SF90, mille cavalli di potenza (record) con l’anima plug-in

La Ferrari SF90 Stradale Assetto Fiorano rompe i legami con il passato. Lo fa con un design che il responsabile del Centro Stile Flavio Manzoni ha definito “organico”, ovvero bilanciato tra prestazioni e bellezza, per dare vita a un vero e proprio manifesto tecnologico. I numeri la identificano come la più potente Ferrari stradale della storia. Erede della LaFerrari e prima ancora di Enzo, F50, F40 e 288 GTO, ma senza il vincolo della produzione in serie limitata con un listino relativamente più accessibile rispetto al passato: 430.000 euro, ai quali vanno aggiunti 50.000 euro per il Pacchetto Fiorano.

È la prima ibrida plug-in della storia Ferrari e può muoversi anche in modalità elettrica pura, la prima berlinetta a motore centrale a trazione integrale, ma anche la prima a introdurre primizie come la frenata “by wire” dove il pedale non è collegato all’impianto idraulico ma è l’elettronica a decidere quanto sfruttare il sistema Brembo carboceramico e quanto il recupero d’energia. La cosa più importante però è la capacità dei tecnici Ferrari di rendere il tutto utilizzabile su strada e in pista, con naturalezza: presa confidenza con il nuovo volante e la strumentazione digitale, la SF90 si lascia guidare in qualunque condizione, dalla città alla pista fino ai tratti innevati del Polo Nord, dove i tecnici hanno svolto test specifici in condizioni limite.

Per 25 km si può viaggiare a emissioni zero, oppure lasciare che sia l’elettronica a gestire il nuovo V8 4.0 biturbo da 780 Cv e i tre motori elettrici da 220 Cv totali per la massima efficienza. Ma sfiorando l’e-manettino sul volante, le modalità Race e Qualifying rendono disponibili tutti i 1.000 cavalli: una potenza chiamata a gestire una massa a secco di 1.600 kg. Con il pacchetto Assetto Fiorano, il peso scende di altri 30 kg grazie all’uso del carbonio su cofano e paraurti e altri particolari in inconel e titanio. Far percepire al pilota una sensazione di controllo e naturalezza nella guida è il risultato che più di tutti rende l’idea dell’incredibile lavoro compiuto a Maranello.

Salire a bordo della Ferrari SF90 Assetto Fiorano, per di più sulla pista di Casa del Cavallino, mette in soggezione. I numeri da capogiro, l’aspetto minaccioso della vettura e gli interni zeppi di elettronica potrebbero far pensare a una guida complessa, tecnica e riservata a pochi, ma come detto non è così. La biposto è docile alle velocità più basse, veloce e reattiva ai comandi in rettilineo e letteralmente sui binari in curva grazie all’aiuto dei motori elettrici anteriori. Al volante ci si dimentica tutto il lavoro che i tecnici hanno fatto e dell’elettronica che ti aiuta: rimangono solo l’emozione e l’adrenalina.

Euforia popolare per gli Azzurri di Mancini

Sostiene il Pereira dei giornalisti americani, Gregg Easterbrook, che “se torturi i numeri abbastanza a lungo, confesseranno qualsiasi cosa”. In linea di massima è così. Nel caso dell’Italia, però – di “questa” Italia, almeno – non c’è bisogno di violentarli. Ricapitolando: 3-0 alla Turchia, 3-0 alla Svizzera, ottavi dell’Europeo in tasca, decima vittoria di fila, 29 partite senza sconfitte e bunker imbattuto da 965 minuti. Dopodiché, come scritto, riscritto e prescritto, si consiglia di pensare alto e volare basso. La storia insegna che l’euforia spesso ci frega, mentre il cilicio sovente ci strega.

È un’Italia che trascina e tracima, difficile da sottrarre all’euforia del popolo. Da Leonardo Spinazzola a Manuel Locatelli, è la Nazionale di tutti. Spinazzola aveva tagliato la Turchia, Locatelli ha demolito la Svizzera. Sempre all’Olimpico, d’accordo, e sempre al fresco della sera. Ma sempre sprigionando fiamme.

Locatelli ha 23 anni e gioca nel Sassuolo. Come Domenico Berardi, proprio colui che aveva invitato al ballo con un arcobaleno tranciante e tottiano, ricevendone in cambio l’assist davanti a Yann Sommer. A Coverciano raccomandano: educa la tecnica, attacca lo spazio.

E poi il raddoppio, nella ripresa, con un sinistro dal limite, su servizio di Nicolò Barella, “noia” chi molla. Locatelli era riserva di Marco Verratti. Adesso non più. È una mezzala completa, elegante, con quel pizzico di sfrontatezza che gli hanno inculcato due fantasisti del calibro di Roberto De Zerbi e Roberto Mancini. Scovato da Cristian Brocchi nel Milan, si presentò con un gran gol alla Juventus di Gigi Buffon. Ci buttammo ai suoi piedi, golosi di carne fresca da sbattere in prima pagina. La fama improvvisa ne sabotò la crescita, troppe sirene, troppe tentazioni. La provincia l’ha riportato sulla terra, Massimiliano Allegri lo marca stretto.

Non si può restare freddi di fronte a una squadra così calda: non perfetta o invincibile, per carità, ma che Mancini, il Dominus caro ad Arrigo Sacchi, vuole sempre sul pezzo, generosa e possibilmente raffinata, chiunque sia il rivale. Spende energie? Di sicuro. Ma si diverte. Non ha scelto il muscolo, potrebbe patire avversari robusti. Giorno verrà. Lo share televisivo ha toccato il 51,9 per cento, con una platea di 13,3 milioni di devoti. Dall’estero continuano a piovere baci: “È questo l’Immobile che abbiamo bocciato?” si chiedono, confusi, i tedeschi. E L’Equipe titola: “All’ottavo cielo”.

Coloro che ci affrontano non sanno mai, o non hanno ancora capito, da dove arrivi il pericolo; se dalle corsie (Spinazzola, Berardi) o dal centro (i blitz tardelliani di Locatelli e Barella), se dai dondolii sinuosi di Lorenzo Insigne o dal radar euclideo di Jorginho. È il codice Mancini. La manovra si apre e si chiude con lo scatto di un coltello a serramanico. Per una parata – seria, vera – di Gigio Donnarumma abbiamo dovuto aspettare il 65’ della seconda gara. Devi saper soffrire, per far soffrire: è stato sufficiente richiamare Berardi, inserire Rafael Toloi e passare a tre in difesa (che non è reato) per disegnare contropiedi letali, anche grazie agli strappi di Federico Chiesa, subentrato a un Insigne più utile che duttile. Ciro Immobile se ne era già mangiati un paio, di gol, prima di realizzare il terzo, complici i riflessi, opachi, del portiere.

La Francia, che a Monaco aveva liquidato la Germania al di là dello scarto, sbandiera Kylian Mbappé e Paul Pogba. Da soli, possono ribaltare molti destini, ma pure questa Italia, l’Italia del Mancio, tutta pressing e rock and roll, non scherza. Sembra un gruppo di boy scout in missione, per qualcuno o per qualcosa, come ha ribadito il ct dedicando il successo al dolore del mondo. Presto verranno bilance più severe che ne valuteranno il peso al netto della nostra enfasi. Nessuno si illude, nessuno si nasconde: non è uno schema, è un calcio che ricorda il canto libero di Lucio Battisti. La leggerezza di un sentimento che cerca di sovvertire la zavorra delle gerarchie. E se non basterà, rimarranno le note.

“Mille” di questi Ferragnez. Il tormentone ha lo sponsor

Casa Ferragnez è un luogo pieno di opportunità professionali ed espedienti. Là dove non arriva il marketing, ci pensa la musica. L’anno scorso vi abbiamo raccontato della impresa di Chiara Ferragni, influencer universalmente riconosciuta che aveva collaborato al tormentone estivo “Non mi basta più” di Baby K da volto Pantene. Sia il testo della canzone che il video contenevano riferimenti al noto marchio di shampoo. “Tu tra queste bambole sembri Ken/ ti ho in testa come Pantene” è stato il verso più cantato per mesi da grandi e piccini, senza che questo abbia smosso finora le autorità che dovrebbero vigilare sulla pubblicità occulta.

Quest’anno tocca al marito portare a casa una pagnotta in più e soddisfare al contempo le richieste del mercato. Fedez, di professione rapper, canta in un singolo già diventato tormentone estivo insieme ad Achille Lauro e Orietta Berti. A lei sono lasciati ritornello e spot, viene da pensare per fare in modo che la sua voce e la sua storia musicale esaltino l’operazione commerciale o per farla passare in secondo piano. Quale che sia, alla fine protagonista della storia è solo Coca Cola.

Su Youtube, oggi, il video della canzone – che si intitola “Mille” – è primo in classifica nella sezione “Tendenze” di Youtube, dunque è il pezzo più ascoltato in Italia in questo momento, con 4 milioni di visualizzazioni in tre giorni. Già dalle prime strofe è evidente la presenza nel videoclip del marchio Coca Cola. Gli escamotage sono classici: una ragazza a bordo piscina che beve dalla bottiglietta, il tavolino brandizzato. I costumi da bagno sono rossi, neri e bianchi per richiamare i colori del brand. Anzi, ancora meglio: per richiamare i nuovi colori del brand. Dopo poche ore dal lancio del singolo, infatti, è lo stesso Fedez nelle sue storie di Instagram a presentare la nuova bottiglia della Coca Cola Zero direttamente dal set del videoclip. Sul siparietto, l’indicazione: “Partnership pubblicizzata con cocacolait”.

L’intento commerciale è anche nella descrizione del video di Youtube: “Il filmato contiene marchi e prodotti per fini commerciali. Product Placement: Coca-Cola” si legge. Il contentino alle autorità di controllo, insomma, è dato. Tra novembre e dicembre, infatti, l’Antitrust aveva redarguito alcuni cantautori italiani, costringendoli a inserire nei videoclip distribuiti sui vari media l’indicazione dei prodotti commerciali e a innestarla già nelle prime righe della descrizione su Youtube. Il problema irrisolto è però un altro: il product placement è sempre più spesso dentro al testo delle canzoni stesse. “Labbra rosso Coca-Cola – canta Orietta Berti per ben tre volte – Dimmi un segreto all’orecchio stasera./Hai risolto un bel problema,/ e va bene così/Ma poi me ne restano mille”.

Ad oggi, non esiste nessun regolamento che vieti di fare espressamente riferimento a un brand nei testi delle canzoni. Sono in buona sostanza considerate espressioni culturali generiche e le autorità si accontentano di riconoscere come pubblicità occulta solo quella presente in video, se non dichiarata. Un paradosso enorme: se il marchio compare in un video, allora lo si deve segnalare; ma se tutte le radio passano una canzone in cui il brand “Coca Cola” è presente come parola nel ritornello, questo non viene considerato un problema. Anche se Coca Cola ha pagato o sponsorizzato quel prodotto o i suoi derivati. “In radio o sui social – ci spiega un esperto di antitrust – prima della riproduzione della canzone, non ci sarà alcuna voce ad avvisare che c’è un ‘Product Placement’ nel testo e quindi noi ascoltatori continueremo a credere che le ‘labbra rosso Coca cola ‘ o i capelli ‘Pantene’ siano solo un prodotto iconico e rappresentativo dei nostri tempi o il riferimento a un pantone comunemente utilizzato”.

Il profitto a investimento minimo, per le aziende, è enorme. I tormentoni diventano in un attimo virali sulle piattaforme social, sono rilanciati da milioni di utenti con balletti e scenette, la pubblicità si moltiplica a dismisura anche e soprattutto con i minorenni. Se oggi si clicca sul video- spezzone di lancio del pezzo che Fedez ha pubblicato sul suo Instagram, viene riprodotta proprio la parte con Berti che canta “Labbra rosso Coca-Cola”. Immancabile anche nelle stories che usano “Mille” come colonna sonora.

Il contrappassod’immagine, almeno, per la multinazionale è stato immediato. Parallelamente Coca Cola stava cercando di arrivare anche nelle case dei cittadini con bottigliette strategiche sui tavoli delle conferenze stampa dopo le partite degli Europei. Ebbene, prima Cristiano Ronaldo, col suo bagaglio di 300 milioni di follower social (Fedez e Ferragni arrivano, insieme, a circa 25 milioni) ha spostato le bottiglie dalle inquadrature invitando a bere acqua e facendo perdere all’azienda 4 miliardi di dollari per il crollo del prezzo delle azioni. Poi, lo stesso gesto è stato replicato da Paul Pogba che ha spostato una bottiglia di birra Heineken (perché di fede musulmana) e infine Manuel Locatelli che le ha spostate perché gli impallavano l’inquadratura. Nulla di nobile: evidentemente il valore dell’immagine che i calciatori danno di se stessi è molto più alto di quello di una loro sponsorizzazione da Coca Cola. Ma, ad esempio, la Uefa ha stabilito che non potranno più farlo perché i ricavi degli sponsor sono fondamentali per il calcio europeo. Evidentemente è così anche per certa musica italiana.

Il moderato Hemmati spera in un risultato a sorpresa

Un moderato nella morsa dei conservatori: Abdolnasser Hemmati, governatore della Banca centrale iraniana, è rimasto l’unico riformista in lizza nelle elezioni presidenziali iraniane di oggi, il cui esito sarà determinante per un rilancio dei negoziati sul nucleare con gli Usa e gli altri firmatari dell’accordo del 2015 denunciato da Donald Trump. Hemmati, 65 anni, professore universitario, economista e politico, guida la Banca centrale dal 2018: deve vedersela con due rivali conservatori, il favorito Ebrahim Raisi, capo dell’apparto giudiziario, e Mohsen Rezai, ex comandante dei Pasdaran. I tre sono i superstiti di circa 600 aspiranti presidenti fattisi inizialmente avanti. Negli ultimi giorni, si sono ritirati il riformista Mohsen Mehralizadeh, vice di Mohammad Khatami dal 2001 al 2005 e due conservatori, l’ex negoziatore sul programma nucleare Said Jalili e il deputato Ali Reza Zakani, anch’essi indietro nei sondaggi. Sul voto, pesano i timori di un boicottaggio di massa, attribuito dal leader supremo iraniano, l’ayatollah Khamenei, a mene esterne. Si prevede che andranno alle urne solo due elettori su cinque, con una partecipazione inferiore al 42% registrato nelle legislative 2020. Sono oltre 59 milioni gli iraniani chiamati ad eleggere l’ottavo presidente della Repubblica islamica, su una popolazione di 83 milioni di abitanti. Si vota tutto il giorno, fino alle 2 del mattino. I risultati sono attesi domani: il candidato che ottiene la maggioranza assoluta viene eletto al primo turno, altrimenti ci sarà un ballottaggio tra i due più votati venerdì prossimo 25 giugno. Raisi, che potrebbe anche passare al primo turno – i sondaggi gli attribuiscono il 60% dei suffragi –, prospetta un “Iran forte”, che sappia tenere testa all’Occidente nei negoziati sul nucleare e sviluppi le sue capacità economiche per uscire dalla crisi nonostante le sanzioni americane. La campagna per l’astensionismo è sostenuta da dissidenti e oppositori che fa leva sul malcontento per la disastrosa situazione economica. Il presidente uscente Hassan Rohani, eletto nel 2013 e rieletto nel 2017, non ha mantenuto le promesse di aperture politiche.

Nel ‘Rinascimento’ di MbS si tagliano ancora le teste

Il principe ereditario Mohammed bin Salman ha una bizzarra, per usare un eufemismo, concezione del Rinascimento nonostante la dichiarazione d’amore del senatore Matteo Renzi che a Riyad aveva recentemente profuso elogi a favore di telecamere per la presunta opera di modernizzazione intrapresa dal giovane reggente del regno più ricco del Golfo. Mbs, l’acronimo con cui viene chiamato il figlio di re Salman, ritenuto responsabile anche dagli alleati Stati Uniti del terribile omicidio e sparizione del giornalista dissidente Jamal Khashoggi, non solo non ha realizzato le riforme annunciate a proposito del diritto delle donne saudite di guidare ma ha anche ordinato la carcerazione delle attiviste della campagna “Io guido”.

Dal carcere alcune di loro sono riuscite a far filtrare la notizia di essere state pesantemente torturate. Ma ora MbS è riuscito a prodursi in un numero davvero impossibile da annoverare tra quelli esemplificativi di una rinascita alla fiorentina forse anche per chi è a libro paga della famiglia al-Saud. A finire con la testa su un ceppo – la pena capitale prevede il taglio della testa con una spada – è stato Mustafa Hashem al-Darwish che quando venne arrestato nel 2015 per presunti reati legati alle proteste di quell’anno era minorenne. Le autorità saudite affermano che il ragazzo entrato in carcere all’età di 17 anni è stato accusato di aver formato una cellula terroristica e di aver tentato di portare avanti una rivolta armata. Che questi reati siano stati realmente commessi o meno, resta il fatto che il regno l’anno scorso aveva dichiarato di aver abolito la pena di morte per coloro che si sono macchiati di crimini prima di diventare maggiorenni sostituendola con una pena detentiva al massimo di 10 anni. Le organizzazioni umanitarie avevano chiesto in più occasioni di fermare la sua esecuzione, sostenendo che al-Darwish era minorenne al tempo dei fatti e che il suo processo è stato ingiusto. Secondo l’agenzia di stampa Reuters, le accuse di al-Darwish includevano “l’aver messo a repentaglio la sicurezza e l’aver seminato discordia”.

Le prove che la magistratura al guinzaglio di MbS avrebbe usato per decretare la morte del giovane attivista includevano una foto trovata sul cellulare ritenuta offensiva per le forze di sicurezza e la sua partecipazione a oltre 10 raduni di rivolta a partire dal 2011. Il ministero degli Interni saudita ha affermato che al-Darwish ha anche “tentato di uccidere alcuni agenti delle forze di sicurezza”. Secondo l’agenzia di stampa Reuters, i documenti del tribunale non hanno tuttavia specificato le date di nessuno dei reati ascritti. L’associazione Reprieve ha sottolineato che la famiglia di al-Darwish non ha ricevuto alcun preavviso sull’esecuzione e ne è venuta a conoscenza solo via Internet.

“Come possono giustiziare un ragazzo a causa di una fotografia sul suo telefono?”, ha detto un familiare in una dichiarazione pubblicata da Reprieve. “Dal suo arresto, la nostra famiglia non ha conosciuto altro che dolore. Da quel momento la nostra è stata una morte in vita”, ha dichiarato un parente.

Se l’esecuzione del giovane nella città di Damman è assurta agli onori della cronaca perché dimostra l’ennesima spietata menzogna di Mbs, non è ancora noto un altro dato che smentisce il Rinascimento saudita: l’aumento esponenziale delle esecuzioni. L’Arabia Saudita nella prima metà di quest’anno ha infatti giustiziato lo stesso numero di persone dell’intero 2020.

Tutti sovversivi: retata all’Apple Daily, giornale anti-Pechino

Il raid è iniziato alle 7.30 di ieri a Hong Kong: 500 poliziotti sono entrati nella sede di Apple Daily, il quotidiano di proprietà di Jimmy Lai, il tycoon 73enne che si oppone al governo fantoccio filo-cinese, e hanno sequestrato documenti e computer. L’irruzione, attesa, è stata mandata in streaming sulla pagina Facebook del sito. Poco prima gli agenti hanno arrestato, nelle loro abitazioni, il direttore Ryan Law e quattro manager del gruppo mediatico con l’accusa di ‘collusione con potenze straniere”, il reato-ombrello inserito nella legge di sicurezza nazionale approvata da Pechino nel giugno 2020 per giustificare la repressione di ogni manifestazione di dissenso a Hong Kong. È il secondo raid della polizia nella redazione di Apple Daily in un anno, dopo quello di agosto scorso che portò all’arresto di 10 persone, fra cui lo stesso Lai. L’imprenditore è ora in carcere, accusato di una serie di reati che vanno dalla “collusione con potenze straniere” al tentativo di “pervertire il corso della giustizia”. Rischia l’ergastolo. La polizia ha anche congelato beni per 2,3 milioni di dollari in tre società del gruppo mediatico, mentre la controllata Next Digital ha dovuto sospendere le contrattazioni sui mercati azionari. In una lettera aperta ai lettori, l’Apple Daily ha scritto che la libertà di stampa a Hong Kong ‘è appesa ad un filo” ma che la redazione non intende cedere. Ieri il South China Morning Post si chiedeva se questa possa essere la fine per Apple Daily, la testata più esposta nella critica a Pechino in un contesto però allarmante per tutti i media non allineati. Lo stesso South China una delle testate più antiche e prestigiose di Hong Kong con i suoi 117 anni di attività, è a rischio: dal 2016 è controllato dal gruppo Alibaba, di proprietà del miliardario cinese Jack Ma, a sua volta entrato in rotta di collisione con le autorità dopo aver criticato pubblicamente il regolatore finanziario cinese. Poco dopo, il gruppo è stato colpito da una multa di 2.8 miliardi di dollari per posizione dominante. A marzo scorso il governo cinese ha chiesto ad Alibaba di mettere in vendita il quotidiano.

“Orbán plasma la cultura e dall’Ungheria si scappa”

L’ultima mossa del governo Orbán, che ha appena riformato il sistema universitario per ottenere “il controllo ideologico” della nazione, è la legge contro la “propaganda gay”. Un’iniziativa che non sorprende Attila Chikan, ex ministro dell’Economia e professore emerito di Economia dell’Università di Budapest: “Il premier aveva annunciato già due anni fa che dopo quello politico ed economico voleva il potere di determinare la vita intellettuale e artistica del Paese”.

Professore Chikan, che è successo nel mondo accademico ungherese?

Potremmo parlarne per ore, ma riassumo in due frasi: le università ungheresi, finora istituzioni statali, saranno controllate, finanziariamente e operativamente da fondazioni, a loro volta gestite da un gruppo ristretto di persone, scelte dal governo perché fedeli alle sue politiche. Che la loro nomina duri a vita rappresenta per me la coercizione maggiore.

Orbán ha chiuso l’Università Centrale Europea finanziata da Soros e adesso apre le porte all’università cinese Fudan, la più grande fuori dai confini di Pechino. I cittadini di Budapest protestano, ci sarà un referendum.

Ha chiuso un’istituzione liberale, ne vuole aprire una di impronta marxista. Si tratta di un investimento da miliardi di dollari, ma il beneficio tra Budapest e Pechino non è reciproco. Uno dei problemi che riguarda questo progetto è che se ne sa troppo poco: perfino io non posso leggere documenti ufficiali e mi informo dai media. Non mi stupisce che il governo voglia rafforzare legami economici con l’Estremo Oriente: accade ovunque mondo. Al momento l’influenza cinese sull’economia ungherese è minima, la minaccia non è immediata: saranno le relazioni a lungo termine ad essere pericolose. Dovremmo avere più connessioni con l’Europea occidentale, invece di guardare ad Est, verso Russia e Cina.

A molti ungheresi sembra di essere tornati a vivere in un clima che si respirava poco prima del collasso dell’Urss.

I paralleli storici, anche quelli più paradossali, sono sempre possibili, ma non accetto il paragone: con il regime comunista non c’era via di fuga. Oggi la maggior parte della gioventù istruita lascia il Paese, soprattutto a causa delle disuguaglianze economiche profonde, impossibili da livellare: siamo una nazione composta da una frazione di popolazione estremamente povera e un’altra estremamente ricca. Nel Novecento facevamo parte di un’Unione e a ricordarcelo c’erano truppe e carri armati sovietici per strada. Oggi siamo dall’altro lato della linea della storia: Orbán crede fin troppo nell’indipendenza del Paese. E c’è una differenza fondamentale: rispetto a quegli anni, questa volta, il futuro dell’Ungheria dipende dagli ungheresi.

Lei è stato ministro dell’Economia del governo Orbán nel 1998, poi ha abbandonato Fidesz, il partito del premier…

Ho fatto parte di quell’esecutivo perché pensavo di poter aiutare l’Ungheria a migliorare. Sono un moderato liberale, che crede nell’indipendenza dei media e del sistema legale. Orbán invece ha applicato una centralizzazione forzata del potere per supportare i suoi “clienti”, persone divenute ricchissime che hanno beneficiato dei fondi europei e non operano nel rispetto delle regole della competitività del mercato. Il premier non è né una tragedia, né un beneficio per la nostra economia, ma si può dire che siamo il Paese delle opportunità perdute. Molto tempo fa, io e il signor Orbán abbiamo lavorato insieme nel sistema comunista. Infine siamo stati insieme alle manifestazioni contro il regime sovietico. All’epoca, tra i corridoi dell’Università di Budapest, io insegnavo alla facoltà di Economia, lui era uno studente di Legge. Sedevo nel consiglio dell’Università di Soros, quella che ha elargito la borsa di studio di cui il premier, in gioventù, ha usufruito. Lo conosco da 35 anni. Ci sentiamo ancora di tanto in tanto al telefono, ma non posso dirle molto altro. Come vede, però, posso criticarlo ad alta voce, e non ci sono tante persone che, dopo aver conosciuto sia lui che Soros, possono ancora farlo.

Professore, allora ci dica chi è Viktor Orbán?

Era un ragazzo profondamente liberale e non mi aspettavo questo suo cambiamento. Ma parliamo di un’altra era.

Se l’acqua è inaffidabile beviamoci su dell’alcol

Dopo mesi e mesi durante i quali ascoltando radio e tivù o leggendo giornali non abbiamo fatto altro che sentire, o leggere, di vaccini (doppia dose, unica o mixati), di tamponi rapidi, come il Frecciarossa, o più lenti, come i treni locali, di colori verdi, bianchi e rossi (il verde all’asta come nella nostra bandiera, l’arancione è escluso perché non mi fa gioco)… Ecco, dopo tutti questi mesi passati ad ascoltare o leggere le suelencate cose, e chissà quante altre ne ho dimenticate, fa piacere, o perlomeno è questa la sensazione che ho avuto, udire quei sani quanto scontati consigli per affrontare l’emergente stagione estiva con il caldo che ne consegue. Era il tormentone dei tempi ante pandemia: stare leggeri mangiando tanta frutta e verdura, evitare di esporsi nelle ore più calde della giornata, bere tanta acqua. Cristiano Ronaldo non ha certamente bisogno di tali suggerimenti, men che meno dell’ultimo in ordine di elenco visto che ha pubblicamente fulminato la Coca-Cola sostituendola con smorfiosa saggezza con una bottiglietta d’acqua prontamente esumata. E, mi chiedo, chissà cosa avrebbe fatto nei confronti della batteria di alcolici con la quale Radja Nainggolan gli ha tanto prontamente quanto allegramente risposto. Se non mi schiero non è per pavidità, in privato non avrei timore di confessare con chi tra i due mi farei un aperitivo. È solo, invece, perché preferisco lasciare spazio a un amico, mio paziente del tempo che fu, al quale per dovere dovetti raccomandare di bere, perlomeno ogni tanto, un po’ d’acqua tralasciando la dionisiaca bevanda. Non importa la stagione in cui dovetti spacciare il saggio consiglio, per lui che mi stava di fronte il bicchiere non aveva stagioni. Con il candore che lo contraddistingueva mi disse che lui l’acqua la beveva. Però, però, però…, insomma, l’acqua non lo convinceva. Usò, anzi, un verbo più incisivo: persuadere. E me lo spiegò tanto in senso transitivo, l’acqua non era in grado di ottenere il suo consenso, non ne suscitava l’approvazione, quanto in senso riflessivo, lui, in quel caso, non riusciva a rendersi pienamente conto della superiorità dell’acqua. Che dire? Tacqui.

Russia e Cina, i nemici ritrovati

Quando illustrò in Parlamento il suo programma di governo, a febbraio, Mario Draghi non disse nulla su politica estera e difesa, ma si limitò a proclamarsi “convintamente europeista e atlantista”. Era un po’ di tempo che i due aggettivi non s’accoppiavano con tanta disinvoltura, e d’un tratto ecco che l’equivalenza veniva ribadita quasi fosse legge di natura.

Essere europei significa automaticamente essere più attivi nella Nato, e viceversa. Nessun bisogno di spiegare il perché di quest’apodittica certezza. Basta dire che Trump è finito e che Biden ha iniziato la felice retromarcia.

In realtà Biden non ha cambiato marcia nei rapporti con Putin, ma incontrando quest’ultimo a Ginevra ha solo evitato il surriscaldamento delle tensioni. Nei giorni precedenti in Cornovaglia i governi Nato avevano in effetti chiarito quel che nel discorso di Draghi restava velato: la guerra fredda ricomincia, e la Nato ha di nuovo i nemici che le servono per vivere e operare. Ne ha addirittura due: Cina e Russia. Ambedue sono dichiarati “minacce per la sicurezza dell’Occidente”. Ambedue svolgono il ruolo, prezioso per le industrie militari-industriali, di “nemici esistenziali” o “sistemici”.

L’euforia è di rigore, non solo nei governi ma anche – in Italia – nei giornali che applaudono l’armonia atlantica ritrovata (eufemismo per egemonia statunitense). Rilanciare la Nato vuol dire riaccendere gli animi, giustificare guerre che hanno ucciso civili, non imparare alcunché dai fallimenti in Afghanistan, Iraq, Somalia, Siria, Libia, e per quanto riguarda Parigi nel Sahel e nel Sahara. All’inizio di giugno l’operazione francese Barkhane, cui si erano associati nel 2018 alcuni Paesi Ue, è stata sospesa.

Restano da indagare gli impegni di riarmo assunti nell’epoca Conte, ma di certo il successore ha impresso una svolta nella politica estera italiana. Si moltiplicano le critiche di Palazzo Chigi alla strategia cinese dei governi Conte: nel mirino l’adesione alla Via della Seta, invisa negli ambienti Nato. I tecnici più fedeli a Draghi incitano a un indurimento dei rapporti con Mosca, anche quando non hanno alcuna esperienza diplomatica (è il caso del banchiere Franco Bernabè, intervistato a Otto e Mezzo). Completano l’opera la promessa di ulteriori aiuti alle guardie costiere libiche, e l’appoggio incondizionato a quella che Biden chiama la “sacra obbligazione” dell’Alleanza atlantica (alleanza che “consente agli Stati Uniti di avere un posto a tavolaanche quando si tratta di affari europei”, scrive opportunamente Sergio Romano sul Corriere).

Per la verità è da tempo che i governi dell’Unione europea partecipano alla resurrezione dell’Alleanza, del tutto anomala se si considera che la Nato nacque per contenere l’Urss e che quest’ultima s’è dissolta nel 1991 assieme al Patto di Varsavia. Nei Trattati è scritto che l’Ue “promuove la pace” (articolo 3), ma il rappresentante della sua politica estera Josep Borrell ha detto nel 2020 che “per silenziare i fucili abbiamo sfortunatamente bisogno di fucili (…) La sicurezza dei nostri amici africani è la nostra sicurezza”.

Biden ha riscoperto la centralità strategico-militare dell’Europa e quel che le chiede è chiaro: resistenza all’espansione commerciale o militare di Cina e Russia; allineamento incondizionato a future iniziative statunitensi di regime change a Est dell’Unione (Ucraina, Bielorussia, Georgia); partecipazione a missioni antiterrorismo dopo il ritiro dall’Afghanistan. Draghi sembra deciso ad assecondare la nuova guerra fredda, dopo aver appeso nel vuoto i suoi due “pilastri”: europeismo e atlantismo.

Lo strumento cui l’Ue ricorrerà per contribuire a queste strategie di allineamento si chiama European Peace Facility (EPF), adottato il 22 marzo dal Consiglio europeo. L’investimento iniziale ammonta a 5 miliardi di euro. Si tratta, scrive Michael Peel sul Financial Times, dell’“espansione più significativa sin qui operata negli sforzi europei di proiettare hard power e influenzare i conflitti alle frontiere dell’Est e in Africa”.

I giornali e i notiziari tv non possiedono neanche un grammo di memoria e di prudenza politica, dunque esultano davanti alla doppia resurrezione: quella della Nato, data per “cerebralmente morta” da Macron nel 2019, e quella dei nemici “sistemici” di cui la Nato ha bisogno per continuare a esistere, cioè Russia e Cina. Per adattarsi a quest’ennesima restaurazione il Movimento 5 Stelle che in passato aveva criticato la Nato si ravvede, e quasi quotidianamente si proclama europeista e atlantista.

Eppure non era sempre questo il clima, quando finì la prima guerra fredda. Nel 1998, 10 senatori Democratici e 9 Repubblicani americani si opposero ai primi allargamenti della Nato a est dell’Europa. Washington e Berlino avevano promesso a Gorbaciov di non estendere l’Alleanza, in cambio della pacifica riunificazione tedesca, ma i patti furono presto violati. Fu la prima goccia di veleno iniettata nei nostri rapporti con il Cremlino. Un veleno che oggi non serve ad altro che a rafforzare l’alleanza Mosca-Pechino.

Russia e Cina sono osteggiate per diversi motivi: la Cina è la seconda potenza economico-finanziaria del pianeta, la Russia ha perfezionato i propri armamenti dopo l’espulsione dal G-8 e l’interventismo occidentale ai propri confini, in Georgia e Ucraina. A ciò si aggiunga la selettiva offensiva Nato sui diritti umani (la persecuzione dei musulmani Uiguri in Cina è un crimine, ma non lo è quella dei musulmani nel Kashmir indiano). Russia e Cina sono inoltre accusate di interferire nei processi democratici – elezioni Usa, Brexit – come se la vittoria di Trump e dei Brexiteers fosse colpa di hacker russi e cinesi e non frutto inevitabile del declino delle democrazie e di precisi fallimenti dell’Ue.

I nemici esistenziali servono a molte cose, anche se promettono più insicurezza per tutti. Tra il 1989 e il 1990, Georgij Arbatov, consigliere diplomatico di molti governi sovietici, ci minacciò: “Vi faremo, a voi occidentali, la cosa peggiore che si possa fare a un avversario: vi toglieremo il nemico”. Aveva visto giusto. Il complesso militare-industriale in Europa e Stati Uniti boccheggiò, disperò. Alcuni governi – tra cui il Conte-2 – trovarono il coraggio di smettere l’invio di armi all’Arabia Saudita, per frenare la guerra in Yemen. Ma la parentesi di “morte cerebrale” non era tollerabile per la Nato e per Washington. I popoli ovviamente non vengono consultati, visto che i cosiddetti populisti sono per ora neutralizzati, almeno in Italia.

 

Covid, i politici fanno gli stessi errori della scorsa estate

A dimostrazione di come per molti l’esperienza sia solo un cumulo di errori, i nostri governanti, locali e nazionali, si apprestano ad affrontare l’estate con lo stesso piglio sbarazzino dimostrato 12 mesi fa. E questa, sebbene i contagi siano in picchiata e le vaccinazioni in aumento, non è una bella notizia. Perché in attesa di sapere se quanto stiamo facendo sarà sufficiente per evitare una quarta ondata autunnale del virus, i politici assennati dovrebbero prepararsi per scongiurare in ogni caso il peggio. Come? Mettendo da subito in piedi un sistema efficiente di tracciamento dei nuovi contagi e approntando finalmente un piano trasporti che, in occasione della riapertura delle scuole, eviti il pigia pigia su autobus, tram e metropolitane. Purtroppo però la politica, come ci insegnava il presidente Usa, Ronald Reagan, è il secondo mestiere più vecchio del mondo, ma a volte è molto meno onesto del primo. E questo è uno di qui momenti. Anche perché le elezioni amministrative sono alle porte e la demagogia impera. Così mentre a Roma ci si accapiglia sulla proroga dello stato di emergenza e sull’utilizzo delle mascherine all’aperto, i dati raccontano che in ben 13 Regioni su 21 è diminuito il personale addetto a ricostruire la rete di contatti dei nuovi positivi in modo da isolare chi potrebbe ulteriormente propagare il virus. Il contact tracing, che a molti Paesi asiatici ha permesso di arginare la pandemia anche in assenza di vaccini, insomma funziona poco o addirittura peggio rispetto al passato. Per tutta la primavera l’Istituto superiore della sanità ci ha spiegato che, per rendere possibile il tracciamento, i contagi dovevano scendere sotto i 50 casi ogni 100mila abitanti. Ora che il valore è arrivato a 25 per 100mila solo nel 40 per cento dei casi le Regioni ricostruiscono le cosiddette catene di trasmissione. Tanto che nella prima settimana di giugno i nuovi contagi di origine ignota erano ancora 4.992. Da novembre a oggi, racconta su ilfattoquotidiano.it Daniele Fiori, personale addetto al tracciamento non è stato rafforzato, mentre l’app Immuni resta un’incompiuta che nessuno ha provato a rilanciare: è da dicembre che l’applicazione è inchiodata poco sopra i 10 milioni di download, mentre per funzionare dovrebbe essere installata almeno dal 60% della popolazione. Il bello, anzi il brutto, è che un decreto dell’aprile del 2020 stabiliva che vi fosse un tracciatore ogni 10mila abitanti. E a ottobre fu pubblicato un bando per assumerne 2000. In alcune Regioni le cose migliorarono per poi improvvisamente peggiorare. In Lombardia, per esempio, a novembre il numero di tracciatori aveva raggiunto la soglia prevista dalla legge: oggi invece si è scesi a 0,6 specialisti ogni 10mila cittadini, la stessa percentuale di Puglia e Marche. In Sardegna si è addirittura allo 0,4. Con questi numeri è impossibile monitorare davvero i contagi e ci si affida invece alla fortuna. La parola prevenzione, come evidenzia anche l’assenza di notizie sui nuovi piani trasporti per settembre, resta come sempre lettera morta. E anche il generale Francesco Paolo Figliuolo sul punto non proferisce parola. Così tra i tre milioni di over 60 che non sono ancora stati vaccinati e le poco tranquillizzanti notizie sulle nuove varianti che giungono da Cile e Regno Unito, l’Italia si prepara ad affrontare il prevedibile boom economico estivo con lo stesso spirito della cicala della favola di Esopo. La quale però, arrivato il freddo, non fece una gran fine. Incrociate le dita e pregate con me che Fatti Chiari questa volta abbia torto.