“Nel riassetto atlantico, Roma resta ambigua, come sempre”

Per Sergio Romano, ex ambasciatore in Unione Sovietica e accademico tra i massimi esperti di politica internazionale, “in questo riassetto atlantico, l’Italia è come sempre abbastanza ambigua: non si vuole lo schieramento totale, si mantiene una politica prudente, per dimostrare che non bisogna rompere i rapporti o sprecare occasioni. È quello che ha fatto Draghi, ma lo avrebbe fatto chiunque al suo posto. È stata sempre questa la linea dell’Italia nei momenti più critici”.

Ambasciatore Romano, tra Nato, Russia e Cina, è corretto dire che l’Italia rimarrà in bilico?

Non è bello, ma si può dire così.

Ieri per la prima volta si sono incontrati i presidenti Joe Biden e Vladimir Putin a Ginevra.

Se hanno deciso di incontrarsi, non lo hanno fatto per manifestare dissenso: desiderio reciproco di entrambi è dare un’immagine positiva e portare a casa qualcosa. Sanno che se il risultato sarà un fiasco totale, il clima internazionale precipiterà e condannerebbero se stessi all’insipienza e all’incapacità. Dare un’immagine di impotenza, non gioverebbe a nessuno dei due. Dichiareranno qualcosa di non impegnativo, come per esempio che cercheranno di incontrarsi in altre circostanze e che manterranno i colloqui tra collaboratori.

Putin ha urgenza di risolvere due conflitti: Libia e Siria. Biden chiede invece chiarezza sulla guerra in Ucraina e sull’oppositore Navalny, ora in carcere.

Navalny, Libia, Ucraina: non potranno non parlare di queste problematiche urgenti, ma non so quanto diranno del vero risultato delle loro conversazioni. Anche se nessuno dei due rinuncerà a quelle affermazioni di principio che fanno parte del loro inevitabile bagaglio, tenteranno di conservare un clima disteso, non diranno nulla di esplicitamente costruttivo, ma preserveranno la continuità del dialogo.

Biden, nel suo tour in Europa, ha rinvigorito l’immagine di imprescindibilità e supremazia della Nato, un’organizzazione che Macron, qualche anno fa, ha definito in stato di ‘morte celebrale’.

Credo che il presidente francese lo pensasse e, per certi versi, aveva ragione. Di certo è avvenuta la sua rivalutazione, insieme a quella degli Usa come leader globale. La Nato, tornata a essere la più importante e principale organizzazione del momento, è sulle prime pagine di tutti i giornali, ma vediamo questo cosa significherà in termini reali.

Biden e Putin: dialogo aperto “per la stabilità”

L’incontro fra Joe Biden e Vladimir Putin non fa compiere un balzo in avanti alle relazioni fra Usa e Russia, ma è “costruttivo” e crea le condizioni per ulteriori negoziati, specie su cyber-sicurezza e armamenti strategici. Cauti e reciprocamente preoccupati di non apparire condiscendenti l’uno verso l’altro, i due leader concordano sul ritorno in sede dei rispettivi ambasciatori, non escludono, in futuro, scambi di prigionieri; e affidano ai ministri degli Esteri il compito di proseguire i contatti e di approfondire l’esame dei problemi. Un antagonismo più prevedibile fra i due Paesi sarebbe già un passo avanti.

Entrambi giudicano i colloqui di Ginevra “molto costruttivi”; e si riconoscono l’un l’altro apertura al dialogo. Biden insiste sull’importanza del vedersi di persona e spiega di avere chiarito a Putin quale sarebbe l’impatto di comportamenti della Russia contrari alle regole internazionali. La morte in carcere di Aleksej Navalny, leader dell’opposizione detenuto, avrebbe conseguenze “devastanti”.

I due non si scambiano inviti, perché – spiega Putin – non ce ne sono ancora le condizioni. “Non mi facevo illusioni sulle nostre relazioni e non me ne faccio ora, ma dopo una discussione sincera e franca, concreta e seria, ho un certo spettro di fiducia”. Biden, che parla ai giornalisti sullo sfondo del Lemano, appare stanco, al termine di una missione d’una settimana in Europa, insiste che “le relazioni fra Usa e Russia devono essere stabili e cooperative” e che la sua agenda “non è contro la Russia”. Ma “Putin deve sapere come risponderemo ad azioni che ci minacciano” e che noi “continueremo a parlare in difesa dei nostri valori”. E cita pure Siria, Iran, Bielorussia. Putin apprezza l’atteggiamento di Biden sulla “responsabilità strategica” che Usa e Russia, come super-potenze nucleari, condividono e avalla la proroga al 2022 della validità degli accordi esistenti, in attesa che i negoziati ne producano di nuovi – “una guerra nucleare non deve mai combattersi” –. Il leader russo riconosce che Biden “è molto diverso” da Trump”: è “uno statista esperto”, di cui apprezza “i valori morali”. Ma Putin non concede nulla di fronte alle accuse di cyber-attacchi, di minacce all’integrità dell’Ucraina, di violazioni dei diritti dell’uomo e di repressione dell’opposizione. Con i giornalisti, contrattacca punto su punto: il maggior numero di cyber-attacchi vengono dagli Usa; Mosca chiede il rispetto degli accordi di Minsk che Kiev viola; e la Russia applica sul proprio territorio le proprie leggi, come gli Stati Uniti applicano le loro. L’idea di fissare dei limiti non valicabili in tempi di pace alle operazioni cibernetiche non lo convince, ma Biden gli consegna una lista di 16 obiettivi off limits e Usa e Russia continueranno a discuterne. I due leader non sono mai rimasti soli insieme: il Vertice, durato in tutto circa quattro ore, un po’ meno del previsto, s’è articolato in due sessioni: una ristretta, presenti solo i ministri degli Esteri Antony Blinken e Serghei Lavrov, con Putin e Biden separati da un grande mappamondo antico, e una allargata; un clima austero, quasi rigido, senza neppure una pausa caffè. Alla fine, come previsto, non c’è stata conferenza stampa congiunta: Biden non voleva forse rischiare di fare la fine di Trump a Helsinki nel 2018, quando Putin si giocò il magnate.

Il Vertice s’è svolto a Villa La Grange, dove nel 1985 ci fu il primo incontro degli allora presidenti Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov: quel colloquio fu l’inatteso prologo della fine della Guerra fredda, del crollo del blocco comunista e dello smembramento dell’Unione Sovietica. Difficile credere che il dialogo fra Putin e Biden abbia un analogo impatto: sarebbe già positivo che migliorasse il clima fra i due Paesi, al punto più basso. All’arrivo e al momento della stretta di mano a beneficio dei fotografi, non è passato inosservato ai media Usa il riferimento di Biden a Usa e Russia come “due grandi potenze”, mentre Barack Obama relegava la Russia a potenza regionale. “Stiamo tentando – queste le parole di Biden – di determinare se abbiamo interessi reciproci, dove possiamo cooperare e, dove ciò non è possibile, di stabilire un modo prevedibile e razionale in cui non essere d’accordo, noi due grandi potenze”. La battuta può avere lusingato Putin, alla ricerca di riconoscimento internazionale.

La guerra fredda che non serve all’Italia

Si sa che i cani che abbaiano più forte sono quelli che hanno paura. Senza voler mancare di rispetto al presidente statunitense Joe Biden – che in politica economica e sociale sta facendo cose positivamente inedite – il suo America is back gridato a gran voce nel viaggio europeo, e rivolto a fronteggiare la Cina, assomiglia a un grido di paura. Paura per la sua crescita economica, paura che si saldi un suo rapporto con l’Europa, paura di dover fare fronte a un’escalation militare, gradita all’apparato militare, più problematica per la politica.

Gli Stati Uniti, da quando hanno deciso di orientare lo sguardo verso il resto del mondo, cioè da quando si è chiusa la frontiera interna verso l’Ovest, hanno sempre avuto bisogno di una “nuova frontiera”. Negli anni della prima Guerra fredda era il containment anti-sovietico teorizzato da George Kennan; con il crollo del Muro di Berlino hanno dovuto creare nuove formule, dallo “scontro di civiltà”, ideato da Samuel Huntington e assorbito da gran parti del Dipartimento di Stato alla teoria del “caos e dell’anarchia” di Robert Kaplan. Hanno inventato gli “Stati canaglia”, lista arbitraria e modificata a piacimento, poi dopo il 2001, la “guerra al terrorismo” con i risultati che abbiamo visto in Afghanistan e Iraq. A ogni occasione la strategia è stata semplice per quanto articolata: creare una frontiera divisoria tra “noi” e “loro”, costringere il cuore dell’Europa occidentale a schierarsi con gli Usa e a rimanere distante dal “cuore” asiatico, mentre con la Cina, vero obiettivo di espansione economica fin dai tempi della “Porta aperta”, si è oscillati tra le aperture, come quella del duo Nixon-Kissinger, e le chiusure drastiche alla Donald Trump.

La nuova frontiera. Oggi la nuova frontiera è tracciata tra la “democrazia” e gli “Stati autoritari” il cui capofila sarebbe proprio la Cina. La formula non vuol dire nulla di concreto, perché se davvero quello è il discrimine, la lista dei Paesi con cui gli Usa dovrebbero inasprire i rapporti sarebbe troppo lunga, a cominciare dall’Arabia Saudita. Allo stesso tempo si cerca di tenere la Cina separata dalla Russia, provando a tenere aperto un canale con Mosca.

Ma davvero questa linea anti-cinese è una dimostrazione di forza? Qualche dubbio è apparso tra i commentatori statunitensi, come Michael Beckley che sul Foreign Affairs afferma: “L’America non è pronta per una guerra con la Cina”. Beckley mette in discussione le capacità del Pentagono e rivela le contraddizioni interne al Dipartimento della Difesa guidato da Lloyd Austin. Sulla stessa rivista, poi, quella che sembrava essere la candidata naturale alla guida del Pentagono, Michéle A. Flournoy, è particolarmente cruda nell’evidenziare le insufficienze dell’apparato militare nel gestire la sfida cinese che imporrebbe all’esercito americano altre modalità di intervento e, presumibilmente, altre strategie.

In controluce si legge che quella contro la Cina è l’unica iniziativa bipartisan che l’Amministrazione Biden può mettere in piedi e del resto la continuità con Trump è evidenziata dal recente ordine esecutivo del presidente che rende illegale ogni investimento americano in 59 aziende cinesi attive nel settore della sicurezza e della difesa.

La variabile Pentagono. Un primo elemento per leggere Biden, quindi, è il dibattito interno statunitense, la necessità di fare i conti con un Partito Repubblicano che co-determina l’agenda parlamentare e con un apparato militare che è sempre una potenza politica e strategica non indifferente.

E poi, naturalmente, c’è l’economia con lo scontro sulla tecnologia, la cyber-security, la competizione su segmenti alti della catena del valore mondiale. Ma la Cina è soprattutto la chiave per legare le mani all’Unione europea, per questo l’insistenza sull’articolo 5 del Trattato Nato che resta l’architrave delle strategie dell’Alleanza atlantica. Biden vuole impedire che sia l’Europa a sfruttare i vantaggi competitivi con Pechino, e alzando il muro della “democrazia contro l’autoritarismo” si tutela da un rischio simile.

Per questo è degno di nota, come è apparso nei giorni scorsi, la freddezza con cui Francia e Germania hanno accolto la nuova “linea”. Come succede sempre nei consessi diplomatici, la parola chiave non è il “no”, bensì il “ma anche”. E quindi occorre raccogliere “la sfida” cinese, ma anche rafforzare la cooperazione. Emmanuel Macron l’ha detto chiaramente, Angela Merkel in modo più sfumato, come suo solito.

L’accordo europeo. Quasi nessuno, del resto, ricorda che è di soli sei mesi fa, dicembre 2020, l’accordo sugli investimenti tra Cina e Unione europea siglato da Ursula von der Leyen e per la cui presentazione pubblica si scomodò lo stesso Macron, con gran disappunto dei “riformisti” italiani che lamentavano un eccessivo protagonismo francese (memorabile un’intervista al Corriere della Sera dell’allora sottosegretario agli Esteri per Italia Viva, Ivan Scalfarotto). Secondo la Ue quell’accordo ha “un grande significato economico” e “lega le due parti a una relazione sugli investimenti fondata sui valori e basata sui principi dello sviluppo sostenibile”. Allora non ci furono le urla scomposte che leggiamo oggi contro chiunque osi contestare la bontà delle decisioni del G7 e del vertice Nato o ponga dei rilievi sulla politica della “porta chiusa” nei confronti della Cina.

Atlantismo draghiano. Gli autorevoli commentatori italiani scomodano il campo sovietico e tutto l’armamentario della Guerra fredda per giustificare la nuova guerra in cui, con fantasia morbosa, il M5S viene equiparato al Partito comunista italiano rispolverando addirittura quel “fattore K” che impediva al Pci di governare.

Il problema è che attorno a Mario Draghi, che dell’atlantismo è una personificazione storica – non si è dirigenti di Goldman Sachs per caso – si va consolidando una lettura ultra-ideologica dei fatti orientata a selezionare un fronte politico che si allinei senza esitazioni a Washington. E pazienza se lo scambio commerciale tra Italia e Cina sfiori i 44 miliardi di euro, se ci sono settori rilevanti come le “apparecchiature meccaniche”, la chimica, la farmaceutica o l’abbigliamento che hanno un interesse evidente a commerciare con Pechino (si veda tabella in pagina). Non a caso ieri Il Sole 24 Ore segnalava, con poco entusiasmo, che se alle “sanzioni” di Biden ci saranno le “controsanzioni della Cina” queste “colpiranno anche le aziende non Usa”. “Come discesa nei precipizi della guerra fredda” chiosa il quotidiano confindustriale, “niente male”. Ma per fare i trombettieri del “governo dei migliori” si può anche sostenere la nuova guerra fredda.

Sgarbi, l’insindacabilità per le sue croste

Lui giura sul rosario che gli ha riportato Matteo Salvini da Fatima e già che c’è pure su mammà: dice che ha la coscienza a posto e che sono campate per aria le accuse mosse dai pm di Roma che gli contestano di aver autenticato almeno 32 quadri di Gino De Dominicis che sapeva essere falsi. Ma Vittorio Sgarbi, in corsa per l’assessorato alla Cultura di Roma con il tandem di centrodestra Michetti-Matone, ha fatto pure di più: alla notizia dell’indagine che lo vede oggi imputato per associazione a delinquere e per false autentiche, si era fatto sentire con le alte sfere dell’Arma dei carabinieri e con un paio di ministri del governo Renzi, Roberta Pinotti (Difesa) e Dario Franceschini (Beni culturali). Per sturare le orecchie a chi di dovere (“Capre! Capre!”, come minimo) e per lamentarsi dell’operato degli investigatori oltre che di quei giudici “fuorilegge” che lo vogliono sputtanare manco fosse il televenditore di croste reso immortale da Corrado Guzzanti.

Davanti ai magistrati Sgarbi ha cercato di cavarsela più di recente pure da sé e anche a costo di tirare in mezzo la Costituzione: ha invocato lo scudo riservato ai parlamentari anche se all’epoca dei fatti contestati non era nemmeno deputato. Ma tant’è, ci ha provato lo stesso.

In fondo lo era stato fino al 2006 salvo poi, dopo una lunga parentesi, riconquistare gli onorevoli galloni che gli hanno fatto sperare nella immunità. E così di fronte ai magistrati ha calato l’asso delle guarentigie dell’articolo 68 della Suprema Carta in base al quale i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni. Ma che c’entra l’articolo 68 con la sua professione di esperto d’arte? Niente e a maggior ragione nel suo caso specifico. Ché quando Sgarbi certificava le famose tele che rischiano di costargli carissimo, non sedeva più a Montecitorio da un pezzo. Per questo il gip di Roma gli ha risposto picche mettendone al corrente, sul finire del 2019, il presidente della Camera Roberto Fico. Che poi aveva trasmesso la pratica alla Giunta per le immunità guidata dal meloniano Andrea Del Mastro Delle Vedove. Anche lì è andata malissimo: constatato che tra il 2012 e il 2015 (il periodo in cui avrebbe compiuto le condotte contestate) non sedeva a Montecitorio, il verdetto è stato unanime: la Camera non è competente a pronunciarsi sulla questione.

Il procedimento è dunque potuto proseguire nelle sedi giudiziarie anche se Sgarbi non molla: aveva chiesto che non fossero i magistrati di Roma a decidere se mandarlo a processo, ma senza successo. Ieri il gup Angela Gerardi ha respinto l’istanza aggiornando l’udienza preliminare al 30 giugno.

Il Festival dei due Casellati: c’è anche Ludovica in bici

Ribolle Spoleto, domus Casellatis. Ada Urbani, amica prediletta della presidente del Senato, è stata fatta scomparire dall’organigramma del Festival dei Due Mondi. Tutta colpa dell’articolo del Fatto sui rapporti tra Casellati e Urbani, ex senatrice di Forza Italia, ex assessora comunale e ora (ex?) “consigliera per lo sviluppo” del festival spoletino, proprio nell’anno in cui sul palco principale – fatalità – è stato chiamato a esibirsi il direttore d’orchestra Alvise Casellati, figlio di Maria Elisabetta.

La nomina della Urbani è saltata, o perlomeno è stata occultata dal sito della manifestazione. Ieri mattina la direttrice del festival, Monique Veaute, è stata raggiunta da una comunicazione non proprio cordiale del commissario prefettizio di Spoleto, Tiziana Tombesi, nella quale si chiedevano spiegazioni sul ruolo di Urbani e sulla imbarazzante vicenda ricostruita dal Fatto Quotidiano. E il nome di Urbani per magia è scomparso dalla direzione artistica.

Ma Spoleto e il suo festival, eccellenza artistica nazionale, restano profondamente legati alla famiglia presidenziale. Non solo il figliuolo Alvise, che questa estate torna a suonare da protagonista nella manifestazione (c’era stato nel 2013, ma su un palco secondario): tra i protagonisti ci sarà anche la primogenita Ludovica. La figlia della presidente del Senato, molto appassionata di bicicletta (su Facebook il suo soprannome è Ladybike), è grande amica di Spoleto e naturalmente della sua kermesse. In qualche modo, le due cose riescono a tenersi insieme.

Ludovica Casellati fa da testimonial all’associazione spoletina che organizza una corsa in bici sulla vecchia ferrovia tra Spoleto e Norcia (la “SpoletoNorcia in Mtb”). La collaborazione tra la figlia della presidente e il gruppo di cicloamatori è iniziato nell’estate del 2019, quando “Ladybike” ha partecipato alla kermesse su due ruote in compagnia (sempre lei!) di Ada Urbani e ha presentato in una cornice istituzionale (lo splendido Palazzo Leti Sansi) il suo libro La bici della felicità. L’estate successiva la collaborazione tra Ludovica Casellati e la SpoletoNorcia è diventata stabile: la figlia della presidente è stata protagonista di una tre giorni di incontri culturali (“Gli Aperibike di Ludovica Casellati”) frequentati da giornalisti e personaggi televisivi.

Quest’anno il salto di qualità: il Festival dei Due Mondi e l’associazione SpoletoNorcia hanno siglato una “partnership esclusiva”: “Un evento ‘Green’ – si legge nel comunicato – per riscoprire le bellezze del passato, che sposa appieno l’approccio verso la sostenibilità ambientale del Festival, già evidenziato negli scorsi mesi, con la firma di un protocollo di intesa con il Comune di Spoleto. La collaborazione con il Festival si concretizzerà con La Spoleto-Norcia Trail Experience, un vero e proprio viaggio in bici dall’8 all’11 di luglio, su un percorso esclusivo, tracciato proprio per l’occasione”. La regia della collaborazione tra festival e cicloturisti è ancora della solita Ada Urbani. La “signora dei tartufi” – è sposata con Bruno Urbani, proprietario della fabbrica di pregiati tuberi – quest’estate potrebbe coronare un romantico quadro familiare: fratello e sorella Casellati insieme sotto la bandiera del grande evento spoletino. A questo punto, “Festival dei due Casellati”. Se viene anche la mamma, fanno tre.

Genova, ideona Pd: votare Bucci

Indeciso sul da farsi del proprio futuro, il Pd rincorre strade fantasiose in tutta Italia. La soluzione che in questi giorni circola a Genova in vista delle Amministrative 2022, però, è forse la più spassosa: ritenendosi sconfitto in partenza contro il sindaco Marco Bucci (nella foto), i dem potrebbero creare un listone centrista e appoggiare lo stesso Bucci, o in alternativa candidare un suo uomo e puntare a una dignitosa sconfitta che porti all’ingresso in giunta.

Sembrerebbe un piano da cartoni animati, invece il dibattito è reale e non vive solo di retroscena, ma di dichiarazioni pubbliche di noti esponenti locali. Il più esplicito, qualche giorno fa, è stato Carlo Rognoni con un editoriale sul Secolo XIX. Rognoni è stato parlamentare del Pds per quattro legislature, prima di essere nominato nel cda della Rai nel 2005. Nonostante abbia proseguito la militanza nel Pd, da qualche anno non ha più incarichi politici, ma continua a dire la sua soprattutto su Genova e dintorni. Qualche giorno fa, si diceva, si è lasciato andare: “Al Pd serve la mossa del cavallo. Se il centrosinistra avesse il coraggio di mettere in campo una grande forza civica riformista potrebbe persino cercare di confrontarsi e dialogare con Bucci”. Ancora: “Sarebbe una mossa che potrebbe sedurre anche Bucci. C’è un forte candidato da contrapporgli? Se non c’è, perché temere di appoggiare Bucci?”. Insomma il Pd dovrebbe appoggiare il sindaco di destra, non potendo (?) sconfiggerlo.

L’ipotesi piace molto agli alleati cosiddetti riformisti che gravitano intorno ai dem e che sognano la rottura definitiva con il M5S. Italia Viva, prima di tutto, ma anche Azione e in generale i movimenti che alle ultime regionali hanno sostenuto Aristide Massardo contro il candidato giallorosa Ferruccio Sansa, che non a caso prende le distanze da ogni sostegno a Bucci: “Mi fa piacere che circoli quest’idea, così finalmente si toglieranno dai piedi quelli che negli ultimi 20 anni sono corsi sempre in aiuto dei vincitori”. Ben diversa la posizione di Arcangelo Marella, ex assessore genovese che auspica “un’aggregazione civica, riformista, centrista”.

Se poi non riuscisse l’operazione Bucci, in quest’area dialogante circola il nome di Pietro Piciocchi, riferimento locale dell’Opus Dei e già vicesindaco proprio con Bucci, che ora qualcuno immagina come nome buono per queste anomale larghe intese: le prime siglate ancor prima di iniziare la campagna elettorale.

Milano: la destra prende Oscar, il cazzaro che semina umanità

Un po’ ci speriamo, da quando è cominciato a girare questo nome che sembra uscito da una fiction di Rai1 su un ex yuppie divenuto neurochirurgo. Pare che ieri dal conclave del centrodestra per le Amministrative di Milano sia uscito quasi papa proprio lui: Oscar Di Montigny. Sentite come poggia bene? Non è il Manuel Fantoni milanese (semmai è la risposta milanese al candidato romano Michetti, eroe radiofonico come lui), perché al contrario del personaggio di Verdone egli esiste, è reale, anche se, come da sito personale, è fatto della stessa materia dei sogni. Dove l’hanno pescato, questo giovane del 1969 sportivo, belloccio, spigliato e inseritissimo? Forse è di qualche rilevanza che sia capo comunicazione di Banca Mediolanum e genero di Ennio Doris? E se sì, l’ha cercato Berlusconi? “Mi ha cercato tutto il sistema di centrodestra”, ha detto Di Montigny, tenendosi sulle sue, ma in fondo sperandoci molto. “Devo sciogliere una serie di riserve”. Poi cita il Dalai Lama, la sostenibilità, l’immancabile resilienza.

Sarebbe un peccato sfumasse questa quasi candidatura sistemica, perché ci siamo documentati e ci sembra la persona giusta per rappresentare la destra inclusiva, solidale, sostenibile di Salvini, B. e Meloni. L’incipit della biografia ufficiale parla chiaro: “Bisogna seminare e coltivare visione nell’umanità. Come fare per far capire al mondo che bisogna allargare la propria visione e cercare una prospettiva arricchente, migliorativa, inclusiva? Io sinceramente non lo so ma… me lo sto chiedendo da tempo”. E se cerchi una prospettiva arricchente a chi guardi, se non al vecchio Pdl? Non risultano condanne a suo carico, quindi il centrodestra deve averlo scelto proprio per le visioni. E per il curriculum intimidatorio: “Sono Presidente di Flowe, Chief Innovation, Sustainability & Value Strategy Officer di Banca Mediolanum e Amministratore Delegato di Mediolanum Comunicazione…. Mediolanum Corporate University… Chief Marketing Communication Officer del Gruppo Mediolanum”. Sono skills che a Milano hanno presa, specie sull’onda dello Zeitgeist resilienziale post-pandemico. Ha una mission: “È giunto il tempo di condividere su idee (sic) che da tempo sto indagando nella mia vita; idee che mi affascinano perché magnetiche, perché sento che contengono il seme della possibilità”.

Ora questa possibilità è arrivata. Oscar ha un certo seguito come relatore in conferenze dette TEDxCortina, TEDxBolzano, specie di Leopolde itineranti nelle province ricche. I TED talk, dove l’acronimo sta per Technology Entertainment Design, sono conferenze non-profit, di stampo siliconvallico, tenute da speaker carismatici e visionari (avvertimento preliminare, al di là di Oscar, che sarebbe obbligatorio apporre sui canali YouTube ed eventualmente sulla scheda elettorale: quando in Italia si dice di qualcuno che è un visionario ci sono buone probabilità che sia un cazzaro).

In uno di questi video dice che studia i “mega trends”, le grandi tendenze che si manifesteranno nel mondo in demografia, ambiente, tecnologia. Vestito da startupper anni Zero, braccialetti tibetani (qualcuno riferisce anche stivaletti a punta, ma vorremmo evitare querele), è uno “studioso degli scenari futuri”. Il debito pubblico lo conta in “billions”. Con un eloquio smart, una retorica evoluta che mischia seduttività e assertività tipo programmazione neurolinguistica, illustra delle slide. Immagini forti si alternano a figurette sognanti: il bambino morto sulla spiaggia di Bodrum; cadaveri di bambini ricuciti dopo l’espianto per il traffico di organi; fate e angioletti alla finestra. “Dobbiamo tornare all’essenza delle cose”.

Oscar mischia elementi di fisica, economia, teologia, fumetti, spiritualismo new age: niente che non si trovi su Wikipedia. Quando si blocca e fissa l’uditorio vuol dire che sta avendo una visione: “O cadremo a terra, o qualcosa ci porterà verso l’alto”. Una candidatura a sindaco di Milano, magari “in ticket” con Albertini? “La vocazione”. Ah, ecco. (Ma perché questo non è il candidato di Italia Viva?). Del resto Sala l’aveva detto: “Ci sarà un candidato forte perché così è nella tradizione di Milano, ricordiamoci che con Parisi non ho vinto in larga misura, prima c’era stata Moratti, prima ancora Albertini” (in ciò Sala ci vede un segno che i suoi avversari sono mostri di bravura, non che lui è una schiappa). Gli altri candidati oltre a Oscar sarebbero Lupi e managerume vario. Meglio i TED di Oscar: “La nostra vita esteriore è una proiezione di una nostra condizione interiore” (menomale che l’hanno candidato a Milano, perché a Roma accoglieremmo la perla con un “me cojoni” epocale). “Le diversità portano ricchezza”. Chissà come concilierà l’intelligente Oscar il suo afflato spirituale con Salvini che bacia salami e Madonne e respinge bambini migranti, Meloni col suo partito pieno di nostalgici del Duce e ‘ndranghetisti, e B., su cui è meglio tacere. Ma è tempo di “fare una rivoluzione, o meglio una ri-evoluzione di un nuovo stato di coscienza”. È tempo di Oscar, è tempo della ri-evoluzione liberale (non fatecelo sfumare, vi preghiamo).

Mps, 1 miliardo dallo Stato ad Axa (dove siede l’ex ad)

Le assicurazioni francesi Axa guadagneranno un miliardo quando il Tesoro uscirà dal Monte dei Paschi. Martedì Il Sole 24 Ore ha sganciato una nuova bomba sull’accidentato percorso di ri-privatizzazione della banca che da mesi cerca senza successo un cavaliere bianco. L’accordo sulle polizze tra Mps e Axa, secondo il quotidiano economico, prevede un’opzione “put” che concede ai transalpini il diritto di vendere per un miliardo la propria quota nella joint venture assicurativa con il Monte in caso di nuovo azionista di controllo. Il che dovrà avvenire presto, come previsto dagli accordi sul salvataggio stabiliti nel 2017 tra ministero del Tesoro, Bce e Antitrust Ue. Ma lo scoop del Sole “dimentica” un dato non marginale: la porta girevole di cui ha beneficiato Marco Morelli (nella foto in basso), amministratore delegato del Monte durante la revisione del contratto con Axa e ora presidente esecutivo di Axa Investment Managers, il ramo di gestioni patrimoniali del gruppo francese.

La vicenda inizia il 22 marzo 2007, quando Mps e Axa firmano un accordo per creare una joint venture di 10 anni a partire dal 19 ottobre 2007. Nell’autunno del 2016 tra Mps e Axa inizia la revisione dell’accordo, in vista della sua proroga per 10 anni. La società francese all’epoca era parte correlata della banca, della quale possedeva anche una quota azionaria. Il 20 settembre 2016 Morelli entra in carica come ad di Mps. Il manager conosceva bene la banca, della quale da giugno 2006 a febbraio 2010 era stato vicedirettore generale e responsabile finanziario. L’ennesimo aumento di capitale da 5 miliardi del Monte fallisce il 22 dicembre. Dopo lunghe trattative con Ue e Bce, nel 2017 lo Stato salva la banca con la “ricapitalizzazione prudenziale” da 5,4 miliardi, tornando primo azionista con il 68%.

Il 10 novembre 2017, dopo il salvataggio pubblico, Mps firma la nuova intesa nella bancassurance con Axa sulla base di un accordo rivisto dal Comitato parti correlate con il sostegno di opinioni tecniche e legali. Era il segno di un problema industriale: Siena non ha più fabbriche di prodotto, nemmeno nel risparmio gestito, dove ha un accordo con Anima. Mps vende prodotti di terzi e deve quindi rinunciare a parte dei margini a favore dei partner. Il 20 febbraio 2020 Morelli annuncia l’addio a Mps con l’assemblea del 18 aprile. Già il 16 luglio Axa Investment Managers lo nomina presidente esecutivo.

Ora emerge la put che consente ad Axa di ricevere sino a un miliardo quando lo Stato uscirà dal Monte. È una clausola comune nelle joint venture, che però l’accordo di novembre 2017 validato dal Comitato parti correlate di Mps aveva escluso. Mps e Axa, contattate, non commentano. A pagare sarà il Tesoro uscente o i nuovi azionisti? Nel frattempo si allontana l’ipotesi di matrimonio con UniCredit e si fa più probabile lo “spezzatino” delle attività senesi tra diversi istituti. Il puzzle del Monte si fa sempre più complicato.

Tra gli esperti a Palazzo Chigi arriva la carica dei super liberisti

Tanto tuonarono contro lo Stato che arrivò la consulenza statale, è il caso di dire. Il precedente della nomina dell’economista liberista Francesco Giavazzi come consigliere aveva tracciato un po’ il segno della cornice ideologica in cui si pescano gli esperti del governo Draghi. L’ultima infornata però, ha destato più di una polemica. A Palazzo Chigi arriva un nuovo gruppo di tecnici, tra cui compaiono alcuni dei più chiassosi nemici dell’intervento pubblico in economia. Secondo Il Foglio avranno il compito di vigilare sull’impatto degli investimenti pubblici del Piano nazionale di ripresa (Pnrr), anche se in realtà si tratta di consulenti arruolati all’interno del Nucleo tecnico per il coordinamento della politica economica che esiste da sempre. Sono stati voluti da Marco Leonardi, economista di area Pd, nominato da Draghi capo del Dipartimento per la programmazione economica.

Tra gli esperti compare Carlo Stagnaro, già al ministero dello Sviluppo ai tempi di Federica Guidi e direttore ricerche dell’Istituto Bruno Leoni, think tank ultra-liberista vicino al mondo delle imprese. Liberista è anche Riccardo Puglisi, professore associato all’Università di Pavia, noto soprattutto per le polemiche su Twitter e le sfortunate esperienze politiche (Fare per fermare il declino, poi candidato alle Politiche 2013 con Scelta Civica, infine con Corrado Passera in Italia Unica). Del team faranno parte anche due economisti di formazione bocconiana: Francesco Filippucci, dottorando alla Paris School of Economics e fondatore del think tank Tortuga, e Marco Percoco, esperto di trasporti ed ex membro del Certet della Bocconi che durante il Conte-1 polemizzò contro la task force per l’analisi costi-benefici sulle grandi opere capitanata da Marco Ponti (le sue critiche finirono nel dossier leghista pro-Tav). Completa la squadra Carlo Cambini, stimato ex capo economista dell’Authority dei Trasporti. Riceveranno un compenso di circa 30 mila euro annui.

La povertà sale (anche) al Nord e soprattutto tra chi già lavora

Tutta l’Italia è diventata più povera per la pandemia, ma è sul cosiddetto “Nord produttivo” che il colpo si è scagliato con più violenza. Le ferite sarebbero state anche peggiori se, all’appuntamento col Covid, non fossimo arrivati già protetti dallo scudo del Reddito di cittadinanza e a questo non avessimo aggiunto, subito dopo, quello “di emergenza”, la cassa integrazione e i bonus. I sussidi – detestati dalla Confindustria e buona parte della politica non solo di destra – hanno aiutato a rendere “meno poveri i poveri”. I quali, tuttavia, sono cresciuti molto di numero: ben 5,6 milioni di persone (il 9,4% del totale).

I dati diffusi ieri dall’Istat confermano le previsioni: nel 2020 i poveri assoluti sono aumentati di un milione in confronto al 2019, anno in cui – contestualmente all’avvio del reddito di cittadinanza – gli indigenti erano scesi di 450 mila unità rispetto al 2018. La misura del primo governo Conte aveva iniziato a invertire il trend dopo anni di crescita, il virus ha inevitabilmente vanificato i progressi.

Ora il disagio economico riguarda 2 milioni di famiglie, il 7,7% del totale (nel 2019 erano 1,6 milioni). Quasi metà di queste vive in affitto. L’incidenza più alta è nel Mezzogiorno, passata dall’8,6% al 9,4%. Ma l’effetto Covid ha portato un incremento maggiore nelle Regioni settentrionali, dove la povertà coinvolge il 7,6% delle famiglie (contro il 5,8% del 2019). Un po’ migliorato il dato sull’intensità, che misura di quanto la spesa mensile delle famiglie in difficoltà è sotto la “linea di povertà”. Insomma, è l’indicatore della distanza tra i consumi di quel nucleo e il livello minimo che serve per condurre una vita decente. Questa percentuale è scesa dal 20,3% al 18,7% e l’Istat dà merito agli aiuti che lo Stato ha elargito per affrontare l’emergenza: “Le misure messe in campo – spiega l’istituto – hanno consentito, sia alle famiglie scivolate sotto la soglia di povertà nel 2020, sia quelle che erano già povere, di mantenere una spesa per consumi non molto distante dalla soglia”.

Le categorie più esposte sono gli stranieri, che contano 1,5 milioni di poveri assoluti, i giovani – meno tutelati dal nostro welfare – e le famiglie numerose. In quelle con cinque o più componenti, l’incidenza è al 20,5%. Questo rivela una delle (vere) debolezze del reddito di cittadinanza: la scala di equivalenza penalizza le famiglie con più figli. Lo fa spesso notare la sociologa Chiara Saraceno, del comitato di valutazione della misura. Ieri la sottosegretaria al Tesoro Maria Cecilia Guerra (LeU) ha detto che va modificato il meccanismo. Per intervenire bisognerebbe aumentare la spesa, non diminuirla come sostengono i detrattori più accaniti.

Nemmeno avere un posto di lavoro mette al sicuro dai problemi economici: non è una novità in Italia, ma la pandemia ha peggiorato le cose. L’incidenza della povertà nelle famiglie di operai o assimilati è passata dal 10,2% al 13,2%. I bassi salari, i contratti part time, i tagli agli stipendi dovuti alla cassa integrazione spingono nell’indigenza anche molti occupati. Eppure, prosegue martellante la campagna delle imprese del turismo, suffragata da buona parte delle politica e della stampa, secondo le quali le offerte di lavoro sarebbero rifiutate perché ci si rifugia nei sussidi.

Gli stessi dati sulla povertà offrono un ulteriore argomento per smentire questa bugia: “Preferiscono il reddito di cittadinanza”, dicono molti imprenditori sui giornali. Ma la misura anti-povertà è al momento percepita da 2,8 milioni di persone con importo medio di appena 556 euro per famiglia; il reddito di emergenza e i bonus per stagionali hanno aggiunto alla platea poche centinaia di migliaia di individui. I poveri assoluti, invece, come visto sono ben 5,6 milioni. Ammesso che le due platee fossero perfettamente sovrapponibili – in realtà non lo sono – resterebbe fuori una marea di gente in difficoltà ma sprovvista di sostegni economici. Una proporzione molto più grande della debolissima domanda di lavoro, tra l’altro molto precaria e poco remunerativa.

Questo a non dire che molti dei percettori del reddito di cittadinanza già accettano lavori stagionali: i dati aggiornati a ottobre 2020 dicono che 48 mila hanno trovato lavoro nella ristorazione e 44 mila nell’agricoltura, quasi sempre a tempo determinato. Da ottobre, però, non sono più stati pubblicati aggiornamenti perché questi numeri non sono più nelle disponibilità di Anpal, ma del ministero del Lavoro. L’attuale ministro Andrea Orlando ha criticato il Rdc nella parte sulle politiche attive del lavoro: se pubblicasse i nuovi numeri su quanti hanno trovato lavoro (a prescindere dall’impatto dei navigator), si offrirebbero dati oggettivi al dibattito. Prima che vengano rilanciate, come ha fatto ieri il leghista Claudio Durigon, norme per “obbligare” chi prende il Reddito ad accettare proposte di impieghi stagionali per salari miseri.