Si sa che i cani che abbaiano più forte sono quelli che hanno paura. Senza voler mancare di rispetto al presidente statunitense Joe Biden – che in politica economica e sociale sta facendo cose positivamente inedite – il suo America is back gridato a gran voce nel viaggio europeo, e rivolto a fronteggiare la Cina, assomiglia a un grido di paura. Paura per la sua crescita economica, paura che si saldi un suo rapporto con l’Europa, paura di dover fare fronte a un’escalation militare, gradita all’apparato militare, più problematica per la politica.
Gli Stati Uniti, da quando hanno deciso di orientare lo sguardo verso il resto del mondo, cioè da quando si è chiusa la frontiera interna verso l’Ovest, hanno sempre avuto bisogno di una “nuova frontiera”. Negli anni della prima Guerra fredda era il containment anti-sovietico teorizzato da George Kennan; con il crollo del Muro di Berlino hanno dovuto creare nuove formule, dallo “scontro di civiltà”, ideato da Samuel Huntington e assorbito da gran parti del Dipartimento di Stato alla teoria del “caos e dell’anarchia” di Robert Kaplan. Hanno inventato gli “Stati canaglia”, lista arbitraria e modificata a piacimento, poi dopo il 2001, la “guerra al terrorismo” con i risultati che abbiamo visto in Afghanistan e Iraq. A ogni occasione la strategia è stata semplice per quanto articolata: creare una frontiera divisoria tra “noi” e “loro”, costringere il cuore dell’Europa occidentale a schierarsi con gli Usa e a rimanere distante dal “cuore” asiatico, mentre con la Cina, vero obiettivo di espansione economica fin dai tempi della “Porta aperta”, si è oscillati tra le aperture, come quella del duo Nixon-Kissinger, e le chiusure drastiche alla Donald Trump.
La nuova frontiera. Oggi la nuova frontiera è tracciata tra la “democrazia” e gli “Stati autoritari” il cui capofila sarebbe proprio la Cina. La formula non vuol dire nulla di concreto, perché se davvero quello è il discrimine, la lista dei Paesi con cui gli Usa dovrebbero inasprire i rapporti sarebbe troppo lunga, a cominciare dall’Arabia Saudita. Allo stesso tempo si cerca di tenere la Cina separata dalla Russia, provando a tenere aperto un canale con Mosca.
Ma davvero questa linea anti-cinese è una dimostrazione di forza? Qualche dubbio è apparso tra i commentatori statunitensi, come Michael Beckley che sul Foreign Affairs afferma: “L’America non è pronta per una guerra con la Cina”. Beckley mette in discussione le capacità del Pentagono e rivela le contraddizioni interne al Dipartimento della Difesa guidato da Lloyd Austin. Sulla stessa rivista, poi, quella che sembrava essere la candidata naturale alla guida del Pentagono, Michéle A. Flournoy, è particolarmente cruda nell’evidenziare le insufficienze dell’apparato militare nel gestire la sfida cinese che imporrebbe all’esercito americano altre modalità di intervento e, presumibilmente, altre strategie.
In controluce si legge che quella contro la Cina è l’unica iniziativa bipartisan che l’Amministrazione Biden può mettere in piedi e del resto la continuità con Trump è evidenziata dal recente ordine esecutivo del presidente che rende illegale ogni investimento americano in 59 aziende cinesi attive nel settore della sicurezza e della difesa.
La variabile Pentagono. Un primo elemento per leggere Biden, quindi, è il dibattito interno statunitense, la necessità di fare i conti con un Partito Repubblicano che co-determina l’agenda parlamentare e con un apparato militare che è sempre una potenza politica e strategica non indifferente.
E poi, naturalmente, c’è l’economia con lo scontro sulla tecnologia, la cyber-security, la competizione su segmenti alti della catena del valore mondiale. Ma la Cina è soprattutto la chiave per legare le mani all’Unione europea, per questo l’insistenza sull’articolo 5 del Trattato Nato che resta l’architrave delle strategie dell’Alleanza atlantica. Biden vuole impedire che sia l’Europa a sfruttare i vantaggi competitivi con Pechino, e alzando il muro della “democrazia contro l’autoritarismo” si tutela da un rischio simile.
Per questo è degno di nota, come è apparso nei giorni scorsi, la freddezza con cui Francia e Germania hanno accolto la nuova “linea”. Come succede sempre nei consessi diplomatici, la parola chiave non è il “no”, bensì il “ma anche”. E quindi occorre raccogliere “la sfida” cinese, ma anche rafforzare la cooperazione. Emmanuel Macron l’ha detto chiaramente, Angela Merkel in modo più sfumato, come suo solito.
L’accordo europeo. Quasi nessuno, del resto, ricorda che è di soli sei mesi fa, dicembre 2020, l’accordo sugli investimenti tra Cina e Unione europea siglato da Ursula von der Leyen e per la cui presentazione pubblica si scomodò lo stesso Macron, con gran disappunto dei “riformisti” italiani che lamentavano un eccessivo protagonismo francese (memorabile un’intervista al Corriere della Sera dell’allora sottosegretario agli Esteri per Italia Viva, Ivan Scalfarotto). Secondo la Ue quell’accordo ha “un grande significato economico” e “lega le due parti a una relazione sugli investimenti fondata sui valori e basata sui principi dello sviluppo sostenibile”. Allora non ci furono le urla scomposte che leggiamo oggi contro chiunque osi contestare la bontà delle decisioni del G7 e del vertice Nato o ponga dei rilievi sulla politica della “porta chiusa” nei confronti della Cina.
Atlantismo draghiano. Gli autorevoli commentatori italiani scomodano il campo sovietico e tutto l’armamentario della Guerra fredda per giustificare la nuova guerra in cui, con fantasia morbosa, il M5S viene equiparato al Partito comunista italiano rispolverando addirittura quel “fattore K” che impediva al Pci di governare.
Il problema è che attorno a Mario Draghi, che dell’atlantismo è una personificazione storica – non si è dirigenti di Goldman Sachs per caso – si va consolidando una lettura ultra-ideologica dei fatti orientata a selezionare un fronte politico che si allinei senza esitazioni a Washington. E pazienza se lo scambio commerciale tra Italia e Cina sfiori i 44 miliardi di euro, se ci sono settori rilevanti come le “apparecchiature meccaniche”, la chimica, la farmaceutica o l’abbigliamento che hanno un interesse evidente a commerciare con Pechino (si veda tabella in pagina). Non a caso ieri Il Sole 24 Ore segnalava, con poco entusiasmo, che se alle “sanzioni” di Biden ci saranno le “controsanzioni della Cina” queste “colpiranno anche le aziende non Usa”. “Come discesa nei precipizi della guerra fredda” chiosa il quotidiano confindustriale, “niente male”. Ma per fare i trombettieri del “governo dei migliori” si può anche sostenere la nuova guerra fredda.