Palamara: “Ho sbagliato a parlare di Ielo con Lotti”

Luca Palamara si scusa con il procuratore aggiunto Paolo Ielo e rettifica. Stefano Fava a sua volta precisa: l’esposto presentato due anni fa riguardava esclusivamente l’ex procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, e non Ielo. È Ielo, per ore e ore, l’oggetto della discussione nell’udienza che si è tenuta ieri a Perugia per il fascicolo che vede indagati Fava e Palamara con l’accusa di rivelazione del segreto istruttorio. È di Ielo, e delle (legittime) consulenze di suo fratello Domenico, che Fava discuteva con Palamara (intercettato dal trojan) e quest’ultimo (sempre intercettato) con Luca Lotti. Al punto che – in sede disciplinare – Palamara è stato accusato di aver voluto screditare il procuratore aggiunto di Roma. “Sono stato male informato” ha spiegato Palamara ieri, depositando una memoria e parlando in aula. E di conseguenza, considerate le intercettazioni depositate nel fascicolo, è come se avesse dichiarato di essere stato “male informato” dallo stesso Fava. Ma non solo da Fava. Perché di Ielo, e delle consulenze di suo fratello Domenico, Palamara aveva parlato con più d’una persona. “Non avrei dovuto parlarne con Lotti e ho sbagliato a portare avanti questo argomento”. In sostanza, la tesi era che Ielo, in virtù delle consulenze in questione, non si sarebbe opposto all’assoluzione di alcuni imputati – parliamo della vicenda Condotte Spa – che, successivamente a questo passaggio processuale, e peraltro quando la società era in amministrazione controllata, avrebbero assunto come consulente suo fratello. Ielo, in un altro fascicolo, quello che riguardava le vicende di Piero Amara, ex legale esterno dell’Eni, decise invece di astenersi per le consulenze che suo fratello aveva ricevuto proprio dal nostro colosso petrolifero. E così Palamara scrive di essere stato “male informato” riguardo “la precedente astensione del dottor Ielo e alla corretta cronologia degli incarichi ricevuti dall’avvocato Ielo”. E aggiunge che “tali circostanze, unitamente allo stress emozionale della sottoposizione a procedimento penale presso la Procura di Perugia” lo avevano portato “a esprimere sul conto” di Ielo “espressioni verbali profondamente sbagliate e che peraltro stridono con la correttezza dei rapporti che all’interno della Procura di Roma ha da sempre caratterizzato le relazioni tra i due”. Palamara si scusa anche per alcuni passaggi del libro “Il Sistema” firmato con il direttore di Libero Alessandro Sallusti. E lo fa sempre nell’udienza del procedimento in cui il Gup di Perugia deve decidere se rinviare a giudizio lui e Fava (per accuse a vario titolo di abuso d’ufficio, accesso abuso a sistema informatico e rivelazione di segreto d’ufficio). In questa udienza Ielo era fino a ieri, per quest’ultima ipotesi di reato, parte civile. Ritenendosi soddisfatto dei chiarimenti di Palamara, l’ha ritirata. Ma torniamo alle dichiarazioni di Palamara che “non ha mai voluto mettere in discussione la professionalità di Ielo che da sempre stima come magistrato capace e di alta professionalità anche con riferimento alla vicenda Consip”.

“Con riguardo all’incontro avvenuto a Piazzale Clodio – di cui parla nel libro e durante il quale avrebbe promesso a Ielo il suo voto per la nomina da aggiunto – specifica che “nessuna richiesta è pervenuta da Ielo”. E ancora: “Per quanto riguarda la cena, che nei ricordi del dottor Palamara è avvenuta prima della nomina del dottor Ielo – si legge ancora nell’atto -, si intende precisare che il racconto descritto nel libro è riferito al rapporto intercorrente tra il dottor Palamara e il dottor Pignatone con il quale in plurime occasioni era stato affrontato il tema degli aggiunti a Roma e della migliore organizzazione dell’ufficio. In questi casi non era presente il dottor Ielo”.

Poi Palamara si è difeso nel merito, unendo al documento alcune dichiarazioni spontanee sostenendo la “totale estraneità ai fatti” contestati dai magistrati dalla Procura di Perugia guidati da Raffaele Cantone e ha ribadito di non aver “mai messo in atto attività di dossieraggio” e aver “sempre operato nel bene e nell’interesse della Procura di Roma”. Fava a sua volta ha rilasciato dichiarazioni spontanee per poi essere interrogato. “Ha dimostrato, esibendo documenti ufficiali inequivocabili, la non corrispondenza al vero di quanto ipotizzato nei capi d’imputazione” hanno detto i suoi difensori Luigi Panella e Luigi Castaldi.

Montante: “Non ho mai parlato di antimafia, mica sono sceriffo. Amara? Non so chi sia”

“Io nella loggia Ungheria? Non conosco Amara e non l’ho mai conosciuto”. L’ex apostolo dell’antimafia ed ex presidente di Confindustria Sicilia, Antonello Calogero Montante, smentisce le dichiarazioni dell’avvocato Piero Amara, rese ai magistrati di Milano, sulla sua appartenenza alla presunta loggia Ungheria. Per anni è stato figura cardine degli imprenditori antimafia siciliani, fino a quando l’inchiesta della Procura di Caltanissetta non ha scoperchiato il vaso di pandora. Condannato in abbreviato in primo grado a 14 anni per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione, Montante è considerato il capo di “sistema”, che con la compiacenza di uomini delle forze dell’ordine e funzionari di Stato, monitorava e spiava amici e nemici, ottenendo informazioni segrete per costruire dossier. Al processo d’appello a Caltanissetta, Montante ha tenuto a fare dei distinguo sulle sue attività di contrasto a Cosa Nostra: “Non ho mai parlato di antimafia, ma solo di attività legalitaria. A noi interessava ripristinare la legalità. Non eravamo sceriffi”.

Suicidio Losito, i pm indagano su Alberto Tarallo

Il produttore televisivo Alberto Tarallo è indagato per la morte dello sceneggiatore Teodosio Losito. Il reato ipotizzato dalla Procura di Roma è istigazione al suicidio e Tarallo, fondatore della società Ares, è stato oggetto ieri di acquisizioni documentali da parte della Guardia di finanza, su disposizione dei magistrati di piazzale Clodio.

La morte di Losito risale al gennaio del 2019, quando fu trovato morto nella sua abitazione di Roma. Più tardi, durante la diretta del Grande Fratello Vip una concorrente, Rosalinda Cannavò, ha poi accennato a una “setta” che avrebbe avuto delle relazioni col suicidio di un certo “Teo”. Le indagini hanno portato la Procura ad ascoltare decine di personaggi televisivi, ambiente in cui Losito aveva lavorato come attore, cantante, sceneggiatore e produttore.

Un paio di mesi fa, quando già il nome di Tarallo era stato associato al suicidio, l’avvocata Daria Pesce – che difende il produttore – aveva giurato a ilfattoquotidiano.it di essere in possesso “dei reali documenti che dimostrano i reali motivi che hanno spinto Losito al suicidio”. Documenti che l’avvocata avrebbe consegnato ai magistrati: “Noi abbiamo tutte prove – era la versione della Pesce – che dicono che Losito abbia compiuto questa scelta drammatica spinto dai debiti accumulati: Teo non solo non aveva più soldi ma aveva molti debiti cui Tarallo ha in parte fatto fronte”. Lo scorso anno il produttore si era difeso a Non è l’Arena, su La7, rigettando le accuse e negando che la sua casa di produzione Ares fosse paragonabile a una setta: “Ma quale setta? Al massimo organizzavamo dei pranzi e ci veniva Ursula Andress”. E così, secondo Tarallo, quelle nei suoi confronti sarebbero state soltanto cattiverie dovute “al rancore” di chi aveva chiuso i rapporti professionali con Ares.

Al via le udienze: l’1 e il 19 si decide sui rinvii a giudizio

Luglio segnerà un passaggio decisivo per il processo milanese sulla truffa dei diamanti venduti in banca. Il primo del mese si terrà l’udienza chiamata a decidere sulla convalida del patteggiamento chiesto da Intesa Sanpaolo e dal broker Diamond Private Investment, in liquidazione. La banca e Dpi hanno già ottenuto il parere favorevole della Procura: per Intesa una pena pecuniaria di 100mila euro e la confisca di 61mila euro come profitto del reato, per il broker una pena pecuniaria di 34mila euro e la confisca di oltre 88 milioni. Il 19 luglio si terrà invece l’udienza preliminare per 105 persone e cinque società per le quali la pm Grazia Colacicco ha chiesto il rinvio a giudizio con le imputazioni, a vario titolo, di truffa, autoriciclaggio e corruzione fra privati, per un presunto ingiusto profitto ai danni dei clienti risparmiatori quantificato dalla Procura in altri 412 milioni, 226 dei quali per il broker Intermarket Diamond Business, fallito. Gli imputati sono dirigenti, ex dirigenti, funzionari di Idb e Dpi e delle banche Banco Bpm, della sua controllata Banca Aletti, di UniCredit e Banca Mps, come pure le banche, in base alla legge 231 del 2001. Le persone fisiche rispondono per truffa. Le parti lese sono 575: oltre ad alcuni tra le decine di migliaia di clienti, l’Antitrust, Banca d’Italia, la società Camelot Holding e le associazioni di consumatori Codacons e AssoConsum.

A febbraio 2019 furono sequestrati 700 milioni. L’inchiesta è stata chiusa a ottobre 2019. La Procura di Milano sostiene che i broker abbiano condotto la truffa con la partecipazione consapevole delle banche sino a dicembre 2016. Dall’autunno 2017, dopo la multa inflitta dall’Antitrust, tutte le banche tranne Banco Bpm hanno iniziato a restituire integralmente il denaro ricomprando le pietre al prezzo originario. Banco Bpm rimborsa invece la differenza fra il presunto valore effettivo dei diamanti e il prezzo pagato a suo tempo, lasciando le pietre ai clienti.

La Pfizer fatturerà 26 mld di dollari (tassati solo al 6%)

Quante tasse pagherà Pfizer sui vaccini che sta vendendo in mezzo mondo? Una risposta precisa ancora non c’è, ma qualche indizio lo ha fornito la stessa multinazionale nell’ultimo bilancio consolidato. Grazie alle decine di filiali offshore sparse per il globo, l’anno scorso i redditi societari di Pfizer sono stati tassati con un’aliquota effettiva del 6,4%. Tanto per fare un paragone, una normale azienda italiana paga un’Ires del 24%. Vale a dire quasi quattro volte di più.

Quella guidata dal greco Albert Bourla è la più grande società farmaceutica attiva in questo momento nel business dei vaccini anti Covid. Insieme alla tedesca BioNTech (si spartiscono costi e ricavi al 50%), ha già firmato contratti con l’Ue per vendere fino a 2,4 miliardi di dosi. A queste si aggiungono quelle piazzate nel resto del mondo, principalmente negli Usa, dove Pfizer ha la sua sede principale.

A quale indirizzo? Al civico 1209 di Orange Street, Wilmington, Delaware. Il principale paradiso fiscale degli Usa, lo Stato in cui è cresciuto il presidente Joe Biden, dove si applica un’imposta societaria dell’8,7%. L’anno scorso Pfizer ha fatturato 41,9 miliardi di dollari, con profitti netti pari a 9,6 miliardi e ha versato imposte per un’aliquota fiscale effettiva (effective tax rate) del 6,4%. Nel 2019 gli era andata ancora meglio: l’aliquota era stata del 5,4%. Come andrà nel 2021, a livello fiscale, Pfizer non l’ha ancora detto chiaramente. In compenso ha già fornito agli investitori finanziari alcune stime su quanto riuscirà ad incassare grazie ai vaccini. A inizio maggio la compagnia ha annunciato che le vendite del suo Comirnaty (i brevetti principali sono di BioNTech) quest’anno permetteranno di fatturare 26 miliardi di dollari. Cifra che si aggiungerà ai ricavi che Pfizer registrerà grazie alla vendita di tutti gli altri suoi farmaci, portando il fatturato totale a una cifra compresa tra i 71 e i 73 miliardi di dollari, ha detto la compagnia. Se il piano verrà confermato dai fatti, il gruppo Usa vedrà aumentare il suo fatturato di oltre il 70% rispetto al 2020. “Sulla base di ciò che abbiamo visto finora, è probabile che ci sia una domanda durevole per il nostro vaccino contro il Covid-19, simile a quella dei vaccini antinfluenzali”, si è spinto a dire Bourla.

Le stime annunciate si basano sui contratti di vendita di vaccini già firmati a metà aprile 2021, che porteranno il gruppo a consegnare 1,6 miliardi di dosi nel 2021. Una buona parte di questi finirà ai Paesi dell’Unione europea, che pagherà per ogni dose tra i 15,5 e i 19,5 euro, ha scritto Reuters. A differenza di alcune compagnie, come ad esempio Johnson & Johnson che ha detto di voler vendere i vaccini al costo di produzione, Pfizer non ha mai negato di voler ottenere profitti dalle dosi vendute. Ed è su questi utili che pagherà le imposte.

Per capire come la multinazionale sia riuscita negli ultimi anni ad essere tassata così poco (l’aliquota effettiva nel 2020 è stata appunto del 6,4%) bisogna scorrere la lista delle sue filiali sparpagliate in giro per il globo. Delle 313 società controllate citate nel bilancio consolidato, 82 sono basate in quelli che l’organizzazione Tax Justice considera tra i 15 peggiori paradisi fiscali al mondo, cioè Paesi che aiutano le multinazionali ad eludere il pagamento delle imposte societarie. Pfizer ha 30 filiali in Olanda, 15 in Irlanda, 13 nel Regno Unito, 5 a Singapore, 8 in Lussemburgo, 4 a Hong Kong, 3 a Panama, 2 negli Emirati Arabi Uniti e 2 in Svizzera. A queste si aggiungono 82 filiali nel principale paradiso fiscale americano, il Delaware. Tirando le somme: su 313 filiali, 164 sono registrate in un Paese offshore. Ed è tutto legale. Ecco perché – in attesa della tassa minima globale, che se vedrà la luce entrerà in vigore tra almeno qualche anno – Pfizer potrebbe riuscire quest’anno a pagare pochissime tasse sui profitti derivati dai vaccini, scoperti anche grazie a ingenti finanziamenti pubblici.

Paolo Mieli e la fake news dei 14 anni di mascherine

Le vie delle notizie, vere o false che siano, sono infinite. Una frase priva di ogni riscontro pronunciata in televisione giovedì sera da Paolo Mieli, ospite di Otto e mezzo su La7, è stata ripresa in un gran numero di articoli ed è entrata nel circuito dell’informazione pur in totale assenza di fondamento.

L’ex direttore di Stampa e Corriere della Sera si stava confrontando con Marco Travaglio su meriti e demeriti dell’ex commissario all’emergenza Covid, Domenico Arcuri. Nel sostenere la sua posizione, Mieli ha tirato dal cilindro retorico un dato abbacinante: “Quando è arrivato Draghi a Palazzo Chigi ha trovato che Conte e Arcuri avevano ordinato e acquistato mascherine per 763 settimane, 14 anni e mezzo, di qui al 2035”. Un numero molto specifico, che Mieli ha ripetuto e scandito nei minuti successivi: “Sette-sei-tre. Ricordati questa cifra. Settecento-sessanta-tre settimane. Un giorno faremo i conti. Ci sono cose strane. Se fosse vero quello che sto dicendo – ha insistito rivolto a Travaglio – ammetti che sono troppe? Ove mai fosse vero, magari mi sbaglio”.

In effetti Mieli si sbaglia. Ma nonostante la formula suggestiva (“ove mai fosse vero”) con cui ha propagato una fake news in una tv nazionale, la bizzarra notizia delle “763 settimane” di mascherine è stata ripresa da numerosi siti e sitarelli, soprattutto di destra, con titoli di questo genere: “Mieli asfalta Travaglio” (Il Giornale), “Mieli zittisce Travaglio” (Il Tempo), “Mieli travolge Travaglio” (Libero).

Nessuno – tranne Mieli – può sapere da dove arrivi l’immaginifica cifra riferita dal giornalista, ma ieri una nota dell’ufficio stampa di Arcuri ha divulgato i numeri (peraltro pubblici) delle mascherine acquistate dalla struttura commissariale fino al 28 febbraio 2021, prima dell’insediamento di Francesco Paolo Figliuolo.

Sono stati comprati quasi 4 miliardi di mascherine chirurgiche, 234 milioni di FFP2 e 238 milioni di FFP3. Delle prime ne sono stati distribuiti 2 miliardi e 686 milioni, delle terze ne sono stati distribuiti 110 milioni, mentre le FFP2 sono state distribuite tutte. Il calcolo sulla media di distribuzione semestrale tra giugno e dicembre 2020 stabilisce che le mascherine chirurgiche in eccedenza (fino a febbraio) sarebbero state esaurite in altri 147 giorni, le FFP3 invece in 361 giorni. Le scorte quindi coprivano poco più di un anno, non 14 anni e mezzo.

Vaccini, Draghi (ri)cambia linea “Libertà di scelta per under 60”

Sembra incredibile, ma si cambia ancora: “Se uno ha meno di 60 anni e gli è stato proposto di fare l’eterologa ma non vuole, questa persona è libera di fare la seconda dose di AstraZeneca purché abbia il parere del medico e il consenso informato, bene”, ha detto ieri sera Mario Draghi in una conferenza stampa convocata all’ultimo momento, insieme al ministro della Salute Roberto Speranza e al commissario al Covid, generale Francesco Figliuolo. Il premier è apparso piuttosto nervoso, come se ce l’avesse con gli italiani mentre il suo governo ribalta le regole ogni due per tre. Solo una settimana fa avevano vietato i richiami con AstraZeneca agli over 60.

Hanno ribadito che il “mix di vaccini”, cioè il richiamo con i vaccini a mRna Pfizer o Moderna dopo la prima dose di AstraZeneca, “è preferibile”. Ma non sanno come fare perché circa il 10% degli under 60 che hanno ricevuto la prima dose di Az, 990 mila persone come riferito ieri da Figliuolo, lo rifiuta. Così Draghi ha annuncia che lo farà anche lui: “Ho più di 70 anni, come sapete. La prima AstraZeneca che ho fatto ha dato una risposta di anticorpi bassa. E allora mi si consiglia di fare l’eterologa. Quindi l’eterologa funziona per me e, ancor più vero, funziona per quelli che hanno meno di 70 e 60 anni”.

Sembra un altro mezzo autogol: ci sono già parecchi over 60 che hanno paura di AstraZeneca, anche per questo 2,8 milioni di loro non sono ancora vaccinati e questo è il primo problema del governo, tant’è che Figliuolo ha scritto ieri alle Regioni richiamandone la priorità. Draghi peraltro ha fatto riferimento ai suoi anticorpi, cioè a un test sierologico: devono farlo tutti gli italiani? Draghi ha fatto riferimento al “parere del medico” e Filippo Anelli, presidente dell’Ordine dei medici, ha subito dichiarato la sua soddisfazione. Nei giorni scorsi i medici, specie quelli di famiglia, avevano criticato le incertezze del governo e dell’Agenzia del farmaco Aifa. A ogni modo, ha detto il presidente del Consiglio, “la cosa peggiore che si può fare è non vaccinarsi o vaccinarsi con una dose sola”. La paura del governo è che prevalga la diffidenza. Tanto più che ora il problema si chiama variante Delta, o indiana, contro la quale la sola prima dose offre una copertura poco superiore al 30 per cento, mentre le due dosi proteggono a sufficienza.

È il motivo per cui la Gran Bretagna, che ha vaccinato tutti e subito ma per lo più con una sola dose, vive oggi una recrudescenza della pandemia. È il motivo per cui Speranza, che l’avrebbe fatto anche prima ma non aveva ancora convinto Draghi, ieri ha ripristinato la quarantena di cinque giorni seguita da tampone per chi arriva dal Regno Unito. Vale, però, da lunedì, per non intralciare gli oltre duemila tifosi gallesi che stanno arrivando a Roma e saranno domani sugli spalti dell’Olimpico per l’incontro della loro nazionale contro gli azzurri. La variante Delta/indiana è all’1% in Italia secondo l’ultima indagine che si ferma al 18 maggio. Ma poiché si trasmette più rapidamente di quella inglese ora prevalente, in misura pari a circa il 60 per cento, a breve la soppianterà come è successo in altri Paesi.

La nuova soluzione sui richiami è stata già validata dal Comitato tecnico scientifico. Lo stesso Cts deve pronunciarsi forse già oggi sulle mascherine all’aperto: il governo intende eliminare o almeno attenuare l’obbligo generalizzato in vigore dallo scorso ottobre.

Adesso però il problema è contenere la flessione che già si vede nella campagna vaccinale. Il generale Figliuolo ribadisce il suo ormai ben noto ottimismo: “È stata già fatta tutta la pianificazione e riprogrammato con le regioni affinché siano già assicurate dosi con l’eterologa per tutto giugno, a breve per tutto luglio. Si tratta di 990 mila cittadini che saranno vaccinati con mRna e quindi non ci saranno rallentamenti, l’obiettivo è rimanere costanti sulle 500 mila somministrazioni al giorno”.

Nessuno si azzarda più a proclamare obiettivi di immunità di gregge, i numeri dicono che si può arrivare al 60/70 per cento di vaccinati all’inizio dell’autunno, sempre che la diffidenza indotta dai continui cambiamenti di rotta non faccia troppi danni.

Tutti sulle barricate!

Sarà il caldo. Sarà la variante Delta, più devastante dell’Alzheimer. Sta di fatto che la dittatura sanitaria sta per diventare definitiva con l’ennesima proroga dello stato di emergenza, ma stavolta la Resistenza langue. Basterebbe riunire i partigiani che un anno fa strillavano sulle barricate contro la prima proroga contiana e a ottobre contro la seconda, per risparmiarci almeno quest’ultima, forse irreparabile svolta autoritaria. Ma stavolta il Cln appare svogliato, demotivato, disunito. Qualcuno ha financo scoperto che lo stato di emergenza è previsto dalla legge 225 del 1992 sulla Protezione Ccivile contro le calamità naturali e consente le ordinanze di PC per soccorsi, assistenza e approvvigionamenti con procedure semplificate e abbreviate: non sfiora nemmeno i poteri del premier, ma ha consentito di creare il Cts e il Commissariato anti-Covid (per gli acquisti di tutto ciò che occorre contro i contagi saltando le lentissime procedure ordinarie: vaccini, mascherine, camici, respiratori, guanti, tamponi, test sierologici, banchi scolastici, braccialetti elettronici…) e di adottare lo smart working senza gli accordi individuali previsti dalla legge. Sottigliezze da legulei. Tantopiù ora che, dopo la lunga e sanguinosa dittatura contiana, è sbocciata la democrazia draghiana. Quindi le forze partigiane di Lega, FI e Iv, con giornaloni e giuristi al seguito, che fieramente si opposero alle proroghe del duce Giuseppi, si mostrino all’altezza della situazione e avvertano subito a Draghi che di qui non si passa.

L’Espresso torni a diffidarlo dall’“allungare l’emergenza per tutto l’anno” come “strumento per conservare il potere”. Ernesto Che Cassese, che ha appena definito “inspiegabile” l’eventuale proroga, ritrovi la verve dei bei tempi e ripeta cento volte: “Anche Orbán cominciò la sua carriera politica su posizioni liberali: lo stato di emergenza è illegittimo”. Vladimir Il’icč Giannini avverta Super Mario che “prorogare fino alla fine dell’anno i suoi ‘poteri speciali’” trasformerebbe “la Camera in votificio” e “lo stato di emergenza in ‘stato di eccezione’”, poi ripubblichi l’editoriale di Cacciari “Un’illogica dittatura democratica”. Fidel Rosato ribadisca che “Palazzo Chigi abusa dell’emergenza”. Rosa Luxemburg Boralevi rituoni contro “il potere che ci tiene in stato d’emergenza come un regime sudamericano”. Il compagno Galli della Loggia ridica basta “forzature e colpi di mano del premier”. Il subcomandante Innominabile, dall’autogrill di Fiano Romano, ripeta con se stesso: “Non abbiamo tolto i pieni poteri a Salvini per darli a Draghi”, che “non ha il mojito, ma vuole un vulnus democratico”. Diamoci da fare: la democrazia è in pericolo, ma forse siamo ancora in tempo.

Per la tanto ricercata decarbonizzazione ci vuol buon senso

Nella corsa forsennata all’elettrico, imposta dai provvedimenti irrealistici dei burocrati di Bruxelles, si rischiano di perdere di vista alcuni punti fermi che riguardano il nostro Paese. Il più importante è che oltre un terzo dei circa trenta milioni di auto che circolano in Italia sono Euro 0, 1 e 2. Ovvero veicoli altamente inquinanti, i cui proprietari evidentemente non possono permettersi di cambiarli con una vettura elettrica.

La quale, come ricorda il ministro Cingolani, ora “costa in media quasi il doppio di una con motore a combustione interna, nel segmento B”, ovvero quello più gettonato. Anche se, per il momento, gli incentivi statali camuffano la realtà. Chiunque abbia del buon senso, capisce che non si può obbligare la popolazione più indigente a un “salto” così oneroso. E che, per questa categoria di persone, passare a un motore a combustione Euro 6 di ultima generazione sarebbe più fattibile e influirebbe non poco (in modo positivo) sull’aria che respiriamo. Non c’è dubbio che di qui a una decina d’anni la tecnologia a elettroni sarà molto diffusa. E che già oggi c’è chi può permettersela. Ma è un errore forzare troppo i tempi lasciando indietro chi invece non ha questa possibilità. Ci sono da realizzare infrastrutture adeguate e da migliorare la tecnologia per renderla più accessibile. Quindi, per dirla alla Cingolani, perché non “dare forza ai processi di decarbonizzazione agendo sull’attuale parco circolante” puntando su qualcosa di fattibile?

AMG GT 4, il coupé diventa “estremo”

Si aggiorna la Mercedes-AMG GT 4 Coupé, affinandosi nello stile e nei contenuti tecnici, quasi pronta all’esordio dell’attesissima versione “E Performance”, l’edizione ibrida plug-in con motore V8 4 litri biturbo che promette livelli di potenza estremi. In attesa della suddetta “belva elettrificata”, la Stella punta sul perfezionamento dell’intero pacchetto meccanico e su un design ancora più personale per le versioni con motore 6 cilindri mild hybrid 3 litri turbobenzina da 367 e 435 CV di potenza massima.

Fanno parte del corredo le sofisticate sospensioni pneumatiche, l’asse posteriore sterzante, la trazione integrale permanente e i cerchi di lega da 21”, opzionali. Da segnalare poi la serie speciale “Edition”, caratterizzata da una colorazione rossa ad hoc, con sfumature verso l’amaranto, cromature e dettagli in nero lucido.

“Aggiorniamo costantemente la nostra AMG GT Coupé4 a un livello tecnico eccezionale”, spiega in una nota ufficiale Philipp Schiemer, CEO di Mercedes-AMG GmbH: “Attraverso questo nuovo modello, ci rivolgiamo a target group che dedicano il massimo valore all’individualità e a uno stile di vita distintivo. In questo modo, continuiamo a sviluppare il nostro profilo come Performance Luxury brand, confermandolo con prodotti e opzioni tailo made. Inoltre, presenteremo presto i nostri primi ibridi E PERFORMANCE proprio su questo modello, portando avanti così l’elettrificazione del gruppo propulsore”.

All’interno spicca il nuovo volante AMG Performance, con le due razze superiori sdoppiate. Confermata, invece, l’impostazione del ponte di comando, composto da due schermi affiancati, uno dedicato alla strumentazione tachimetrica e l’altro all’infotelematica, basata su sistema operativo MBUX dotato di comandi vocali intelligenti.

Rivisto l’assetto AMG Ride Control+, che ora annovera nuove “molle pneumatiche” che permettono di gestire i movimenti in estensione e compressione in modo molto più preciso, isolando ancor meglio l’abitacolo. Inoltre, promette Mercedes, è più marcata la differenza fra la mappatura di marcia “comfort” e “sport”.