Il capo di Areu: “A Pioltello altri morti? Sperem”

“Limportante è che quando arriva qualcuno lì, veda tutto il nostro dispiegamento di mezzi (…) a prescindere dall’entità del danno. Quando arrivano le televisioni voglio tutto lì in dispiegamento”. Parole di Alberto Zoli, il capo dell’Agenzia regionale di Emergenza urgenza (Areu) lombarda, ritenuto dalla Guardia di Finanza di Olbia, ai vertici di un “Movimento” (così lo definisce), in grado di influire sulle gare pubbliche di mezza Italia.

Per gli inquirenti Zoli avrebbe una “maniacale ossessione” nel voler “esaltare l’immagine della sua Areu”, agenzia che guida dal 2008. Quello dell’Areu, per chi indaga, è un format che il manager mira a esportare in ogni Regione, anche a costo – secondo le accuse – di “turbare” i bandi di gara nel settore emergenza e soccorso. I finanzieri documentano “la presenza di condotte collusive che, per tramite di Zoli (…) portano la politica e la burocrazia locali a sottostare alle direttive di un personaggio di spicco che non esita a fare uso dell’importanza dei vari incarichi da lui ricoperti per mettere le mani sui bandi del settore dell’emergenza urgenza”. E non si fermerebbe nemmeno davanti ai morti del disastro di Pioltello, del 25 gennaio 2018, quando arriva ad augurarsi la morte di due feriti per non fare “brutta figura” con i vertici regionali.

Pioltello è il momento topico della “maniacale ossessione” che la Gdf attribuisce a Zoli. La concitazione lo spinge, secondo quanto ricostruito, ad “augurarsi la morte” di due pendolari feriti, per evitare brutte figure con l’allora presidente Maroni, al quale aveva comunicato in anticipo i decessi. “Sperem (che siano morte, ndr), io adesso, mi dispiace per loro, ma sperem”, dice intercettato a un collaboratore. “Fai arrivare i due elicotteri, anche tre… Basta che io possa dire che ho gli elicotteri dispiegati”, dice ancora. Poco importa se i due velivoli in più non potranno atterrare, perché non c’è lo spazio fisico per farlo. Devono esserci. E ordina che i feriti in codice verde siano medicati sul posto, “a evidente beneficio dei media”, annota la Gdf. Zoli al Fatto spiega: “(Quella frase, ndr) era perché la portavoce a me aveva detto questa informazione. Io credo di aver detto ‘speriamo che corrisponda…’”.

Al Pirellone Zoli è un’istituzione: nominato da Roberto Formigoni, diventa fedelissimo prima di Roberto Maroni e oggi di Attilio Fontana. Pur non essendo leghista, intercettato si vanta di un solidissimo rapporto con Matteo Salvini: “Conosco Salvini, conosco anche gli altri ecc. che hanno avuto bisogno di me, hanno sempre bisogno di me e quindi se chiedo qualcosa…”, dice. “Salvini è una brava persona (…) è un uomo di spettacolo (…) quando andava ai talk show mi mandava gli sms… mi mandava dei pareri sulle cose che stavano dicendo, in modo da poter dibattere”. Va precisato che agli atti gli sms di Salvini non ci sono e quella di Zoli potrebbe anche essere una millanteria. Da quel che emerge dall’informativa della Guardia di Finanza di Olbia, sarebbero costanti i suoi contatti con i vertici Babcock. Per gli inquirenti Zoli agirebbe perché così “si garantisce finanziamenti pubblici e privati che, in una sorta di circolo vizioso, ne aumentano il prestigio e il potere in modo sempre maggiore”. “L’importanza del suo ruolo”, scrive la Gdf, “sta nel riuscire a deviare i fondi che potrebbero ottenere altre associazioni per la medesima attività”. E più Areu nascono, più lui scala le gerarchie, ottenendo ruoli nella Conferenza delle Regioni – per l’attuazione del Nue 112 – e in Protezione civile.

Tanto potente che il 26 ottobre 2017, durante una cena con il vicepresidente di Leonardo-Agusta e il presidente di Babcock, Andrea Stolfa, in pieno bando per l’elisoccorso sardo, parla così dell’allora presidente Alessandro Profumo: “Ha scritto una lettera del cazzo al presidente della Sardegna. Quello (Profumo, ndr) ha fatto una cazzata, se stava fermo era meglio”. L’informativa sarda è stata inviata a tre procure. A Nuoro uno stralcio dell’inchiesta sul 112 è stata archiviata. La sua posizione è ancora al vaglio della Procura di Milano: al Fatto risulta indagato per turbativa d’asta – i pm hanno fatto cadere l’accusa di associazione a delinquere – ma lui riferisce di non aver ricevuto alcun avviso di garanzia. Raggiunto dal Fatto, Zoli commenta: “Sono a conoscenza solo di Nuoro. So benissimo di essere stato intercettato, di essere stato per mesi sotto i raggi x. Ma sono tranquillo, ho sempre agito in maniera regolare e rispettando le leggi, per il bene delle istituzioni”.

Elisoccorso, Il “sistema” delle gare pilotate

Appalti pilotati in tutta Italia per eliambulanze, Canadair e altri mezzi del soccorso aereo. Gare indirizzate, bandi “cuciti” su misura, funzionari accondiscendenti e “in conflitto d’interessi”. Un “sistema” – così viene definito dagli investigatori – su cui la Guardia di Finanza lavora da almeno tre anni e che ha portato all’apertura di diverse indagini in tutta Italia. Nel mirino forniture per centinaia di milioni di euro, in gran parte – secondo le accuse – assegnate alla Babcock Italia, il gigante dell’elisoccorso e antincendio che controlla oltre il 65% del mercato italiano.

I vertici, ormai ex, della multinazionale sono finiti nel mirino dei pm di Tempio Pausania, in Sardegna, che poi hanno trasferito gli atti per competenza a diverse procure. Agli atti ci sono anche le conversazioni di Alberto Zoli, uno dei dirigenti più potenti della Regione Lombardia. Direttore generale dell’Agenzia regionale Emergenza e Urgenza (Areu), fu nominato dall’ex governatore Roberto Formigoni ed è diventato poi fedelissimo dei governatori leghisti, prima Roberto Maroni e poi Attilio Fontana. In una conversazione, intercettata, del 27 marzo 2018 con un suo collaboratore, Zoli si vanterebbe anche di una conoscenza diretta con Matteo Salvini. Il dirigente è anche membro di una commissione della Conferenza delle Regioni, che si occupa dell’attuazione del Numero di Emergenza Unico europeo 112. Era proprio Zoli, intercettato, che il 24 novembre 2017 al telefono diceva: “A me non me ne fotte un cazzo di prendere la macchina migliore”, parlando dell’acquisto degli elicotteri per la gestione dell’elisoccorso in Sardegna.

Il “Movimento” Gli ex vertici Babcock

In un’informativa di 153 pagine, la Guardia di Finanza traccia quello che alcuni degli indagati intercettati definisce come un “sistema” o anche un “Movimento” che arrivava ovunque, dalle singole regioni al Viminale. “L’associazione – si legge negli atti – è diretta alla realizzazione di un più ampio programma criminoso” con “elementi che coesistono in ogni singolo episodio”. Non solo: “L’accordo permane anche dopo la consumazione di ciascun reato, senza con questo esaurirsi”. Dalle carte dell’indagine, emerge come Zoli si attivi per “fornire” il bando ai vertici non solo sardi, ma di varie Regioni italiane per imporre il modello Areu in tutta Italia. Per gli inquirenti, infatti, Zoli “non esita a fare uso dell’importanza dei vari incarichi da lui ricoperti per mettere le mani sui bandi del settore dell’emergenza-urgenza”. Così “impone la sua Areu come principale agenzia del settore e si garantisce finanziamenti pubblici e privati che, in una sorta di circolo vizioso, ne aumentano il prestigio e il potere in modo sempre maggiore”. Al centro delle presunte turbative il ruolo degli allora dirigenti della Babcock Italia, ma anche di funzionari pubblici, secondo gli investigatori finiti nella rete del presunto “sistema”. A quanto ricostruito dalla Finanza, sono Zoli e l’ex ad di Babcock, Andrea Stolfa, che decidono quali elicotteri vanno comprati (arrivando a influenzare le scelte industriali di Leonardo Spa), chi deve essere nominato a capo del servizio d’emergenza (come accade in Sicilia, Calabria e Sardegna), quante basi di elisoccorso debba avere una regione (e quindi quanti soldi debba sborsare il pubblico). Il segreto del successo del “Movimento” – come lo definiscono loro stessi – è stato, per gli inquirenti, riproporre in ogni regione italiana il “format vincente” dell’Areu lombarda. “Alla fine siamo una banda di… una specie di… caravanserraglio – dice Zoli intercettato il 21 dicembre 2017 al telefono con il dirigente di Babcock, Leandro Bertola – Alla fine siamo i più grandi, i più bravi, i più tutto! E quindi: Nord-Est, Nord, Centro…”.

Elisoccorso Il primo bando

Il bando da cui parte tutta l’inchiesta è quello del 2017 per l’elisoccorso in Sardegna, del valore di 66 milioni di euro. Secondo i finanzieri, Zoli avrebbe “contribuito alla progettazione del bando” pur “non avendo alcun incarico formale di progettazione” con gli allora “vertici di Babcock Mcsi” che “avrebbero avuto la evidente capacità di ottenere notizie in anteprima da pubblici ufficiali”. Innumerevoli sono poi i contatti tra Zoli e Stolfa, che con la sua Babcock parteciperà poi alla gara. Non la vincerà, ma solo perché, secondo i militari, Stolfa non si accorderà con l’altra società partecipante al bando e perderà. I vertici Babcock, in quel momento, per gli inquirenti avrebbero avuto l’interesse di monopolizzare il mercato. Come nel caso dell’appalto da 100 milioni dell’elisoccorso calabrese. Qui la storia la ricostruisce la Procura di Catanzaro, che il 6 febbraio 2018 esegue misure cautelari (ora modificate con i domiciliari) nei confronti del responsabile del 118 dell’Azienda sanitaria provinciale, Eliseo Ciccone, un dirigente regionale, Salvatore Lopresti, e due manager di Babcock, Monica Mazzei e Leano Bertola. Per gli inquirenti hanno scritto loro il bando di gara (copiandolo da quello appena vinto in Abruzzo). È attualmente in corso il processo a Catanzaro.

Canadair Quel gancio al ministero

Ma la longa manus degli indagati sarebbe arrivata anche al ministero dell’Interno. Indagando sulla Sardegna, infatti, i finanzieri di Olbia hanno intercettato un’altra presunta turbativa. L’appalto è quello da 388 milioni vinto da Babcock per la gestione della flotta dei Canadair – gli aerei utilizzati in tutta Italia per lo spegnimento degli incendi – il 21 dicembre 2017. Una gara oggetto di una denuncia in un primo momento archiviata dalla procura di Roma. Ora però quel fascicolo è stato riaperto. Il dossier è finito sul tavolo del pm Alberto Pioletti che, supportato dall’informativa finale del Nucleo economico-finanziario di Roma, ha chiesto il rinvio a giudizio per quattro persone: i dirigenti di Babcock, Stolfa e Mazzei, il capo del coordinamento Soccorso aereo dei Vigili del Fuoco, Salvatore Rogolino, e Michele Tangorra, l’aviere che partecipò alla stesura del bando. L’udienza preliminare è fissata per il 24 giugno. I quattro sono accusati di “turbata libertà degli incanti” per aver “mediante collusione – si legge nel capo d’imputazione – turbato il procedimento amministrativo diretto all’affidamento del servizio di gestione”. La Babcock come società – specifica l’ufficio stampa – e gli attuali dirigenti non sono indagati in nessuna inchiesta, ma per i pm romani il risultato è stato “un bando perfettamente a misura della Babcock Spa”.

Amuchina, guerra in famiglia “Angelini è incapace, anzi no”

La guerra tra le sorelle Angelini, figlie di madri diverse, non è finita. Per ora vince la più piccola, Thea Paola, biologa, 34 anni. Il padre, il cavaliere Francesco Angelini, le ha consegnato il 68 per cento della holding che controlla il gruppo noto a tutti per la Tachipirina, il Moment, l’Amuchina, Lines, Pampers e molto altro. Ma nel 2019 la secondogenita Maria Gioella, 49 anni, ha denunciato per circonvenzione di incapace la sorellastra e il marito, Sergio Marullo di Condojanni, 43 anni, sposato nel 2017 e dal 2020 amministratore delegato di Angelini Holding.

L’industriale 75enne, infatti, ha una storia di abuso di alcol e benzodiazepine. Ha sempre firmato le donazioni e gli altri atti a breve distanza dai ripetuti ricoveri, anche in terapia intensiva e con gravi episodi confusionali. Secondo il medico legale Vittorio Fineschi della Sapienza e il neurologo Giulio Maira dell’Humanitas, consulenti di Gioella, “quantomeno dal 2015” è affetto da “disturbo neurocognitivo maggiore”, una forma di “demenza”, forse aggravata da psicofarmaci come l’Entumin, un vecchio antipsicotico che si dà anche agli schizofrenici. La sorella di Angelini, Luisa, chiedeva di interromperlo. A detta dello psichiatra Paolo Girardi, che da decenni cura l’imprenditore ed è stato registrato di nascosto da Gioella, nel 2015 serviva a “tenerlo lontano dall’alcol” perché era “uscito pazzo”.

Il 1° giugno il gip Emiliano Picca di Velletri (Roma), su richiesta del pm Giuseppe Patrone, ha archiviato le accuse a carico di Thea, figlia di una ex segretaria di Angelini, e del marito. Ma Gioella, che lavorava nel gruppo e ha rifiutato una buonuscita di 180 milioni di euro poi lievitata fino a 480, non si dà per vinta. Il 20 maggio ha denunciato il perito del gip, Fabrizio Iecher, psichiatra e medico legale, docente a contratto a Roma Tre. L’archiviazione poggia infatti sull’incidente probatorio in cui Iecher ha esaminato Angelini e la monumentale documentazione clinica. Scrive che l’industriale soffre di un “deterioramento cognitivo”, sia pure “di grado moderato”, che “non gli consente di essere ascoltato e di rendere dichiarazioni utili” in tribunale. Ritiene però che fosse “capace di intendere e di volere” tra l’agosto 2015 e il marzo 2018, al tempo delle disposizioni in favore di Thea e, di fatto, di Marullo. Nobile messinese, già avvocato in piazza San Lorenzo in Lucina come Giulia Bongiorno che lo ha difeso a Velletri, Marullo è anche nel cda di Banca Aletti. È stato allievo del grande civilista Natalino Irti, chiamato nel 2015 da Angelini a disegnare il patto di famiglia che dava le aziende a Thea, fatto saltare da Gioella. La primogenita Maria Francesca, nata come Gioella dal matrimonio dell’industriale con Maria Stella Medi, si è invece fatta da parte per 300 milioni e il 16 per cento della holding in nuda proprietà, senza diritti di voto.

Nei colloqui clinici, Angelini a volte conferma le sue decisioni e la sofferenza per il conflitto con Gioella; più spesso, come dicono gli psichiatri, confabula. Dà per vivo il fratello morto, si confonde sui nomi, sugli assetti societari e sul Covid. Ai periti non sa spiegare perché si portano le mascherine, ma sei mesi prima risulta aver annunciato una donazione di un milione di euro allo Spallanzani: lo stesso giorno uno dei suoi medici ne certificava la “disaggregazione cognitiva”. In un’intervista al Sole 24 Ore del 5 agosto 2020 illustrava lucidamente le scelte societarie subito dopo che il Corriere della Sera aveva scritto della denuncia di Gioella, ma due mesi dopo fatica a spiegare le stesse cose ai periti. Non riconosce i medici che ha visto un mese prima, nemmeno Stefano Ferracuti, da lui nominato per opporsi all’interdizione chiesta dalla figlia.

Il foro competente è Velletri perché Angelini vive in una villa a Grottaferrata, ai Castelli Romani, dal 2015 assistito giorno e notte da psichiatri e infermieri. Nel comprensorio abitavano pure Thea e il marito, che gestiscono le aziende e i medici. Lì vive anche Antonella De Marco, l’ultima compagna di Angelini: a verbale nel 2019 dice un gran bene di Thea e Marullo, conferma che l’industriale voleva lasciare le aziende a loro, ma nei messaggi whatsapp a Luisa Angelini li chiama “avvoltoi” e tratta ancora peggio Girardi. Iecher prende per buono il verbale, come se il giudice gli avesse delegato anche la valutazione delle testimonianze. In sintonia con i consulenti degli indagati e del presunto manipolato, ritiene che Angelini si agiti quando si sente sotto esame e che si sia aggravato solo dal 2019 dopo le azioni legali della secondogenita.

Sono tanti gli intrecci evidenziati da Gioella nell’ultima denuncia. Iecher, scrive, ha detto di aver “tenuto sulle ginocchia” Ferracuti, consulente di parte del presunto manipolato e collaboratore del gruppo Angelini, guidato dagli (ex) presunti manipolatori. Assisteva la persona offesa Angelini, rileva Gioella, l’avvocato Cinzia Bernardini, ex collega di studio di Marullo. Nel civile l’industriale è assistito dal professor Romano Vaccarella e dall’avvocato Francesco Gianni, delegato da Thea a partecipare all’assemblea della holding del 30 giugno 2020, dove però nessuno rappresentava il padre e il 32 per cento di cui dispone.

Gioella accusa Iecher di falsa perizia, falsa testimonianza e altri reati in relazione all’incidente probatorio: la scelta di non videoregistrare il colloquio clinico tenuto dal solo perito; l’impossibilità per i consulenti di parte di interagire a distanza via webcam, come era stato garantito; la presenza di Antonella De Marco e di almeno un’altra persona, negata davanti al giudice da Iecher ma confermata dall’analisi del filmato e dall’audio, registrati di nascosto e affidati a un’impresa specializzata. Anche noi abbiamo visto quel video e anche altri, tutti agli atti, “rubati” da Gioella. Ce n’è uno del 3 luglio 2019 in cui l’industriale assiste silenzioso a un’assemblea di Angelini Finanziaria Spa: nel verbale poi si legge che egli “assume la presidenza”, “cede la parola” e “propone la distribuzione di euro 20 milioni” di dividendi. Quella volta ha chiesto chiarimenti perfino Francesca: il padre vota anche per il suo 16 per cento. Nel civile Gioella è assistita dagli avvocati Sergio Erede e Antonio Di Porto. Il presidente Guglielmo Garri ha negato la nomina di un tutore provvisorio dopo aver tenuto udienza il 17 giugno 2020 nella villa per sentire Angelini, che chiamava “Claudia” la figlia Thea e non ricordava bene gli assetti del gruppo: “Ha risposto – scrive il giudice – con modalità talvolta non congrue e non sempre puntuali ma sempre utilizzando un linguaggio proprio”. I legali di Gioella hanno contestato Maurizio Marasco, lo psicopatologo forense scelto da Garri, tra l’altro per la mancata videoregistrazione dei colloqui clinici e per i passati rapporti professionali con Paolo Albarello, consulente di Angelini. Chiedevano di revocargli l’incarico, anche dopo che è stato affiancato da Pietrantonio Ricci (medico legale) e Massimo Di Genio (psichiatra).

Per i tre l’imprenditore è in uno “stato di infermità mentale abituale tale da renderlo incapace di provvedere alla cura dei propri interessi”. Scrivono che è “parzialmente capace”, ma l’avverbio l’hanno aggiunto solo dopo le osservazioni di Fineschi: per quanto appaia incredibile, sostengono sia stato un errore di digitazione. Alla pagina seguente però ribadiscono che Angelini “non versa in una condizione di incapacità di intendere e di volere” e che le sue “lacune mnestico-cognitive sembrano influenzate dal contesto”. Ritengono tuttavia “necessario” un amministratore di sostegno, di cui l’industriale potrebbe fare a meno vista la solida “rete familiare”. Quella, senz’altro, funziona.

 

Moment, lines e tachipirina: 1,7 miliardi

Nel 2019 il gruppo Angelini, fondato cent’anni prima, ha fatturato 1,7 miliardi di euro, con utili per 149 milioni e patrimonio netto di 1,9 miliardi. Produce tra gli altri, Moment, Tachipirina, Amuchina, Lines e Pampers. Ha acquisito la svizzera Arvelle per quasi un miliardo di dollari. Francesco Angelini, 75 anni, ha donato il pacchetto di controllo alla figlia Thea. La sorella Gioella ha denunciato lei e il marito: archiviati. Per Gioella e i suoi periti il padre è infermo di mente

La variante Delta fa paura: troppi over 60 senza dosi

La curva epidemica da Covid-19 in Italia si presenta come tra le più basse tra quelle dei principali Paesi europei, eppure pare che una volta di più l’unica strategia vera sia la speranza che essendo un virus respiratorio non attecchisca troppo col caldo estivo dell’area mediterranea, ma in vista di settembre e del ritorno dell’autunno sarebbe necessario correre con la campagna di vaccinazione dal momento che sono ben 1.612.460 gli over 60 ancora senza prima dose, mentre sono 369.651 gli over 80 e 851.867 nella fascia 70-79. Quello che appare ancora mancare è un disegno organico sulle decisioni da prendere, troppo frammentate e contraddittorie, come se la lezione dello scorso anno non avesse insegnato nulla: la Sardegna ha eliminato qualsiasi controllo in entrata dal 15 giugno, la politica discute se sia il caso di eliminare l’obbligo delle mascherine e le limitazioni per i voli in entrata dal Regno Unito entreranno in vigore da domani, con la partita Italia-Galles di Euro 2020 già bella che giocata. Anche se continua a incombere la minaccia della variante Delta del virus, proveniente dall’India via Inghilterra, che si è dimostrata il 60% più contagiosa.

“Vengono segnalati in Italia focolai di varianti, anche da variante Delta che possono eludere i vaccini – ha infatti messo in guardia venerdì Silvio Brusaferro, Istituto superiore di sanità –. Questi focolai devono essere monitorati con attenzione e ciò implica anche una grande attenzione nel tracciamento e nel sequenziamento. Proprio individuazione dei casi, tracciamento e vaccinazione sono gli elementi che ci consentono di affrontare questa situazione”. Inoltre, si è visto che la “parziale evasione dai vaccini della variante Delta fa si che la dose unica possa non coprirla. Quindi in Uk si stanno velocizzando le seconde dosi. Noi invece – ha chiarito Gianni Rezza, ministero della Salute – abbiamo sempre adottato un regime a doppia dose e questo dovrebbe proteggere di più la popolazione”. Per ora dunque, “la situazione epidemiologica nel nostro Paese è più favorevole”.

Con l’incidenza dei casi che si colloca a 50 per 100 mila abitanti, e a un indice di trasmissibilità Rt stabile al 0,69. Tutti indicatori che lasciano ben sperare e che arrivano dall’ultimo monitoraggio settimanale della Cabina di regia. Tuttavia, l’epidemia non è finita, avverte l’Istituto superiore di sanità, con la preoccupazione per la famigerata variante Delta.

Ieri i numeri del bollettino quotidiano del ministero indicavano 1.197 positivi al test nelle ultime 24 ore (venerdì erano stati 1.147) su 249.988 tamponi (venerdì 216.026) con 28 vittime in un giorno, mentre venerdì erano state 35. Pure il tasso di positività è in leggero calo rispetto al giorno prima e si colloca dallo 0,5 allo 0,47%, il livello più basso del 2021. E il grado di stress delle strutture ospedaliere continua a diminuire: sono infatti 394 i ricoverati in terapia intensiva per Covid, con un calo di 22 pazienti rispetto in ventiquattr’ore, mentre i ricoverati nei reparti ordinari sono 2.504, in calo di 176 unità.

Intanto Arnaldo Caruso, presidente della Società italiana di virologia, avverte: “Assistiamo a una pandemia sostenuta da un virus che si trasmette per via aerea con altissima efficienza, addirittura meglio di qualunque altro virus respiratorio del passato”. Contro un nemico simile, “un’immunità di gregge non può essere conseguita con l’attuale campagna vaccinale perché per raggiungerla, teoricamente, bisognerebbe arrivare a coprire oltre il 95% della popolazione. Cosa che una vaccinazione non obbligatoria oggi non è in grado di assicurare”.

Il Santissimo Draghi “si immola” e “offre il suo corpo per noi”

Noi non ce ne eravamo accorti, ma quando Mario Draghi, due sere fa, ha sdoganato in conferenza stampa la vaccinazione eterologa stava in realtà palesando una sua dimensione mistica. Ci era sfuggito, avendo scambiato le sue parole per l’ennesimo cambio di rotta sulle somministrazioni, ma in nostro soccorso sono arrivati ieri i più noti quotidiani nazionali, informatissimi Vangeli delle opere del presidente del Consiglio. E si badi bene: i riferimenti religiosi non sono un’ironia nostra, ma una formale presa d’atto dello stato delle cose.

Ce lo spiega Repubblica. Titolo: “Se il premier offre il corpo”. Svolgimento: “Stavolta ci ha messo la faccia. E non solo quella. Il presidente del Consiglio ci ha dovuto mettere anche la sua persona: il corpo del leader offerto come prova dell’efficacia della seconda dose eterologa”. Un sacrificio per il bene dell’umanità: “Per raggiungere l’obiettivo, aveva un unico modo: mettere in gioco se stesso. E per farlo ha dovuto offrire al nemico invece del suo petto la sua spalla. Draghi ha deciso di usare il proprio corpo per bucare il muro di diffidenza”.

Testimonianze dell’agape draghiano, di questo amore disinteressato che forse neanche ci meritiamo, arrivano anche da Libero. Il titolo è sobrio: “Draghi si immola”. E pensare quante migliaia di persone ogni giorno si immolano senza neanche sapere di essere soldati al fronte. Il giornale diretto da Alessandro Sallusti dispensa miele: “È il Draghi che ti aspetti: che ciancia poco e va dritto al punto. Meglio: quello che il punto lo centra proprio dando l’esempio”.

Secondo Il Giornale, quello di Draghi è invece “un bazooka”, segno che il premier consente di passare dalle metafore spirituali al linguaggio bellico senza che la propaganda ne risenta. Attenzione però, perché anche se si parla di guerra “i modi del premier sono sempre educati e cortesi”, a dispetto di chi credeva si presentasse in conferenza stampa ruttando. Gufi rimandati al mittente anche stavolta, col “premier che ha deciso dimetterci la faccia” nonostante “si sarebbe volentieri risparmiato di incontrare i giornalisti dopo una giornata intera passata in Spagna”. Vuoi mettere la Rambla? E invece lui è tornato, così magari la smettiamo di frignare.

A dare un quadro più generale dell’opera del profeta Mario ci pensa poi Sabino Cassese sul Corriere della Sera. Intanto ci informa che “senza troppi trionfalismi”, cioè senza vuvuzelas in Consiglio dei ministri, “Draghi ha cambiato radicalmente il registro di governo”. Il suo esecutivo rappresenta “il ritorno alla normalità costituzionale”, tanto che l’azione di governo “non è più la risultante dei compromessi tra i partiti”, ma “direttamente la sua linea”. Insomma decide tutto lui, ma pare sia meglio così. D’altra parte ora non ci sono più le mille task force di Giuseppe Conte, ci sono “commissioni di studio” secondo “la nobile tradizione britannica”, ci sono “nuclei, uffici e reti” perfettamente funzionanti. Di fronte a una così imminente età dell’oro, rispolvera le fanfare anche il Qn (Il resto del Carlino, La Nazione, Il Giorno): “Ci pensa lui”, è il titolone bianco in prima pagina sulla foto sorridente del premier. “Draghi mette ordine al caos”, dice. Speriamo che almeno il settimo giorno si ricordi di riposare.

È il governo delle retromarce: AstraZeneca sì e no, mix forse

Se il messaggio è passato lo vedremo nei prossimi giorni. La campagna vaccinale prosegue, le somministrazioni sono tornate sopra le 500 mila al giorno e l’obiettivo del governo è tenere quella media. “Saremmo al di sopra senza quello che è successo con AstraZeneca”, dicono alla Salute. E vedremo se la doppia scelta sui richiami per gli over 60 che hanno fatto la prima dose di Az rallenterà ancora le operazioni. Il pericolo è concreto, il disorientamento c’è, la scommessa riguarda soprattutto gli oltre 1,6 milioni di over 60 non vaccinati. Così hanno deciso che con la variante indiana in arrivo, che certamente diventerà prevalente, non si può lasciare senza la seconda dose chi rifiuta di cambiare vaccino. La prima, con l’indiana, non basta.

Intanto, per l’Italia quasi tutta in zona bianca, si avvicina il momento in cui potremo toglierci le mascherine all’aperto: il Comitato tecnico scientifico, su richiesta del ministro Roberto Speranza, inoltrata ieri, potrebbe riunirsi già domani. Dovrà esprimere un parere sulla scelta e sui tempi, sarà tra il 1° e il 12 luglio.

Sui vaccini ha deciso Mario Draghi. Venerdì 11 giugno, quando il governo ha vietato anche le seconde dosi con Az per gli under 60 perché il rischio di trombosi con riduzione delle piastrine indotte dai vaccini (le Vitt nell’acronimo inglese) era troppo alto quando il virus circola meno: dunque via ai richiami cosiddetti “eterologhi” con i vaccini a mRna di Pfizer Biontech o Moderna. E di nuovo venerdì scorso, il 18, quando hanno stabilito che chi vuole può farlo anche con Az. Fino al 10 per cento, secondo le stime del governo, non era convinto del mix: su quasi un milione non sono pochi. Draghi resta convinto che il “mix” funzioni, lo fanno già in Gran Bretagna, Germania, Francia, Spagna; i primi studi sono favorevoli anche se le agenzie regolatorie non li hanno ancora validati per mancanza di numeri sufficienti.

Da ieri mattina c’è la nuova circolare della Salute, conforme al parere del Cts: “Qualora un soggetto di età inferiore ai 60 anni, dopo aver ricevuto la prima dose di vaccino Vaxzevria (il nome commerciale di Az, ndr), pur a fronte di documentata e accurata informazione fornita dal medico vaccinatore o dagli operatori del centro vaccinale sui rischi di Vitt, rifiuti senza possibilità di convincimento, il crossing a vaccino a mRna, allo stesso, dopo acquisizione di adeguato consenso informato, può essere somministrata la seconda dose di Vaxzevria. Tale opzione risulta coerente e bilanciata dal beneficio derivante dall’annullamento del rischio connesso alla parziale protezione conferita dalla somministrazione di una singola dose di Vaxzevria”. Firmato Giovanni Rezza, direttore della Prevenzione.

I vaccini a vettore virale, AstraZeneca ma anche Johnson&Johnson, hanno i mesi contati. Dovremo vaccinarci anche l’anno prossimo, lo dicono tutti, e lo faremo con i vaccini a mRna, di cui la Commissione europea sta facendo ampie scorte. Perché sono più efficaci e più sicuri. Ma è un lusso che il governo italiano, come altri, non ha potuto permettersi nei mesi scorsi, quando l’epidemia correva ed era necessario immunizzare rapidamente il maggior numero possibile di persone. Siamo andati un po’ oltre, in alcune Regioni, con gli Open Day a base di Az per tutta la popolazione sopra i 18 anni, anche per smaltire le dosi accumulate: l’autorizzazione concessa il 12 maggio dal Cts è stata molto discussa. E così si è arrivati alla doppia e un po’ sgangherata marcia indietro di giugno. L’ultimo report dell’Istituto superiore di sanità conferma l’impatto delle vaccinazioni sull’epidemia. Secondo l’Iss, se “fino all’inizio di febbraio 2021 l’incidenza era più elevata nella fascia di età maggiore o uguale a 80 anni, a partire dalla seconda metà di febbraio, con il progressivo aumento della copertura vaccinale nei soggetti ultraottantenni, la diminuzione è stata più marcata in questa fascia di età rispetto alle altre”. Così, “attualmente, l’incidenza più elevata si osserva nei soggetti di età inferiore ai 60 anni, che hanno una minore copertura vaccinale”. Nelle ultime due settimane la maggior parte dei casi registrati è in persone tra 19 e 50 anni. Hanno un’età superiore a 50 anni il 27,9 per cento dei casi e meno di 19 anni il 21,9 per cento (età mediana 37 anni)”. Metà uomini e metà donne.

Il Corpus Domini

L’altra sera abbiamo seguito disciplinatamente la conferenza stampa del premier Draghi per fare chiarezza sul lievissimo casino dei vaccini. E ne siamo usciti più incasinati di quando non aveva ancora fatto chiarezza. Dopo mesi di ordini, contrordini e controcontrordini sui limiti di età per Astrazeneca, ci era parso di capire da Ema, Aifa, Cts & C. che almeno una cosa fosse assodata: chi ha fatto la prima dose di AZ, se ha più di 60 anni deve fare la seconda dose omologa con AZ; se ha meno di 60 anni, deve fare il richiamo eterologo con Pfizer o Moderna (Johnson&Johnson, monodose ma a vettore virale come AZ è al momento disperso, ma non sottilizziamo). Poi ha parlato Draghi: avendo più di 60 e anche di 70 anni ed essendo stato vaccinato con AZ, è “prenotato per l’eterologo” perché “la prima dose con AstraZeneca ha dato una bassa risposta immunitaria”. Oh bella: ma il suo Cts e il suo ministero della Salute avevano detto l’opposto: eterologo sotto i 60, omologo sopra. Infatti tutti i suoi coetanei, dopo la prima dose AZ, sono prenotati per la seconda dose AZ. E poi come fa Draghi a sapere che ha “una bassa risposta immunitaria”? A parte il fatto che il test sierologico sugli anticorpi dopo la prima dose non è probante, vuole forse dirci che prima del richiamo dobbiamo passare tutti dal medico? E perché nessuno è stato avvertito, né i medici né i pazienti? Non solo: siccome era pure assodato che gli under 60 non dovevano ripetere AZ ma passare al mix con Pfizer o Moderna, Draghi comunica che sono liberi di rifarsi AZ se muniti di “consenso informato”. Informato da chi? Dal medico. Che però può fornire solo consensi disinformati: sul mix vaccinale l’Aifa ha deciso di non decidere, per mancanza di studi scientifici. E quale medico, dopo un simile verdetto, rischierà di prescrivere l’omologo AZ agli over 60?

Mentre ci maceravamo nei dubbi, abbiamo letto i giornali di destra e scoperto che il problema era solo nostro: sono tutti estasiati per la cristallina chiarezza di Draghi, colto nell’estremo sacrificio di “metterci il braccio” (Libero), pardòn “il bazooka” (qualunque cosa voglia dire, Giornale), anzi di “offrire il suo corpo” (Repubblica): il famoso Corpus Domini. Intanto insigni scienziati spiegano quanto il mix sia molto meglio dell’omologo. A saperlo prima, si potevano far autenticare i vaccini da Vittorio Sgarbi. O affidare le fiale di Pfizer, Moderna, AZ e J&J a un battaglione di baristi per shakerarle tutte insieme già in prima dose, con una punta di spritz, una spruzzata di seltz, un’olivetta e una fettina d’arancia. E condire il tutto con un decreto chiarificatore di un solo articolo definitivo: “Fate un po’ come cazzo vi pare”.

La lotta di Arafat, giovane emigrante che scopre lo sciopero nella logistica Tnt

È il giorno giusto, purtroppo, per scrivere di questo libro. Dove Arafat non c’entra nulla con il leader palestinese, ma è semplicemente un giovane egiziano emigrato in Italia, dalla Libia, che fa tutta la trafila dei giovani emigranti che solcano il Mediterraneo, ma con un particolare in più. Il suo viaggio fa un salto quantico nel momento in cui, lavorando alla logistica, proprio alla Fedex Tnt, conosce la lotta, il sindacato, diventandone leader e vincendo una dura lotta ai magazzini di Piacenza.

Una storia analoga a quella del povero Adil Belkhdim, ucciso ieri a Novara da un camionista, che lo ha travolto mentre organizzava un picchetto di operai in sciopero. Maria Elena Scandaliato scrive un reportage-romanzo facendo parlare sempre in prima persona Arafat, seguendone i movimenti, le vicissitudini drammatiche tra una sponda e l’altra del “mare nostrum”, il problema dei documenti, la mancanza del permesso di soggiorno, il carcere. E poi la ripartenza che coincide con l’assunzione – in parte vera, in parte truffaldina – nella cooperativa che a Piacenza gestisce la logistica per la Tnt. E qui la sua vita cambia e cresce allo stesso tempo.

Viene messo a lavorare come coordinatore, poiché sa gestire un “palmare”, ma siccome non gradisce fare il “capo” viene subito demansionato come facchino, caricando e scaricando pacchi enormi e pesanti. E tutto questo in mezzo a buste paga fasulle, contributi non versati, caporalato alle 5 del mattino, una vita infernale dove il rientro a casa assomiglia “all’ora d’aria in carcere”.

Arafat non si arrende, contatta il Si Cobas (lo stesso sindacato di Novara), convince oltre 100 colleghi a organizzarsi e organizzare lo sciopero in cui “i facchini toccano con mano la propria forza” capendo che “senza braccia la merce non si muove”. E il padrone smette di essere tale. Arafat va alla lotta in un viaggio esemplare, degno di essere conosciuto.

Quei due bastardi all’inferno: Dard, la grandeur del noir francese

Il prologo, anonimo: c’è un tizio che viene torturato a morte, o quasi. Invano. È una spia tenace e non parla. Così la polizia escogita un piano. Mandare il tizio in carcere con uno sbirro infiltrato e fare evadere i due insieme, per stanare l’organizzazione che protegge lo spione. Indi, si scopre che i nomi dei due sono Frank e Hal. Il genio di Frédéric Dard cattura il lettore con una trovata che regge sino alla fine: nel ritmo altissimo della narrazione i ruoli non sono definiti. Chi è la spia? E chi il poliziotto? Frank e Hal sono solo due detenuti che condividono la cella con un sordomuto che ha ucciso la moglie. Poco alla volta diventano amici e soci, anche se si menano spesso e sospettano l’uno dell’altro.

Il carcere è un inferno, tra secondini sadici e segrete d’isolamento assediate da famelici toponi. L’esecuzione di una condanna a morte (ghigliottina) è il giorno ideale per evadere. Nel paese si fa festa e ci sono le giostre – siamo nella Francia del sud – e anche gli agenti di guardia sono eccitati e rilassati. In particolare, il Fetente, una sorta di Cerbero obeso e sadico che mastica fiori e manganella detenuti. Frank e Hal lo attirano in cella fingendo l’ennesima rissa e il gioco è fatto. Evadono. Il paese ha un porto e dopo varie peripezie approdano su un’isoletta. Lì compare una donna misteriosa, già incontrata in precedenza durante la fuga. Il mistero sull’identità dei due sarà svelato solo nel tragico epilogo. Scrittore prolifico, Dard è noto per aver inventato la saga del commissario San-Antonio. I bastardi vanno all’inferno è un fulminante noir della sua infinita produzione e Rizzoli lo pubblica dopo altri due gioiellini: Gli scellerati e Il montacarichi. Al solito, anche a Dard è stata affibbiata dagli stessi francesi l’etichetta di erede di Simenon. Non è l’unico e non sarà l’ultimo. Non tenetene conto, basta buttare la fascetta commerciale.

“Mai stata bimba: sono metà acerba e metà appassita”

La solitudine fu per Irène Némirovsky il motore che la spinse a leggere Cechov, Maupassant e Mansfield, i suoi preferiti, e a scrivere. Voleva farsi giustizia per carenza d’amore: il padre era assorbito dagli affari, la madre si curava solo della propria bellezza e di attirare consensi. Della figlia temeva persino l’avvenenza. Irène lo racconta nella novella Il ballo, in cui la madre della 14enne Antoinette le vieta di partecipare a un ballo organizzato in casa per paura di sfigurare.

Irène crebbe così al pari di un’orfana, fu allevata dalla bambinaia che le insegnò il francese (ne fece la sua lingua di scrittura) come era uso in ogni buona famiglia russo-ebrea e finì per non essersi mai sentita bambina.

In Vino della solitudine, scritto a 32 anni, a distanza di sei da David Golder, l’opera che le diede la fama e dopo cui cominciò a pubblicare un romanzo l’anno, si legge: “Non essere stata bambina quando era il momento di esserlo fa sì che non si possa mai maturare come gli altri. Si è appassiti da un lato e ancora acerbi dall’altro”. Anche la Storia ci mise del suo nel determinare il destino di Irène. La famiglia Némirovsky lasciò Kiev quando la rivoluzione bolscevica cominciò a minarne l’incolumità. L’approdo finale fu Parigi nel 1919. Irène, 16enne, ne era felice, per lei la Francia fu sempre il Paese più bello del mondo eppure questa terra così amata la tradì, non concedendole mai la cittadinanza, non proteggendola quando le leggi razziali bussarono alla sua porta. Il marito, banchiere, fu licenziato, Irène non poté più pubblicare col suo nome perché ebrea, proprio lei che con la scrittura aveva ritratto criticamente la crème cui apparteneva, accusandone avarizia e cupidigia, finendo per essere tacciata di antisemitismo.

Altro nodo centrale della sua narrativa: le figure genitoriali. Le madri che mette su carta sono proiezioni della sua, come in La nemica o Jezabel in cui Gladys, venerata dagli uomini, si sporca le mani di sangue pur di continuare a esserlo. Il padre abita invece storie sulla sete di denaro e potere quali La preda, Re di un’ora, testo inedito in Italia in uscita per Ares sulla figura del “faccendiere dall’esistenza effimera, che conosce rapide ricchezze, regni grandiosi e altrettanto fragili, circondato da amori che hanno prezzi e costi precisi, amicizie interessate”, un po’ come David Golder. Della scrittura di David Golder si pentì: “Mi chiedo se per condannare l’ambiente sociale da cui provenivo non abbia fornito ulteriori munizioni agli antisemiti”.

A Parigi, passata da Grasset ad Albin Michel, Irène scrisse sempre moltissimo fino a quando capì che il tempo stringeva. “Ho perso la mia stilografica. E ho ben altre preoccupazioni, come la minaccia del campo di concentramento”, appuntava nel giugno del ’41. In quel periodo si dedicò quindi febbrilmente alla stesura di quello che a oggi è il suo capolavoro, tradotto in 38 lingue con 3 milioni di copie vendute. Suite francese. Lo pensò come sinfonia in cinque movimenti a narrare il ferale destino della Francia durante l’occupazione nazista ma riuscì a scriverne solo i primi due, Tempesta in giugno e Dolce, storia della passione tra una sposa di guerra e un ufficiale tedesco. Alla primogenita Denise, pochi giorni prima di essere arrestata, fece promettere che mai si sarebbe separata da quel taccuino. Così fece, tra mille peripezie, ché lei e la sorella sopravvissero per miracolo, graziate da un ufficiale tedesco, poi in fuga per mesi.

Suite francese rimarrà una decade in una valigia sino a quando Denise si fa forza (aprirla significa fare i conti con un dolore immenso) e con quel gesto semplice, eppure fortemente simbolico, scopre quella che diventerà l’opera più rappresentativa di una madre persa troppo presto. Le ultime parole scritte, a un soffio dal suo arresto a Issy-l’Évèque, in Borgogna, dove si era rifugiata, sono queste: “I pini intorno a me. Sono seduta sul mio maglione blu come su una zattera in mezzo a un oceano di foglie putride inzuppate dal temporale della notte scorsa, con le gambe ripiegate sotto di me! Ho messo nella borsa il secondo volume di Anna Karenina, il Diario di Katherine Mansfield e un’arancia. I miei amici calabroni, insetti deliziosi, sembrano contenti di sé e il loro ronzio ha note gravi e profonde…”.