, infatti, l’assunto giuridico su cui si basa la decisione del Tar è che i giornalisti della tv di Stato siano equiparabili a funzionari della pubblica amministrazione e un’inchiesta giornalistica a un procedimento amministrativo. Quindi non sarebbero tenuti al basilare diritto della tutela delle fonti.

Tutto è partito dalla puntata di fine ottobre in cui Report presentò un’inchiesta assai dettagliata sulle molte consulenze che l’avvocato Mascetti ha ottenuto negli ultimi anni da parte della pubblica amministrazione lombarda e, in particolare, da numerosi Comuni della Regione. Secondo l’inchiesta, Mascetti, da sempre vicino alla Lega anche come presidente dell’associazione Terra Insubre, è riuscito ad avere consulenze ben pagate dagli enti locali lombardi proprio grazie alle sue entrature nel mondo leghista.

Numerose, ieri, le reazioni alla sentenza e in difesa di Report.

“Precedente pericolosissimo. Secondo questa sentenza quelli della Rai sarebbero giornalisti di serie B”, dicono in una nota Usigrai e Fnsi. “Grave precedente per la libertà di stampa”, osserva il pentastellato Primo Di Nicola. Unica voce contraria, invece, quella del renziano Luciano Nobili: “Report disobbedisce al Tar? Gravissimo”. E Ranucci incassa la solidarietà anche di Paolo Borrometi, cronista da tempo sotto scorta per le sue inchieste: “La sentenza è un precedente pericolosissimo. Le fonti dei giornalisti non si toccano!”.