Salvini fa flop in piazza e se la prende con le toghe

Giovani bardati col leone di San Marco entrano alla manifestazione “Prima l’Italia” con antico entusiasmo padano. In bocca un coro da stadio: “Bastardi, noi siamo il Veneto!”. La piazza di Roma non li ripaga di tanto entusiasmo: tra la Bocca della Verità e il palco di Matteo Salvini ci sono ampissimi spazi vuoti. Il capo della Lega ha chiamato il suo popolo e il suo popolo ha risposto scarsino: delle 5 migliaia annunciate dagli organizzatori ce ne saranno forse un paio. Doveva essere “il ritorno alla vita”, nella retorica leghista, “la prima grande manifestazione dopo un anno di paura”. O persino la “Leopolda di Salvini”, senza simboli di partito, con il palco dedicato alla famosa società civile. Alla fine, stringi stringi, è un flop. Per il colpo d’occhio modesto e il poco entusiasmo dei presenti, assediati dal caldo.

Salvini nasconde l’imbarazzo sotto la temperatura: “È un po’ una roba da matti trovarsi qui con 40 gradi. Molti saranno rimasti a casa dicendo: ‘Andate avanti voi’”. E ancora: “Siccome i giornalisti hanno l’esigenza di far vedere ai tg di questa sera questa piazza bellissima, folle, un po’ accaldata, voglio che vedano tutte le vostre facce. Chiedo a chi è all’ombra, là in fondo: venite per un minuto qua nel cuore della piazza”. Da bravi, fatevi contare. Potesse, riempirebbe i buchi con le sue mani.

Per l’occasione aveva precettato governatori, ministri, parlamentari, eurodeputati (c’è anche il re del Papeete Beach Massimo Casanova), ma si notano due assenze pesanti: Luca Zaia e Giancarlo Giorgetti (per “motivi personali”).

Ci sono bandiere Ugl (il sindacato-feudo del sottosegretario Claudio Durigon), vessilli e mascherine venete, magliette e striscioni di Province e Regioni. Mancano proprio i romani.

Salvini loda i militanti che si sono pagati il viaggio da soli, ma lo smentisce una pasionaria vestita di blu, con abito elettrico e in mano una pezza sbrilluccicante della Lega Romagna: “Siamo venuti in corriera da Forlì, ci ha portati qui il partito, ha organizzato tutto l’onorevole Jacopo Morrone”.

C’è una fila di banchetti, ottima per l’ombra: si vendono gadget (le odiate mascherine, ma con il logo della Lega, costano due euro, come l’accendino “Prima gli italiani”), si distribuisce il volume di Armando Siri (Flat Tax – Fase II – Sviluppo e analisi della riforma fiscale) e si vende il best seller Sallusti-Palamara (Il Sistema). Insomma, la macchina del partito s’è mossa, la gente un po’ meno.

Sul palco Annalisa Minetti canta l’inno di Mameli, viene lanciato il ticket Michetti-Matone per Roma (Salvini si dà al dialetto: “Daje!”), sfilano i lavoratori in sciopero di Ikea, poi ristoratori, imprenditori, operatori del turismo; c’è un video messaggio dei musicisti del Volo: tutto fa brodo.

Alla fine la manifestazione serve a Salvini per intestarsi le battaglie del governo (“via le mascherine, bene Draghi come chiesto dalla Lega”) ma soprattutto per pubblicizzare i sei referendum sulla giustizia, depositati con i Radicali. Il timore del flop per la raccolta firme – ne servono 500mila per ogni quesito – lo porta ad alzare i toni contro i “pm delle correnti” e “del sistema Palamara”. Come ai tempi di Silvio Berlusconi, ma in tono molto minore, è la giornata dello scontro con l’Associazione Nazionale Magistrati. Di buona mattina il presidente del sindacato delle toghe, Giuseppe Santalucia, si scaglia contro i referendum perché “il popolo sarà chiamato a una valutazione di gradimento della magistratura” e per questo “serve una ferma reazione”. Salvini non aspetta altro: “Parole gravissime, la sovranità appartiene al popolo non alla casta”. Dopo la presentazione dei quesiti dell’avvocato e senatrice della Lega Giulia Bongiorno, il segretario dei Radicali Maurizio Turco chiede addirittura l’intervento di Sergio Mattarella. I pochi rimasti in piazza ululano e fischiano il Capo dello Stato. Nel discorso conclusivo Salvini rilancia il tema del “centrodestra unito” con una “carta fondativa di valori” e con una stoccata agli alleati – leggasi Giorgia Meloni – perché si devono “lasciar da parte gelosie, egoismi, divisioni”. La prossima settimana dovrebbe vedere ad Arcore Silvio Berlusconi. Farà meno caldo?

Michetti, il No Mask dell’etere che si sente Ottaviano Augusto

(Si tenga conto, durante la lettura di questo articolo, delle alternative a cui avevano pensato Meloni, B. e Salvini: Gasparri, il senatore che su Twitter risponde ai cittadini con l’argomento che la loro madre batte il marciapiede, e Bertolaso, del cui diniego ancora non ci facciamo una ragione).

Enrico Michetti, avvocato e amministrativista, è il nuovo idolo delle folle meloniane e dunque in seria corsa come sindaco di Roma. Su Radio Radio, emittente locale prevalentemente di calcio – ma il calcio, si sa, non è solo calcio – nella rubrica Accarezzami l’anima (e già qui ci vuole coraggio, soprattutto a Roma, dove di solito a “l’anima” segue l’improperio massimo, l’ur-insulto, quello che tira in ballo gli antenati), Michetti è “il Professore”. S’è scavato una nicchia, costruendo un’immagine di sé che mischia bonomia, concretezza e una contundente nostalgia dell’impero romano molto gradita a destra.

È emerso bene nel 2020, l’anno del Covid, “un’influenza” (del resto la radio ha sostenuto la battaglia per la cosiddetta cura Di Bella contro i tumori, e ospita interventi di Borghi, Fusaro e Meluzzi, teorico del chip dentro la mascherina per controllare le persone), e oggi lotta contro la dittatura sanitaria.

Nelle dirette video Michetti annuisce, mentre gli speaker lo pompano: “Lui farà questa cosa con amore, non con la sete di potere”. Enrico chiede di poter parlare: “Quando ci si pone davanti al cuppolone, cosa ci appare? Quel colonnato che sembrano due braccia. Ecco, da parte mia ci sono due braccia aperte”.

Il sogno, i progetti, l’amore, lo stadio, la fiamma della gente… Ma pure rifiuti, decoro, trasporti, sicurezza. Epica e bilancio. In un motto: Roma Caput Mundi. Anzi: Make Roma great again. “Dovremmo riportare la Capitale alla Roma dei Cesari, la Roma dei grandi papi”, nientedimeno. Sotto le pensiline sulla Casilina, in attesa del 505, la gente vorrebbe Ottaviano Augusto. La mitologia a lui ascrivibile recita che la sua è una candidatura dal basso; esperto, ma esponente della (ormai anche a destra) magnificata “società civile”. Meloni (che a Roma avrebbe vinto a mani basse, ma aspira al nazionale), contro il vecchiume di Tajani che voleva una magistrata (non più cancro della società, e che se vince Michetti sarà “prosindaca”), ha preso atto del furor di popolo.

Avvicinandosi ai podcast di Michetti si vede che questa è una fake news sopraffina. È un prodotto costruito per vincere. Anni di bombardamento dell’amministrazione di Roma, in base alla suggestiva teoria che il debito esiste e non esiste, è una mezza chimera soffiata dall’incompetenza: in realtà i soldi ci sono, ma la burocrazia li blocca. Se comandasse lui, troverebbe il modo di farli fluire. Lui, con le sue 17 pagine di curriculum (tra le voci: docente al corso di formazione “Studiare da sindaco”), userebbe proprio la burocrazia per sbloccare i denari. Come? Col cavillo. L’uomo conosce e cavalca il cavillo, il cavillo essendo sostanza e accidente del disastro, epitome del danno e grimaldello per scardinare l’assetto. I soldi se li è mangiati la cialtroneria, altroché (non una parola su Alemanno, condannato per corruzione in Mafia Capitale), e lo dice uno sui cui servizi venduti alla Pubblica Amministrazione da direttore della Fondazione Gazzetta Amministrativa indagano Anac e Corte dei Conti.

Insomma, “ci vuole competenza, visione, passione, forza, coraggio”, lo endorsa il direttore della radio, “e tu sei una persona perbene, cercano di attaccarti quando esce il tuo nome”. Michetti conferma: “Parte la corsa alla delegittimazione della persona, quella persona deve essere uccisa”; onore, reputazione, amor di patria: il mondo maschio senza rischio del sottobosco destrissimo della Fm romana.

A chi parla, Michetti? Al popolo dei tassisti, raggiunti capillarmente in modalità broadcasting nella città dell’ingorgo perenne; a baristi e ristoratori, che sono stati chiusi per pandemia (colpa della Raggi); agli automobilisti sfiancati dal disinganno. Così la campagna vaccinale è come il “doping di Stato” della Ddr, e – sturando lo sturabile – il saluto romano “è igienico”. Lo speaker agita l’art. 3 della Costituzione, faro della candidatura: “Io saluto con la mano aperta perché è il simbolo di pace, ti devo far vedere che non ho niente in mano, è una cosa romana”. Ma certo, dice Michetti: “Se poi un regime totalitario si appropria del segno della croce, che facciamo, bandiamo il segno della croce?”. Risate in studio; ascoltatori con le mani che prudono in solluchero. La prova che Michetti non è fascista: “Io sono stato il primo a contestare i Dpcm, che sono l’atto del dittatore”. Quindi gli antifascisti d’ora in poi hanno un nuovo segnale di riconoscimento: contrari ai Dpcm (previsti dal nostro ordinamento); favorevoli al saluto romano (in teoria vietato in quanto apologia del fascismo).

Michetti è “una luce, una speranza”, “è qualcosa che va al di sopra di tutti. È l’orgoglio di Roma”. C’ha la vocazione: “Ho sentito la città che mi fermava, come si fa a dire di no a Roma?”. Già, come si fa? (Ma in definitiva, noi che abbiamo fatto di male?).

Madamina. Sì Tav in campo coi renziani

Sembra odiare i simboli di partito. Non li voleva alla manifestazione Sì Tav, organizzata insieme alle altre madamine, dove vigeva la regola: niente striscioni e niente bandiere di partito, anche se al loro fianco c’era Bartolomeo Giachino, ex sottosegretario ai Trasporti del governo Berlusconi. E non li vuole ora da candidata sindaca di Torino del “terzo polo” che, tuttavia, è composto da formazioni politiche come Azione di Carlo Calenda, Italia Viva di Matteo Renzi e Moderati del deputato Iv Mimmo Portas.

“Mi metto in gioco per chi a ottobre non vuole scegliere il meno peggio. Ma senza simboli di partito”, ha detto ieri in un’intervista al Corriere Torino. La madamina Sì Tav, Giovanna Giordano Peretti, una di quelle donne e manager che nell’autunno del 2018 organizzarono la manifestazione Sì Tav in piazza Castello a Torino, riprova la sfida del voto e ci prova in grande. Dopo un primo tentativo andato a vuoto nel 2019, quando si candidò al consiglio regionale con una lista civica che sosteneva il presidente uscente del Piemonte, Sergio Chiamparino, ora aspira a prendere il posto di Chiara Appendino, tanto avversata in questi anni.

Classe 1957, ha lavorato nel settore delle telecomunicazioni e dell’informatica. Nell’ottobre del 2018, insieme ad altre donne della Torino bene, costituisce il comitato “Sì, Torino va avanti” e lancia la manifestazione Sì Tav in aperta opposizione sia con l’amministrazione Appendino (che come prima azione, cinque anni fa dopo l’elezione, portò la città fuori dall’osservatorio del governo sulla Torino-Lione) e contro il governo giallo-verde di Giuseppe Conte, all’epoca ancora contrario alla grande opera (cambiò il 23 luglio 2019, poco prima dello strappo dell’alleato Matteo Salvini e del nuovo governo col Pd). Spinte dall’entusiasmo dei grandi quotidiani e delle organizzazioni di imprenditori, il 10 novembre portano in piazza 25mila persone. La sindaca coglie la sfida: “Alla luce dalle istanze emerse dalla manifestazione di sabato scorso e ai richiami all’operato dell’amministrazione di Torino, desidero invitarvi a un primo confronto il 16 novembre a Palazzo Civico”. Invito rifiutato: volevano interloquire soltanto col presidente della Repubblica.

Poche settimane dopo, però, emerge che una delle madamine, Patrizia Ghiazza, ha registrato un simbolo, “l’Onda” e subito il comitato Sì Torino ribadisce di essere apartitico e di non voler entrare “nella competizione elettorale”. Nella competizione, quella per la Regione Piemonte, ci entra mesi dopo Giordano Peretti schierandosi nella lista “Chiamparino per il Piemonte del Sì”: Chiamparino perde, la lista ottiene due consiglieri, ma lei resta fuori. Pochi mesi dopo la troviamo sul palco della Leopolda 10 per perorare la causa della Torino-Lione.

Ora, in vista del voto, Azione lancia la sua candidatura come candidata sindaca del Terzo Polo, unica donna (al momento) tra le aspiranti alla poltrona. Ultima cosa. Una certa Giovanna Giordano Peretti risulta tra le firmatarie del documento “Riformi-amo Milano. Uniti!”, che comincia così: “Noi cittadini di Milano”. Sarà la stessa persona?

Roma, le primarie inesistenti. Gualtieri e sei a fare numero

A Roma l’allarme è scattato domenica scorsa dopo le primarie di Torino, un notevole flop con soli 11 mila votanti. Da lì le sirene al Nazareno hanno cominciato a suonare: qui non va a votare nessuno. Così dalla sede dem e dallo staff di Roberto Gualtieri sono iniziati gli appelli e le telefonate ai segretari di sezione per mobilitare truppe e militanti: “Chiamate tutti, portate a votare più gente possibile, non possiamo permetterci un fallimento”. Ma il rischio disastro è dietro l’angolo, col Pd che si aggrappa al voto contestuale nei municipi, possibile traino anche per la scelta del candidato sindaco.

Alle primarie di oggi (si vota dalle 8 alle 21) ci sono 7 candidati, ma il vincitore è già noto: l’ex ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, all’inizio tenuto a bagnomaria in attesa di un’improbabile discesa in campo di Nicola Zingaretti. Un esito talmente scontato da sfidare le formalità: nelle ultime ore il Pd ha diffuso un facsimile della scheda elettorale in cui l’unico nome, ovviamente sbarrato, è proprio quello di Gualtieri.

Il problema è l’affluenza. Anche perché, a differenza di altre volte, non è stata fatta pubblicità. Se prima la soglia del successo era di 50 mila persone (70 mila sarebbe un trionfo), ora ci si accontenta di 35 mila. E sarebbe comunque un insuccesso rispetto ai 110 mila votanti alle primarie che incoronarono Ignazio Marino nel 2013 e pure ai 42 mila del 2016, quando a spuntarla fu Roberto Giachetti, poi sconfitto da Virginia Raggi. Per non parlare delle primarie che, nel marzo 2019, elessero segretario Nicola Zingaretti: 92 mila persone al voto nella Capitale.

Due fattori, oggi, giocheranno contro. Il primo è il meteo, con sole, caldo e l’Italia in zona bianca. Quanti rinunceranno al weekend per recarsi ai gazebo? “Fate una partenza intelligente: venite a votare la mattina presto e poi partite”, l’invito del segretario cittadino Andrea Casu. Ma anche la partita Italia-Galles alle 18 non aiuta.

Ma il problema più grande è politico. Come ha sottolineato Fabrizio Barca, “è difficile coinvolgere gli elettori con primarie pilotate, dove si sa già chi è il vincitore”. Insomma, secondo l’economista, “sono ancora uno strumento efficace, ma funziona solo con candidati non calati dall’alto e dove la sfida è aperta”. Ogni riferimento a Bologna, dove oggi si decide tra Matteo Lepore e Isabella Conti, non è puramente casuale, visto che lì la sfida è reale.

A Roma invece il problema, oltre al numero dei votanti, sarà solo la soglia raggiunta da Gualtieri. Un sondaggio riservato dà l’ex ministro al 47 per cento (sotto il 50% non sarebbe un granché, ma qualcuno teme addirittura un risultato intorno al 30), seguito da Giovanni Caudo, urbanista ed ex assessore della giunta Marino, col 28 per cento. E pure l’ex sindaco nelle ultime ore è entrato a gamba tesa, sostenendo che “intorno a Gualtieri ci sono tutti quelli che andarono dal notaio per sfiduciarmi”. Veleni in circolo e vecchie ruggini. Cuado oggi è quello più accreditato a togliere voti a Gualtieri, lui che presiede il III municipio e che sta raccogliendo sempre più adesioni soprattutto alla sinistra del Pd, come quella di Pippo Civati.

Dopo la rinuncia alla corsa di Monica Cirinnà, tra i 7 ci sono altre due facce note: il deputato di Leu e consigliere comunale Stefano Fassina e Imma Battaglia, volto storico delle lotte Lgbt. Il primo, a differenza di Gualtieri, da settimane sostiene la necessità di un accordo coi 5 Stelle in previsione del secondo turno. La seconda è sostenuta da Massimiliano Smeriglio, eurodeputato ed ex numero 2 di Zingaretti nel Lazio. Il consigliere regionale Paolo Ciani, esponente dei centristi di Demos, è invece è il nome su cui punta la Comunità di Sant’Egidio, mentre l’ex M5S Cristina Grancio , espulsa tre anni fa dal Movimento per una spaccatura sullo stadio della Roma, è candidata per il Psi. Infine, il più giovane (38 anni), Tobia Zevi, presidente dell’osservatorio “Roma! Puoi dirlo forte”. Proviene da una famiglia assai nota in città e in passato è stato nello staff di Paolo Gentiloni prima alla Farnesina e poi a Palazzo Chigi.

“Lotta armata” e razzismo in chat: nei guai cinque minori

La Rete riesce a mettere insieme gli opposti: antisemitismo, odio razziale e violenza di estrema sinistra tutti insieme nello stesso gruppo di WhatsApp. La Procura di Siena ha fotografato così l’attività di un gruppo di giovanissimi che dal 2018 al 2019 avrebbe trescato di lotta armata, nostalgia per le Brigate rosse, apologia di regimi, antisemitismo, volontà di andare a combattere in Donbass, discriminazione sessuale e separatismo filo-russo. Il tutto accompagnato da una serie di filmati di esecuzioni capitali, torture e smembramento di corpi realizzati ad opera di terroristi dell’Isis.

Le indagini sono partite dall’inchiesta su un’altra chat con contenuti pedopornografici e razzisti, “The Shoah Party”, risalente a due anni fa. In tutto 96 persone, prevalentemente minorenni. E sono 5 i minori ora denunciati a vario titolo e in concorso per associazione sovversiva e istigazione a delinquere. Secondo quanto spiegato dai carabinieri i partecipanti alla chat “sebbene di idee politiche con accenti estremistici anche diametralmente opposte”, erano accomunati da “antisemitismo, discriminazione sessuale e odio razziale” e ritenendo l’uso della forza e della violenza “uno strumento necessario per l’affermazione del pensiero politico”. Oggetto di particolare attenzione poi “le figure di alcuni utenti” “che hanno reiteratamente espresso la volontà di andare a combattere in Donbass”. In tale contesto, si spiega, “vi è stata condivisione di materiale multimediale del tipo ‘Best Gore’, ovvero filmati concernenti esecuzioni capitali, torture, smembramenti di corpi umani realizzati in teatri di guerra, realizzati a opera di terroristi appartenenti” all’Isis.

L’inchiesta “The Shoah Party” aveva portato alla denuncia di 25 persone di cui 20 minorenni. A seguito di quell’indagine, poi, a gennaio già altre 12 persone erano state poi denunciate per diffusione e detenzione di materiale pedopornografico e istigazione a delinquere dopo la scoperta di un’altra chat, denominata “Utistici”.

Berlino compra la lista di chi evade a Dubai. Roma valuta se chiedere i nomi degli italiani

Panico nel paradiso fiscale di Dubai. A temere un EmiratesLeaks sono milioni di stranieri che negli anni, per sfuggire al Fisco dei loro Paesi di residenza, hanno trasferito fondi nello Stato della Penisola arabica. Il 16 giugno il ministero delle Finanze tedesco ha confermato al settimanale Spiegel di aver acquisito a inizio anno da un informatore anonimo (il quale, secondo informazioni non confermate, sarebbe stato ricompensato con 2 milioni di euro) un Cd-Rom con i dati completi su milioni di contribuenti, tra i quali diverse migliaia di cittadini tedeschi, che hanno beni a Dubai dove la tassazione sui redditi è zero. Il gigantesco database potrebbe consentire a Berlino e ai Länder di scoprire patrimoni occultati e redditi non dichiarati.

“Metteremo i dati esteri a disposizione dei Paesi interessati attraverso lo scambio internazionale di informazioni”, ha affermato il Fisco tedesco. Secondo il quotidiano francese Les Echos, la Direzione generale delle Finanze pubbliche di Parigi ha già contattato Berlino e la Germania si è detta disponibile a trasmettere le informazioni in suo possesso sui residenti fiscali francesi. L’utilizzo dell’elenco tedesco consentirà di verificare se i residenti francesi non hanno dichiarato i propri redditi al Fisco o se non hanno pagato la “tassa di uscita” d’Oltralpe che colpisce i beni nascosti all’estero da cittadini e imprese.

L’accordo internazionale sullo scambio automatico di informazioni finanziarie è stato istituito quasi quattro anni fa e oggi conta più di 100 Paesi firmatari, tra i quali anche Dubai, che hanno iniziato a fornire dati bancari dal 2018. Sinora però l’intesa non aveva dato grandi risultati da parte delle autorità emiratine. Dopo la fine del segreto bancario in molti Paesi, Svizzera compresa, insieme a Singapore e ad alcuni Stati insulari degli oceani Indiano e Pacifico negli ultimi anni proprio l’Emirato si era ritagliati un ruolo cardine di paradiso fiscale e crocevia di molte attività offshore.

Contro l’evasione, in passato Germania e Francia hanno usato i Panama Papers e i whistleblower. Nel 2008 Hervé Falciani, un ingegnere italiano naturalizzato francese che lavorava come informatico nella sede di Ginevra del colosso bancario britannico Hsbc, fu il protagonista di Swiss leaks. Falciani sottrasse e consegnò alla Francia la cosiddetta “lista Lagarde” con i dati di 130mila facoltosi clienti (tra i quali 7mila italiani) accusati di aver usato l’istituto per frodare il Fisco e riciclare denaro sporco. Fonti del governo italiano fanno sapere che l’Italia sta valutando la possibilità di chiedere i dati degli Emirates leaks a Berlino, come avvenuto in passato per la lista Falciani. Se la richiesta sarà presentata, gli elenchi verranno ricevuti dall’Agenzia delle Entrate.

Stuprò 5 ragazze, condannato un carabiniere

La sua sentenza è diventata definitiva. La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso presentato contro le sentenze di primo e secondo grado (che avevano inflitto una pena di 9 anni e 8 mesi) per il carabiniere Dino Maglio, originario del Salento, già in servizio nella stazione di Teolo in provincia di Padova. Era accusato di aver stuprato cinque ragazze straniere e di averne intontite con la droga altre nove. Le aveva attirate nel bed & breakfast che gestiva e ne aveva abusato. Era poi accusato anche di tentata concussione per aver abusato del ruolo militare per indurre tre delle vittime a tacere. Maglio adescava le ragazze attraverso un sito di couch-surfing. In primo grado la condanna era stata di 12 anni e 8 mesi, poi la Corte d’appello di Venezia l’aveva ridotta, con uno sconto di tre anni. Per lui, ai domiciliari, ora è previsto il trasferimento nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Nel 2015 era stato condannato per stupro di una liceale australiana, da lì gli altri episodi il 2013 e il 2014, messi in fila anche con l’aiuto del sito di giornalisti investigativi, l’Irpi, che nel 2014 aveva trovato online i racconti delle ragazze su un forum. Il dossier era poi arrivato al sostituto procuratore Giorgio Falcone. Il magistrato ha rintracciato le ragazze tra Polonia, Canada, Portogallo, Usa, Repubblica Ceca e Germania. Soltanto cinque di loro avevano ricordato la violenza. Le altre, invece ricordavano il vino offerto, che le aveva fatte addormentare, contenente benzodiazepine.

In Tribunale a Padova aveva detto: “Non sono un mostro. Le ragazze si sono influenzate tra loro attraverso una chat. Una si è pure fatta pagare da una televisione americana per rilasciare un’intervista. La verità è che si sono ubriacate da sole. Su di me hanno realizzato anche un cartone animato”. In Corte d’appello l’ammissione che gli è valsa uno sconto di tre anni: “Mi scuso per quello che ho fatto, ero in un periodo difficile perché ero stato appena lasciato dalla mia ragazza”.

Vattani a Singapore. La sinistra si divide sull’ambasciatore

L’ex “console fascio-rock” agita le acque del centrosinistra. Dopo la decisione del Consiglio dei ministri di inviare Mario Vattani a Singapore come ambasciatore, come anticipato dal Fatto, l’Associazione nazionale partigiani, Sinistra Italiana e una parte del Pd hanno levato la propria voce per protestare contro la designazione del diplomatico che nel 2011 fu sottoposto a procedimento disciplinare, sospeso per 4 mesi e richiamato dall’incarico di console in Giappone per aver partecipato ad un concerto ad un raduno di CasaPound, ricambiando il saluto romano del pubblico. Il deputato dem Roberto Morassut aveva presentato un’interrogazione in cui accusava “il governo Draghi di aver nominato ambasciatore un neofascista militante” e chiedeva al ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, di fare un “passo indietro”.

La risposta è arrivata dal viceministro Marina Sereni: il governo, ha assicurato Sereni venerdì nel question time alla Camera, sente “forte il fermo ancoraggio dell’Italia ai valori di democrazia, libertà e antifascismo. Ma sono proprio i valori posti a fondamento della Repubblica, in particolare quello Stato di diritto che la barbarie fascista aveva calpestato, a ricordarci che la tutela dell’interesse pubblico è assicurata dal rispetto della legge”. E il rispetto della legge nel caso di Vattani, per Sereni, “è rappresentato da una sanzione debitamente scontata e da un incarico conferito sulla base dell’impegno dimostrato e della preparazione professionale”. Rinunciare ora “a una rigorosa tutela e applicazione delle regole e dello Stato di diritto sarebbe un errore, rappresenterebbe un tradimento di quegli stessi valori. Non lo abbiamo mai fatto nemmeno negli anni più difficili e bui della nostra storia repubblicana”.

Ma le polemiche non si placano. “Io di questo mondo alla rovescia mi sarei anche rotto”, ha commentato Giovanni Paglia, membro della segreteria nazionale di Sinistra Italiana.

Foggia, il sogno di un’altra “Zemanlandia”. Il boemo torna in panchina per la 4ª volta

Il passato, quello bello, che ritorna. Zdenek Zeman siederà per la quarta volta sulla panchina del Foggia, in Lega Pro. Nel club rossonero il tecnico boemo, classe ‘47, aveva vissuto uno dei momenti più significativi della sua carriera quando, tra il 1989 e il 1994, era stato il protagonista della nascita di “Zemanlandia”, la massima espressione di un gioco energico e vivo che ha come cardine il 4-3-3, schema di gioco del quale il boemo aveva fatto una religione. Dopo una prima parentesi nella stagione 1986-87, Zeman aveva portato i pugliesi a trionfare in Serie B nel 1990-91 con il miglior attacco del campionato composto dal trio delle meraviglie formato da Giuseppe Signori, Roberto Rambaudi e Francesco Baiano (quell’anno capocannoniere del torneo). Ma il suo Foggia avrebbe lasciato il segno anche in Serie A, salvandosi per tre stagioni e sfiorando l’ingresso in Coppa Uefa. Trascorso l’apice della carriera sulle panchine di Roma, Lazio e Napoli, Zeman era tornato una terza volta in rossonero tra il 2010 e il 2011. Quindi, il nuovo divorzio. Non un addio, perché tutti i grandi amori prima o poi ritornano.

“Una ferita ancora aperta. Ora il direttore si dimetta”

“Sono parole che è difficile anche commentare. Si qualificano da sole. Non si finisce mai di stupirsi degli esseri umani…”. Sono le prime frasi che Stefano Lorenzi, rappresentante regionale dei viaggiatori alla Conferenza per il Trasporto Pubblico Locale della Lombardia, nonché membro del Comitato Pendolari Bergamaschi, si lascia sfuggire dopo aver ascoltato le frasi pronunciate da Alberto Zoli nei minuti successivi al deragliamento di Pioltello del 25 gennaio 2018. Una tragedia nella quale persero la vita tre donne, Alessandra Pirri, Ida Milanesi e Pierangela Tadini, mentre altri 46 passeggeri rimasero feriti. Molti di loro, come Zoli aveva ordinato, furono medicati “sul posto, a beneficio evidentemente dei media”, scrivono gli investigatori, mentre nel cielo volavano elicotteri inviati dall’Areu pur sapendo che non avrebbero avuto lo spazio per atterrare. S.S., amica di una delle vittime, si rifiuta anche solo di parlarne. “Pioltello è stata una tragedia che mi ha toccato troppo profondamene, mi scusi, non riesco a dire nulla”.

Bergamo e Crema sono le due direttrici che, passando da Pioltello, raggiungono Milano. Per questo i due comitati sono stati i più colpiti dalla vicenda. E a loro spetta il compito di tenere viva la memoria di “quelle tre vittime, la cui unica colpa è stata quella di trovarsi sul treno sbagliato al momento sbagliato. Tre donne che andavano a lavorare”, aggiunge Lorenzi. Che parla sì, ma lo fa con la voce incrinata dalla rabbia, perché “per noi pendolari Pioltello è stata una vera strage, anche se le vittime sono state “solo” tre.

E ora, sentendo quelle terribili parole, fa ancora più male, perché constatiamo il poco rispetto delle istituzioni nei confronti di tre morti, tre persone che sarebbero potete essere ognuno di noi”. Per Lorenzi quello “Sperem! Io adesso, mi dispiace per loro, ma sperem”, pronunciato da Zoli – perché preoccupato che i morti fossero effettivamente tre e non solo uno (come dicevano le tv) e della conseguente “brutta figura” con l’allora presidente Maroni, è uno schiaffo in pieno viso. “Fosse per me, Zoli dovrebbe essere subito rimosso dal suo incarico”.