Ilva, taranto vuole liberarsi dalla madre velenosa

Domenica scorsa, Taranto è impazzita di gioia per la promozione della squadra rossoblu in serie C. Sconfitto il Lavello in trasferta 2 a 3 con zuccata decisiva di Santarpia negli ultimi minuti. Subito i tifosi hanno invaso le strade lanciando la prossima sfida: “Bari gallina, il derby si avvicina!”.
Il formidabile Francesco Casula, corrispondente de Il Fatto, mi ha portato a seguire la partita al centro sociale occupato di via Garibaldi, davanti a un pentolone di cozze, a una damigiana di Primitivo, e sotto la scritta: “Cospirare è respirare insieme”.
Respirare, sì, ma che cosa? Si è appena concluso il maxi-processo Ambiente Svenduto, di tale rilevanza storica che prima o poi verrà riconosciuta al pari dei maxi-processi palermitani contro la mafia. Incontro così una Taranto eccitata e ferita, acquartierata tra i suoi due mari e i suoi ponti, fra la polvere color ruggine del rione Tamburi e la pietra color sabbia della città vecchia, nello stesso tempo orribile e bellissima. È la maledizione dell’acciaieria, madre velenosa, cui oggi però nessuno vuol pensare. Anzi, se nella squadra neopromossa ci mettesse dei soldi Lucia Morselli, capoazienda di ArcelorMittal – le settimane scorse s’è fatta vedere allo stadio anche se lo striscione della nuova società “Acciaierie d’Italia” era stato bruciato da ignoti – la porterebbero in trionfo.
Prima che si scatenasse la festa, ho raggiunto a Tamburi, piazza Gesù Divin Liberatore, sotto la centralina Arpa che misura le emissioni di diossina, l’unico tarantino che ignora l’importanza della partita. Eppure è lui, l’insegnante Alessandro Marescotti, fondatore di Peacelink, ambientalista mite e tenace, il vincitore morale della impari lotta contro la retrocessione di Taranto giunta forse a una svolta.
Scoppiano i petardi, i cani randagi scappano. Per parlare ci rifugiamo negli ultimi banchi della chiesa. Sono scettico, quante volte abbiamo pensato che fosse la volta buona? Gli faccio presente che perfino al centro sociale, nonostante la durissima condanna degli ex proprietari Riva in Corte d’Assise per disastro ambientale e nonostante l’ordinanza di chiusura del Tar che deve passare al vaglio del Consiglio di Stato, sono rassegnati: “Quei maledetti altiforni non verranno mai spenti”. Marescotti non si scompone: “Se è per quello, nessuno qui credeva neanche ai 22 anni di carcere toccati a Fabio Riva. Comprovata la responsabilità dell’azienda, si sa che il particolato emesso dalla cokeria è in assoluto il più tossico e i periti hanno visto riconosciuto lo spaventoso eccesso di mortalità che provoca. La bonifica o si fa adesso o mai più, e lo sanno tutti che necessita della chiusura immediata dell’area a caldo”. Sorride amaro quando gli ripeto le frasi sdrammatizzanti dette sottovoce dai difensori dell’acciaieria su tassi d’inquinamento atmosferico e sul numero di tumori che sarebbero in media con i dati nazionali: “Fanno i furbi citando i dati d’insieme della provincia. Ma sanno benissimo che il benzo(a)pirene si concentra sui tre quartieri vicini all’acciaieria, Tamburi, Paolo VI e Borgo, tutt’ora invivibili benché la produzione sia ridotta ai minimi. Se prima si calcolava una fuoriuscita di diossina pari a 10 mila inceneritori, ora equivale a 3-400 inceneritori. Un miglioramento? Certo, ma credi che a Bologna o Milano si prenderebbero 3-400 inceneritori in mezzo alla città?”. Aspettiamo da più di un mese che il Consiglio di Stato approvi o meno la chiusura dell’area a caldo decretata dal Tar. Ma sappiamo che 13 volte in nove anni ogni governo, da Monti a Conte, ha aggirato per decreto legge l’ordine di chiusura emesso dalla magistratura. Draghi non farà lo stesso?
Marescotti è agguerrito: “In tal caso ci rivolgeremo alla Corte dei Conti, per sperpero di denaro pubblico, dati i miliardi di perdite dell’acciaieria. Alla Commissione europea, per violazione del divieto di aiuti di Stato. All’Autorità anticorruzione, dopo gli illeciti perpetrati per addomesticare chi aveva il compito di applicare la legge”. Vedremo come andrà a finire, ma intanto è cambiato parecchio il clima in città rispetto a quando, nel 2011, la curia insignì col premio Cataldus come “volontario dell’anno” Girolamo Archinà, il direttore delle relazioni esterne Ilva appena condannato a 21 anni di reclusione per manipolazione dei dati e per aver elargito bustarelle. Come se non bastasse, una settimana dopo la condanna dei Riva, i magistrati di Potenza hanno disposto l’arresto dell’ex Procuratore capo di Taranto, Carlo Maria Capristo, dell’avvocato Piero Amara, del top manager della consulenza Nicola Nicoletti e del poliziotto Filippo Paradiso, evidenziando che l’andazzo dei facilitatori è proseguito anche nella gestione straordinaria, dopo la caduta dei Riva. Insomma: pur di tenere operativa l’area a caldo s’è continuato a ricorrere alla corruzione.
Non potrà non tenerne conto il governo, alle prese col rompicapo del futuro dell’acciaio italiano. Sulla carta, l’ultima parola toccherebbe al Consiglio di Stato, massimo organo della giustizia amministrativa, riunitosi il 13 maggio scorso per emettere il fatale verdetto sullo spegnimento degli altiforni (che nel frattempo ha autorizzato a lavorare sospendendo la sentenza del Tar). Qui l’intreccio fra politica e magistratura è plateale: come ignorare che il presidente e il vicepresidente di Palazzo Spada sono due ex ministri, Filippo Patroni Griffi e Franco Frattini? E che il braccio destro di Draghi a Palazzo Chigi, il sottosegretario Roberto Garofoli, nato e cresciuto a Taranto, a sua volta è presidente di sezione del Consiglio di Stato? Di certo la circostanza non è sfuggita al presidente pugliese Michele Emiliano che nel maggio scorso ha pensato bene di nominare Paolo Francesco Garofoli, fratello di Roberto, capodipartimento Ambiente della Regione. Insomma, il filo diretto Roma-Bari è assicurato. Ma per fare cosa?
La lobby italiana dell’acciaio prodotto col carbone ha perso l’appoggio delle autorità locali. Come Emiliano, anche il sindaco Rinaldo Melucci conferma: “Basta altiforni dell’Ottocento, difesi dalla Federacciai solo perché gli costano meno. Noi siamo disponibili a convivere con un’Ilva più piccola e sicura, ma prima viene lo stop dell’attuale lavorazione a caldo”. Il calcolo degli ottimisti – o, se si preferisce, degli ambientalisti moderati – è che in poco più di due anni si riuscirebbe a bonificare e sostituire la cokeria con impianti a gas. “No, quel mostro va chiuso – controbatte Palma Spineto del movimento civico Liberi e Pensanti – all’Ilva green non ci crediamo”. Giocano a favore di questa tesi radicale i calcoli di sostenibilità economica: già oggi l’acciaieria maschera le sue perdite ritardando il pagamento dei fornitori. E non è in grado di reggere a lungo l’inevitabile calo dei volumi produttivi.
Anche la multinazionale indiana ArcelorMittal è tentata di approfittare di questo stallo per chiudere l’acciaieria o, comunque, per sfilarsi lasciando la patata bollente nelle mani dello Stato. Non a caso tarda a costituirsi la nuova società mista Acciaierie d’Italia, con Franco Bernabè fermo sull’uscio dopo la nomina a presidente.
Taranto resta in surplace: il Consiglio di Stato prende tempo per capire chi gestirà l’acciaieria; ma le scelte del governo dipendono dal Consiglio di Stato. E il prolungarsi dell’attesa lascia intendere che stavolta bocciare lo spegnimento degli altiforni sia molto più complicato. Tanto più che il perdurare negli anni delle emissioni proibite, e i vari episodi di corruttela, hanno indotto la Corte costituzionale a correggere la sentenza del 2013 con cui ammetteva temporaneamente le proroghe ricorrendo a un argomento che lasciò l’amaro in bocca alla gip di Taranto, Patrizia Todisco, vittima di gravi intimidazioni quando firmò il sequestro degli impianti. Vi si definiva il diritto alla salute come “diritto tiranno”, qualora non controbilanciato dal diritto al lavoro.
Oggi chi lo scriverebbe? A Taranto s’è visto in azione ben altro tiranno. Certo, per rigenerarla servono molti soldi perché la crisi dell’acciaieria diffonde povertà oltre che malattie. Il tramonto del vecchio welfare me lo racconta Giovanni Guarino, trent’anni di fabbrica e poi attore di strada: “Sono diventati vecchi e scompaiono gli operai andati in pensione col calcolo retributivo e con l’incentivo all’esodo, gente che poteva arrivare a 2.000 euro al mese con cui si mantenevano figli e nipoti. Ma dopo di loro?”.
Il dopo disastro ambientale è ancora tutto da inventare ma non passerà più, comunque, da quelle ciminiere infernali.

A Napoli Maresca balla da solo e fa infuriare Salvini e Meloni

È il candidato di nessuno. Perché è lui a volere così. Il pm antimafia, in aspettativa, Catello Maresca gira i quartieri difficili di Napoli, Scampia in primis, incontra i commercianti definendosi il “Rudolph Giuliani” partenopeo (quello della “finestra rotta” che fu anche di Antonio Bassolino) e rivendica la sua fede calcistica napoletana contro l’ avversario juventino – quindi odiatissimo sotto al Vesuvio –­ Gaetano Manfredi. Ma soprattutto ripudia i leader del centrodestra, cioè coloro che avrebbero scelto lui per conquistare la città dopo l’èra di Luigi De Magistris: “Sono un candidato civico, non di centrodestra” va dicendo.

Per questo ha fatto sapere a Matteo Salvini e Giorgia Meloni che i simboli di partito di Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia non li vuole e accetterà liste civiche (pulite) al massimo legate ad associazioni. Provocando l’ira di Salvini e Meloni. Il leader della Lega è stato preso a pesci in faccia da Maresca: gli aveva chiesto un incontro come con il romano Enrico Michetti per parlare della sua campagna elettorale e il pm gli ha risposto “che non è il momento”, poi gli ha fatto sapere che non gradirà la sua presenza a Napoli durante la campagna elettorale e infine, incidente diplomatico che sta facendo arrabbiare molti nella Lega, pare che né Salvini né Meloni siano stati invitati alla presentazione della candidatura la prossima settimana. Con la leader di Fratelli d’Italia invece il pm non si è mai preso: i rapporti con Meloni sono freddi e lei vorrebbe affiancargli in ticket Sergio Rastrelli, figlio dell’ex governatore della Campania di An Antonio già sceso in campo a febbraio sotto le bandiere di FdI. Ma Maresca su questo non transige: è convinto, spiega chi ci ha parlato negli ultimi giorni, che in una città come Napoli (considerata per molto tempo la patria dei “terroni” da parte del leghismo padano) la Lega invece che portargli voti possa farglieli perdere.

Così la strategia è quella di dissociarsi da Salvini&Meloni e staccarsi dall’etichetta del candidato di destra anche a costo di far innervosire i partiti della coalizione. Che infatti, dopo settimane di vertici a vuoto, non hanno ancora ufficializzato la sua candidatura. Diverso il trattamento per Silvio Berlusconi elogiato da Maresca (“C’è ancora bisogno di lui”): la Campania è l’ultima regione in cui Forza Italia, rispetto a Lega e FdI, continua ad avere un pacchetto di voti cospicuo. Maresca però non prova solo a dissociarsi dai leader di centrodestra ma ammicca anche al centrosinistra imbarcando transfughi di Pd, M5S e De Magistris. Con il pm si candiderà Peppe Balzamo, ex capogruppo Pd in Comune, ma anche l’ex assessore della giunta DeMa Monia Aliberti. Lo sostiene Alessandro Nardi, vicecapo di gabinetto del sindaco di Napoli, e l’avvocato ex M5S Roberto Ionta. Mercoledì poi è arrivato anche l’endorsement che non ti aspetti: “Se non fossi candidato andrei a seguire un suo comizio”, ha detto Antonio Bassolino che corre in solitaria. E qualcuno nel centrodestra nota anche lo strano silenzio del governatore Vincenzo De Luca, in grado di spostare migliaia di voti, sul candidato giallorosa Manfredi. Che tifi per Maresca?

M5S, ampi poteri a Conte Grillo va a Roma per l’ok

Il Garante c’è sempre stato e vorrebbe ancora esserci, almeno quando ha voglia di farlo. Per questo a breve, sembra la prossima settimana (ma c’è chi parla di domenica), Beppe Grillo tornerà a Roma e vedrà i parlamentari del M5S. Mentre il rifondatore c’è e vorrebbe giocare per vincere, ma alle sue condizioni, cioè con entrambe le mani sul volante. Ed è per questa ragione che con il nuovo Statuto del Movimento di Giuseppe Conte avrà ampi poteri, “perché io non sono qui per restare a prescindere, voglio fare bene, ma se perdo sarò pronto a farmi da parte”, ha (in sostanza) spiegato l’avvocato a un pugno di big, pochi giorni fa. In sintesi Grillo e Conte, poli di questo M5S nell’età di mezzo, che si guarda allo specchio e fa fatica a mettersi fuoco. Vertici che alcuni descrivevano come lontani, anzi proprio in lite, perché le nuove regole e il nuovo assetto limiterebbero poteri e voce di Grillo. Circostanza che lo scorso 10 giugno al Fatto il reggente Vito Crimi aveva smentito: “Se i poteri del Garante verranno limitati? Assolutamente no”. Ora nuove voci, sul fossato tra i due. “Ma la verità è che Beppe e Giuseppe sono allineati, e probabilmente gli conviene far finta di discutere” sostiene un big. Magari è utile, che il fondatore faccia trapelare di voler contenere un po’ Conte, per tenere buoni i tanti parlamentari inquieti, soprattutto per l’eterna croce dei due mandati.

Di sicuro nelle ultime ore Grillo ha confermato in alcune telefonate che sì, calerà a Roma. “Ma io sono in accordo con Giuseppe, dobbiamo lavorare tutti assieme, nessun contrasto” ha assicurato. “E se tutto va bene allora perché scende a Roma?” ruminano diversi eletti. Però ci sono anche “fonti vicine a Conte” che tramite nota negano dissidi. “Lui e Grillo lavorano in un clima di estrema collaborazione, per limare gli ultimi dettagli dello Statuto. Già domani (oggi, ndr) dovrebbero concordare la versione definitiva”. Fuori virgolette, aggiungono: “Lo Statuto sarà bilanciato, e i poteri del Garante non verranno ridotti”. Urge la pace, e a occhio la guerra non c’è mai stata. Neppure con il terzo polo, Luigi Di Maio, l’unico 5Stelle che ha una sua vera area – vietato chiamarla corrente – e che osserva tutto ma spesso tace, come ha fatto a Napoli martedì durante la visita di Conte. Guarda il gioco e qualche volta ricorda i limiti del campo, a tutti.

Il resto è affare di Conte, che la prossima settimana, forse martedì, presenterà lo Statuto. E potrebbe esserci anche Grillo. Quel Garante che dopo il disastroso video in difesa del figlio indagato sembrava finito ai margini. Però non vuole restarci, lui che la regola dei due mandati non la toccherebbe. Ma che del Conte capo con poteri chiari sapeva, perché l’avvocato lo aveva detto dritto nella riunione con Grillo e gli altri maggiorenti all’Hotel Forum a Roma, a febbraio, quando accettò di prendersi il M5S: “Lo faccio se avrò mano libera”. E se la darà, con una struttura con vari organi e una segreteria ristretta: lui al vertice più tre vice, tra cui dovrebbero esserci Chiara Appendino e un fedelissimo, l’ex sottosegretario Mario Turco.

E un ruolo di peso dovrebbe averlo anche Di Maio. Fuori, per ora in Bolivia, Alessandro Di Battista. Pronto però a rientrare nel Movimento se Conte lo trainasse fuori del governo Draghi. “Cosa impossibile ora, ma in autunno…”, butta lì un parlamentare contiano.

“Paga poco i collaboratori” Bufera social su Aranzulla

In un mondo digitale in cui fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio, Salvatore Aranzulla è diventato in pochi anni il mago della Rete a cui rivolgersi per qualsiasi problema che si crea nella difficile coesistenza tra uomo e tecnologia. Se il telefonino non ricarica più la batteria, lui sa come aggiustarlo. Non riesci a digitare la “e” maiuscola con l’accento (e ti ostini a metterci l’apostrofo), provocando l’ilarità dei nativi digitali? Niente paura, c’è Aranzulla.it.

Ieri, però, si è scatenato il putiferio. E non perché i programmi di mezza Italia sono andati in crash e Aranzulla non aveva ancora pubblicato la soluzione. Ma per il fatto che qualcuno ha pizzicato il blogger catanese più famoso d’Italia in cerca di collaboratori per 5 euro a scheda tecnica realizzata. E, nello stesso annuncio, si selezionano anche redattori freelance che lavorino da casa per scrivere articoli e guide: la lunghezza minima è di 10 mila battute (quasi due pagine di un giornale cartaceo), ma il compenso è di 30 euro per pezzo. Una consolazione un po’ magra, sostiene qualcuno, soprattutto se si calcola che l’azienda fattura quasi 3,5 milioni di euro all’anno. “5 euro. Non benissimo”, ha cinguettato su Twitter il direttore di Wired Italia Federico Ferrazza. Ma la polemica, secondo Aranzulla, non sarebbe nata per spirito umanitario: “C’è qualcosa che gli sta un po’ sullo stomaco”, ha spiegato al Fatto il blogger 31enne. “Anche perché il collaboratore verrebbe pagato 5 euro netti, quindi circa 6 euro lordi. Calcolando poi che una persona riesce a produrre dalle 4 alle 6 schede tecniche all’ora, può arrivare a guadagnare anche 36 euro lordi. Questi conti il direttore di Wired non li ha fatti”. La polemica, sempre secondo Aranzulla, cadrebbe proprio alla vigilia di un webinar organizzato da Amazon lunedì prossimo al quale il blogger è stato invitato: “In un tweet, il responsabile tecnico di Condé Nast, l’editore di Wired, ha definito come ‘terribile’ la mia partecipazione all’evento”.

Trojan, il gip: “Intercettazioni utilizzabili” Vicina la richiesta di processo per Palamara

S’è chiusa ieri la vicenda trojan – quella perugina, perché a Firenze c’è un’attività d’indagine in corso – nell’inchiesta che vede Luca Palamara indagato per corruzione con l’imprenditore Fabrizio Centofanti. Dopo mesi di udienze e di sospetti sull’utilizzo del trojan che intercettò l’ormai famoso dopocena all’hotel Champagne di Roma – quello in cui Palamara, nel maggio 2019, discuteva con i parlamentari Luca Lotti e Cosimo Ferri del futuro procuratore di Roma – il gup Piercarlo Frabotta ha stabilito che v’è stato il “pieno rispetto” delle norme. In sostanza, sebbene Rcs avesse omesso di dichiarare alla procura di Perugia l’utilizzo, oltre a quello romano, di un server nella procura di Napoli, sconosciuto persino ai magistrati partenopei, nessuna legge è stata comunque violata: la norma prevede infatti che il server debba essere installato all’interno di una procura e, nonostante nessuno ne fosse al corrente, uno dei server in questione, era all’interno di un palazzo di giustizia. La scoperta era emersa in seguito alle indagini difensive svolte in sede disciplinare dall’avvocato di Ferri (non indagato a Perugia), Luigi Panella, ma il gup ha stabilito che esistevano comunque le “condizioni di sufficiente protezione quanto al transito sicuro del flusso dal telefono infetto al server finale di destinazione” e il “pieno rispetto dell’articolo 268 del codice di procedura penale”. Il paradosso, quindi, è che persino un server “fantasma”, purché installato all’interno di una procura, è quindi utilizzabile. “Siamo stati sempre certi che le intercettazioni fossero state fatte in modo corretto”, ha commentato il procuratore di Perugia, Raffaele Cantone, che nelle settimane scorse ha incassato anche la collaborazione dell’imprenditore Centofanti, il quale, disposto a patteggiare, ha raccontato in procura di aver fatto da “sponsor” per l’attività di “politica giudiziaria” di Palamara pagando cene per circa 8mila euro l’anno. È probabile che alla prossima udienza, chiedendo il rinvio a giudizio, la Procura rimoduli il capo d’imputazione per Palamara proprio alla luce delle dichiarazioni di Centofanti.

“Prendiamo atto della decisione del giudice e attendiamo gli esiti degli accertamenti definitivi da parte la Procura competente di Firenze” ha commentato invece Palamara precisando che ricorrerà in Cassazione ed eventualmente alla Corte europea. A Firenze, dove la Procura – che sta analizzando l’intero flusso degli impulsi, a differenza di quella umbra, che s’è concentrata su circa 20 chunk – Palamara e Ferri sono considerati parti offese perché Rcs non aveva riferito l’esistenza dei server napoletani.

Brescia, a 16 anni si fa male al lavoro “Era in alternanza”

Era in piedi su un cestello elevatore, a cinque metri di altezza dal suolo, per appendere degli striscioni lungo via Franciacorta, a Rovato, quando è precipitato al suolo. Per questo mercoledì un ragazzo di 16 anni è stato ricoverato in ospedale a Brescia in condizioni gravissime. L’incidente è accaduto poco dopo le 16: secondo i primi accertamenti, il furgone sul quale era montato il cestello sarebbe stato colpito da un altro mezzo in transito e l’impatto avrebbe sbalzato il giovane, facendolo cadere sull’asfalto. Il 16enne è stato subito soccorso, intubato e trasferito con l’elicottero al Civile.

“Questo ragazzo avrebbe dovuto stare finalmente in vacanza – il commento di Maurizio Acerbo, segretario nazionale del Partito della Rifondazione Comunista – Sinistra Europea – invece era su un braccio meccanico grazie alla vergognosa legge della cosiddetta Buona Scuola voluta da Renzi e da Confindustria. A 16 anni non si mandano i ragazzi al massacro. L’alternanza scuola-lavoro va abolita subito”.

Luana D’Orazio, i periti: “Forzato il sistema di sicurezza dell’orditoio che l’ha stritolata”

Due manomissioni effettuate allo scopo di evitare interruzioni e velocizzare la produzione a discapito della sicurezza: una è stata apportata al quadro elettrico, l’altra alla parte meccanica. La prima, in particolare, avrebbe permesso al macchinario che ha ucciso Luana D’Orazio di funzionare in automatico anche con la saracinesca di protezione abbassata. È quanto trapela dai primi risultati della perizia svolta sui due orditoi al centro dell’inchiesta della Procura di Prato sulla morte dell’apprendista di 22 anni risucchiata e stritolata il 3 maggio dal macchinario al quale stava lavorando in una ditta tessile di Oste di Montemurlo. La relazione del perito potrebbe essere consegnata al procuratore Giuseppe Nicolosi già nei prossimi giorni.

Mercoledì sono stati interrogati in procura i coniugi Luana Coppini e Daniele Faggi, convocati dal sostituto procuratore Vincenzo Nitti e sentiti rispettivamente come titolare e come gestore di fatto dell’orditura Luana, dove è avvenuto l’incidente mortale. Entrambi sono indagati per omicidio colposo e rimozione o omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro. Dalle prime verifiche era già emerso che il sistema di sicurezza era disattivato al momento dell’incidente. La contestazione del secondo reato si riferirebbe proprio alla presunta disattivazione di una fotocellula che regola l’abbassamento automatico del cancello di sicurezza dell’orditoio gemello di quello al quale stava lavorando Luana. In base ai controlli eseguiti, infatti, il sensore sul macchinario sarebbe stato presente e perfettamente funzionante, ma in qualche modo disattivato al momento dell’incidente. I due orditoi sono stati prodotti dalla tedesca “Karl Mayer TexilmachineFabrik Gmbh”, i cui tecnici hanno collaborato con i periti nella lettura dei dati dei due impianti. Secondo quanto emerso, la Coppini avrebbe risposto alle domande degli inquirenti, mentre il marito si sarebbe avvalso della facoltà di non rispondere. Per gli stessi reati è finito iscritto sul registro dei magistrati anche il tecnico manutentore, Mario Cusimano, già ascoltato dagli inquirenti nei giorni scorsi. La Procura punta a definire anche quale fosse la reale mansione di Luana, che era madre di un bimbo di 5 anni e mezzo, e quali dotazioni infortunistiche indossava la giovane.

Mazzetta d’asfalto

A due settimane dal giro di boa della metà dell’anno, qui a Criminopoli possiamo già essere soddisfatti: il numero dei nuovi indagati per corruzione sale a 317 (in media 1,8 al giorno) mentre per reati di mafia (incluso il favoreggiamento) siamo a quota 1.257 (7,4 ogni 24 ore). Il “premio mazzetta” questa settimana va a Mariano Caputo, ex assessore ai lavori pubblici di Molfetta e Riccardo Di Santo, rappresentante legale della “costruzioni generali Di Santo srl”. Per l’accusa Caputo “induceva” una “dirigente dell’Ufficio di ragioneria a liquidare fatture” per una Ati, alla quale partecipava Di Santo, “in assenza della necessaria copertura (…)”. In cambio riceveva da Di Santo “50 metri cubi di asfalto (…) del valore di 10mila euro (…) che residuava dai lavori in corso sulle strade di Molfetta (…) destinata a essere impiegata da Caputo per realizzare un’area parcheggio al servizio del Lido a opera delle stesse imprese Disanto s.r.l (…)”. Ah. dimenticavamo: lo Stato non cattura Matteo Messina Denaro da 10.152 giorni.

 

CureVac efficace al 47% Ma lo paghiamo lo stesso

L’Italia e gli altri Paesi Ue rischiano di dover pagare le 300 milioni di dosi pattuite con CureVac, nonostante venisse confermata la debole efficacia del suo vaccino contro il Covid. È quanto emerge dall’esame del contratto firmato dalla Commissione europea con la società biotech tedesca che due giorni fa ha annunciato che l’immunizzazione ha finora funzionato solo sul 47% dei pazienti, lasciando scoperti gli over 60, ossia le categorie più a rischio.

CureVac, finanziata con 300 milioni di euro a fondo perduto da Berlino e un prestito di 75 milioni di euro dalla Banca europea degli investimenti, ha comunicato i dati provvisori dei suoi test all’Agenzia europea dei medicinali (Ema) che ha già accertato la sicurezza per la salute del vaccino. Deciderà se approvarlo o meno una volta ricevuta l’analisi completa.

Questa comprenderà altri 80 individui testati e potrebbe spingere il livello di protezione dalla malattia fino al 50%, soglia minima stabilita dall’Ema. Anche se questa fosse raggiunta, il vaccino CureVac risulterebbe poco efficace (soprattutto rispetto al livello del 95% degli altri vaccini mRna di Pfizer e Moderna). Tuttavia i governi dovranno acquistarlo lo stesso. Lo stabiliscono le clausole contrattuali che scaglionano il pagamento in tre rate, come anticipato dal Fatto. “Non siamo sorpresi, avevamo denunciato già in passato i contratti capestro firmati dalla Commissione con le grandi case farmaceutiche che consentono loro zero rischi ma il pieno dei profitti”, dichiara Tiziana Beghin, capo della delegazione M5S Stelle all’Europarlamento. La Commissione ha già versato il primo acconto (sotto riserbo) subito dopo la conclusione dell’accordo.

Gli Stati membri saldano la seconda e la terza rata in proporzione alle dosi spettanti a ciascuno. L’articolo 1.17.2 li obbliga al secondo versamento non appena CureVvac avrà comunicato loro di aver presentato all’Ema i risultati temporanei della sua sperimentazione clinica. Quindi, l’obbligo dovrebbe essere già scattato. La terza e ultima rata è dovuta all’effettiva consegna delle dosi. L’importo (come anche la scadenza) del secondo pagamento non è noto poiché coperto da omissis nella versione desecretata del testo. Si sa però che equivale a una percentuale del valore complessivo delle dosi assegnate. L’Italia ha una quota di 30 milioni di dosi al prezzo di 300 milioni di euro (10 euro a dose). “Quanto anticipato va restituito solo se CureVac viola le garanzie concordate per la fase di consegna, pertanto, non verrà rimborsato anche se l’Ema boccerà il vaccino”, spiega Clive Douglas, avvocato e mediatore commerciale presso lo studio legale britannico Nexa. Secondo lui, una serie di cavilli tecnici avvantaggiano CureVac a discapito delle casse statali: “Il secondo pagamento va effettuato secondo i moduli di ordinazione dei vaccini che i singoli governi devono restituire entro 15 giorni dalla data in cui la Commissione ha notificato a CureVac il piano di ripartizione delle dosi che, a sua volta, andava trasmesso 30 giorni dalla firma del contratto”, chiarisce Douglas.

I giochi sono ormai fatti visto che l’accordo è stato stipulato a metà novembre 2020. Peraltro, l’articolo 1.5.3 dice che “a scanso di equivoci, ogni Stato membro è obbligato ad acquistare e pagare le dosi contrattualmente assegnategli (…) indipendentemente dal fatto che tale modulo d’ordine del vaccino sia concluso o meno”. Resterebbe salva, per Douglas, la possibilità per i governi di rifiutare il pagamento dell’ultima rata, in base all’interpretazione delle diverse disposizioni.

Nel silenzio di Draghi, la voce di Salvini è l’unica che si sente

Il mix di vaccini (prima dose Astrazeneca, seconda Rmna) per gli under 60 è l’ennesimo pasticcio con il quale Mario Draghi si trova a dover fare i conti. Nel primo pomeriggio Marco Cavaleri dell’Ema parla di “una strategia che può essere impiegata” ma sulla quale “ci sono prove limitate”, dunque “è importante raccogliere maggiori informazioni”. A Palazzo Chigi derubricano le dichiarazioni, sottolineando che non si tratta di un pronunciamento ufficiale dell’Autorità del farmaco europea. Ergo, per ora nessun cambio di marcia. Che la posizione sia definitiva, però, non c’è da scommetterci: il problema c’è e il premier lo sa bene. Sono stati particolarmente duri questi ultimi giorni, a partire dalla morte di Camilla. Tanto più che Draghi era all’estero mentre scoppiava definitivamente il caso degli Open day organizzati dalle Regioni. La sua strategia è saltata, un pezzo dopo l’altro, a partire dalle classi vaccinali stabilite per età. L’ultima decisione di vietare Astrazeneca agli under 60 viene considerato a Palazzo Chigi un incidente da cui è difficile riprendersi dal punto di vista della fiducia.

Senza contare che sta entrando nel vivo la vaccinazione dei 12-16enni con Pfizer: è stata autorizzata scientificamente, ma non si è sentita una parola del premier sulla questione. Mentre monta il nervosismo, molte colpe sono attribuite al ministro della Salute, Roberto Speranza. Troppo “moscio” viene definito, troppo pronto a delegare a Cts, Aifa ed Ema. Al ministero della Salute, intanto, scommettono che Ema non vieterà la “vaccinazione eterologa”, e dunque negano ogni dubbio rispetto al rapporto costi/benefici. Negli ultimi giorni, però, Draghi ha smentito il pronostico di Speranza sulla fine dello stato di emergenza il 31 luglio. La proroga è già decisa e trova d’accordo Pd e M5S. E si va verso la cancellazione dell’obbligo di mascherine all’aperto. Ha gioco facile Matteo Salvini a intestarsi battaglie che fanno breccia in un’opinione pubblica che subisce la confusione del governo. Dopo aver soffiato per settimane, con tanto di convegni con medici e specialisti, sul fuoco delle teorie antiscientifiche (dalle cure domiciliari al vaccino Sputnik), ora il leader della Lega è ripartito con la battaglia del “liberi tutti”. Sul tema dei vaccini ieri pomeriggio la Lega ha preso una posizione precisa presentando in Senato una mozione, a prima firma del capogruppo in Senato Massimiliano Romeo, per chiedere al governo di “sospendere in via cautelativa la vaccinazione per gli under 16” e di “procedere con assoluta prudenza”, rimodulando la campagna vaccinale, anche per gli under 25. Un modo per chiedere al governo di intervenire, spazzando via le incertezze degli ultimi giorni.

Sul fronte delle riaperture ieri Salvini è stato ricevuto a Palazzo Chigi da Draghi: aveva annunciato battaglia sulla proroga dello stato d’emergenza. Da Chigi e dallo staff di Salvini, si spiega che non c’è stato nessuno scontro tra i due. “Piena sintonia, incontro utile e costruttivo” dice il leader della Lega. Ma se Salvini ha ottenuto garanzie da Draghi sul fatto che il governo già nei prossimi giorni possa decidere di eliminare l’obbligo delle mascherine all’aperto forse già da fine giugno (una prima indicazione potrebbe arrivare oggi dal Cts), ha dovuto abbassare il muro sullo stato d’emergenza. Il premier gli ha spiegato che la situazione epidemiologica (preoccupano le varianti) e della campagna vaccinale sarà valutata tra un mese ma è improbabile che l’emergenza possa dirsi conclusa: la proroga quindi è decisa. Un modo per dire a Salvini di non aprirefratture nell’esecutivo. Tant’è che, dopo l’incontro, il leghista si è mostrato arrendevole: “Ne parleremo quando scadrà lo stato d’emergenza”.