La campagna non ci è sfuggita di mano”: Nicolas Sarkozy è stato chiamato ieri dai giudici di Parigi a rendere conto del sistema di false fatture che permise di coprire le spese folli della sua campagna per l’Eliseo nel 2012. Era o no al corrente degli illeciti? In tribunale per la prima volta per il processo “Bygmalion”, dal nome dell’agenzia che organizzava i meeting dell’allora candidato, apparso nervoso e irritato, l’ex presidente, come ha fatto finora, ha negato: “Non posso descrivere un sistema di cui non sono a conoscenza”. Già condannato per corruzione a tre anni (di cui due con la condizionale) nel caso “Bismuth”, è accusato ora di finanziamento illecito di campagna e rischia un anno di detenzione e 3.750 euro di multa. Finora l’inchiesta non ha potuto stabilire che fosse al corrente degli illeciti, per cui è il solo dei 14 imputati a non comparire anche per frode. Nel 2012 la sua campagna era costata 42,8 milioni di euro, quasi il doppio di quanto previsto per legge, 22,5 milioni. Tenne 44 meeting faraonici, contro i dieci comizi dello sfidante socialista François Hollande, ma perse lo stesso. “Sono quarant’anni che faccio politica e le campagne le conosco. Allora ditemi, dove sta la mia campagna in oro massiccio? In che cosa è stata più prestigiosa di quella degli altri candidati? Facevamo le stesse città e le stesse sale”. Ai giudici ha detto che, prima di allora, non aveva mai sentito parlare di Bygmalion e che non si è mai occupato di logistica: “La mia priorità era di riunire la mia famiglia politica”. Ma per l’accusa Sarkozy ha lasciato correre le spese e “senza dubbio ne ha beneficiato”. Tre ex dirigenti di Bygmalion hanno riconosciuto di aver emesso false fatture per nascondere le spese, come richiesto dall’Ump, il partito neo gollista di Sarkozy, oggi Les Républicains.
Biden e Putin: ritorno al 1985
Oggi il presidente statunitense Joe Biden e l’omologo russo Vladimir Putin si vedranno a Ginevra.
“Le linee rosse” che Joe Biden non vuole che la Russia oltrepassi sono dello stesso colore delle poltrone dove oggi si siederà per guardarlo negli occhi Vladimir Putin. Nell’imponente biblioteca della blindatissima Villa La Grange, a Ginevra, i due capi di Stato si incontreranno per la prima volta nello stesso posto dove, 36 anni fa, si strinsero la mano Michail Gorbaciov e Ronald Reagan dando inizio alla fine della Guerra Fredda.
A inizio giugno, intervenendo al Forum economico di San Pietroburgo, Putin ha promesso al suo Paese di regolare le tensioni con Washington, che però vuole “contenere lo sviluppo” di Mosca. Prima di incontrare il suo omologo Usa, alla tv statale, il presidente russo ha dichiarato che esistono problematiche comuni “su cui si può lavorare insieme: armi nucleari, Libia e Siria, cambiamento climatico” e se verrà creato “un meccanismo di cooperazione con gli Usa, si potrà dire che il summit non sarà avvenuto invano”. Finora entrambi i capi di Stato, da lontano, tramite interviste e comunicati ufficiali, hanno concordato solo su una cosa: “Le relazioni Usa-Russia non sono mai state a un punto così basso nella storia recente”. Alle spalle hanno un passato di accuse e offese reciproche: definito a marzo scorso “killer” e poi, “un degno avversario”, “duro ma intelligente” dal presidente Biden, Putin ha definito Biden “un uomo di carriera, che ha trascorso tutta la sua vita adulta in politica”, “radicalmente diverso” da quello “straordinario” Trump che lo ha preceduto. Non sarà breve. Il summit, diviso in tre parti, “durerà quattro o cinque ore”, ha reso noto il portavoce di Putin, Dmitry Peskov, ma “non è stato raggiunto un accordo per una conferenza stampa congiunta” al termine dell’incontro. La delegazione del Cremlino, con la controparte americana, discuterà di pandemia, dossier Ucraina, sanzioni, tregua della guerra delle ambasciate – dopo l’espulsione reciproca dei diplomatici –, un possibile scambio di prigionieri come Paul Whelan, cittadino Usa arrestato nel 2018 in Russia per spionaggio. Biden – che ha confermato che non cerca conflitti con Mosca, ma che l’America “risponderà” se la Federazione continua le sue “attività dannose” –, dibatterà dell’abuso dei diritti umani su Aleksej Navalny, la cui morte “sarebbe una grande tragedia”.
“L’incontro è importante in termini di simbolismo e per Putin il simbolismo è importante” ha detto Andrey Kortunov, politologo di Riac, think tank governativo. Dove la guerra nel 1985 cominciò a finire, oggi qualcosa dovrà iniziare nonostante le “condizioni difficili”, perché le relazioni tra i due Paesi, ha detto Yuri Ushakov, consigliere Affari esteri del Cremlino, si trovano a un punto preciso: quello morto.
Grillo attacca “la parata ideologica” della Nato
Il riallineamento dell’Italia agli Stati Uniti imposto da Mario Draghi non sembra aver vita facile. Il Garante, nonché fondatore, del Movimento 5 Stelle, infatti, ha lanciato ieri dal suo blog beppegrillo.it una dura bordata contro “la parata ideologica” che a suo dire i Paesi occidentali hanno allestito prima al vertice G7 in Gran Bretagna e poi al vertice Nato.
Grillo ha affidato l’attacco anti-Nato al professore di Filosofia morale (è associato alla Statale di Milano) Andrea Zhok: “Negli ultimi due giorni abbiamo assistito a una parata ideologica come non se ne vedevano dalla caduta del Muro di Berlino”, scrive il professore secondo cui “il G7 prima e la riunione della Nato poi hanno colto l’occasione per sparare a palle incatenate contro il ‘nemico’, nelle vesti di Russia e Cina”.
Zhok mette in evidenza il tentativo di Joe Biden di resuscitare la linea di frattura tra “noi, l’Occidente” e “loro, gli altri, che minacciano ‘i nostri valori’”. Un modello argomentativo “sperimentato” nella guerra fredda e che rappresenta “un grande classico”.
Il testo del blog di Grillo non è inedito, ha qualche sapore sovranista o, come si direbbe in altri linguaggi, “campista”, ma ripropone una frattura che agita la coalizione di governo e agita all’interno il M5S. La scorsa settimana è stata segnata dalla polemica della visita all’ambasciata cinese a Roma da parte dello stesso Grillo e di Giuseppe Conte il quale alla fine ha declinato l’invito “per impegni personali”. Ma intervenuto domenica scorsa nella trasmissione di Lucia Annunziata su Rai3, l’ex premier ha ribadito una linea non identica a quella draghiana: “L’alleanza atlantica è un pilastro, ma noi dobbiamo saper cooperare anche con altri Paesi rilevanti, come la Cina”. Era la linea che aveva portato il suo primo governo a siglare l’accordo sulla Via della Seta, oggi presentato dalla stampa mainstream come una specie di tradimento patriottico, e che potrebbe rappresentare il banco di prova della politica estera italiana.
Acquista così rilievo la notizia, resa dalla rivista Formiche, di un documento del ministero degli Esteri in preparazione di un prossimo vertice Italia-Cina. Al vertice G7, infatti, Draghi ha parlato di una ripresa in esame del Memorandum con la Cina sposando a pieno il progetto B3W (Build Back Better World) che Biden ha messo in campo per sfidare l’iniziativa di Pechino.
Il documento messo a punto dal ministero di Luigi Di Maio – quindi di nuovo l’importanza della linea del M5S – scrive Formiche, “si intitola Piano d’azione triennale per il rafforzamento della collaborazione (2021-2023) e punta a “dare priorità alla cooperazione” tra i due Paesi in diversi settori e afferma che “le parti sono disponibili a promuovere l’attuazione del memorandum d’intesa sulla collaborazione nell’ambito della ‘Via della Seta’ economica e dell’iniziativa per una via della seta marittima del 21° secolo”. Sembra quindi muoversi sul solco della linea di Conte, ma occorre capire cosa ne pensa Draghi.
Che il rapporto con la Cina sia più complesso e articolato di quanto pensi la propaganda di questi giorni, infine, lo dice anche la notizia che nell’ambito dei festeggiamenti per il centenario del Partito comunista cinese figura una intervista a Massimo D’Alema che, ricordando un suo vecchio viaggio del 1978 quando era segretario della Federazione dei giovani comunisti, elogia oggi gli “straordinari” progressi compiuti dal Paese.
Il Nicaragua è di Ortega & the family
Novembre sembra ancora lontano, ma non per l’ex leader sandinista Daniel Ortega, presidente del Nicaragua dal 2007. Per essere sicuro di vincere le elezioni che si terranno fra sei mesi, Ortega sta facendo incarcerare i candidati presidenziali e gli attivisti dell’opposizione, conclamando la svolta dittatoriale in corso nella piccola nazione centroamericana abitata da sei milioni e mezzo di persone. Che l’ex rivoluzionario marxista – già presidente dal 1985 al ’90 – avesse iniziato a calcare le orme di altri autocrati centro e sudamericani lo si è visto in più occasioni di cui l’ultima, intercettata anche nel resto del mondo, è stata la brutale repressione dell’ondata di proteste di tre anni fa contro lo sfruttamento salariale e il modus operandi del presidente, che causò 350 morti.
Ortega e la moglie Rosario Murillo, da lui nominata vicepresidente assieme ad alcuni parenti messi nei posti chiave delle istituzioni, si sono di fatto impossessati di questo povero e violento Paese. Domenica scorsa sono stati arrestati altri esponenti dell’opposizione, che ha proclamato lo stato di emergenza permanente.
La polizia, guidata da Francisco Díaz, cognato di Ortega, ha di fatto in ostaggio quattro candidati presidenziali dell’opposizione. Si tratta di Cristiana Chamorro, Arturo Cruz, Félix Maradiaga e Juan Sebastián Chamorro García. In cella erano già finiti lo scorso 2 giugno alcuni esponenti politici molto noti: Hugo Torres, Dora María Téllez, Ana Margarita Vigil, Suyen Barahona e Tamara Dávila. Il presidente, insomma, sta facendo arrestare oltre che i potenziali candidati rivali alle elezioni, qualsiasi membro di spicco dell’opposizione.
Quasi tutti i detenuti sono stati accusati di complottare contro la sovranità e l’indipendenza del Nicaragua e di organizzare atti terroristici con l’aiuto finanziario di potenze straniere a cui avrebbero anche chiesto di intervenire. In seguito a una legge approvata lo scorso dicembre, l’esecutivo ha il potere di dichiarare unilateralmente questi cittadini colpevoli dei reati ascritti e di conseguenza non potranno candidarsi a cariche pubbliche. Oggi in Nicaragua il tradimento è punibile con la reclusione fino a 15 anni.
Ieri, il Consiglio permanente dell’Organizzazione degli Stati americani (Osa) si è riunito. Alcuni membri hanno prospettato la possibile applicazione dell’articolo 21 della Carta dell’organizzazione che contempla le massime sanzioni in caso di rottura palese dell’ordine democratico in un Paese aderente all’organizzazione, ma sarebbero però solo 18 (sui 24 necessari) i Paesi pronti a votarla. L’opposizione nicaraguense, composta da partiti di sinistra e di destra, dopo il nuovo raid della polizia si è dichiarata in stato di “emergenza permanente a causa dell’attacco contro la nostra leadership e quella di altre organizzazioni in Nicaragua”, come si legge nel comunicato stampa.
La polizia non ha presentato un mandato di perquisizione né un mandato di cattura contro i candidati e gli esponenti politici arrestati, fatto che li rende dei veri e propri rapiti tenuti in ostaggio. Gli arresti di Téllez e Vigil, che fanno parte dell’Unión Democrática Renovadora (Unamos), mostrano quanto il regime sia diventato paranoico e autistico. Dona Maria Téllez fu compagna di lotta del presidente Ortega: partecipò il 22 agosto 1978 al comando sandinista che prese d’assalto il Palazzo Nazionale e prese in ostaggio i legislatori legati all’allora presidente e dittatore Anastasio Somoza Debayle, poi deposto. Téllez è stata anche ministro della Sanità durante il primo governo sandinista (1979-1990) e ha preso le distanze dal Fronte sandinista di liberazione nazionale (Fsln) nel 1995 quando un gruppo di dissidenti, tra cui lo scrittore ed ex vicepresidente Sergio Ramírez Mercado, attualmente in pensione dalla politica, ha fondato la Mrs. Vigil è la figlia del defunto Miguel Ernesto Vigil, che fu ministro degli Alloggi e degli insediamenti umani durante la prima amministrazione sandinista, e Dávila è la figlia del colonnello sandinista in pensione Irvin Dávila.
Come è giá accaduto più volte in Centro e Sudamerica, gli ex leader rivoluzionari, una volta smessi gli assai scomodi e coraggiosi panni dei guerriglieri in lotta contro la guerriglia orchestrata dalla Cia, si trasformano in dittatori paranoici.
Una Madam tra i bolliti del pallone
Nella trance pavloviana del politicamente corretto, rischia di passare inosservato il razzismo più subdolo, e quindi più profondo, magari mascherato da difesa della meritocrazia. Succede che come in tutti i campionati di calcio ripartono le Notti Europee; assistiamo alla presa d’Europa da parte degli uomini di Rai Sport (avrà dato una mano sottobanco il generale Figliuolo?), collegamenti da Marienplazt dove l’unica anima viva è il nostro mezzobusto, in studio il solito assembramento di ex calciatori divenuti tecnici immaginari, Enrico Varriale a piantonare la Casa Azzurra.
Insomma, tutto regolare, con una novità però. A condurre, insieme a Marco Lollobrigida, c’è la campionessa di lancio del peso Danielle Madam, nata in Camerun e neo cittadina italiana (dieci anni di attesa invece dei dieci minuti di Suárez); che al suo debutto davanti alle telecamere si mostra una padrona di casa elegante e misurata. Ma ecco che i social partono all’attacco. Non sarà per il colore della pelle? Ma no: per i mazzieri del web, Danielle Madam non sarebbe abbastanza preparata, soprattutto non sarebbe competente di calcio. Ma guarda un po’.
A parte che parlare di competenza nel calcio in tv è come perorare la causa vegana tra i cannibali, l’attacco ha qualcosa di surreale. Se c’è una donna arruolata nella miniera di fuffa e testosterone del calcio parlato per propri meriti, quella è proprio lei. A meno che non si vogliano difendere le mitologiche vallette di Biscardi, a meno che non si vogliano considerare autorevoli i collegamenti di Diletta Leotta, i rilievi tattici di Alessia Mancini o la profondità di analisi, oltre che di scollatura, di Wanda Nara. Tutte ragazze scelte per le competenze calcistiche, come no?
In effetti, con loro, Madam c’entra poco o punto; e allora sorge il sospetto opposto, che questa giovane signora venga criticata proprio per la sua diversità. E per la scoperta peggiore che un branco possa fare nella vita: essere diversi il più delle volte significa essere migliori.
Draghi, l’ideologia dello status quo
La risposta alle mie critiche a Mario Draghi e al suo governo è spesso sul piano del metodo: avrei l’imperdonabile colpa di essere “ideologico” (l’ultimo a dirmelo è stato il direttore di Repubblica). Chi sta col governo sarebbe ‘pragmatico’, cioè obiettivo, chi si oppone sarebbe invece ‘ideologico’, e cioè propagandistico.
Quest’uso della parola ‘ideologia’ è di per sé sintomatico del ribaltamento avvenuto negli ultimi decenni. Nel linguaggio filosofico marxista, quello che l’ha più largamente usata, ‘ideologia’ significava “l’insieme delle credenze religiose, filosofiche, politiche e morali che in ogni singola fase storica sono proprie di una determinata classe sociale… in quanto tale, l’ideologia, lungi dal costituire scienza, ha la funzione di esprimere e giustificare interessi particolari, per lo più delle classi proprietarie ed egemoni sotto l’apparenza di perseguire l’interesse generale o di aderire a un preteso corso naturale” (così, sinteticamente, il vocabolario Treccani). È precisamente in questo senso che è davvero, e profondamente, ideologica la posizione di quelli che sostengono lo stato delle cose come una sorta di dogma senza alternative.
Il sostegno a Draghi e al suo governo ha assunto fin dall’inizio toni ultraideologici, addirittura religiosi: i giornali e i giornalisti di sistema l’hanno raccontato come l’uomo della provvidenza, un re taumaturgo capace di risanare il Paese col semplice tocco delle mani. Come succede appunto con le ideologie, nessun dato di realtà è riuscito a incrinare il dogma. Il mito del governo “di alto profilo” (Mattarella dixit) non si è dovuto misurare con i nomi imbarazzanti, a tratti mostruosi, di ministri e sottosegretari. Il mito che si tratti di un governo libero dai partiti non ha risentito dall’evidenza di un condono fiscale e di una riapertura affrettata imposti dalla Lega. Il mito di un governo verde (“La rivoluzione verde di Draghi”, ha titolato Repubblica) non appare scalfito dalla resurrezione di nucleare, inceneritori, Ponte sullo Stretto, o da un Pnrr che continua a consumare suolo per Grandi Opere in buona parte inutili, e dunque dannose. Il mito dell’efficienza mimetica di Figliuolo non risente dell’ovvietà per cui le dosi ci sono state solo quando gli sono state recapitate, né dell’incredibile caos su AstraZeneca, né dell’irresponsabile accelerazione propagandistica che ha portato il governo a benedire gli Open Day delle Regioni per i minorenni. Il mito di un governo che lotterebbe contro le diseguaglianze non si è dissolto dopo lo sdegnato ‘no’ di Draghi alla pallidissima proposta di tassa di successione di Enrico Letta. No: la realtà non esiste, esiste l’ideologia del governo dei migliori.
Ma c’è qualcosa di più profondo. Questa ideologia non è certo stata messa a punto per sostenere Draghi, anzi è vero il contrario: e cioè che Draghi è l’espressione più autorevole, in Italia, del pensiero unico occidentale che ha condotto il mondo sull’orlo del baratro ambientale, sociale e politico. Quel pensiero unico si riassume nella “fede nel mercato… ovvero nel fatto che i meccanismi del mercato siano i principali strumenti per realizzare il bene pubblico”. Sono parole di Michael Sandel (La tirannia del merito, Feltrinelli 2021), che insegna Teoria del governo ad Harvard. Non per caso egli usa una parola che ha a che fare con l’ideologia per eccellenza, la “fede”. Una fede condivisa, nota Sandel, da tutti i leader e dai partiti del centrosinistra globale, da Clinton a Blair al nostro Pd. In una pagina che cita esplicitamente anche quest’ultimo, Sandel nota che questo fronte politico, “prima che possa ambire a riconquistare il sostegno pubblico, deve rivedere il proprio modo tecnocratico orientato al mercato di approcciarsi al governo e deve inoltre riflettere su un elemento più impercettibile, ma altrettanto importante: l’atteggiamento verso il successo e il fallimento che ha accompagnato la crescita della disuguaglianza negli ultimi decenni”. L’operazione Draghi punta a evitare proprio questa riflessione, blindando l’ortodossia ideologica: riportare al governo il Pd, e riportarcelo insieme ai populisti che avevano raccolto il consenso contestando l’ortodossia, significa affermare che non c’è nulla da cambiare, nessun errore da riconoscere. Il discorso di Draghi a Rimini nell’agosto scorso era esattamente questo, uno sperticato manifesto ideologico: l’imperativo era “la crescita” e l’obiettivo era impedire, sono parole sue, “una critica contro tutto l’ordine esistente”. Difficile dire cosa possa essere più ‘ideologico’ che continuare a propugnare una crescita infinita in un pianeta finito, e continuare a difendere un “ordine esistente” già di fatto collassato.
Le parole di Sandel sull’ideologia del successo e del fallimento spiegano l’ondata di criminalizzazione dei lavoratori che sta montando in questi giorni: a essere colpevolizzato è chi, ridotto in povertà, riesce a sottrarsi a un ‘lavoro’ schiavistico grazie al reddito di cittadinanza (l’odiato frutto ‘di sinistra’ del populismo al governo). Ancora una volta l’establishment sta dando la colpa alle vittime, invece di accettare e analizzare il fallimento della globalizzazione di mercato: è l’errore drammatico che ha portato a Trump presidente, e alla Brexit. E perseverare – con accanimento ideologico – in quell’errore significa continuare ad alimentare il consenso di chi solo apparentemente è contro il sistema: e cioè correre verso l’abisso di governi di estrema destra anche in Europa occidentale, a partire dall’Italia.
Stare con chi vince (con i ricchi, con il privilegio, con i padroni…) sarebbe pragmatico, stare dalla parte degli sconfitti (i poveri, i discriminati, i lavoratori) sarebbe ideologico. Invece, sono due ideologie: la prima a difesa dei presunti ‘dati di fatto’ certificati da ‘esperti’ al servizio dello stato delle cose, la seconda fondata su alcuni valori scardinanti. In Italia sono i valori dell’articolo 3 della Costituzione: un’eguaglianza non di opportunità (comunque oggi lontanissima!), ma di condizione finale, “che permetta, a quanti non ottengono grandi ricchezze o posizioni di prestigio, di vivere una vita decente e dignitosa” (Sandel). La necessità di “dare a ogni uomo la dignità di uomo” (Calamandrei).
Si può scegliere tra l’ideologia conservatrice del mercato e quella riformatrice della Costituzione: ma far passare la prima come l’ordine naturale delle cose è solo disonestà intellettuale.
Piove, non ti pago: storie di schiavitù dall’estate italiana
È arrivata l’estate, dunque la stagione turistica nel Paese più bello del mondo. E puntuale si è presentato il piagnisteo degli imprenditori del turismo che non trovano lavoratori stagionali (l’apripista è stato il compagno presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca). Non è incredibile che le persone si rifiutino di lavorare 12 o 14 ore al giorno per 3 euro all’ora? La settimana scorsa sul Fatto Roberto Rotunno ha ben spiegato la situazione: nel settore del turismo la domanda di assunzioni è di gran lunga più bassa rispetto al periodo prepandemico (per capire la misura: gli ingressi previsti in questo mese sono 26mila in meno rispetto a quelli di giugno 2019). Invece, e per fortuna, aumenta la domanda di personale dell’industria, delle costruzioni, del commercio e dei servizi. Dove, anche se ovviamente non dappertutto, le condizioni sono migliori. Per esempio la Sammontana cercava 350 stagionali per il suo stabilimento in Toscana e ha ricevuto oltre 2500 candidature. Tutti innamorati del barattolino al pistacchio? No, il motivo l’ha spiegato bene un sindacalista della Cgil di Lucca: “È un’azienda seria: riconosce i diritti ai suoi lavoratori e dà ai suoi dipendenti uno stipendio medio che consente loro di vivere in modo dignitoso. Non è scontato, di questi tempi”.
Se non ci credete fate un giro sulla sezione che il sito del Fatto ha dedicato in questi giorni all’argomento, invitando i lettori a inviare le loro testimonianze via email. Il quadro che esce da queste lettere si può definire così: una situazione che travalica lo sfruttamento e si ferma un pelo prima dello schiavismo. Qualche esempio. Cameriere stagionale in Toscana: “Orari massacranti, specialmente nei fine settimana, con assicurazione per 4 ore al giorno e ne lavori 15, magari ti danno buste da 1.500 euro ma ne devi restituire 6-700. Non sali mai di categoria, sei sempre aiuto cameriere. Luglio e agosto senza giorni di riposo perché è il periodo che si lavora di più, se per caso ti fai male a mezzanotte devi fare in modo che ti sei fatto male nelle ore che sei assicurato o addirittura dichiarare che ti sei fatto male a casa”. Stagionale di Salerno, emigrato dall’Italia per i seguenti motivi: “Lavoravo in un lido molto noto in città, dalle 7 di mattina alle 7 di sera per 30 euro al giorno con 30 minuti di spacco, il mio ruolo era bagnino ma tutto facevo tranne quello… e meno male che mai nessuno ha avuto bisogno del mio aiuto perché stava per affogare. Ma il punto bello di questo lavoro era che se pioveva non mi pagava! Dicendomi oggi piove, non guadagno, non ti posso pagare”. Un lavoratore stagionale di Rimini spiega i trucchi della busta paga: “Sulla carta vengono riportate le classiche 26 giornate di lavoro con retribuzione secondo il grado e la mansione ricoperta (con paga base e contingenza secondo ccnl) ma le voci in busta riportano meno ore (nonostante si lavori 7 giorni su 7 almeno 8-10 ore al giorno), no straordinari (sebbene nel turismo si facciano sempre straordinari), no festivi, il Tfr viene compreso nello stesso stipendio (quindi non esiste), no 13/14esima”.
I motivi per cui i lavoratori stagionali cominciano a ribellarsi sono, a nostro modesto avviso, più che evidenti. E non hanno niente a che fare con i sussidi e le altre cazzate con cui la cultura dei padroni (e dei loro giornali) ci ha rimbambito per anni. Viceversa ha dell’incredibile l’indignato stupore degli imprenditori: si aspettavano che dopo la crisi i lavoratori facessero a pugni per sgobbare gratis sotto il sole dei loro stabilimenti, magari solo per non farsi additare a giornali unificati come viziati fancazzisti? Prima o poi il gioco al ribasso sulla pelle degli ultimi dovrà finire: speriamo che il Covid possa servire almeno ad arginare la dilagante voglia di schiavitù che ha trovato a sinistra un terreno di crescita tanto fertile.
Fannulloni? Finalmente un’alternativa ai sussidi “facili” c’è: nascere milionari
C’è un nuovo format giornalistico, o se preferite una immensa onnipresente rubrica, che si potrebbe intitolare: “Ricchi che danno consigli ai poveri”. Si direbbe un argomento di gran moda, almeno a giudicare dalla pletora di imprenditori, amministratori delegati, presidenti, possidenti, rentier, che si alzano alla mattina e decidono – a volte spontaneamente, a volte interrogati – di gettare perle di saggezza a ragazzi che rischiano di guadagnare seicento euro al mese per anni, e forse per sempre. È come se uno, scendendo dalla Porsche, ti sgridasse col ditino alzato perché hai la bicicletta sporca di fango. La tiritera scema per cui preferisci stare sul divano invece che lavorare allo stesso prezzo (o meno) è ormai diventata una narrazione-macchietta. Sono leggende marcite in fretta, come quella del rider felice, o del precarissimo che “mi piace perché ho tanto tempo libero”. Propaganda padronale.
Però, siccome le parole sono importanti, ci preme rilevare due perle di saggezza (e di linguaggio, che svela moltissimo) di un famoso imprenditore (e bravissimo, a detta di tutti) che – parole dal sen fuggite – parla davvero chiaro. Testo (e musica!) di Guido Barilla, presidente della Barilla in persona, che segue la corrente del pensiero unico imprenditoriale e poi, voilà, “Rivolgo un appello ai ragazzi”. Ecco, è il momento topico del discorso, l’accorato appello, il consiglio paterno, il Verbo: “Abbiate la forza di rinunciare ai sussidi facili e mettetevi in gioco. Entrate nel mercato del lavoro, c’è bisogno specialmente di voi”.
Vediamo se un po’ di analisi del testo ci aiuta. Come sono i sussidi? “Facili”, ovvio. Buttata lì, senza parere, si dà per scontato il fatto che ti regalano i soldi, è facile. Un presidente, figlio e nipote di presidenti, non perde nemmeno un nanosecondo per pensare che se arrivi lì, a chiedere un sussidio (facile) per mangiare o avere un tetto sulla testa, significa che c’è una difficoltà. No, “è facile”, bon, discorso chiuso.
Altra chicca: “mettetevi in gioco”, che è un po’ una frase alla Paperon de’ Paperoni quando andò a cercare l’oro nel Klondike. Bello, eh, mettersi in gioco. Ai tempi de L’isola del tesoro significava imbarcarsi come mozzo su un brigantino, ottimo, molto romantico. Oppure significa: ehi, ho un milione, come lo investo? Capisco. Ma cosa ci sia da mettere in gioco nell’andare a fare turni assurdi per paghe ballerine, incerte, basse, a volte schifose e quasi sempre senza prospettive, non è dato sapere. Del resto, se le paghe fossero decenti (salario minimo, dove sei?), nessun imprenditore se la prenderebbe con i “facili sussidi”, cosa che invece accade se proponi come salario una cifra inferiore ai “facili sussidi”. Bene. Chi non “si mette in gioco” è dunque pigro, o pusillanime, o proprio una specie di fancazzista che vive alle nostre spalle, anche se manda decine di curricula e riceve in cambio offerte offensive. Questo sì, più che le avventure di Stevenson, è ottocentesco. È la vecchia storia della povertà come colpa, la disoccupazione come pigrizia, un sottinteso “guarda me che sono nato milionario, che ci vuole?”. E forse, letteratura per letteratura, si consigliano qui altre prose, quelle degli annunci per “mettersi in gioco”, la cui lettura spiega molto e indigna parecchio. Tipo “apprendista con tre anni di esperienza”, o “stagista con sei lauree”, o “part-time di 58 ore settimanali”, tutti ovviamente pagati tre ghiande e un bicchier d’acqua. Dài, andiamo, fidatevi, come non mettersi in gioco?
Sondaggi: al Pd lo zero virgola in più non basta
Appena visto un “clamoroso” 20,8 per cento di intenzioni di voto degli italiani per il Partito democratico, inopinatamente diventato, in seguito allo scivolamento all’indietro della Lega, il primo partito in Italia, il segretario Enrico Letta solennemente dichiara: “Il Pd è primo. Stare in questo governo ci fa bene” (titolo dell’intervista al Corriere della Sera il 13 giugno).
Molto sobriamente, senza festeggiamenti, anche i leader delle tre correnti del Pd, tutti e tre ministri, concordano. Guerini, Franceschini e Orlando al governo si trovano davvero a loro agio. C’è qualcuno, che si chiama Giorgia Meloni, che sostiene che anche all’opposizione si può stare molto bene. Infatti, Fratelli d’Italia è il partito che fa registrare la crescita maggiore in termini di intenzioni di voto, lanciata verso il sorpasso della Lega malamente di lotta non convintamente di governo.
Gli zero virgola di crescita del Pd non sono entusiasmanti, soprattutto se messi a confronto con le percentuali di aumento dell’approvazione del governo “personale” di Draghi. Quasi nessuno, neanche il loquace stratega di qualche tempo fa, ha osato dire che, comunque, con il 20,8 il Pd non va da nessuna parte. Per fortuna che il segretario ha lanciato la proposta non proprio innovativa di una Federazione di partiti/liste di sinistra che, oltre al M5S, dovrebbe dare un’occhiatina anche al centro. Purtroppo, lì c’è un’occupazione manu militari da parte di Italia Viva del Renzi e di Azione di Calenda. “Sfondare” non sarà facile, ma anche “assembrarli”, date le caratteristiche dei due, sembra un’operazione alquanto costosa!
Adesso, sostiene Letta, bisogna “aprire (con il cacciavite?) un cantiere per le Politiche”. Nel frattempo, nelle Amministrative è già successo un po’ di tutto, non governato da nessuno, da Torino a Roma, con i pentastellati, che sono, necessariamente, il referente senza il quale il Pd riuscirebbe a vincere in pochi comuni, ancora incerti anche su un minimo di convergenza. Dal canto suo, Conte, che, senza la convergenza sarebbe inevitabilmente destinato a un’opposizione nella quale emergerebbero i suoi avversari interni, ha fatto un bel regalo a Letta. Ha dichiarato che nelle primarie bolognesi auspica la vittoria del candidato ufficiale del Pd contro la sfidante, la (ex) renziana Isabella Conti, la quale proprio sola non è avendo sostegno anche dentro il Pd.
Non mi risulta che a Sciences Po insegnino ad aprire cantieri e immagino che Letta sappia guardare alle esperienze edilizie italiane, magari dimenticandole quasi tutte, soprattutto l’Unione del 2006, esempio massimo di come non si costruisce una coalizione. Eppure, la Francia almeno una lezione la può insegnare a tutti: quella dell’importanza del tipo di competizione politica e elettorale per incentivare forme di aggregazione fra forze non troppo distanti fra loro che sappiano convergere su un progetto. Quel che so è, senza nessuna ostilità preconcetta, che una legge elettorale proporzionale è lo strumento meno adatto a incoraggiare alleanze prima del voto e a premiare aggregazioni. Al contrario, ciascuno andrà a caccia dei suoi voti, poi, dopo la conta, si faranno i governi. Non sembra che Letta abbia un interesse particolare per le technicalities della legge elettorale. Meglio che faccia una riflessione approfondita. La materia è di tale importanza per ristrutturare il sistema dei partiti italiani, che bisogna che il segretario s’impegni per ottenere un esito positivo e duraturo.
Stare al governo con Draghi, non m’impelagherò nella discussione se Draghi fra sei mesi andrà al Quirinale, per il Pd è positivo anche nella misura in cui serve, compito nobile, a controbilanciare e contrastare la Lega. Tuttavia, Letta deve quantomeno interrogarsi se alla fin della ballata tutti i meriti andranno al capo del governo che, per fortuna, non cederà alla tentazione di farsi un suo partito anche se già sento stuoli di politici interessati ad imbarcarvisi. Quel cantiere che Letta vuole aprire e fare funzionare è il luogo nel quale le proposte da lui formulate finora senza nessun successo e con pochissima audience debbono essere riprese e rilanciate anche come parte della pallidissima identità del Pd. La tassa di successione mi pare del tutto opportuna. La legge sullo ius soli (oppure sullo ius culturae) è uno strumento importante di integrazione, non soltanto perché l’Italia ha bisogno di immigrati, meglio se giovani, ma perché suggerisce che tipo di Paese vogliamo essere. Avrei delle perplessità sul voto ai sedicenni, ma qualche modalità per coinvolgere i giovani nel mondo della politica e del lavoro mi sembra assolutamente indispensabile. Concludo drasticamente: al Pd fa bene stare al governo se riuscirà a ottenere qualche riforma sua. Il resto sono solo buone intenzioni (di voto).
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Lavoro, il vero scandalo è l’assenza di garanzie
Sarebbe il caso di finirla con la storia che, soprattutto i giovani, preferiscano starsene “sul divano” piuttosto che andare a lavorare, e la colpa di ciò, manco a dirlo, sarebbero i sussidi, come il Reddito di cittadinanza. Questa falsa verità è molto gettonata da media, imprenditori e politici, al punto che già si stanno valutando provvedimenti atti a “costringere” i recettori di tali sussidi ad accettare gli eventuali lavori che gli vengono proposti. Stiamo arrivando al totale disboscamento di ogni diritto e ogni garanzia che tutelano i lavoratori dipendenti. È senz’altro giusto che chi è in grado di farlo, lavori e non gravi sul bilancio statale, ma è ancora più giusto che il suo lavoro sia adeguatamente retribuito e gli siano fornite tutte le garanzie che la Carta costituzionale riconosce ai cittadini. Lo scandalo non è nei sussidi percepiti da chi non ha un reddito che gli consenta di vivere “in modo dignitoso”, ma nell’inaccettabile precarizzazione dei contratti di lavoro e nelle infime retribuzioni che i lavoratori sono costretti a percepire. I nostri “bravi” politici si mettano all’opera per rendere il mercato del lavoro un po’ meno sbilanciato, ridiano maggiori garanzie ai lavoratori dipendenti, introducano un salario minimo, intensifichino i controlli contro il lavoro nero e le mancate tutele antinfortunistiche sui luoghi di lavoro, e soltanto dopo comincino a pensare di limitare o, addirittura, togliere i sussidi a chi non accetta ricatti occupazionali.
Mauro Chiostri
Presidente De Luca, le scrivo da ormai 6 anni
Egregio Presidente De Luca, voglio credere che il Suo Ufficio Stampa svolga il proprio lavoro nel migliore dei modi, e dunque, da 6 anni a questa parte, Le abbiano sempre consegnato la Rassegna Stampa quotidiana, nella quale (lo so per mestiere) vengono fotocopiati anche i trafiletti; basta che compaia il Suo nome e cognome. Due sono le cose: o il Suo Ufficio Stampa non svolge correttamente il proprio lavoro, o Lei ha sistematicamente ignorato gli appelli che Le vado rivolgendo, ripeto, da 6 anni a questa parte. Vede Presidente, Le dico questo, perché mi appare inconcepibile che una cittadina, sì una, dopo aver coinvolto l’Universo Mondo delle Istituzioni locali, nazionali ed europee (non si meravigli; ho scritto perfino a David Sassoli), non sia riuscita a essere ricevuta nel suo Ufficio di Palazzo Santa Lucia. Ora sa Presidente, accuso una certa stanchezza. Molte volte ho pensato di gettare la spugna e di dire a me stessa “adesso basta”. Ma se Lei è una persona tenace, perseverante, pertinace, caparbia, ostinata, cocciuta, come mostra di essere, non farà fatica a comprendere che queste caratteristiche ti vietano di arrenderti e di rinunciare a un intento. Questa è la ragione per cui Lei può capirmi. Sono una Sua cittadina. Una cittadina onesta, civile, che lavora e paga le tasse fino al centesimo. Mi auguro che il Suo Ufficio Stampa faccia il proprio dovere, consegnandole questa lettera. Mi auguro che Lei risponda, come mi aspetto da una Persona dotata di valore etico. Cordiali saluti.
Giovanna Galasso
Lezioni di giornalismo: a risposta non si ribatte
Per la serie “le interviste inutili”: stamattina ho ascoltato a La7 gli ultimi 10 minuti dell’intervista al candidato sindaco di Roma, Michetti: alla domanda se trovasse giusto l’obbligo del vaccino, il Michetti rispondeva che la Costituzione vieta l’obbligo di vaccinare… qui aspettavo che la “brava intervistatrice” dicesse: “Ma almeno negli ospedali sarebbe giusto, per sensibilità verso il malato, che il personale fosse vaccinato?”. No, la giornalista non ha fatto questa domanda, né altre, e tutto è finito come la scuola del giornalismo inutile insegna: non disturbare il manovratore!
Lorenzetti Roberto
Mannelli e la citazione di Totò in prima pagina
La vignetta di Mannelli del 13 giugno è più di una volgarità. È stupida, una porcata. Marco Travaglio, dai una scorsa alla prima pagina del giornale?
Michele
La vedo ogni giorno e mi piace moltissimo. La “porcata”, come la chiama lei, è una citazione di Totò (“I due colonnelli”).
m. trav.
Di Battista e Movimento: torni in campo a lottare
La buona politica attiva non è sicuramente un mestiere, ma nemmeno una missione: chi decide di farla si accolla molti oneri e responsabilità. Questa mia lettera aperta ad Alessandro Di Battista è un invito a scendere in campo assumendo ruoli e responsabilità nel Movimento 5 Stelle, abbandonando definitivamente gli spalti. Alessandro è l’anima di una consistente parte degli elettori che si è identificata nei suoi ideali di legalità e di buona politica e hanno scelto di esprimere il loro voto a favore del Movimento nel 2018. Ma dopo aver vinto le elezioni Alessandro è ritornato sugli spalti lasciando il campo. Il mio è un invito a ritornare in campo attivamente. Certo, si può fare politica scrivendo libri, articoli sui giornali ma, poi, a governare sono gli altri. Lottare per i propri ideali dall’interno del Movimento che ha contribuito a fondare è più efficace che farlo da fuori, anche quando su alcuni temi ci si trova ad essere in minoranza. Nello sport i migliori sono sempre in campo e titolari, perché si vince sul campo. La tribuna e gli spalti sono gli spazi degli esperti, degli spettatori. Torna in campo, Alessandro.
Vito Coviello