Video del crollo, Foa contro il Tg3

È polemica sulla diffusione delle immagini della funivia del Mottarone che precipita nel vuoto. Con siti, giornali e tv che per l’intera giornata si sono divisi sulla messa in onda delle immagini.

Euna dura presa di posizione, arrivata nel tardo pomeriggio, del presidente della Rai Marcello Foa contro la scelta del Tg3. È stato infatti il Tg di Mario Orfeo a trasmettere per primo il video, uno scoop nell’edizione di mezzogiorno, anche se messo in onda con i volti delle persone pixelati. Da lì, poi, sul web l’hanno trasmesso un po’ tutti. “Sono profondamente colpito per le immagini trasmesse dal Tg3. Per il servizio pubblico in circostanze come questa è doveroso valutare attentamente tutte le implicazioni, etiche e di rispetto per le vittime”, ha detto Foa. “Ho sempre rispettato le scelte editoriali dei direttori, ma questa volta non posso restare in silenzio”, ha aggiunto. Parole che di sicuro scateneranno frizioni a Viale Mazzini. Dove anche i direttori si sono divisi: ieri sera il Tg1 ha scelto di mandare il video frammentato in fotogrammi, mentre il Tg2 non l’ha trasmesso. Fabrizio Salini per ora non parlerà. E al momento non sono stati presi provvedimenti. Ma Salini e Orfeo ieri si sono parlati.

La messa in onda del video shock – in cui si vedono gli ultimi attimi di vita delle persone a bordo, la funivia che ha un sobbalzo e torna indietro per poi schiantarsi sul pilone – ha diviso il mondo mediatico e politico. “Esiste il diritto di cronaca, ma c’è un limite, specie davanti alla sofferenza delle vittime. Inoltre ricordo che pubblicare atti d’indagine è reato”, ha detto il leghista Roberto Calderoli. Il partito di Salvini è il più scatenato, ma critiche arrivano anche da sinistra. “Dove si ferma il diritto di cronaca e comincia il rispetto della vita, della morte e del dolore?”, si chiede la capogruppo del Pd a Montecitorio, Debora Serracchiani. “Una scelta oscena”, rincara la dose Emanuele Fiano. Per Valeria Fedeli e Andrea Romano “l’azienda dovrà spiegare”. Critico anche il M5s: “Una pagina indegna del servizio pubblico”, per i parlamentari M5S e membri della Vigilanza Rai Sabrina Ricciardi, Felicia Gaudiano, Carmen di Lauro, Patty L’Abbate e Francesca Flati.

Se i carabinieri precisano che “il video non è stato fatto uscire da noi”, il procuratore di Verbania Olimpia Bossi sottolinea “l’assoluta inopportunità della pubblicazione per il doveroso rispetto che tutti siamo tenuti a portare alle vittime e al dolore delle loro famiglie”. Famiglie che hanno fatto sentire la loro voce. “È stato un video dirompente che ha creato un profondo senso di turbamento, oltretutto senza un minimo di utilità pubblica”, ha detto Francesco Caroleo Grimaldi, legale dei parenti della famiglia israeliana che ha perso la vita nell’incidente, annunciando una diffida nei confronti della Rai.

Funivia, giudice contro il pm: “Qui ci sono atti incompleti”

C’è un momento in cui lo scontro fra il tribunale e la Procura che indaga sulla strage del Mottarone diventa talmente violento da ipotizzare apertamente irregolarità nelle indagini. “Mi sta accusando di falso?”, domanda il procuratore di Verbania Olimpia Bossi al Gip Donatella Banci Buonamici. “Non lei…”, replica il giudice. E aggiunge: “Bastava registrare”. Il riferimento è all’interrogatorio avvenuto nella caserma dei carabinieri di Gabriele Tadini, l’uomo che ha ammesso di aver inserito i forchettoni che hanno bloccato i freni d’emergenza per evitare di fermare l’impianto. E che poi ha accusato i suoi superiori, il direttore tecnico Enrico Perocchio, e l’imprenditore Luigi Nerini, gestore dell’impianto. “Ero presente anche io, ma cosa sta dicendo?”, ribatte Bossi. “È stato verbalizzato poco… Siete stati 7 ore, e ci sono 4 pagine di verbale, senza nemmeno le domande che gli avete fatto”. Lo scontro fra i due magistrati, un botta e risposta continuo, è trascritto nei verbali di interrogatorio dei tre indagati: “Non è carino come si comporta”, dice a un certo momento Bossi; “qui tutti hanno già deciso, ma anche a me piace decidere”, dice in un altro Banci Buonamici. Ed è l’antipasto di ciò che seguirà: Banci Buonamici scarcera Perocchio e Nerini, e smonta le accuse dei pm. Qualche giorno dopo viene sostituita per ragioni tabellari. Episodio su cui indagano il Csm e gli ispettori del ministro Marta Cartabia.

I nuovi atti consentono di fare luce su alcuni momenti cruciali del disastro. È il 23 maggio scorso, è appena crollata la funivia del Mottarone. Sul teatro della strage si ritrovano per la prima volta Tadini, Perocchio e Nerini. “Io ti dovrei ammazzare”, dice Perocchio a Tadini. Prima che Nerini lo senta aggiungere: “Tu a mezzogiorno di oggi mi hai rovinato la vita”. Tadini, racconta sempre Nerini, in quei momenti convulsi “ripeteva ossessivamente”: “Ho fatto una cazzata, è colpa mia”. “Me l’ha detto decine di volte – ricorda – Io l’ho abbracciato”. Tadini, difeso dall’avvocato Marcello Perillo, è il primo dei tre a essere sentito dal gip, alle 9 del 29 maggio: “Quando dicevo che c’erano dei problemi mi ripetevano vai avanti. Arrangiati”. “Ma lei ha detto a Perocchio che disattivava i sistemi d’emergenza?”, lo incalza il giudice. Risposta: “Gli ho detto che ero costretto a mettere i ceppi. Lui non ha risposto”. “Ah non le ha risposto? Per una non risposta sta qui dentro”. E ancora: “Lei sulla coscienza non ne ha 15 ma 16. Mi ha capito?”.

alle 11.52 viene sentito Perocchio, assistito dal suo legale Andrea Da Prato: “Che Dio mi fulmini se ho mai detto a un operatore di girare con le forchette. È la cosa più pericolosa che c’è sugli impianti a fune. Non riesco a capire perché sono finito in galera. Penso che Tadini voglia dividere la responsabilità”. E ancora: “Dopo la sua telefonata, in cui mi diceva che c’erano morti e feriti e che chiamava il 118, ho chiamato subito mia moglie e le ho detto: ‘È la fine, è la fine’. È ovvio, a prescindere che sia colpa mia, va giù una funivia…”. L’interrogatorio di Nerini (rappresentato da Pasquale Pantano) comincia alle 14.36. Ripete più volte: “Non sono un tecnico, non sempre mi avvertivano. Non mettevo il naso nelle cose tecniche”. “Ma come fa a dire che è ignorante della materia? Gestisce una funivia da 30 anni”, gli chiede la Bossi”. Nerini: “Mi ero rivolto alla Leitner proprio mia tranquillità. Meglio di loro, mi sono detto… sono i leader mondiali… Ho stipulato un contratto di manutenzione, li pagavo 150mila euro l’anno… Non so perché si sia rotta la fune”. Ed è proprio su questo che scavano gli inquirenti. Ieri mattina i carabinieri di Verbania, coordinati dal capitano Luca Geminale e dal colonnello Alberto Cicognani, si sono presentati presso la sede della società, a Vipiteno, e hanno acquisito materiale su tutta la manutenzione ordinaria e straordinaria. Per cercare di fare luce sul mistero: perché si è spezzata la fune traente, se tutti i controlli erano a regola d’arte?

“Il vaccino è un atto medico, un errore farne un happening”

Su AstraZeneca ci sono stati ritardi da parte del governo o non era possibile agire diversamente? Secondo Guido Rasi, ex presidente dell’Ema, “il problema è stato un altro”.

A cosa si riferisce?

All’assenza di comunicazione, non ritardo. Il governo ha seguito le tabelle dell’Agenzia europea del farmaco (Ema). Ema per valutare il rapporto rischio/beneficio nelle varie fasce di popolazione, così che ciascun Stato membro potesse rimodulare la propria strategia vaccinale, in base a tre parametri: incidenza ogni 100 mila abitanti, alternative ad Astrazeneca dai 18 ai 60 anni, vaccinazione di fasce d’età a rischio. In Italia l’incidenza da 20 giorni è al di sotto di 50 casi. Il rischio di trombosi da vaccino AZ è di 1,9 su 100 mila al di sotto dei 60 anni, mentre la morte da Covid è vicino allo zero. Sono più i trombi che i morti da Covid. Quindi per questa fascia, per la prima volta, il beneficio non supera il rischio. Sopra i 60 anni invece è l’inverso: il rischio di trombosi diventa zero, mentre la mortalità da Covid è 25. Tutto qui. Bastava spiegarlo in modo chiaro, come una revisione della strategia, non una giustificazione a posteriori.

Gli Open day sono stati una buona idea?

Dipende. Il vaccino è un farmaco e la vaccinazione un atto medico, impone un’anamnesi. Quindi l’Open Day deve svolgersi secondo questo assunto. Chi lo ha fatto con la prenotazione, l’anamnesi e utilizzando le raccomandazione dell’Aifa, ha fatto una cosa ottima. Chi l’ha trasformato in un happening con assembramento, senza anamnesi, dando un vaccino che Aifa non aveva raccomandato, ha sbagliato.

Possono esserci interessi economici dietro la scelta di un vaccino o un altro?

No. Le autorità italiane possono aver difettato nella comunicazione, ma stanno seguendo ciò che Ema ha indicato. Un rischio infinitesimale va corso quando è logico e lo era fino a 20 giorni fa. Ora non lo è più. La questione è tutta qui.

Da cosa possono esser causate le trombosi atipiche?

È molto probabile che siano vettori virali a indurli in AZ o J&J. Il punto è che la distribuzione dei casi non è regolare. Si possono avere dieci casi ravvicinati e poi neanche uno per un milione di vaccinati. J&J sembra migliore di AZ, ma lo ha ricevuto poco più di un milione di persone, troppo poco per trarre conclusioni. Con Pfizer e Moderna si sono viste alcune trombosi, quelle classiche, ma diverse da quelle presumibilmente indotte da vaccino, e lo stesso anche per AZ.

In Italia non si riesce ad avere una rete nazionale per il sequenziamento del genoma dei campioni di virus estratti dalla popolazione positiva. Che significa per il nostro Paese?

Siamo messi malissimo. Abbiamo sequenziato solo lo 0,7% della popolazione positiva, quando serve almeno il 5%. Siamo dietro ai Paesi africani. Assurdo. In Italia abbiamo grandi laboratori in grado di farlo, sarebbe una bazzecola raggiungere il 5%. Deve intervenire il governo e imporre che si faccia una rete nazionale, cosi come ha imposto l’arsenale vaccinale. Le due cose hanno la stessa importanza. Il sequenziamento permette di individuare i focolai di nuove varianti in tempo, stabilirne l’esatta prevalenza nel nostro territorio, vedere se i positivi sono vaccinati o meno. Insomma ad avere tutti quei dati epidemiologici necessari e imprescindibili per uno Stato moderno che deve gestire un’epidemia.

Luca Pani, ex presidente Aifa, ha espresso dubbi sul mix dei vaccini, prima dose di uno e seconda di un altro. È pericoloso?

È ben consolidato che più vaccini insieme non creano problemi. Non a caso si fanno i vaccini esavalenti di routine. Trovo ridicolo che fossimo pronti a fare la terza dose con un vaccino diverso dalle prime due, senza problemi (tolto AZ che ha delle problematiche diverse) e adesso è diventato problematico farlo con la seconda. Cosa cambia? Tra l’altro Canada, Francia, Spagna e Germania li stanno usando così da più di un mese, senza problemi. Si è anche visto che, sebbene il mix non è stato testato sulla variante indiana, il mix con seconda dose di vaccino a mRna messaggero, crea una risposta immunitaria più forte in generale, quindi un vantaggio. Qual è la riserva da parte degli scienziati? Perché porre questi dubbi quando chi si occupa di scienza sa benissimo queste cose? Non lo capisco.

Effetto AstraZeneca: abbandoni vaccinali fino al 30 per cento

La Regione Lazio apre una fessura nel muro eretto dal ministro della Salute Roberto Speranza e dall’Aifa, l’agenzia nazionale del farmaco, per fermare la somministrazione di AstraZeneca agli under 60 che hanno già ricevuto la prima dose del siero anglo-svedese. Obiettivo: consentire a chi lo vuole di completare il ciclo con lo stesso farmaco. Sì, perché dopo tanti stop and go, il problema, qui, è rappresentato ora da una quota di cittadini, circa il 10% nella fascia d’età compresa tra i 50 e i 59 anni, che rifiuta il mix vaccinale. Tanti ne ha stimati la Regione. Gente che non vuole saperne della vaccinazione eterologa: la rifiuta o non si presenta all’hub di riferimento. E questa quota, dice l’assessore alla Salute Alessio D’Amato, “merita la stessa attenzione di tutti gli altri e non può rimanere nel limbo. Si tratta di decidere cosa fare con questi cittadini. Lasciarli con un’unica dose di vaccino e senza di conseguenza rilasciare il certificato vaccinale? Oppure rimettere la valutazione al medico in scienza e coscienza? Noi crediamo che la strada sia quest’ultima”.

Tutto ruota intorno a una integrazione al consenso informato, documento che peraltro è sempre necessario al momento della vaccinazione. “Abbiamo chiesto al ministero della Salute di dare un parere riguardo a uno specifico consenso informato poiché è importante, per raggiungere l’immunizzazione, che siano completati i percorsi vaccinali”. Un nuovo modulo, dunque. Che è una ipotesi, già sottoposta all’attenzione del ministero, per permettere a chi è, appunto, “consapevolmente informato” di completare il ciclo terapeutico con il vaccino Vaxzevria.

Posizione che non è in contrapposizione con quella del governo, sostiene D’Amato, visto che “nel Lazio abbiamo applicato per primi quanto stabilito dal ministero senza alcuna riduzione del numero delle somministrazioni giornaliere che è stabilmente al di sopra del target assegnato, e senza alcun problema all’interno degli hub vaccinali”. In realtà, problemi ce ne sono già. Il documento trasmesso alle aziende sanitarie non convince affatto i medici e molti mettono le mani avanti: chiedono una autorizzazione ufficiale per dare la seconda dose a chi invece, secondo il ministero, dovrebbe ricevere Pfizer o Moderna. Il ragionamento di D’Amato ricorda quello del governatore della Puglia, Michele Romano: alcuni giorni fa ha detto che l’ultima parola, qualora qualcuno rifiutasse il mix, la dovrebbe avere sempre il medico. In linea del tutto teorica, però, perché in Puglia la questione non è sul tavolo. Semplicemente per ora non sono state segnalate defezioni tra chi, sotto i 60 anni, deve completare il ciclo con i sieri basati sull’Rna messaggero: quindi, conferma la Regione, si procede sulla base della linea del governo.

Ma il tema posto dal Lazio è reale, come conferma anche il caso della Campania, dove nelle ultime due settimane si sono rilevati picchi fino al 30%, soprattutto nell’area di Napoli, di abbandoni vaccinali tra chi doveva fare la seconda dose. Molte persone, spiegano dallo staff del governatore Vincenzo De Luca, non si stanno presentando all’appuntamento fissato dopo la prima somministrazione. Una ritirata, sull’onda della sfiducia e del disorientamento generato dal caos Astrazeneca, che riguarda però non solo il prodotto anglo-svedese. Ultimamente riguarda anche Pfizer. E tutte le classi di età.

La fuga, dunque, è in atto, anche se il fenomeno è a macchia di leopardo. Se non si registrano defezioni in Lombardia, in Emilia-Romagna o in Toscana, in Liguria anche tra gli over 60 è scattata la corsa alla scelta di Pfizer o Moderna, nonostante Vaxzevria sia autorizzato per questa fascia di età. In pratica dal 9 giugno – cioè dal giorno successivo alle nuove diposizioni imposte dal ministero della Salute e dal Comitato tecnico-scientifico – i liguri che si sono spostati sui vaccini a mRna sono saliti al 93,7% già nella fascia 60-64 anni. Quanto al Piemonte non si registrano particolari picchi negli ultimi giorni. Ma è un fatto che da un po’ di tempo tra il 10 e il 15% delle persone prenotate per la seconda dose non si presentano.

Draghi allunga l’emergenza. Salvini protesta, Renzi tace

La variante Delta preoccupa, in vista dell’estate e della riapertura delle scuole a settembre, e la campagna vaccinale deve essere ancora completata. A fine luglio, infatti, l’obiettivo dell’immunità di gregge sarà ancora lontano. Così il premier Mario Draghi non ha dubbi e ha tutta l’intenzione di prorogare per la quarta volta in un anno e mezzo lo stato d’emergenza che scadrebbe il prossimo 31 luglio. Fino a ottobre o, più probabilmente, fino a fine anno. D’altronde dallo stato d’emergenza dipendono due strutture a cui il governo in questo momento non può rinunciare per combattere il Covid-19: i poteri del commissario straordinario dell’emergenza, il generale Francesco Paolo Figliuolo, e della sua struttura ma anche l’esistenza del Comitato tecnico-scientifico che nei mesi scorsi ha dato pareri fondamentali in materia di protocolli e di pareri sulla campagna vaccinale. Per questo Draghi vorrebbe, con una delibera del Consiglio dei ministri, prorogare lo stato d’emergenza fino al 31 ottobre o fino al 31 dicembre. In ogni caso sarà chiesto un parere anche al Cts. Ma il premier davanti a sé ha un grosso ostacolo politico che si chiama Matteo Salvini. Da sempre contrario alle proroghe dell’emergenza durante il governo Conte-2, ad aprile il leader del Carroccio aveva fatto filtrare la sua contrarietà alla terza proroga ma senza opporsi alla decisione del governo.

Ma, fanno sapere i fedelissimi del segretario, “a metà aprile la situazione epidemiologica e dei vaccini era molto più complicata di adesso”. Ora che i morti sono quasi azzerati e la curva dei contagi è in discesa continua grazie ai vaccini, Salvini non ha alcuna intenzione di lasciare perdere dopo essersi tanto battuto per le riaperture: “Non ci sono i presupposti per trascinare lo stato di emergenza – ha detto ieri il segretario leghista al forum dell’Ansa – Credo sarebbe un bel messaggio, come dire il peggio è passato”.

Ad alzare i toni ci pensano i suoi che annunciano le “barricate” in Cdm e per questo Salvini ha chiesto un incontro con il premier per parlare proprio dello stato d’emergenza e anche della strategia del governo sui migranti che fa infuriare il leghista. Inoltre, il segretario del Carroccio ieri ha rispolverato l’antica battaglia del “liberi tutti” chiedendo al governo di eliminare l’obbligo delle mascherine all’aperto, la riapertura delle discoteche dal primo luglio e la richiesta di usare anche il vaccino russo Sputnik non ancora approvato dall’Ema.

A dare manforte a Salvini sull’emergenza arriva la sua concorrente alla leadership del centrodestra Giorgia Meloni che dall’opposizione usa toni durissimi: “È un’ipotesi folle – dice – non è possibile che dopo un anno e mezzo i principi dello Stato di diritto siano calpestati o violati”.

Se Pd, M5S e LeU sono favorevoli in nome della “cautela”, stavolta, dopo aver protestato a lungo durante il Conte-2, anche Forza Italia e Italia Viva appoggerebbero un’altra proroga voluta da Draghi. “Il governo sta valutando – spiega la ministra per gli Affari regionali, Mariastella Gelmini – non si può abusare dello stato d’emergenza, ma non si deve nemmeno sottovalutare la variante Delta e correre rischi”. Anche Italia Viva è favorevole, dopo che nell’estate del 2020 Matteo Renzi si diceva contrario alla proroga voluta da Conte: “Va bene allungare l’emergenza nell’ottica di un ritorno alla normalità” dice la ministra della Famiglia, Elena Bonetti.

A luglio2020 e poi a ottobre, il premier Conte era stato duramente criticato da avversari politici e da molti giuristi. Sabino Cassese sul Corriere lo paragonava a Viktor Orban: “Lo stato d’emergenza è illegittimo perché l’emergenza non c’è” (12 luglio). Massimo Cacciari sulla Stampa invece parlava di “illogica dittatura democratica” (14 luglio). Ieri Cassese all’Huffington Post era deluso (“una scelta inspiegabile”) ma con toni più soft rispetto agli attacchi a Conte.

Un lumino per Fassino

I 5Stelle torinesi erano un po’ abbacchiati: per le due ridicole condanne della Appendino, per la sua decisione di non ricandidarsi, per il rifiuto del Pd locale di appoggiare insieme il rettore del Politecnico Guido Saracco e per la difficoltà di trovare un nome di bandiera che difenda l’eredità dell’ultimo quinquennio. Poi, quando ormai stavano per abbandonarsi ad atti di autolesionismo, ha parlato Fassino. L’ha fatto sul Foglio, come si conviene a chi preferisce darsi alla clandestinità. E, dall’alto del suo beneaugurante passato, ha spiegato al Pd e al M5S cosa devono fare. Il candidato del Pd, tale Stefano Lo Russo, deve stipulare “un patto con gli sfidanti alle primarie”, forti di “un consenso di cui è bene tenere conto” (li hanno votati i parenti stretti). Poi “dovrà cercare di muoversi in più direzioni” (magari a zig-zag, per seminare meglio gli elettori), “rivolgendosi a Italia Viva e Azione”. Giusto: avendo combattuto il Conte-2 e sabotato il Pd alle Regionali, sono gli alleati ideali. Tutto sta a rintracciarli in tempo per ottobre (già allertato il Ris di Parma). E poi? “Dare spazio alla parità di genere”: tipo alle primarie, dove su quattro candidati i maschi erano quattro. E i 5Stelle? “L’invito rimane aperto anche a loro”.

Quale invito, visto che il Pd torinese – una specie di Pompei post-eruzione, pietrificata da 40 anni in mano ai soliti Fassini&Chiamparini&circoletti vari – candida Lo Russo apposta per tagliarli fuori? “Il punto di partenza è riconoscere che questi cinque anni della giunta non sono stati di buon governo. In eredità non è stato lasciato niente”. L’idea non è male: per avere il privilegio di portare voti al capogruppo Pd che la denunciò in Procura e la fece condannare per un debito contratto da Fassino (lui sì che in eredità lasciò qualcosa), la Appendino dovrebbe ammettere di essere una ciofeca. Sennò i suoi voti il Pd non li vuole. Il fatto che sia stato il suo Pd, in rotta con Letta, a rifiutare Saracco, è un dettaglio. Anzi è tutta colpa dei 5Stelle che l’hanno proposto. Ma meglio così, perché la sua idea di coalizione è la seguente: il Pd candida chi gli pare e il M5S gli porta i voti con le orecchie. Infatti “non capisco la rigidità della sindaca contro un accordo al ballottaggio: così si rischia di favorire la destra” (con cui i Fassini sono sempre andati a braccetto sul Tav e altre ideone). L’ultima volta che Fassino parlò della Appendino, fu per la leggendaria sfida “Se vuol fare il sindaco, si candidi e vediamo”. Il bis del celeberrimo “Se Grillo vuol fare politica fondi un partito e vediamo”. Da allora ogni 5Stelle tiene sul comò un altarino con la sua foto rischiarata da un lumino votivo. Ora ci risiamo. Se lui assicura che o vince Lorusso o vince la destra, è matematico: se si ricandida la Appendino, rivince lei.

Romagna mia, patria del marketing: lavoro, entusiasmo e “sburonaggine”

“Affinché questo manuale raggiunga il suo scopo non è necessario che lo leggiate. È sufficiente che lo compriate, e vi facciate vedere in giro con una copia. Per esempio, quando andate al bar, in palestra o in altro luogo deputato al raduno di boccaloni”.

Vitelloni, pappagalli, bon vivant e grandi narratori e persuasori orali. Pubblicitari sì, ma preterintenzionali, geneticamente tali. L’arte spontanea di convincere e fidelizzare gli amanti, gli amici, i clienti. “I pilastri sono tre: la voglia di lavorare, la positività e la confusione mentale. Prima cominciare a parlare e poi riflettere, prima fare e poi progettare”. Come si diventa campioni di una delle tecniche promozionali più infallibili al mondo? Ce lo illustra Il manuale di marketing romagnolo, un libro dilettevole, un “metodo scientifico” scritto e formulato da Paolo Cevoli, appena uscito con Solferino.

Romagnoli Dop si nasce, e (forse) si diventa. L’estate addosso. L’autore muove dal suo vissuto di riccionese a 24 carati. Dal primissimo lavoro come cameriere nell’attività storica di famiglia, la Pensione Cinzia, il suo palcoscenico inaugurale, alla svolta di Zelig che lo incorona comico nazionale di successo: ricordate Palmiro Cangini, “l’assessore confusionario”? Nel mezzo, un’esperienza da manager nel campo della ristorazione.

Il vademecum snocciola consigli pratici e iperbolici e “vendita professionale di aria fritta”, se indispensabile. Largo alle tre E: “energia, entusiasmo ‘e due maroni così’”. E poi “sburonaggine, patachismo e ignorantezza”, che è “il contrario del business plan. Quante aziende sono nate così? Le scelte si prendono di getto”.

Il romagnolo è politicamente scorretto, e giammai permaloso, “lo sfottò è la sua manifestazione d’amore”. Predilige le bizzarrie, “dal quad alla banana gonfiabile trascinata dal motoscafo”; è allergico ai moralismi, anzi, “il comportamento un po’ sopra le righe non solo non è giudicato, ma viene spesso incoraggiato”. E sapete “perché il maschio romagnolo è intelligente? Perché sa che chi comanda veramente è la donna”. Nel modello economico locale, è lei il Ceo. “Mio nonno, quando prendeva lo stipendio, lo consegnava tutto intero a sua moglie. Girava senza un soldo in tasca. Conoscendosi, aveva paura di sperperarli”. Già, ogni buon romagnolo, indigeno o acquisito che sia, è sempre attento al budget. Intraprendente e visionario, ma oculato. E non si lamenta: la vita fugge, tanto vale lavorare e divertirsi, o viceversa.

L’ereditiera senza slip, Sartre e il Pci: che scatto, Umberto

Era il 1971 e Mick Jagger e Bianca Pérez erano a Roma per il viaggio di nozze. Cinque anni dopo, Liza Minelli (elegantissima), Marcello Mastroianni e Massimo Ranieri facevano festa al Jackie O’, mentre Simone de Beauvoir passeggiava cingendosi al braccio di Jean Paul Sartre in Piazza Navona. A immortalarli c’era puntuale lo sguardo meticoloso del nostro Umberto dietro l’obiettivo.

Divertito, ironico, veloce, Pizzi con la sua capacità di stare al passo coi tempi non si è fatto sfuggire nulla. Sessant’anni di carriera e migliaia di scatti. Ora che il ministero dei Beni culturali li ha dichiarati patrimonio culturale di particolare interesse pubblico, per salvaguardarne la memoria storica, Pizzi, ha aperto un archivio digitale. Lui, tra i fotografi più noti della dolcevita, con un passato da fotoreporter per la Fao in Medio Oriente e numerose pubblicazioni di carattere internazionale, ha deciso di mettere ordine tra le sue fotografie per renderle pubbliche.

Al momento una piccolissima parte è a disposizione del web (www.umbertopizziphoto.com): sono circa 10 mila scatti, “più o meno il 5 per cento dell’archivio”, spiega. Le foto sono in vendita, certo, ma quel che più conta per Umberto è preservare la testimonianza dell’ultimo cinquantennio, lasciandolo in eredità ai giovani. “Fotografare per me è come respirare, una cosa semplice che mi ha richiesto però tanta fatica”, racconta.

Nato nel 1937 a Zagarolo (Roma) – “due anni prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale” –, poco più che ventenne ha iniziato la sua carriera in Iran, Iraq, Turchia, Siria e Giordania. “Non vengo dal paparazzismo – avverte – sono stato fotoreporter e poi fotocronista”. Ai paparazzi si è avvicinato per studiarli. La curiosità e l’indole lo hanno portato a fare dell’obiettivo il testimone del “cambiamento antropologico della società”. Time, Sunday Express, People sono alcune delle testate internazionali con cui Pizzi ha collaborato. Alla politica si è affacciato dopo e grazie a lui sono arrivate anche le rivelazioni esilaranti di palazzo: dagli onorevoli appisolati a quelli con le dita nel naso nel bel mezzo dei lavori parlamentari.

Nel suo archivio c’è un immenso patrimonio. Esplorarne le gallerie è un viaggio che spazia dal reportage, alla moda, lo spettacolo, la politica, la mondanità. Da Cortina d’inverno e d’estate alla metamorfosi del Pci fino all’odierno Pd. Ci sono i giganti Eduardo De Filippo, Monica Vitti, Alberto Sordi, Vittorio De Sica, Claudia Cardinale e Luchino Visconti. Le donne d’eccellenza: da Rita Levi Montalcini a Carla Fracci. Le sfilate d’alta moda imperdibili. Le ricorrenze mondane. Le serate di gala. Un Mario Draghi giovanissimo a cui Maria Monsè dà le spalle. E molto altro, ma lo scatto a cui Pizzi è più affezionato, dice compiaciuto, risponde a una curiosa ricerca in cui i lettori potranno cimentarsi. Digitando il nome di Francesca Thyssen-Bornemisza, collezionista d’arte e figlia del barone Hans Henrik, compaiono varie immagini. Quella di cui Pizzi ricorda ogni minimo dettaglio divertito la ritrae di spalle. È l’agosto del 1990. È il diciottesimo compleanno di Elisabetta de Balkany, la nipote dell’ultimo re d’Italia Umbero II di Savoia. Siamo a Venezia, in Palazzo Volpi. “Un colpo di reni”, rivela Pizzi. Il coloratissimo abito firmato Versace di Francesca Thyssen-Bornemisza si dispiega, aleggia nell’aria e l’obiettivo coglie il disatteso. In autoreggenti e décolleté neri, sotto la coda tesa, le natiche nude.

Puškin: “Mi sposo, aiuto”

“Il futuro non mi appare rosa, ma nella sua nudità. I dolori non mi sorprenderanno: sono inclusi nel mio bilancio domestico – ogni gioia sarà inattesa”. Così Aleksandr Puškin, in una lettera del 1831, confessa all’amico Krivtsov la sua determinazione a prender moglie “pur senza passione, senza infatuazione giovanile”. Pochi mesi prima, proprio alla ponderazione tra la vita da scapolo e quella da ammogliato, il trentenne Puškin aveva dedicato – all’indomani del fidanzamento con la giovane e avvenente Natalija Goncharova (antenata dell’omonima pittrice) – un brevissimo frammento falsamente presentato come “tradotto dal francese”, ora riproposto in un agile volumetto da Claudia Zonghetti per i tipi di Henry Beyle.

La mia sorte è segnata: mi sposo pare a tratti un goliardico bignami di alcuni dei topoi letterari contro il “grande passo”, dalle Quindici gioie del matrimonio alla Sonata a Kreutzer. La banalità (“a trent’anni la gente si sposa”). Il sacrificio dell’indipendenza indolente e viziata, dei viaggi senza meta, dell’infedeltà festaiola dello scapolo (ricco e gaudente, ovviamente, come lo scrittore). La paradossale e malcelata speranza di ricevere un rifiuto (Puškin fu respinto da tre donne, una delle quali ne annotò sul proprio diario il “profilo di negro”, le unghie lunghe, la bassa statura e la strafottenza). La codificazione sociale, e dunque la profanazione pubblica, di un sentimento romantico nato nel segreto di due cuori: il peso dei suoceri baciapile, dei conoscenti ficcanaso, dei soldi (le trattative sulla dote di Natalija durarono per mesi, e il rapporto coi Goncarov finì più volte sull’orlo della crisi).

“Era possibile, era vicina/ la felicità… Ma ormai/ è deciso il mio destino./ Forse un po’ troppo mi affrettai…”: nelle ultime strofe dell’Evgenij Onegin è con queste lapidarie e sconsolate parole che Tatiana, ormai moglie del principe Gremin, respinge le struggenti profferte del protagonista, che ancora l’accende di fiamma ma che anni prima aveva a sua volta rifiutato un’esplicita proposta di lei argomentando, da vero alter ego del Puškin mondano: “Sarebbe (vi dico in coscienza)/ La nostra unione una sofferenza;/ E l’abitudine il mio amore/ tramuterebbe in disamore”.

L’Onegin, dopo una gestazione di anni, fu portato a termine da Puškin proprio in quella formidabile estate del 1830, poche settimane dopo il fidanzamento con Natalija e la stesura del frammento sul matrimonio: “È deciso il mio destino” (trad. di Giovanni Giudici) e “La mia sorte è segnata”, titolo e incipit del nostro frammento, sono la stessa frase (“No sudba moya uzh reshena”, cantata peraltro nel memorabile duetto finale dell’Onegin di Cajkovskij). Le nozze come un fato, uno sbandamento pubblico e irreversibile, che fa perfino rimpiangere “l’usanza di un popolo antico” (gli spartani): il ratto della sposa.

Ma c’è di più: quando Puškin decide di presentare questo frammento come “tradotto dal francese”, pare voglia identificare in quella lingua e in quella cultura il simbolo della vita libera e del libertinage: e in effetti, nella fitta corrispondenza epistolare dell’autore con Natalija (un vero scrigno di vita quotidiana e di inventiva stilistica, in cui il grande Jurij Lotman scoprì un Puškin tutto realismo e semplicità), le lettere sono scritte in francese fino al matrimonio, e in russo dalle nozze in poi. Pare quasi che il “grande passo” respinga per sempre il Puškin viveur in un passato remoto, costruendo forzosamente una nuova, quadrata ideologia russa secondo cui “non c’è felicità che nelle vie comuni”, e il “bilancio domestico” non consiste nel pedestre calcolo di una dote, ma nella possibilità – garantita appunto solo dalle nozze – di “invecchiare bene”.

Ma Puškin non invecchierà: vani i suoi richiami epistolari alla moglie a evitare flirt ambigui, al punto che, dinanzi al degenerare dell’aperta tresca con l’ufficiale francese Georges d’Anthès, lo scrittore non potrà che sfidare il rivale a un duello per lui fatale (1837). E così la fascinosa Natalija, stella della corte e beniamina dello zar Nicola I, si conquisterà – anche presso le grandi poetesse del Novecento, dalla Achmatova alla Cvetaeva – la fama, forse immeritata, della novella Elena che con la spada della sua bellezza segna la sorte dell’eroe della letteratura russa.

“Ci aggrappiamo alla scienza solo quando abbiamo paura”

Questa fase pandemica mi ha ricordato un telefilm della BBC degli anni 70, in cui succedeva esattamente questo: un virus partito da un laboratorio in Oriente, attraverso gli aerei si diffondeva rapidissimamente in tutto il mondo. A Londra le strade erano deserte perché, in quel caso, si salvava una persona ogni diecimila. Londra era una città ridotta a mille abitanti, dove c’era tutto tra l’altro, negozi, supermercati, pompe di benzina; però la gente si rendeva conto di essere incapace di riprodurre questi beni, quindi si spostava in campagna. Questo mi è venuto in mente quel giorno. In quel caso era l’inizio del Medioevo. Mancavano le derrate, i rifornimenti. La prima cosa era l’agricoltura, ma un’agricoltura di base, senza i trattori. Era una serie molto interessante, mostrava tutte le conseguenze che un virus può determinare. C’era questa Londra deserta, e allora ho pensato: siamo entrati anche noi in un film di fantascienza. (…) Adesso tutti dicono: ascoltiamo la scienza. Sono promesse da marinaio, perché sono convinto che passata questa vicenda, tutto riprenderà come prima. È come quando uno passa e vede un incidente stradale, rallenta e diventa prudente; poi, dopo un po’, riprende a pigiare sull’acceleratore. Si vede già che la gente riprende a pigiare sull’acceleratore, appena le misure diminuiscono la gente affolla le strade, i bar, i ristoranti. Specialmente i giovani. Quindi in futuro si dimenticherà tutto questo; non tutti, alcuni, probabilmente i più anziani, resteranno più prudenti. E poi, forse, lo smart working cambierà il tipo di lavoro. (…)

È una cosa che ha veramente spaventato. È quindi evidente che i mezzi di comunicazione, in particolare la tv, continuino a chiedere a destra e a manca dei pareri cercando di capire come uscire da questa situazione. Ci sono tanti virologi, scienziati, esperti, medici che vengono interpellati di continuo. Quando mi pongono questa domanda: “Allora gli scienziati erano in contraddizione?”, io dico sempre: “C’è una frase di Confucio molto bella che dice: ‘La scienza è sapere quello che si sa e non sapere quello che non si sa’”. Sembra una frase di Catalano (comico del programma di Arbore Quelli della notte, ndr), ma se uno ci pensa, è un pensiero profondo perché è così… Però in certi casi, come in questo della pandemia, la gente vuole sapere delle cose che gli scienziati non hanno ancora capito, non hanno sperimentato a sufficienza, non c’è ancora una conoscenza condivisa perché è un fenomeno ‘alla frontiera’. Allora ognuno può avere delle opinioni personali, però sono tali. Non è scienza quella, sono pareri, che possono anche essere utili. Poi però, qual è la strada buona da seguire o le strade da intraprendere, questo lo si saprà quando si sarà capito come vanno le cose. (…)

Questa situazione pone dei problemi anche di coscienza a chi vuol fare una buona comunicazione. Per fenomeni come questa pandemia, non è come dire: “Adesso vi spiego come funziona la circolazione del sangue”. In quel caso vai tranquillo, la gente ascolta interessata. Qui invece si parla di un fenomeno che è in agguato e ti può uccidere in ogni momento, come vediamo ogni giorno, con 400/500 morti. È evidente che la gente si spaventi ed è per quello, non dimentichiamolo, che le persone, gli italiani, hanno accettato cose inimmaginabili in tempi normali, come non uscire di casa, il coprifuoco, non festeggiare il Natale, il Capodanno e poi di portare la mascherina e tutte le cose che sappiamo, impedire i viaggi, persino le visite ai parenti malati. Questo è potuto succedere perché le persone sono spaventate. Se dai una notizia asettica, in cui descrivi semplicemente cos’è il virus, quali sono i rischi, le persone difficilmente accettano tutto questo. In tutte le notizie c’è sempre una componente di emotività. Si tratta di dare un ruolo giusto a questa emotività, un ruolo positivo. Bisogna dire: “C’è questo rischio, ma lo possiamo evitare se facciamo queste cose”. Per parlare di questi argomenti non si può non puntare anche sull’emotività, altrimenti non si ottiene niente. È un equilibrio difficile. (…)

Una cosa che ho scritto in passato nei miei libri è che la natura non è amica. È pure nemica! È piena di batteri, di virus, di infezioni. Uccide la gente come mosche. Ed è la tecnologia, o meglio la scienza e quindi i farmaci che hanno permesso di combattere questa natura cattiva con la quale noi abbiamo dovuto sempre lottare per difenderci. La natura è bella quando vai fuori nel weekend e guardi i paesaggi, ma prova a vivere in natura senza farmaci! Mica è un caso che la vita media nel passato, era brevissima e, se ti ammalavi, difficilmente ne uscivi vivo. Qualunque malattia ti faceva fuori.

(…) Mia nonna s’è ammalata di Spagnola nel 1918/19 e ne è uscita perché evidentemente aveva un buon sistema immunitario, ma mi raccontava che viveva isolata e le davano da mangiare da dietro una tenda perché era contagiosissima e non c’era modo di difendersi. La pandemia cambierà, se ci si riflette, il modo di vedere la natura e la capacità dell’uomo, attraverso la scienza, di difendersi dalla natura. La natura non è che è aggressiva così, si difende.