Mottarone, la tragedia del video che offende

Nessuno era mai riuscito nell’impresa di far convergere su un solo sentimento – lo sgomento – i commenti apparsi sui social network sulla decisione del Tg3 di pubblicare l’“esclusiva” del video del Mottarone, dove si vedono le persone dentro la cabina che si muovono per gli ultimi istanti (i loro visi inutilmente coperti dal grafico di turno) per poi precipitare poco dopo. Chiedono, quei commenti, che senso abbia “mostrare gli ultimi istanti di 14 esseri umani”, oppongono il gesto della Rai a quello dei giocatori della Danimarca che hanno coperto il corpo di Eriksen, contestano l’ipocrita avviso sui “contenuti sensibili del video”, l’unica cosa era “non pubblicarlo”. Moltissimi, infatti, decidono di non vederlo, alcuni siti, anche, di non pubblicarlo. Che non fosse diritto di cronaca, e neanche servizio pubblico, lo capiscono anche i muri, fioccano – e che gli vuoi dire – gli insulti a un mestiere che ha toccato il fondo. E ieri è arrivata anche la nota durissima della procuratrice di Verbania Olimpia Bossi: si trattava di immagini di cui era vietata la pubblicazione, e in più aggiungono strazio alle famiglie. Certo, prima di gridare alla pornografia del dolore ci si potrebbe chiedere se la tv non ci faccia vedere ciò che vogliamo vedere, ma la domanda è retorica, no, se fai informazione la gallina viene prima dell’uovo e basta, sbaglia chi pubblica, non chi clicca. Purtroppo, il dramma non è solo per le vittime, nessun rispetto per loro, né solo per i loro parenti– a Eitan resterà questo “regalo” – ma per tutti noi. Perché più vediamo la morte in diretta, più ci stordiamo, più clicchiamo, più smarriamo ogni contatto con le nostre emozioni di lutto e dolore per la perdita della vita umana. Ed è una tragedia nella tragedia.

Il siero dei popoli: il mondo e i vaccini

Fino al 4 maggio scorso, meno dell’8% della popolazione mondiale aveva ricevuto almeno una dose di un qualsiasi vaccino contro il Covid-19, ma l’80% delle vaccinazioni praticate era avvenuto in sole dieci nazioni.

Ciò non dipende soltanto dal fatto che i Paesi ricchi hanno acquistato tutte le dosi disponibili, ma anche dalla constatazione che, semplicemente, non ci sono state dosi sufficienti per soddisfare tutte le richieste. L’intera produzione di Moderna e più del 96% di quella di Pfizer/BioNTech sono state acquistate da Paesi sviluppati, e la distribuzione del vaccino di AstraZeneca/Università di Oxford è andata prevalentemente all’Europa. Secondo stime della Gavi, l’Alleanza mondiale per vaccini e immunizzazione, i Paesi sviluppati hanno incamerato un numero di dosi dei principali vaccini sufficiente a immunizzare per tre volte i loro cittadini, mentre le nazioni più povere potranno ritenersi fortunate se nel corso del 2021 riusciranno a somministrare una dose per ogni dieci abitanti.

Questa penuria è in grande misura voluta. La produzione di vaccini è stata limitata dal rifiuto delle case farmaceutiche di condividere conoscenze e tecnologia. Nonostante il fatto che le imprese produttrici dei vaccini approvati abbiano goduto di sussidi pubblici e della ricerca finanziata con fondi pubblici, esse hanno comunque approfittato della protezione dei loro brevetti per mantenere un potere oligopolico, limitando la produzione alle loro fabbriche e a un esiguo numero di aziende alle quali hanno concesso licenze. Secondo la piattaforma multimediale per la comunità di sviluppo globale Devex, i governi hanno destinato fondi pubblici per l’astronomica cifra di 37.700 milioni di dollari alla ricerca, allo sviluppo, alla distribuzione e all’applicazione di vaccini, mentre il settore privato vi ha investito un quarto di quell’ammontare: 9.500 milioni. Inoltre, non sono stati resi pubblici gli accordi di licenza con i singoli Paesi e viene osteggiata la proposta, presentata alla Omc da India e Sudafrica, di sospendere per tutta la durata della pandemia il pagamento dei diritti di proprietà intellettuale di tali vaccini. Questa tutela della Omc era già stata attivata nel caso dell’Aids, in seguito a una campagna internazionale volta a rendere disponibili trattamenti generici che potessero essere fabbricati a costi inferiori da altre nazioni. La proposta di ripeterla per il Covid-19 gode dell’appoggio di un centinaio di Stati, ma trova l’opposizione di vari Paesi che sono sede di grandi aziende farmaceutiche. (…)

L’accesso disuguale ai vaccini mette a repentaglio vite un po’ ovunque. Meno persone si vaccinano a livello mondiale, più è probabile che insorgano varianti resistenti ai vaccini. Se le pandemie da Covid-19 e di Hiv ci hanno insegnato qualcosa, è che i virus non conoscono frontiere. Più consentiamo che queste varianti si propaghino, più persone moriranno. Il rimedio per garantire la nostra sicurezza e il rilancio dell’economia è la vaccinazione globale. Per riuscirci, bisogna fabbricare, distribuire e inoculare più di 8.000 milioni di dosi, e la questione si riduce a come gestire l’emergenza nell’attuale cornice legale di protezione dei Dpi.

Quando è stata la volta dell’epidemia di Hiv/Aids, ci sono voluti anni di campagne appassionate e milioni di morti prima che i Paesi della Omc si accordassero sulla necessità di consentire licenze obbligatorie di proprietà intellettuale per assicurare l’accesso ai farmaci. La dichiarazione di Doha della Omc sull’Accordo sugli Adpic e la salute pubblica, del 1994, e l’accordo tra i membri della Omc del 2001 concedono il diritto di conferire licenze obbligatorie nel caso di emergenza nazionale, compresa una crisi di natura sanitaria. “Sussiste tuttavia il requisito delle royalties da pagare alle aziende farmaceutiche, che non hanno mai rinunciato ad adoperarsi in ogni modo per difendere questo principio. Il fatto stesso che oggi abbiamo bisogno di una sospensione va addebitato in primo luogo all’avidità dell’industria farmaceutica. Se il regime imperante della proprietà intellettuale farmaceutica fosse stato più accomodante, la produzione di vaccini e di trattamenti si sarebbe già incrementata.

I critici della liberalizzazione dei brevetti argomentano che i costi sono troppo alti per consentirne l’accesso ai Paesi più poveri. Ritengono che i governi debbano finanziare direttamente tutta l’innovazione e ricevere i prodotti al costo di fabbricazione. Il punto chiave, tuttavia, è che il pagamento dei costi di ricerca e sviluppo è distinto dalla somministrazione dei prodotti. Pertanto i brevetti non dovrebbero significare prezzi universalmente alti. Dovremmo aspettarci prezzi diversificati o scaglionati. I costi di ricerca e sviluppo si recuperano dai Paesi più ricchi che pagano prezzi più alti in base alla considerazione della salute dei loro cittadini. I Paesi più poveri ottengono prezzi prossimi o uguali ai costi di fabbricazione.

In definitiva, la posizione del polo farmaceutico è chiara, ma la realtà è un’altra cosa. Le recenti promesse di queste aziende, che si sono dette pronte a far pervenire dosi di vaccino alle popolazioni a rischio nei Paesi più poveri, possono alleviare i loro sensi di colpa, ma non contribuiranno significativamente alla vaccinazione globale. (…)

Di che natura è la situazione? È in gioco un conflitto di interessi: quello individuale contro quello collettivo? Pare che sia così: da una parte, c’è la proprietà privata, intesa come un diritto assoluto dei Dpi, e, dall’altra, il diritto alla salute, che pretende perentoriamente di accedere agli strumenti per proteggersi. Si impone una verità: l’unica via di uscita dalla crisi attuale è un vaccino ad accesso universale; nessuno è protetto finché non saremo protetti tutti.

La gravissima accusa ripetutamente rivolta alle aziende farmaceutiche è che sarebbero enti con meri fini di lucro, concentrati anzitutto sui profitti e non sulla salute globale. Nella presente situazione sarebbe venuta alla luce la loro autentica natura, il loro vero obiettivo: mantenere tutto il potere ottenibile sul mercato il più a lungo possibile, allo scopo di massimizzare i profitti. Ma in circostanze come quelle che stiamo attraversando tocca ai governi intervenire più direttamente per risolvere il problema della somministrazione dei vaccini. Negli ordinamenti giuridici dei Paesi occidentali il diritto di proprietà non è assoluto, ma ha un riferimento essenziale al bene comune, da cui proviene l’istituzione giuridica dell’espropriazione (che peraltro si pratica garantendo una compensazione, un indennizzo). Dal canto suo, la dottrina sociale della Chiesa ha sempre affermato la funzione sociale della proprietà. San Giovanni Paolo II ha scritto: “La tradizione cristiana non ha mai sostenuto questo diritto come un qualcosa di assoluto e intoccabile. Al contrario, essa l’ha sempre inteso nel più vasto contesto del comune diritto di tutti ad usare i beni dell’intera creazione: il diritto della proprietà privata come subordinato al diritto dell’uso comune, alla destinazione universale dei beni” (Laborem exercens, n. 14).

 

C’è del sano in Danimarca: Eriksen difeso, Alfredino no

Grande prestazione della Danimarca. Non della sua squadra di calcio, che ha perso 0-1 con la Finlandia, ma dei giocatori danesi e, direi, della società e della civiltà scandinava tanto lontana dalla nostra che, per definirla tale, ci vuole, per riprendere Gaber, “fantasia”. Quando Chris Eriksen si è accasciato a terra i giocatori danesi, guidati dal loro capitano Kjaer, il roccioso centrale del Milan, che era stato il primo a raggiungere il compagno steso a terra, sbloccandogli la lingua, che si era incastrata fra i denti, come accade negli attacchi di epilessia, e probabilmente salvandogli la vita, si sono schierati in linea, non di fronte come quando ascoltano gli inni nazionali prima della partita, ma di spalle per proteggerlo dagli obbiettivi della Tv, in questo caso Sky che aveva l’esclusiva, e dai voyeur, televisivi e non. Siamo un po’ troppo abituati a definire ‘eroi’ persone che fanno semplicemente il loro dovere. Ebbene Kjaer eroe lo è stato davvero perché ha saputo conservare la freddezza nel momento in cui ci voleva freddezza, ma poi, poiché è un uomo e non uno di quei warriors di fantaplastica che le televisioni, Sky in testa, ci ammanniscono quotidianamente, è crollato psicologicamente e ha detto al suo allenatore che non se la sentiva di riprendere la partita.

Quando un calciatore si accascia a terra senza essere stato nemmeno sfiorato da un avversario i giocatori restano impietriti. Paralizzati dal terrore. Sono nel fiore della giovinezza, sono forti, controllati quasi quotidianamente dalle migliori équipe mediche. Si sentono invulnerabili. E all’improvviso ecco che si presenta sul terreno di gioco uno spettro. Lo spettro della morte.

Nel gennaio 2004, mentre si giocava la partita fra il Benfica e il Vitòria, il giocatore ungherese Miklós Fehér fu colto sul campo da un malore simile a quello di Eriksen, più grave perché risulterà letale. Nel caso di Miklós Fehér le televisioni si accanirono nel mostrare quel corpo giovane, apparentemente intatto ma evidentemente già minato in alcune sue fibre più intime, che si arrovesciava all’indietro e lentamente si stendeva a terra allargando alla fine le braccia in segno di resa. Solo vent’anni prima il segretario del Pci, Enrico Berlinguer, 62 anni, tradito dalla tensione, si era accasciato sul palco durante un comizio che stava tenendo a Padova. Tutte le tv interruppero il collegamento. Non perché Berlinguer fosse un personaggio famoso, ma perché non è lecito a nessuno mostrare gli attimi della fine biologica di una persona (se l’evento è dinamico la cosa si presenta in modo diverso) che sono i momenti più intimi e riservati della vita di un uomo e come tali vanno rispettati. Negli ospedali i malati terminali, quando sentono arrivare il momento del dunque, si voltano verso il muro, non vogliono essere visti. In vent’anni, da Enrico Berlinguer a Miklós Fehér, questo pudore era scomparso.

Oggi il voyerismo del macabro non conosce più limiti. Di un episodio inqualificabile è stata protagonista proprio Sky Tg 24. Crolla il ponte Morandi. Un uomo che si trova abbastanza vicino comincia a filmare, poi rendendosi conto dell’oscenità di ciò che sta facendo butta lo smartphone e corre verso il luogo della tragedia nella speranza di poter dare una mano. Arrivano quelli di Sky, si impadroniscono del telefonino e, a buio, fanno sentire tutto: le urla disperate, le invocazioni di aiuto, i gemiti delle persone in agonia. Sky avrebbe dovuto avere la coscienza dell’uomo che gettò il cellulare rinunciando a quel macabro scoop, ricordando che la libertà di informazione deve pur avere qualche limite, almeno quello della decenza.

Proprio in questi giorni Sky manda in onda un film, Alfredino – Una storia italiana, che facendo esercizio di molta retorica riesce a volgere in positivo la vicenda. In realtà si tratta di una delle pagine più buie della recente storia italiana come scrissi a suo tempo (“L’infamia di Vermicino”, Corriere medico, 17.6.81). Ricordiamo. Siamo nel giugno dell’81. Un bambino di sei anni, Alfredino Rampi, cade in un pozzo artesiano. È vivo. Sul posto si precipitano i pompieri, personaggi miracolosi di ogni sorta come “il microbo del Tufello”, seguiti da decine di tv che si portano dietro i curiosi. Ad aggravare la situazione ci pensò il presidente Pertini che, convinto che alla fine la cosa si sarebbe risolta, voleva nel suo imperdonabile narcisismo appropriarsi di questo salvataggio e invece portò ulteriore confusione in una situazione già difficilissima. Per tre giorni le tv trasmisero le invocazioni del bambino, sempre più deboli, sempre più soffocate, e infine la sua ultima agonia. La sola cosa da fare per rispettare Alfredino Rampi era spegnere la tv. Io mi trovavo a Pescara: entrai in un bar e vidi una folla di voyeur che assisteva allo spettacolo come si trattasse di una partita di calcio. Uscii e, nonostante il mio mestiere in qualche modo mi autorizzasse, non ne volli saper nulla.

È turpe, è osceno, fare spettacolo dell’agonia di un bambino. Così come sarebbe stato osceno mostrare Chris Eriksen sospeso fra la vita e la morte. I calciatori danesi lo hanno capito. Noi non so.

Non fate la movida, fate i camerieri!

Avendo preso attodi due allarmi che agitano i sonni della nostra meglio borghesia, illustreremo qui la nostra modesta proposta: i lavoretti forzati per i giovani. Andiamo con ordine. Sui giornali ieri abbiamo appreso che i suddetti giovani, oltre a non aver voglia di lavorare, rovinano le belle piazze d’Italia. Ha raccontato, sconvolto, Ernesto Galli della Loggia sul CorSera che “da settimane” ormai “sul calare della sera folle di giovani hanno preso l’abitudine di adunarsi e di accamparsi fino all’alba dando vita a quanto ancora ci ostiniamo a chiamare pudicamente movida o aperitivi”. Baccanali durante i quali, “eccitate dall’abuso dell’alcol e spesso da una musica a mille, sovente sotto l’effetto di sostanze stupefacenti che nelle circostanze solitamente girano a fiumi, le folle giovanili di cui sopra si abbandonano a schiamazzi, urlano, vomitano, urinano all’angolo dei palazzi, fanno a botte”. Alcol e droga, contessa, e ogni genere di perversione che impedisce di dormire agli storici che eventualmente, sudate le sudatissime carte, volessero farlo nelle loro case prospicienti le belle piazze d’Italia. Su Repubblica la faccenda prende una piega inquietante: c’è un “allarme movida che turba ormai da giorni il sonno (aridaje, ndr) di molti prefetti e questori” e riguarda “le possibili infiltrazioni di frange violente nelle piazze della movida, sul modello francese”. Il modello francese, duchessa: qui finisce male. Sul Corriere Milano, ma anche sulla Stampa, troviamo però anche il più tradizionale: “Il lavoro rifiutato rallenta la ripresa”. Titolo sotto il quale un imprenditore ci spiega che per i suoi fast food non trova personale: solo un giovane su 10 accetta le sue allettanti profferte, gli altri “preferiscono il nero o i sussidi”. Per essere liberi, ovviamente, al calar della sera, di posizionarsi sotto casa di Galli della Loggia e dei prefetti negando loro il meritato riposo, mentre urinano in giro resi folli dalla droga e dal rumore delle bombe carta. E qui torniamo alla nostra modesta proposta: il lavoretto forzato per i giovani risolverebbe in un colpo solo il problema delle imprese, nonché le ansie dei prefetti e degli storici con casa nei centri altrettanto storici. Presidente Draghi, confidiamo in lei: basta carote, solo bastone.

Terapie anti-covid, troppo silenzio

Mentre siamo ancora quasi deliranti per la gioia di essere arrivati al traguardo “zona bianca”, avvertiamo un noioso rumore di fondo. Infatti i dati arrivati dalla Gran Bretagna riportano un incremento di positività a SarsCoV2, anche se a fronte di un modestissimo incremento dei ricoveri e dei decessi. Pare che la causa sia la circolazione di una variante, la Delta, prima chiamata “Indiana”. Studi recenti hanno dimostrato che i vaccini attuali possono non essere pienamente efficaci verso questa nuova variante, soprattutto quando ancora si è ricevuta una sola dose. In Italia, malgrado i notevoli sforzi, i vaccinati sono solo 14.020.000. Ciò significa che ci troviamo con la maggior parte della popolazione che potenzialmente potrebbe essere poco o per nulla protetta nei confronti della nuova variante. Se le varianti dovessero rendere inefficaci i vaccini, sarebbe necessario aggiornarli continuamente e continuamente dovremmo sottoporci a richiami. Sarà possibile? Non si discute il valore della vaccinazione: ciò che si vorrebbe non mancasse dal primo piano è la terapia. La lotta contro il virus non può essere vinta con una sola arma, bisogna incoraggiare i trials clinici, dei quali non si parla, e ripetere chiaro e forte che la corsa contro il tempo, ai primi sospetti d’essere positivi, è necessaria per evitare l’aggravarsi della malattia ed evitare il ricovero in ospedale. Ancora oggi il Covid è fra gli argomenti giornalistici principali, ma non sento nessuno che dia queste semplici informazioni. È possibile che dopo un anno e mezzo abbiamo decine di vaccini in studio e alcuni in uso e nessuna molecola antivirale? Solo qualche giorno fa, sommessamente, è stata data la notizia che la Pfizer sta conducendo ricerche su un farmaco anti-Covid. E gli anticorpi monoclonali? Perché non porre un po’ di fiducia anche puntando sulla terapia del Covid?

 

Direttore microbiologia clinica e virologia del “Sacco” di Milano

Super league, c’è ancora molto da lottare contro i tentatori

La recente presa di posizione della Uefa di non perseguire i club “ribelli” riguardo alla Super League, ossia le tre società “fondatrici”, la Juventus, il Real Madrid e il Barcellona, in quanto colpevoli di non essersi almeno formalmente ritirate dal progetto, deve far riflettere sulle dinamiche dello sport continentale. Limitandoci all’Italia, è chiaro che i timori derivanti dalla questione che il club bianconero non potesse riuscire a disputare la prossima Champions sono svaniti. Detto ciò, la Uefa avrebbe potuto continuare la propria battaglia giudiziaria contro i “ribelli”, anziché sospendere il suo procedimento disciplinare in attesa dei tribunali ordinari? Juve, Real e Barca potranno continuare a partecipare alle coppe europee senza alcuna conseguenza? Si afferma in questi giorni che Aleksander Ceferin, presidente della Uefa, sarebbe maggiormente ben disposto con la Juve se Agnelli facesse un vero passo indietro istituzionale. Sarà proprio così? Bisogna comunque provare a seguire nuove strade di comprensione, tornando a quella che è stata la causa scatenante della Superlega, volutamente evidenziata dallo stesso Agnelli: i debiti accumulati nell’arco di quasi un anno e mezzo, dallo scoppio dell’epidemia. Già, i debiti: se, come tutti si augurano, non ci saranno più nuove ondate virali nei prossimi mesi, se la strategia vaccinale condurrà agli obiettivi prefissati, non ci saranno più attenuanti per ambire a un ritorno alla “normalità”, sebbene le casse sportive sono in condizioni allarmanti. Questi ultimi sedici-diciassette mesi sono stati definiti da più parti come la Terza guerra mondiale. Al termine dei due eventi bellici dello scorso secolo sono stati i fondi stranieri a permettere un ripresa: i piani Dawes e Young in seguito alla Grande Guerra e il Piano Marshall dopo il 1945. Il tempo dovrebbe essere arrivato per qualcosa di simile in questo anno. Qualcosa di più del Recovery Fund. E se i grandi club avessero già beneficiato degli aiuti? Se i più potenti istituti di credito planetari, prima tra tutti la banca Morgan, che già aveva garantito il finanziamento alla Super League, avesse già concesso quanto pattuito ai menzionati club europei? Se ciò fosse successo, è chiaro che i vertici di tale banca pretenderanno qualcosa in cambio. Che cosa? Per esempio l’attuazione in pieno del modello nordamericano, quindi focalizzarsi sul profitto economico generato dalle prestazioni degli atleti. Il giro di dollari che ogni anno circola tra giocatori, società, sponsor e l’intero indotto è qualcosa che in Europa è conosciuto marginalmente. In Italia destano scalpore i casi di ingaggi esorbitanti di top player, come Cristiano Ronaldo. Oltreoceano tali cifre sono all’ordine del giorno, e quasi nessuno sembra ormai alzare una voce critica. Bisognerà dimenticare qualsiasi idilliaco ideale di fratellanza sportiva universale, in cui i grandi proprietari stranieri di alcuni grandi club del continente sono più interessati alla vendita dei diritti televisivi. Persino Malagò si è dimostrato possibilista, in avvenire, sulla Super League, anche se non c’è da stupirsi di una persona che punta al denaro dei contribuenti, come per le ultime Olimpiadi invernali di Milano e Cortina. Questa eventualità ci può aiutare a considerare le mosse future in vista della nuova stagione, cercando di mantenere la fiducia sull’avvenire dello sport più bello del mondo. Dobbiamo tutti combattere contro queste sirene economiche tentatrici, ricordandoci quanto scritto nelle scorse settimane da Massimo Fini sulla passione dei tifosi, sulla banalizzazione quasi quotidiana di queste ipotetiche gare di altissimo livello se tale Lega andasse in porto, e auspicando un calcio romantico, ossia la Coppa dei Campioni com’era strutturata fino a qualche decennio fa, dove l’accesso era consentito solo alle squadre vincitrici del campionato.

 

Quando la sicurezza (ormai) riguarda solo la sfera economica

Le parole abusate perdono il loro significato profondo. Succede alla parola “sicurezza”. L’etimologia sta nel latino sine(senza) e cura (preoccupazione). Sicurezza sul lavoro significa “assenza di preoccupazioni” per incolumità e salute di chi lavora. I fatti ci raccontano un’altra storia: le morti da lavoro, sia da infortunio (causato da carenza di sicurezza istantanea), sia da malattia occupazionale, in particolare tumori (causata da carenza nella sicurezza nel tempo passato) sono in aumento. Senza parlare dei danneggiati e dei numerosi invalidi da lavoro. Il concetto di sicurezza viene spesso tirato in ballo per situazioni che con il lavoro non c’entrano nulla. Alcuni esempi: 13 febbraio 1983, tragedia del cinema Statuto a Torino. Durante la proiezione scoppia un incendio. Muoiono 64 persone, principalmente per intossicazione da fumi. Le vittime, mentre, istintivamente, fuggivano dalle fiamme, trovarono le uscite di “sicurezza” sbarrate. Il proprietario del cinema aveva preferito, alla sicurezza degli spettatori, la sicurezza dell’incasso (le vie di fuga sigillate contro i portoghesi). Nello stesso giorno, a Champoluc (Valle d’Aosta), precipitavano tre cabine dell’ovovia del Crest causando undici morti. Questo ci riporta alla attualità della tragedia della funivia del Mottarone. Negli articoli di giornale dedicati, ricorre il concetto di sicurezza collegato “al D.Lgs 81” (Testo Unico per la sicurezza sul lavoro) riguardante l’incolumità, la sicurezza e la salute di terzi. Nei lavori che coinvolgono “terzi”, si prevede che la valutazione del rischio, inteso come probabilità che un pericolo provochi un danno, debba essere condotta puntando non solo alla sicurezza (assenza di preoccupazione) per il lavoratore, ma anche alla sicurezza degli utenti. Anche nel caso del Mottarone, da quanto si capisce, la sicurezza dell’incasso è stata assai verosimilmente anteposta alla sicurezza degli utenti.

Ancora: quando passate con la vostra autovettura sopra un viadotto dell’autostrada, le vostre “preoccupazioni” sono di cento tipi diversi, ma non quella che il viadotto vi crolli sotto le ruote, lasciandovi in balia della gravità, perché chi doveva spendere nella manutenzione ha preferito l’incasso del pedaggio. Oppure: quando entrate in un ospedale come pazienti, la vostra “preoccupazione” sta nel vostro problema di salute, non certo nel “pareggio di bilancio in Costituzione”, scellerata scelta politica che ha condotto al blocco delle assunzioni, con conseguente carenza di personale sanitario, e, con esso, alla carenza di sicurezza delle cure. Oppure: la sicurezza in un’aula di tribunale, dovrebbe stare nella frase (onnipresente) “La legge è uguale per tutti”. Salvo rendersi conto che quelli che se lo possono pagare “puntano alla prescrizione”. O ancora: Ilva di Taranto: alla sicurezza degli impianti produttivi (carente, vedi i gravi infortuni e le gravi malattie professionali tra gli operai dell’acciaieria) e alla sicurezza dell’ambiente circostante l’Ilva (Taranto e provincia), si è preferita la sicurezza dei profitti dei gruppi che si sono succeduti negli ultimi trent’anni. Gli esempi potrebbero andare avanti. Le storie vecchie e nuove, almeno quelle note sui quotidiani, sono “preoccupanti”: ciò che emerge, dai fatti, è che la gestione della sicurezza si basa non tanto sul rischio di danno all’ambiente o alla vita della gente, quanto sul rischio di danno alle finanze, intese come utile immediato, detto anche profitto. La sicurezza resta un bene comune. L’economia altro non è che (anche qui l’etimologia greca ci aiuta) l’arte di reggere e bene amministrare le cose di casa, della famiglia e dello Stato. Duplice la conclusione. In primis: ogni euro speso per la sicurezza è un investimento di civiltà che ci aiuta a vivere con meno preoccupazioni. In secundis: comprendere meglio il significato delle parole aiuta a smettere di abusarne senza rendersi conto della loro potenza nella vita.

*Medico del lavoro a Torino 

Gen. Figliuolo, no: non siam pronti alla morte

Si fatica ancora a capire perché mai a un certo punto al Governo dei Migliori è venuto in mente di affidare la delicatissima macchina dell’immunizzazione di massa a un generale dell’Esercito. Cioè a uno che di medicina e sanità pubblica ne sa quanto un geometra, un sarto o noi giornalisti. Per la logistica, si dirà: ma la logistica funzionava anche prima, il problema era che non c’erano vaccini. È che bisognava segnare “un cambio di passo”, dare “fuoco alle polveri”, “fiato alle trombe” e la famosa “spallata”, e l’immagine dell’alpino in mimetica e anfibi, sempre in movimento come una palla matta da un lato all’altro d’Italia a dare ordini alle truppe vaccinali, era funzionale alla retorica dei Salvatori della Patria che sostiene, e in definitiva giustifica, l’avvento di Draghi. Una cosa è certa: a noi non sarebbe mai venuto in mente di dire, davanti alla catastrofica gestione delle vaccinazioni e alle (pur timide) rimostranze di qualcuno, una cosa come: “Non è il momento delle polemiche, è il momento di stringersi a coorte”, come ha detto Figliuolo martedì, una frase composta da due proposizioni entrambe sbagliate. “Basta polemiche”: davvero credeva, il Generale, che non avremmo fatto polemiche? Pensa di godere di qualche guarentigia? Vige forse il dogma dell’infallibilità commissariale? Che crede, che siamo in caserma, dove comandano i nonni e le reclute subiscono in silenzio? Come se il problema, poi, fossero le polemiche e non le morti per trombosi cerebrali. “Stringersi a coorte”: che c’entra l’amor di Patria dei singoli con la sicurezza sanitaria di una popolazione in una pandemia? Ciò che deve animare la volontà di vaccinarsi è la fiducia nella scienza e nei decisori politici motivata da evidenze razionali, non l’afflato patriottardo di stampo rinascimentale. Non siamo affatto pronti alla morte, per fargli raggiungere i suoi (disattesi) record vaccinali. A proposito: sempre martedì Figliuolo si vantava di aver superato le 500mila vaccinazioni al giorno, che però erano state promesse per metà aprile, dimenticando che ai primi di maggio, promettendone presso medici di base e farmacie, si impegnava per 1 milione di dosi al dì entro giugno. A ciò servivano gli Open Day: chiami in massa giovani, minorenni, maturandi a vaccinarsi per andare in vacanza, al grido di “i vaccini vanno impiegati tutti”, seguito da Curcio, capo della Protezione civile: “Tutto quello che abbiamo lo dobbiamo somministrare. A noi interessano le percentuali”; poi, se va male, com’era prevedibile visti gli accertati effetti avversi di AZ, redarguisci il popolo che non ama abbastanza la Patria.

Ogni volta che Figliuolo apre bocca fa danni. “Chiunque passa va vaccinato”, così, senza anamnesi, senza parere del medico di base, senza alcun filtro tra il cittadino e l’inoculatore, di modo che ogni eventuale malattia o difetto genetico viene fuori solo sul tavolo delle autopsie. “L’imperativo categorico è accelerare. Dobbiamo allungare il passo”. Sicuro? C’è una parte della popolazione che è sacrificabile? Visto che l’alternativa c’è (i vaccini a mRna), non è meglio togliere dalla circolazione AZ e J&J, farli sparire, preferibilmente non nei deltoidi dei cittadini?

Si sapeva dall’inizio che la tenuta bellica, l’eloquio marziale e i tonitruanti propositi, in caso di fallimento, si sarebbero rovesciati nel macchiettismo. È il destino del marziano a Roma.

Ma il disastro sanitario si porta dietro un disastro simbolico: il vaccino rappresenta la salvezza, la protezione; se la gente non si fida e non va a vaccinarsi, il danno è gravissimo. E se ci va senza tutele, è peggio. È forse vietato a un under-60 vaccinarsi con AZ? Se il Gen. avesse qualche elemento di medicina conoscerebbe il primo dei comandamenti per un clinico: non nuocere. Vuol dire che nessun fine sanitario giustifica il male procurato al singolo e che tra due rimedi bisogna usare quello che ha meno effetti collaterali. Immaginiamo cosa sarebbe successo se tutto questo l’avessero fatto Conte, i 5Stelle, Arcuri. Ma questo è il Governo dei Migliori voluto da Renzi e Mattarella, non può sbagliare per definizione. Infatti Draghi tace, forse spera che nessuno si accorga che il capo è lui. È il Governo di Tutti, quindi non è colpa di nessuno (poi si lamentano se la Meloni cresce). Se va bene, il merito è di Figliuolo, se va male è colpa di Speranza; il quale naturalmente non ha alcun merito per le 500mila somministrazioni. Quindi la colpa sarà dei ragazzi che sono andati a farsi vaccinare agli Open Day.

Infine, l’ultima trovata di un apparato commissariale confondente e confuso: il mix, anche detto cocktail. Il Cts sostiene che fare il richiamo con un vaccino a mRna dopo la prima dose con AZ sia efficace e sicuro, anzi: che dia ancora più protezione. E come mai allora a chi ha fatto la prima dose con Pfizer non viene consigliato il richiamo con AstraZeneca? Misteri. O no?

 

Il “Vietnam afghano”: ghiaccioli, Bin Laden e Pamela Anderson

“Andare via dall’Afghanistan non sarebbe un atto politico, ma la rinuncia a esercitare il nostro ruolo politico nella comunità internazionale e ci isolerebbe in Europa e nel mondo” (Massimo D’Alema, 2007).

Continuo coi cenni storici sul Vietnam afghano (a cui abbiamo partecipato in barba alla Costituzione) perché non ho di meglio da fare, a quanto pare.

Luglio 1979: Gli Usa cominciano ad aiutare i mujaheddin. Brzezinsky, ex consigliere per la Sicurezza Nazionale Usa, scrive una nota al presidente Carter: a suo parere quell’aiuto avrebbe determinato un intervento armato dell’Urss in Afghanistan. Quando a dicembre l’Urss invade l’Afghanistan, Carter si finge sorpreso. 1980: Usa e Arabia Saudita danno al Pakistan finanziamenti, intelligence, aiuti militari e abbonamenti a Penthouse per fermare l’avanzata sovietica in Afghanistan. La guerra contro l’Urss viene presentata al popolo afghano, e alle decine di migliaia di volontari arabi provenienti da tutto il mondo, come una guerra santa islamica (jihad) contro gli infedeli comunisti. Capito a cosa serve la religione? Il colonnello Trautman rintraccia Rambo in Thailandia e lo invia sotto copertura in Afghanistan, dove Stallone semina il panico fra le truppe sovietiche con la sua recitazione. 1989: l’Urss se ne va dall’Afghanistan, ma la successiva guerra civile fra i mujaheddin (sostenuti da Usa, Pakistan, Arabia Saudita, Iran e Cina) e il governo afghano filosovietico delude gli spettatori, che le preferiscono Baywatch. 1991: geniale inventore miliardario, sciupafemmine e filantropo, il giovane Bin Laden, che aveva partecipato alla guerriglia dei mujaheddin venendo ferito, si sposta in Sudan, dove crea una speciale armatura volante con magnete pettorale, e un vasto movimento islamico antiamericano. L’America inizia la guerra del Golfo contro l’Iraq, accusandolo di essere entrato in Kuwait senza usare le pattine. In Asia centrale è in atto il “Grande Gioco”. La zona è ricca di risorse naturali, fonti energetiche, materie prime e oppio, ed è via di transito per gasdotti, oleodotti e droga orientale. Per l’estrazione e il trasporto di gas e petrolio la fanno da padroni Russia (Gazprom), Usa (Unocal e Chevron), Turchia e Cina. Incomprensibilmente inutilizzati i vasti giacimenti di formaggio Dover presso Jalalabad. 1992: i mujaheddin abbattono il governo filosovietico del Pdpa: nasce lo Stato Islamico. Senza più nemici, ai mujaheddin non resta che farsi guerra fra loro: quelli capitanati da Rabbani e Massud (sostenuti da Iran, Russia e India) sconfiggono la compagine di Hekmatyar (sostenuta da Pakistan e Arabia Saudita), conquistando Kabul. Meritate le vacanze a Mordor. 1994: il Pakistan decide di appoggiare il movimento integralista islamico del mullah Omar, cioè i talebani: un governo filo-pachistano permetterebbe agli Usa di implementare il progetto Unocal di un gasdotto attraverso l’Afghanistan. Aiutati anche da Arabia Saudita e Qatar, in due anni i talebani si prendono buona parte del Paese, puntando, come indicato dalla loro carta degli Obiettivi, a Pamela Anderson. 1996: Gli Usa accusano Bin Laden di addestrare terroristi in Sudan, e sottopongono il Sudan a un embargo totale, ghiaccioli alla menta compresi, i preferiti da Bin Laden. Questi allora torna in Afghanistan, dove, grazie alle sue ingenti risorse finanziarie, scopre la cura contro il cancro. Quando il mullah Omar va al potere, i mujaheddin di Hekmatyar si ritirano con altre fazioni nel nord del Paese, formando “l’Alleanza del Nord”, perché “i Vendicatori” era già stato preso. (3. Continua)

 

Povero B. nessuno lo prende sul serio

In un empito di servile nostalgia, ieri Libero sallustiano ha titolato sulla “spallata” di B., mentre il Giornale neo minzoliniano ha preferito la “zampata”. Quale che sia delle due attività fisiche del pluriottuagenario pregiudicato, spallata o zampata, solo i quotidiani di destra hanno misericordiosamente pompato la proposta di Silvio Berlusconi dell’altro giorno: il partito unico con Meloni e Salvini. Quest’ultimo l’ha subito liquidato dicendo che al massimo si può fare una federazione. Peggio ancora la Ducessa Giorgia. Non ha parlato, gli ha fatto rispondere “No, grazie” da un colonnello qualunque. Povero Silvio, snobbato e pure turlupinato, ché fu Salvini il primo a parlare di partito unico, salvo ripensarci. La verità è che se anche ti chiami Silvio Berlusconi in politica vale sempre la forza dei numeri. E Forza Italia è il fanalino di coda di questa destra a trazione sovranista. Conta poco o nulla. Insomma, un’altra fase rispetto al predellino famoso del 2007. La rimembriamo ancora quella storica domenica di novembre, il 18. FI e l’allora An erano pronti a rompere, ma poi Silvio salì sul predellino della sua auto in piazza San Babila a Milano e spazzò via tutte le fratture e gli scontri con l’ordine di fare il Pdl. Lo stesso Fini si allineò nel giro di qualche giorno. Era quasi tre lustri fa, ormai. Il tempo passa, tranne che per Sallusti e Minzolini.