Vaccini, la frenata c’è. E sul mix “eterologo” l’Ema non si esprime

Giugno doveva essere il mese della “spallata”, ma purtroppo potrebbe rivelarsi quello della frenata. La campagna vaccinale italiana, infatti, sembra risentire dell’incertezza seguita alla giravolta su AstraZeneca (divieto di somministrazione del vaccino a vettore virale per la fascia under 60 anni a seguito della tragica morte della 18enne genovese Camilla Canepa) e del conseguente caos sulle seconde dosi. “La decisione di somministrare AstraZeneca – aveva detto il generale Figliuolo il giorno dopo le nuove indicazioni dell’Aifa – avrà qualche impatto sul piano vaccinale”. E così sembra essere stato.

Il 10 giugno, giorno della notizia della morte di Camilla, erano state somministrate 618.689 dosi di vaccino anti-Covid, un record superato solo il 4 giugno (627.541). Due giorni dopo – il 13 giugno – le dosi sono scese a 420.670, per poi tornare a salire oltre il mezzo milione nei tre giorni seguenti. Il trend anche se l’esperienza insegna che le forti oscillazioni sono sempre possibili, sembra in frenata: “Il Piano – assicurava tuttavia ancora mercoledì il generale Figliuolo – è ancora sostenibile”. Resta il fatto che – secondo il report settimanale della Fondazione Gimbe – 2,66 milioni di ultrasessantenni non hanno ancora ricevuto nemmeno la prima dose e 6,2 milioni devono completare il ciclo vaccinale. E – come abbiamo dato conto ieri – il cosiddetto “abbandono vaccinale” (chi rifiuta una dose AstraZeneca o una seconda di altro vaccino) riguarda anche gli over 60.

Certo a fare chiarezza non aiuta l’Ema, l’Agenzia europea del Farmaco. Negli ultimi giorni, com’è noto, si è parlato molto di mix vaccinale, altrimenti detto “vaccinazione eterologa”, ossia la somministrazione di una seconda dose di un siero diverso rispetto dall’AstraZeneca ricevuto in prima istanza dagli under 60. Ebbene, ieri l’Agenzia europea è intervenuta sul tema creando – se possibile – ancora più incertezza: “L’approccio del mix di vaccini fra prima e seconda dose – ha detto Marco Cavaleri, responsabile Vaccini e Prodotti terapeutici per Covid-19 dell’Ema – è stato adottato con successo in passato ed è ben noto che spesso ha come esito una migliore risposta immune. Ma riguardo ai vaccini Covid abbiamo evidenze limitate, anche se alcuni studi preliminari hanno mostrato che la risposta immunitaria sembra essere soddisfacente e non stanno emergendo particolari problemi da un punto di vista di sicurezza. Quindi potrebbe essere una strategia da adottare, ma certamente le evidenze sono limitate ed è importante che raccogliamo più informazioni e monitoriamo attentamente”.

Ema, quindi, non può che alzare le mani: “Non è facile – prosegue Cavaleri – uscire fuori con una raccomandazione clinica”. Quindi che fare? “La decisione – conclude il dirigente Ema – è degli Stati Ue. AstraZeneca e Johnson&Johnson hanno un rapporto rischio beneficio positivo da 18 anni in su ed è una decisione degli Stati scegliere se lo vogliono usare solo in alcune popolazioni, se optare per il mix con un vaccino a mRna per il richiamo”.

Notizie confortanti, tuttavia, arrivano sul fronte degli effetti avversi della vaccinazione: “Ad oggi abbiamo 10 possibili casi di trombosi associata a trombocitopenia su oltre 6 milioni di persone vaccinate contro Covid con il vaccino Johnson&Johnson nello Spazio economico europeo – ha comunicato Georgy Genov, responsabile della Farmacoviglianza dell’Agenzia europea del farmaco – E su 45 milioni di vaccinati con AstraZeneca abbiamo 405 casi potenziali di queste trombosi atipiche con bassi livelli di piastrine”.

Quanto al pericolo variante Delta (ieri nel Regno Unito 11 mila contagi, come il 19 febbraio), secondo i dati del Public Health England – comunica il report Gimbe – una singola dose di Pfizer o AstraZeneca ha un’efficacia solo del 33% , percentuale che dopo la seconda dose sale, rispettivamente, all’88% e al 60%.

La Sacra Famiglia

La metamorfosi del Festival dei Due Mondi in Festival dei Due Casellati, grazie alla contemporanea presenza a Spoleto dei due rampolli della presidentessa del Senato, fa di lei la candidata ideale per il Quirinale. Chi può meglio simboleggiare la festosa Restaurazione italiana? Non le manca nulla: il vitalizio extralarge che ingloba anche il periodo in cui fece danni al Csm (seguìto, per par condicio, dalla restituzione degli assegni ai senatori pregiudicati); i voli di Stato per qualunque spostamento anche minimo (un giorno il suo parrucchiere se la vedrà atterrare sul tetto); e la prodigiosa ascesa sociale dei due figli, di pari passo alla sua. Lei peraltro aveva già preannunciato il tutto nell’atto di citazione da 150mila euro al Fatto, in veste di “notissimo avvocato matrimonialista che ha sempre condotto grandi battaglie a tutela delle donne, dei minori e in generale della famiglia in tutte le sue espressioni”. Soprattutto la sua: nel 2005, sottosegretaria alla Salute, assunse la figlia Ludovica come capo della sua segreteria con uno stipendio – scrisse Stella sul Corriere – “di 60mila euro l’anno, quasi il doppio di un funzionario ministeriale con 15 anni di anzianità”: promozione strameritata, essendo la ragazza dedita “per ragioni familiari al cicloturismo”, ergo “punto di riferimento per il mondo a due ruote e del web, dov’è conosciuta come Ladybici”. Poi citava il figlio Alvise, “violinista, manager e direttore d’orchestra”, “considerato uno dei talenti emergenti”: soprattutto dal cuore di mammà.

E lacrimava per i nostri articoli (“vituperio e vilipendio”) che segnalavano le strabilianti coincidenze fra i suoi viaggi istituzionali e i tour internazionali di Alvise nelle stesse località, pure in Colombia e in Azerbaijan. Ma per lei era “stalking mediatico”, che financo “la induce a rinunziare spiacevolmente e ingiustamente alla propria presenza ai concerti, e alla passione per la musica quando la musica è interpretata e diretta dal figlio”. Non ne ascolta nemmeno i dischi, per paura che la accusiamo di favorirlo. Immaginate come deve sentirsi ora, dopo avere scoperto sul Fatto che la sua amica Ada Urbani, “consigliere per lo sviluppo” del Festival dei Due Mondi, ha ingaggiato sia Alvise (per dirigere il coro di Santa Cecilia) sia Ludovica (testimonial della corsa SpoletoNorciaMtb). Bell’amica: a furia di dispetti, le farà perdere la causa col Fatto. Ora mettetevi nei suoi panni. Se va a Spoleto a vedere Alvise che dirige e la figlia che pedala, dicono che mancava solo lei per fare l’en plein. Se non ci va, dicono che è peggio la toppa del buco. Potrebbe andarci in bicicletta, ma poi il Fatto scriverebbe che fa pubblicità a Ladybici. No, no, meglio il classico volo di Stato, per non destare sospetti.

Dino Valdi, “L’ombra di Totò”: da stuntman a sostituto in scena

Napoli, pomeriggio del 17 aprile 1967. Saracinesche abbassate e manifesti di cordoglio ai muri, la città trattiene il respiro aspettando la salma del Principe della risata, morto due giorni prima a Roma. La folla davanti alla Basilica del Carmine Maggiore è ancora più numerosa di quella tempestata di star, registi e personalità pubbliche che poche ore prima, nella Capitale, era accorsa alla chiesa di Sant’Eugenio.

A Napoli si svolgeva così il secondo dei tre funerali di Totò (l’ultimo sarà organizzato da un “guappo” della Sanità mesi dopo, a corpo già sepolto) e in piazza Mercato qualcuno giura di aver visto Totò in persona: “È vivo, è resuscitato!”. Ovviamente, quell’uomo che è con Franca Faldini mentre sfila il carro funebre e poi a messa non è Antonio de Curtis, ma non è la prima volta che lo scambiano per lui. Si chiama Osvaldo Natale ed è meglio conosciuto come Dino Valdi. Per 15 anni e per 50 film (da Bellezze in bicicletta del 1951 in poi) è stato la controfigura di Totò. Inizialmente stuntman addetto alle scene rocambolesche, dal 1957 comincia a recitare al suo posto, mentre il vero Totò perde la vista.

Dino Valdi voleva diventare attore, finirà per esserlo all’ombra di un altro. E proprio L’ombra di Totò si intitola la pièce che accende i riflettori sulla sua vita. Scritto da Emilia Costantini per la direzione di Stefano Reali e prodotto da Nicola Canonico, lo spettacolo debutterà il 10 e 11 luglio alla Reggia di Capodimonte nel Campania Teatro Festival, prima di cominciare una tournée che lo porterà al Teatro San Ferdinando di Napoli a febbraio 2022.

L’ombra di Totò comincia immaginando che durante quel funerale del 1967 una giovane giornalista del Mattino si avvicini a Valdi per fargli qualche domanda. Su Totò, all’inizio, ma poco a poco la conversazione svela i tratti di questo personaggio rimasto ignoto ai più. Un’intervista immaginaria, la terza scritta per il palcoscenico da Emilia Costantini (che è giornalista al Corriere della Sera) dopo quella dedicata a Oriana Fallaci interpretata da Monica Guerritore nel 2011, e quella su Marina Berlusconi andata in scena con Laura Lattuada nel 2014.

A interpretare Valdi sul palco sarà il salernitano Yari Gugliucci, che dalla sua ha anche una certa somiglianza con Totò, quindi con Valdi, mentre la giornalista immaginaria è Clotilde Sabatino. L’alter ego di Totò è scomparso nel 2003 senza clamore. Anche a lui si applica la legge implacabile enunciata dal Principe verso il finale di partita: in questo Paese per venire riconosciuti in qualcosa bisogna morire.

Vitali: camera con vista lago tra Queruli, Cirilli e Soporine

Succede qualche volta di trovarsi nell’imbarazzo di recensire i lavori degli amici o dei colleghi, e mica è detto che siano sempre apprezzabili. E dunque, per non far torti né all’interessato né al lettore, bisogna incamminarsi in un’impervia strada di perifrasi, non detti e omissioni di vario tipo. Questo dilemma non si pone, mai, con i libri di Andrea Vitali, amico e collega (nel senso che da un annetto il Fatto ha la fortuna di ospitare i suoi articoli).

È uscito da pochi giorni Un bello scherzo (Garzanti), ultima indagine del maresciallo Ernesto Maccadò. Non vi diremo troppo della trama perché i romanzi di Vitali, tra tutte le altre cose, sono anche dei gialli: dunque non vi vogliamo levare il gusto della scoperta. Si sappia solo che oltre al Maccadò e alla di lui consorte Maristella (per i fan di lungo corso: siamo nel marzo 1935 e la truppa della prole è ferma al numero di tre), ci sono i carabinieri Misfatti e Mannu, un aspirante poeta travestito da maestro elementare in pensione, un trio di zitellissime sorelle (di cognome Rovente, di nome rispettivamente Fiamma, Italia e Maddalena), un goffo segretario del Partito nazionale fascista, e molti altri.

L’innesco è presto detto: alla fine di una sbadigliosa giornata di marzo al caffè dell’Imbarcadero i pochissimi avventori possono notare una motonave della Milizia confinaria da cui scendono tre ceffi dall’aria cupa e poco raccomandabile. Quando fanno ritorno sono uno in più: i tre si trascinano l’insospettabile maestro Fiorentino Crispini. Il quale da un po’ di tempo non è più lui, tanto che nemmeno si presenta all’appuntamento con il quotidiano marsalino, appunto all’Imbarcadero.

Ma oltre alla storia, consuetamente punteggiata di episodi solo apparentemente marginali, c’è il mondo piccolo di Bellano. Non solo i panorami, i luoghi che abbiamo imparato ad amare come l’albergo del Cavallino bianco, ma soprattutto le vicende degli abitanti: mai davvero eroi né antieroi, tutti splendidamente umani.

Anche per questo ultimo romanzo vale la pena una postilla sui nomi dei protagonisti che sono la prima spia della maestria dell’autore. Passino gli Aiace e i Callisto, i Cirillo e gli Omarino, le Esterine e le Seline, ma vogliamo parlare della Soporina, pingue moglie dell’orafo Avventati che per ragioni che nessun medico era riuscito a spiegare “emanava un odore talvolta acre, pungente, talaltra vagamente imparentato con il minestrone di verdura”? Oppure del Tabarelli Querulo, giurato del concorso del Dopolavoro Provinciale, autore delle musiche che accompagnavano la stranota I tèt de la Besana e l’altrettanto diffusa L’è come on om el lac de Com? O ancora della Cinghia Mirabola, segretaria della sezione femminile del Fascio (dopo le dimissioni di Fusagna Carpignati)… Tutto ciò per dire che i Queruli e le Cinghie non dicono solo qualcosa della fantasia dello scrittore, ma anche della sua capacità di tratteggiare un personaggio in una sola parola, che poi è la più importante, ovvero il nome.

Andrea Vitali è stato da molti paragonato a Giovannino Guareschi (con cui condivide il gusto del quotidiano come misura dell’universale). Bellano è stata definita una Vigata con il lago di Como al posto del mare montalbanesco. Per i suoi lettori, che sono moltissimi, i romanzi di Vitali sono molto di più: soprattutto una gita in famiglia. Per chi, come noi, è nato in provincia, tutte le volte è come rimettere in circolo la memoria dei rapporti stretti (non per questo meno insidiosi), l’atmosfera irresistibilmente finita del conoscersi tutti, anche se mai fino in fondo. I complimenti, i doveri, il bisbigliare affettuoso o invidioso dei vicini, le liti al piano di sopra, le passioni inconfessabili, le debolezze segrete.

I romanzi di Vitali – pur ambientati in un altro luogo e in un altro tempo – sono sempre un ritorno a casa. La circostanza stupefacente è che nonostante la vena fertilissima (per Garzanti, a occhio e croce, l’autore ha pubblicato oltre una trentina di titoli) la penna di Vitali non invecchia mai. Sarà l’aria del Lago?

“Così Ale è tornata a casa”. Come è nato il mio docufilm

L’idea del docufilm Amica di salvataggio è nata pochi giorni dopo il 3 giugno del 2018, quando ancora, per diverse volte al giorno, dovevo reprimere l’istinto di telefonare ad Alessandra perché ancora non l’avevo sentita, e stavo in pensiero.

Con Vito Oliva, l’amico fraterno che me l’aveva presentata trent’anni prima, avevamo accompagnato Alessandra a Oneglia, dove riposa accanto ai miei genitori. In quel pomeriggio insicuro di tarda primavera, al casello di Imperia Est ci siamo guardati, e invece di girare verso Genova abbiamo preso la direzione di Ventimiglia; non era il caso di tornare nella casa di Milano, bloccata nel fermo immagine di domenica mattina. Senza dirci nulla, senza sapere bene come e perché, siamo arrivati a Mentone, l’importante era passare un confine. Poi, appena entrati in Francia, siamo incappati in una serie incredibile di rallentamenti, ingorghi, come se il tempo non volesse saperne di andare avanti, e dopo due ore di viaggio a passo d’uomo ci siamo fermati a Villefranche sur mer, alle porte di Nizza.

Sull’orlo di quel tramonto infinito, passeggiando sullo stretto sentiero costruito sugli scogli della baia, guardando il mare della Costa Azzurra, abbiamo pensato che dovevamo fare un film per Alessandra. Meglio: che Alessandra avrebbe dovuto fare un film per rivedere i suoi amici, non poteva lasciarli così, senza un saluto. Lei li avrebbe invitati, lei li avrebbe ascoltati uno per uno. È nata così l’idea di un docufilm dove è lei a parlare in prima persona, nella stanza tutta per sé della sua, nostra amatissima casa. In quella stanza aveva conservato tutto del suo lavoro febbrile, i filmati delle apparizioni televisive, gli articoli, le recensioni, le lettere… dal- l’Ambrogino d’oro al più minuto dei ritagli, tutto conservato in ordinatissimi dossier (e nello sfogliarli ho scoperto che aveva conservato anche tutto del mio lavoro e di me, che non conservo niente).

Amica di salvataggio è stato girato in quello che Joan Didion chiama l’anno del pensiero magico, l’unico momento in cui poteva nascere, e credo che questo si avverta; quell’ipnosi fatta di angoscia e stupefazione in cui ci ripetiamo che qualcuno se n’è andato, ma non ci crediamo fino in fondo. Tutto è ancora intatto, nelle cose e nei cuori. Tutti gli amici di Alessandra, e ne avevamo tanti, si sono messi a disposizione senza condizioni, senza limiti e, se così si può dire, con gioia. Qualcosa di magico è accaduto davvero; mai avrei osato chiedere alla nostra amica Lella Costa di interpretare la voce narrante di Alessandra se lei stessa non mi avesse detto “ricorda, per qualunque cosa io ci sarò”; ma solamente in sala di montaggio mi sono reso conto che l’unica persona cui avrei potuto chiedere di essere la voce di Alessandra era lei.

In Amica di salvataggio doveva esserci la vita e nient’altro, fino in fondo. Quindi, insieme agli amici ritrovati, insieme al racconto della sua splendente vita avventurosa, doveva esserci anche il racconto della sua melanconia bipolare, di come i temperamenti artistici siano particolarmente esposti ai disturbi dell’umore, di come il primo passo per combattere “il male di vivere” sia stanarlo dall’ombra e dallo stigma, portarlo alla luce. In questa prospettiva, mentre giravamo è stato fondamentale l’incontro con alcuni psichiatri, primo tra tutti il professor Giovanni Battista Cassano, fino alla decisione, parallela alla realizzazione del docufilm, di fondare l’associazione di volontariato Alessandra Appiano-Amici di salvataggio (www.amicidisalvataggio.it), la cui missione è comunicare il nesso tra sindromi depressive e gesto estremo.

“L’amicizia è un miracolo”, ha detto Elsa Morante. Il nostro anno del pensiero magico è finito, ma Amica di salvataggio ha proseguito il suo cammino per proprio conto, fino all’approdo quasi casuale con la struttura di Rai Documentari diretta da Duilio Giammaria, che ha creduto in Amica dal primo momento, senza riserve, anzi, a maggior ragione per la scelta non facile di raccontare la depressione, il tabù dei tabù in quest’epoca dominata dal culto dell’efficienza.

E così questo documentario bipolare, dove si narra il legame occulto ma strettissimo tra gioia e male di vivere, questo film nato guardando il mare come omaggio privato, intimo, è potuto diventare un documento pubblico. Tre anni dopo, se mi guardo indietro, ancora stento a crederci. Abbiamo iniziato a lavorare su Amica di salvataggio per richiamare Alessandra, nella convinzione che siano i vivi a tenere in vita i morti; oggi, ogni volta che sento la voce di Lella Costa dire “Benvenuti nella mia casa, dove abbondano i cuscini e i tappeti”, mi chiedo se non sia vero il contrario, se non siano i morti a tenere in vita i vivi.

Fine vita, sentenza storica per un 43enne: “Asl verifichi condizioni per suicidio assistito”

“Verificare se esistono le condizioni per l’accesso al suicidio assistito”. La sentenza del Tribunale civile di Ancona è di portata storica. I giudici hanno stabilito che l’azienda sanitaria marchigiana alla quale si è rivolto un 43enne, tetraplegico da 10 anni a causa di un incidente, dovrà verificare le condizioni per l’accesso al percorso di suicidio assistito. “Quando ha ricevuto la notizia, era emozionatissimo”, ha raccontato Filomena Gallo, segretario dell’Associazione ‘Luca Coscioni’ e coordinatore del collegio difensivo dell’uomo. La sentenza, in attesa di una legge, potrebbe arrivare a fare giurisprudenza. Anche se, secondo l’associazione Coscioni, in virtù della “sentenza Cappato”, ovvero della pronuncia n. 242/2019 della Corte Costituzionale, Mario (nome di fantasia) “non avrebbe dovuto aspettare 10 mesi per vedere riconosciuti i propri diritti”. Ma la decisione di ieri cambia tutto: è, di fatto, la prima volta che vengono applicati i principi giudiziari sanciti in merito alla vicenda di “Dj Fabo”.

Precedente che negli scorsi mesi non aveva in realtà convinto né l’Asl, né lo stesso Tribunale di Ancona. All’inizio, infatti, entrambe le istituzioni avevano ritenuto non esserci elementi sufficienti per avviare la verifica dei requisiti. Tutto era cominciato 10 mesi fa, quando Mario si era rivolto all’Asl delle Marche per chiedere la verifica dei requisiti previsti dalla Consulta nel 2019 e poter scegliere come porre fine alle proprie sofferenze, ricevendo però un diniego. Poi, nonostante la sentenza Cappato, un secondo rifiuto gli è arrivato dal Tribunale di Ancona che, nel ricorso contro l’Asl, ha riconosciuto l’esistenza dei prerequisiti, ma non considerati sufficienti per avviare il percorso. “Il giudice riteneva che la sentenza non fosse immediatamente applicabile”, ha spiegato Filomena Gallo. Ma i tempi dei malati non sono quelli della burocrazia. “Occorre una legge e il Parlamento è fermo”, ha denunciato Gallo, riferendosi alla proposta di legge di iniziativa popolare sulla legalizzazione dell’eutanasia depositata nel 2013 e mai più ripresa in mano dal legislatore. La sentenza di Mario, però, arriva proprio all’indomani dell’inizio della raccolta firme per la richiesta di referendum sull’eutanasia, promossa dall’associazione Luca Coscioni. Partirà oggi alle 11.30 in Largo Argentina a Roma. Il quesito referendario chiede la parziale abrogazione dell’articolo 579 del codice penale, quello che riguarda l’omicidio del consenziente. Ora l’associazione dovrà raccogliere 500 mila firme da consegnare alla Corte di Cassazione entro il 30 settembre.

“Su via D’Amelio ci sono depistaggi ancora in corso”

“Riina e i suoi hanno tenuto i segreti per se stessi, come per tutti coloro che sono stati uccisi e per quelli che ancora oggi continuano a stare zitti perché temono”. Lo ha detto l’ex procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, durante l’audizione dinanzi alla commissione antimafia siciliana, presieduta da Claudio Fava, che indaga sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio. “Non abbiamo saputo cosa potevano dirci Antonino Gioè e Luigi Ilardo, e non abbiamo letto cosa ci fosse nell’agenda rossa di Paolo Borsellino. È un war game, i depistaggi continuano ancora oggi”, ha aggiunto Scarpinato.

Sul perché venne ucciso Borsellino, Scarpinato fa una riflessione: “Era pronto ad andare a riferire a Caltanissetta con la sua agenda rossa tutto quello che sapeva, sarebbe scoppiato un finimondo”. Sui possibili avvelenatori di pozzi, l’ex procuratore si sofferma sui racconti del boss Giuseppe Graviano: “Perché difende Giovanni Aiello, dicendo che non è coinvolto nelle stragi. O parla dell’agenda rossa che sarebbe stata trafugata da un magistrato? Graviano sembra scriva sotto dettatura dei Servizi”. Proprio sull’ex uomo dei Servizi, Giovanni Aiello, detto “faccia da mostro” e scomparso nell’agosto 2017, Scarpinato aggiunge: “C’era paura di parlare di Aiello, un collaboratore in carcere nel processo ’Ndrangheta stragista, prima lo riconosce in una foto, ma dopo un colloquio con un parente, ritratta dicendo che lo aveva visto in tv. Ma la foto di Aiello non era mai stata diffusa prima”. Nelle oltre tre ore di audizione, Scarpinato ha parlato anche delle dichiarazioni del pentito Maurizio Avola riportate nel libro di Michele Santoro: “Sono rimasto molto colpito. O è un’operazione ingenua o qualcuno vuole far suicidare processualmente Avola”. “Quello che mi angoscia – ha detto ancora il magistrato – è ciò che continua ad accadere e che mi fa pensare che la storia continui ancora”.

Giorgetti: “Stellantis faccia qui le batterie per le e-car, ha 5 miliardi di garanzia Sace”

La trattativa Stato-Stellantis, cioè la ex Fiat fusa coi francesi di Psa, non deve andare nel modo roseo dipinto ieri sui giornali se il ministro dello Sviluppo economico Giorgetti ieri ha voluto ribadire – in mezzo a mille parole di miele sull’importanza del colosso dell’auto per l’Italia – quel che si aspetta da una società largamente sussidiata dallo Stato: “Ci attendiamo che la gigafactory per le batterie delle auto elettriche sia localizzata in Italia e aspettiamo una decisione da parte dell’azienda”. Il governo ha incontrato martedì i vertici del gruppo e a loro “abbiamo ricordato che ci sono degli impegni assunti dall’azienda, impegni assunti anche in relazione ad una garanzia della Sace per oltre 5,6 miliardi di euro e su cui conseguono investimenti, confermati dall’azienda”. Aver ribadito che si continua a puntare su Melfi è solo il primo passo: “Non significa che il problema sia risolto – ha spiegato Giorgetti – perché partirà una trattativa sindacale per quanto riguarda la riorganizzazione aziendale connessa alla chiusura di una linea”. Il ministro pare insomma più realista dei giornalisti che lo interrogano.

Mail Box

 

M5S e doppio mandato: i pro e i contro dei lettori

Ho letto con molta attenzione l’articolo di Mauro Coltorti (MSS) a pag. 11 del Fatto del 12 giugno e sono totalmente d’accordo su tutto quanto scritto. Già nella mia lettera del 29 maggio 2020 ho avuto modo di scrivere il mio favore riguardo al superamento dei 2 mandati proprio in virtù del fatto che, oltre a essere in un periodo di necessari e radicali cambiamenti, c’è la necessità per il Movimento 5 Stelle, di mettere a profitto quanto imparato in questi pochi anni di governo. Non so se lei è ancora favorevole ai 2 mandati, ma mi sento comunque di affermare che non sono certamente i 5 Stelle a essere attaccati alla poltrona ma chi ci sta seduto sopra da 30-40 anni. Rinnovo i miei complimenti a lei e a tutti i suoi collaboratori per un giornale “fuori norma”. Rimanete sempre speciali, perché abbiamo bisogno di voi.

Lidia Tarenzi

 

Desidero commentare l’articolo di Mauro Coltorti. Ora, io sono in completo disaccordo con lui. Dopo gli abbagli e le stupidaggini relative all’ingresso nel governo Draghi, questa direttiva, insieme alla presenza di quella persona per bene che è Conte, mi appare l’ultima motivazione per votarli. Caduta questa… cosa distinguerebbe più i 5S dagli altri partiti? Coltorti porta dalla sua alcune motivazioni apparentemente ineccepibili. Ma io ne cito una che, secondo me, ha più valore di tutte: è meglio un parlamentare poco competente ma onesto che un espertissimo arraffone. Ed è proprio quello che questa regola intende evitare: che si formi anche nel Movimento 5 Stelle la famosa casta. Coltorti pare dimenticare addirittura il perché sia stata inserita questa regola. Ai tempi, i 5S non erano dei pazzi che si divertivano ad architettare idee fantasiose. Quella che è la pratica della politica italiana è talmente disgustosa che solo metodi come questo possono dare fiducia che la legge dell’Attack, quella per cui la poltrona si attacca al fondo schiena del parlamentare, venga smorzata. Certo, svolgere un lavoro da parlamentare non deve essere facile. Occorre imparare tante cose. Ma 10 anni non sono comunque pochi. Chi svolge il proprio lavoro con coscienza ha il tempo per arrivare a lavorare bene.

Enzo formisano

 

Faraone è sempre in Rai: ma chi se lo porta dietro?

Vorrei chiedere a Travaglio se conosce chi sono alla Rai gli amici di Faraone che, appartenente al 2,21% dell’Innominato, viene regolarmente intervistato e parla in Rai più lui di Draghi!

Romano Lenzi

 

Non oso immaginare chi possa far parte della categoria “amici di Faraone”, ma non dubito che in viale Mazzini esista pure quella. Com’era lo slogan della Rai? Ah sì, “di tutto, di più”.

m. trav.

 

G7: l’asse Draghi-Biden, alias la mosca e l’elefante

A proposito del formidabile asse Biden-Draghi… pardon: Draghi-Biden, mi viene in mente, leggendo il tuo editoriale del 13 giugno, caro direttore, quella favola che narra della mosca che, posatasi sull’orecchio d’un elefante mentre questo attraversava un ponte, gli sussurra compiaciuta: “Amico, il ponte trema sotto il peso dei nostri corpi”.

Vincenzo Orsini

 

Marò, una domanda sul risarcimento di Stato

Perché il governo italiano (e io) abbiamo dovuto pagare un milione e centomila euro per risarcire i familiari (e l’armatore della barca) dei due pescatori sui quali i nostri fucilieri hanno fatto il tiro a segno? La signora Latorre si chiede perché al marito hanno imposto il silenzio per nove anni? Sarebbe il caso che lo stesso obbligo fosse imposto anche a lei.

 

Perfettamente d’accordo.

m. trav.

 

Cina, i numeri ci dicono che serve un’apertura

Caro Travaglio, mi fa piacere che anche lei offra un’apertura alla Cina e vorrei aggiungere che oltre ai motivi da lei citati ci sono anche i numeri! Usa ed Europa insieme arrivano a circa la metà della popolazione cinese, e quindi la Cina può contare da sola un mercato interno di consumi circa il doppio del G7 e questo mette la Cina in una posizione commerciale di enorme vantaggio. A questo va poi aggiunta la presenza della Cina in Africa dove i loro investimenti in infrastrutture e formazione le stanno permettendo di acquisire un mercato strategico di materie prime necessarie allo sviluppo di settori nuovi e strategici per “il controllo” dell’economia mondiale. Ovvio quindi che l’Italia debba avere una enorme attenzione ai buoni rapporti con questa grande nazione che è ormai prossima al controllo del mondo e alla quale noi possiamo offrire cultura e bellezza che non trovano in nessun altro paese occidentale. Bene fa Grillo a intrattenere buoni rapporti che spero, presto, possa intrattenere anche Conte.

Raffaele Fabbrocino

 

Due “fettine” di Luttazzi per insaporire il Nove

Caro Marco, quando ci fai il regalo di un etto di San Daniele (Luttazzi) sul Nove? Accordi & Disaccordi – anche se con una coreografia un po’… gotica – ha qualità e ritmo. Ma con un paio di “fettine” di Luttazzi, sarebbe ancora più appetitoso. Continuate così.

Massimo Marnetto

 

Eh, magari! Ma dipende da lui.

m. trav

Tassa di successione. L’unica vera riforma fiscale è stata fatta da Nerone

 

Gentile Massimo Fini, mi riferisco al suo articolo di sabato 5 giugno: “Tassa di successione: solo Letta è di sinistra”. L’imposta di successione (tra l’altro l’unica imposta espressamente prevista dalla Costituzione) è effettivamente molto bassa in Italia e sarebbe opportuno aumentarla.

Tra l’altro esiste un breve saggio favorevole alla sua introduzione da parte di Luigi Einaudi, che se ne occupò nel primo Novecento.

Il suo gettito dovrebbe però andare a diminuire le imposte dirette, soprattutto sui redditi minori, se si vuole pervenire a una distribuzione della ricchezza. Sempre che il suo gettito sia sufficiente. Storicamente, anche quando le aliquote sono state altissime, l’imposta dava un gettito modesto. (I funzionari delle imposte mi dicevano allora che il gettito era inferiore al costo di esazione).

In caso diverso si andrebbe ad aumentare la pressione fiscale in questo Paese che è già una delle più alte del mondo, a fronte di servizi precari se non “da Terzo mondo”.

Quanto poi alla solita litania sulla ricchezza mondiale – al 40 per cento posseduta dall’1 per cento della popolazione globale –, la inviterei a un semplice calcolo. Divida questo 40 per cento di ricchezza tra la popolazione globale della terra e ne viene poco più di una pizza a testa.

Con la conseguenza, poi, che si bloccherebbe il sistema.

Voi giornalisti avreste gravi responsabilità morali e sarebbe bene che parlaste con cognizione di causa degli argomenti che affrontate, per non finire ad avere la stessa credibilità di molti politici.

Carlo Boni

 

Gentile signor Boni, l’unica vera riforma fiscale l’ha fatta Nerone, che abolì le tasse dirette, quelle che cadono immediatamente sulla popolazione, senza aumentare quelle indirette grazie a una politica che oggi chiameremmo “keynesiana” di espansione economica supportata da quella edilizia (Domus aurea e annessi e connessi). Non per nulla fu costretto al suicidio e dannato “in saecula saeculorum”.

Mi piacerebbe sapere qual è la sua di credibilità.

Massimo Fini