Patrick Zaky “Oggi compie 30 anni in cella: almeno il calcio lo ‘festeggi’”

Spettabile Redazione del Fatto Quotidiano, sono un vostro lettore da diversi anni, da quando ero un ragazzo, mentre ora di anni ne ho 36 e vi scrivo dal mio paese, Medicina, in provincia di Bologna.

A Bologna ho frequentato le scuole superiori e l’Università come tanti, tantissimi altri ragazzi e da quando è iniziata l’ingiusta e tremenda detenzione di Patrick Zaky, ho da subito provato un sentimento di profondo interesse e preoccupazione nei confronti di questa vicenda.

Dopo la tragica esperienza di Giulio Regeni, tuttora orfana della verità e della giustizia che invece meriterebbe, perché il nostro Paese non solo non fa nulla di concreto, ma nemmeno prende una posizione in merito? Il premier Mario Draghi ha addirittura aggiunto – in riferimento alla richiesta di conferire la cittadinanza italiana a Zaky – che “quella su Patrick Zaky è un’iniziativa parlamentare in cui il governo non è coinvolto al momento”.

Perché, quando mai lo è stato, mi verrebbe da chiedere?

È possibile che gli interessi economici e gli equilibri geopolitici con l’Egitto ci permettano di sopportare e accettare le torture e l’uccisione di Regeni e la detenzione feroce e senza senso di Zaky?

Oggi la nostra Nazionale di calcio disputerà la seconda partita del Campionato europeo contro la Svizzera: sarebbe bello poter vedere una parola di conforto nei confronti di un ragazzo, uno studente egiziano dell’Università di Bologna, che proprio oggi compie trent’anni in un carcere in cui è detenuto ingiustamente.

Sarebbe bello vedere almeno attraverso lo sport italiano ed europeo, un richiamo sulla vicenda di Patrick Zaky.

Lo scrivo pur sapendo che nemmeno questa timida premura potrà essere messa in campo per questa triste storia: una storia di libertà rubata, negata, demolita e infine dimenticata.

 

Afghanistan: vent’anni di guerra, centinaia di migliaia di morti e Isis

“Lo sviluppo batterà i talebani, ecco perché restiamo a Kabul. L’Afghanistan è una specie di gigantesca miniera non ancora sfruttata. Stiamo parlando di risorse energetiche come petrolio o gas, ma pure oro, ferro, rame e litio. L’ovest sotto nostro controllo è un terreno vergine dove ci sarebbero molte risorse da verificare e da esplorare. I nostri soldati sono in prima linea e combattono un nemico, ma nell’Afghanistan occidentale anche grazie allo sviluppo stiamo già conquistando i cuori e le menti degli afghani” (Paolo Romani, quando era Ministro per lo Sviluppo Economico del governo Berlusconi).

“L’Italia via dall’Afghanistan” (Agenzia DiRE, 8 giugno 2021).

Gli Usa fecero guerra all’Afghanistan dopo l’11 settembre col pretesto che i talebani non consegnavano bin Laden; ma, come ricordava ieri Massimo Fini su queste pagine, i talebani non c’entravano nulla con bin Laden, al Qaeda e l’11 settembre. La verità è che agli Usa di Bush interessavano le condotte di gas e petrolio in Afghanistan, e l’Italia si accodò alla guerra (in barba alla Costituzione) perché è una provincia dell’Eni (Altre aziende italiane coinvolte nel progetto di costruzione di infrastrutture in Afghanistan: Terna, Enel, Trevi, società agroalimentari e della refrigerazione). Gli errori madornali furono: instaurare un governo corrotto e incapace; imporre una democrazia centralizzata e un’economia di mercato a un’antica società tribale; la pianificazione sconclusionata (Whitlock, 2019); e cercare di ricostruire l’Afghanistan facendo contemporaneamente la guerra ai talebani, che sono pashtun, la fazione principale del Paese (Fisher, 2001). Fra l’altro, i talebani sono nemici dell’Isis, sicché gli Usa, attaccando i talebani, favorivano l’Isis. Senza dimenticare le cappelle alla Jerry Lewis, tipo quella di far finire nelle mani dei talebani circa 2,16 miliardi di dollari stanziati per promuovere lo sviluppo in Afghanistan, attraverso i subappalti di otto ditte di trasporti afghane. Risultato di 20 anni di guerra: centinaia di migliaia di morti; il rafforzarsi dei talebani e dell’Isis; niente democrazia, né stabilità, né sicurezza (un mese fa, un attentato contro una scuola ha ucciso 80 studentesse a Kabul). Il tutto alla modica somma di 133 miliardi di dollari, che aggiustati all’inflazione sono più di quanto gli Usa spesero in Europa col Piano Marshall, e la Rai per il contratto a Fabiofazio. Li avessero dati a me, avrebbero fatto meno danni, e li avrei spesi meglio (avrei comprato la Rai per licenziare Fabiofazio; e il resto l’avrei dato a Emergency). Come si è arrivati alla disfatta? I prossimi cenni storici vi sbalordiranno non poco, se di solito vi informate leggendo gli articoli di Gianni Riotta. Non si stupirà invece chi ha letto qua dei fallimentari interventi Usa in Iraq, Siria, Libia, Yemen, Haiti e Somalia. “Non abbiamo un modello di stabilizzazione post-conflitto che funzioni”, ammette oggi Stephen Hadley, che era national security adviser sotto Bush.

1973: un colpo di Stato in Afghanistan detronizza il re Zahir Shah. 1978: il Partito democratico del popolo afghano (Pdpa), filo-sovietico, instaura la Repubblica democratica dell’Afghanistan, guidata da Mohammad Taraki; ma le riforme del nuovo regime (sovietizzazione, laicizzazione) generano malcontento nella popolazione. In questo contesto comincia a organizzarsi la resistenza islamica armata. 1979: la guerriglia islamica (sostenuta da Iran, Pakistan e Cina) controlla quasi l’80% del territorio afghano. Taraki viene ucciso. L’Urss invade l’Afghanistan. Gli Usa rispondono per le rime: a Washington esce in prima mondiale il film Star Trek.

(2. Continua)

 

Quel paradiso nell’armadio per Casellati

Il Paradiso può attendere, è la scontatissima battuta che gira a proposito delle turboambizioni quirinalizie della presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati e della presenza imbarazzante nel suo staff del funzionario di polizia poi finito agli arresti, Filippo Paradiso. Infatti, malgrado il banale contrattempo, MEAC non ha rinunciato un attimo a presenziare, proclamare, twittare, ex cathedra et urbi et orbi

. Sempre dalla parte del popolo: contro esperti e virologi che “hanno detto tutto e il contrario di tutto”. Multitasking: a proposito del Prix Italia e “dell’uso prudente dei media”. In sintonia patriottica con il pallone: “Grazie agli Azzurri che ci hanno restituito i sogni, le speranze, l’orgoglio. Viva i nostri ragazzi, viva l’Italia”. Indignata: “Chi sfrutta i bambini commette un crimine contro l’umanità”. Gran Pavese: “Auguri alla nostra Marina Militare, un’eccellenza che unisce la migliore arte della navigazione alle più nobili virtù militari”. Esperta del ramo Palamara e dunque ammonitrice: “Il tema della giustizia non può essere ridotto a uno scontro tra tifoserie. Mi auguro si apra una fase di riforme che metta fine a questa barbarie”.

Colpisce il diuturno prodigarsi a scudo delle istituzioni, la cura oseremmo dire materna verso i bisogni del Paese, l’attenzione sempre tesa al bene comune. Infaticabile, mai una pausa, ma pure Mille Miglia come dimostrano i 124 voli di Stato in 11 mesi. Non c’è dubbio, il profilo di MEAC sembra il più confacente a ricoprire i ruoli apicali, a scalare le supreme vette. Nei palazzi della Repubblica, del resto, è di casa incarnando Ella la Seconda carica dello Stato. Sempre vigile nel caso, Dio non voglia, la Prima necessitasse di una supplenza. E poi, diamine, sarebbe la Prima donna Presidente della Repubblica: come potrebbero le forze del Centro, e perché no della Sinistra, così sensibili alla parità di genere non sommare i propri consensi a quelli della Destra che già invocano MEAC sotto Palazzo Madama ? Come? Cosa? Dicono che per il Colle sarebbe in corsa anche la Guardasigilli, Marta Cartabia? Un’altra prima donna, prediletta da Mattarella e Draghi? Così prudente, silente, competente? Così predestinata? E senza Paradisi nell’armadio.

Ilva, il report del ministero: se riparte è danno sanitario

“Dalla presente valutazione emerge la permanenza di un rischio sanitario residuo non accettabile relativo a uno scenario di produzione di 6 milioni di tonnellate/anno di acciaio” da parte dell’ex Ilva. Lo hanno scritto i direttori generali di Arpa Puglia, Aress Puglia e Asl di Taranto nella lettera inviata al Ministero per la Transizione Ecologica per certificare che la salute di operai e abitanti del capoluogo ionico non sarebbe al sicuro se si raggiungesse l’obiettivo soglia di produzione (oggi è quasi la metà) di “Acciaierie d’Italia”, joint venture tra Arcelor Mittal e lo Stato italiano attraverso Invitalia.

La quota è stata stabilita dall’ultima autorizzazione concessa allo stabilimento ionico ma, come certificano gli ultimi studi, ha ulteriormente ferito l’ambiente e la salute dei tarantini. Alla missiva è infatti allegato lo studio condotto dalle agenzie pubbliche che non solo ha confermato quanto era già stato certificato in passato rispetto a inquinanti dannosi come il Benzene e il Benzo(a)pirene, ma – analizzando anche l’impatto di polveri (pm2,5 e pm10) e altri inquinanti come Mercurio, Rame e Naftalene – ha stabilito che in particolare al quartiere Tamburi il rischio non è accettabile. “Si osserva pertanto – si legge nel documento di Valutazione del Danno Sanitario – come già nella precedente esperienza condotta nel 2019, una convergenza dei risultati dei due approcci, tossicologico ed epidemiologico, che portano, per l’intera area, a raccomandare l’adozione di ulteriori misure finalizzate al contenimento dell’esposizione agli inquinanti considerati”. Gli esperti, insomma, ribadiscono che è “indispensabile” intervenire nello stabilimento siderurgico per procedere a “una riduzione dell’esposizione della popolazione residente per ricondurre il rischio all’interno di una soglia accettabile”. Per le polveri, in particolare, dalla Valutazione effettuata dopo la richiesta di riesame dell’Aia avanzata dal sindaco di Taranto Rinaldo Melucci, emerge la necessità di una riduzione drastica. Per il pm 2,5, il rischio diventerebbe accettabile se nel quartiere Tamburi, la borgata a pochi metri dalla fabbrica, l’esposizione si riducesse del 48%. Praticamente la metà. Per l’esposizione al pm10, invece, gli esperti certificano addirittura la riduzione percentuale del 64%.

Al ministero guidato da Roberto Cingolani, quindi, è stato chiesto di intervenire “almeno” per completare tutti gli interventi per contenere le emissioni. Interventi previsti già dal 2012, quando la magistratura sequestrò gli impianti per disastro ambientale. E a Cingolani ha scritto anche l’associazione ambientalista Peacelink, guidata da Alessandro Marescotti. “Signor ministro – scrive Marescotti – quanto le segnaliamo con questi dati è gravissimo e sarà nostra cura segnalare la nuova Vds anche alla Procura. Se non fermerete l’area a caldo – conclude l’ambientalista – sarete responsabili”.

Trovare nuovi insegnanti di sostegno? Senza fretta…

La scuola a settembre non inizierà allo stesso modo per tutti. È appena suonata l’ultima campanella ma sulla questione insegnanti di sostegno la Cisl lancia l’allarme: all’inizio dell’anno scolastico 2021-’22 avremo bisogno di novantamila docenti per i disabili, ma ci saranno solo circa quarantamila maestri e professori specializzati. Il resto, gli altri circa cinquantamila, saranno ancora una volta supplenti precari, in barba della continuità didattica tanto sbandierata da ogni ministro dell’Istruzione.

La questione riguarda soprattutto il Nord Italia dove il numero degli aspiranti in possesso del titolo di specializzazione presenti nella prima fascia delle cosiddette Gps (graduatorie provinciali per le supplenze) basta a coprire solo una minima parte dei posti disponibili. Tutti gli altri canali (Graduatorie a esaurimento e concorsi, compresi gli straordinari) sono di minima o nulla consistenza.

A pagare questa situazione saranno in primis i ragazzi della scuola secondaria di primo grado, che registra la minor percentuale di aspiranti rispetto ai posti da coprire. Una fotografia condivisa dal Movimento insegnanti di sostegno specializzati: “In questi anni – spiega il presidente Ernesto Ciracì – ho visto da parte della politica solo immobilismo. Non è stato fatto nulla. A settembre ci sarà il solito valzer di docenti; la scuola non inizierà per tutti; alcuni dirigenti inviteranno i genitori a tenere a casa l’alunno disabile in attesa della nomina del precario di turno”.

Nessuno punta il dito contro il neo inquilino di viale Trastevere, Patrizio Bianchi, ma a detta di Ciracì manca anche da parte di questo nuovo Governo una programmazione seria sui cosiddetti Tfa, il tirocinio formativo attivo, necessario per accedere ai concorsi. Una soluzione all’emergenza arriva dall’onorevole Vittoria Casa (5Stelle) che non nasconde una certa delusione nei confronti del governo di cui fa parte: “Il tempo è scaduto. Abbiamo migliaia di docenti già formati che hanno fatto un lungo e complesso percorso di specializzazione: hanno cioè sostenuto una prova selettiva, uno scritto, un orale e un tirocinio nelle classi. Proprio per questo a dicembre, in legge di Bilancio, ho presentato un emendamento a mia prima firma che permette al ministero di bandire procedure semplificate per l’immissione in ruolo di questi docenti in possesso del titolo di specializzazione. Basterebbe soltanto un decreto del ministro per aprire le procedure ed avere già a settembre docenti di sostegno di ruolo”. La partita sul sostegno è tutta legata a due nodi. Il primo: al Nord ci sono molti posti ma troppi sono scoperti. Al Sud ci sono pochi posti ma molti docenti specializzati. Un numero per capire: nelle scuole dell’infanzia del Sud si contano 401 posti e ci sono 10.938 docenti nelle Gps. Nelle scuole di primo grado del Nord si registrano 6.907 posti ma ci sono solo 988 maestri e prof in Gps.

Seconda questione: confrontando il numero dei posti vacanti e quello di chi sta frequentando il quinto ciclo di Tfa si ha ben chiaro come manchi una efficace e razionale programmazione dei percorsi formativi. Al Nord a fronte di 19.286 posti vacanti ci sono 3.210 studenti in tfa; al Centro su 7.113 cattedre vuote i tfa sono 5.970 e al Sud dove gli insegnanti specializzati mancanti sono 4.532, i posti in tfa sono 10.035. “C’è la necessità – chiarisce Attilio Varengo della segreteria nazionale della Cisl – di ridistribuire l’offerta formativa in maniera più omogenea. Super Mario Draghi non poteva risolvere nulla ma bisogna pensare alla formazione iniziale”.

La segretaria nazionale della Cisl non ha problemi a parlare di un “nuovo flop delle assunzioni” sulla questione sostegno: “Stando alle cifre che abbiamo analizzato – continua Lena Gissi – più che un rischio là si può considerare una certezza. Almeno per il sostegno, e soprattutto per le aree, già in forte sofferenza, del nord. È indispensabile che sul reclutamento si esca dalla logica degli interventi emergenziali e si ragioni di un sistema davvero efficace”. Dagli uffici del ministero di Viale Trastevere tornano a ribadire quanto già detto dal ministro: “Sia per i posti comuni che per il sostegno, è previsto un percorso concorsuale che prevede l’assunzione a tempo determinato di docenti abilitati e specializzati presenti nella prima fascia Gps che abbiano, oltre al titolo, anche almeno 36 mesi di servizio negli ultimi dieci anni: alla fine dell’anno di formazione dovranno sostenere una prova di fronte a una commissione esterna alla scuola dove hanno prestato servizio. In caso di valutazione positiva, saranno assunti a tempo indeterminato. Alla prima fascia Gps potranno iscriversi anche coloro che avranno completato il loro percorso di specializzazione sul sostegno entro il prossimo 31 luglio”. Sempre però con la stessa condizione: 36 mesi di servizio.

La “scuola d’estate” chiude d’estate. Niente classi a luglio e agosto

Il ministro dell’Istruzione, Patrizio Bianchi, ha parlato per mesi del Piano Estate per costruire “un ponte tra quest’anno e il prossimo”. Le famiglie e il mondo della scuola sono stati caricati di grosse aspettative. Nei fatti, però, più che un ponte, sembra di essere di fronte al salto del fosso con gli istituti che (dai progetti presentati e di cui il Fatto ha chiesto conto) pare siano concentrati più su primavera-autunno-Natale e perfino 2022.

Se molti istituti inizieranno infatti i corsi della “scuola estiva” già a giugno, come invita a fare il bando del ministero, in pochi finiranno a settembre, prima del suono della campanella. E moltissimi li concentreranno a inizio e fine estate, saltando completamente luglio e agosto.

Si tratta di una dinamica legittima: nonostante Bianchi continui a difendere il progetto dicendo che 6mila scuole hanno aderito, dei 510 milioni che sono stati stanziati, 320 sono dei Pon (Piani operativi nazionali) e quindi la loro spesa non è vincolata alla bella stagione. Inoltre, sono stati stanziati in favore di meno della metà delle scuole che hanno fatto domanda.

Partiamoda Rozzano, in provincia di Milano. Qui, ad esempio, una scuola primaria ha impostato tutto sulla Storia Infinita di Michael Ende “sul fatto – si legge nel programma – che è il momento di mettersi in gioco e ripartire per superare il nulla e il vuoto creato dalla pandemia, esattamente come il Nulla che stava distruggendo il regno di Fantasia”. Il modulo sui robot si svolgerà a giugno, poi ci sarà quello sullo sport dal 26 agosto al 1º settembre. Il resto è programmato per settembre: un laboratorio di lingua (da settembre), uno di “balli di strada” (sempre da settembre), uno di musica (settembre) e ancora arte, francese, robot, coding (sempre da settembre). Infine: attività di conoscenza e valorizzazione del territorio di Rozzano che si svolgerà addirittura “nel prossimo anno scolastico”.

“Noi partiamo subito, ma completeremo i moduli anche a settembre e nei mesi a venire”, spiega Paolo Farina, preside del Centro provinciale per l’istruzione degli adulti del comprensorio Barletta-Andria-Trani, mentre l’istituto comprensivo “Orsogna” di Chieti pensa di inserire i corsi previsti dal Piano durante l’anno scolastico: “In base alle richieste dei genitori, se non si farà tutto entro l’estate, amplieremo l’offerta formativa durante l’anno”, dice la dirigente Anna Maria Sirolli.

Le attività saranno svolte per la maggior parte all’aperto: didattica con sport, musica, arte, fotografia, teatro e cucina. In generale, le idee non mancano. Rosalba Rotondo, ad esempio, dirige il comprensivo “Ilaria Alpi – Carlo Levi” di Napoli, e ha anche fondato un’orchestra e un laboratorio di sartoria, dove gli studenti potranno unire la pratica coi saperi tradizionali. E poi ancora: green therapy, photo therapy e cinema all’aperto. “Porteremo i ragazzi nei luoghi dove hanno girato i grandi film come Parto da te, Avventura a Capri. Così conosceranno la loro città attraverso i film degli anni Settanta”, spiega.

Quasi 15 mesi, metà in classe e metà a distanza, hanno penalizzato soprattutto le materie legate all’arte e alla musica, discipline nelle quali i cinque sensi dovrebbero sempre essere in presenza. “Per recuperare le lezioni perse, abbiamo proposto dei moduli che comprendano la musica e il coro”, dice Viviana Mangano, dirigente reggente dell’Istituto a indirizzo musicale di Bella, in provincia di Potenza.

Margherita Ricciardi, preside dell’istituto “Muttoni” di Vicenza, ha già previsto che “la compagnia della Piccionaia si occuperà dei corsi di teatro, mentre la Società del Quartetto organizzerà dei corsi di percussioni e introduzione all’Opera”. Sul sito, alla voce “Piano Scuola” è coperto un periodo che va dal 12 al 25 giugno. Anche il piano estate della primaria “Battisti” di Mestre ha come limite temporale il 25 giugno.

Qualche altro dirigente, nei luoghi con un alto tasso di immigrazione, ha poi pensato di aiutare gli stranieri con l’italiano. Petronilla Romano, preside del “Bovio Colletta” di Napoli, spiega che la sua scuola ha organizzato dei corsi di recupero linguistico. Oltre al recupero sociale, alcuni istituti puntano anche a riscattare le zone abbandonate della città: “Vorremmo recuperare i giardini dei due plessi che abbiamo, dove poter svolgere attività all’aperto – spiega sempre Romano – e vorremmo trasformarli in orti urbani”. Integrazioni tra giugno e ottobre del 2021 ci spiegano invece dal Centro provinciale d’istruzione per adulti “A. Olivetti” di Torino. Che si porta addirittura avanti: “Gli altri saranno da giugno e luglio del 2022”.

A leggerli su carta, si tratta di tutti corsi molto utili per i ragazzi. Peccato, però, che siano stati organizzati in tutta fretta e tra mille peripezie. Il preavviso, lamentano alcuni presidi, è stato minimo. “La graduatoria è uscita qualche giorno fa e noi finiamo gli esami il 30 giugno – spiega la dirigente di Chieti, Sirolli –. Poi ci sono i collegi dei docenti e le sessioni di valutazione: la scuola non chiude mai. I tempi sono troppo ristretti: queste sono iniziative utili, ma in prospettiva del prossimo anno scolastico”. Inoltre, dopo un anno in didattica a distanza con mail a tutte le ore, gli insegnanti hanno forse meno voglia dei loro studenti di tornare a scuola in estate.

Secondo un primo sondaggio effettuato da alcune sigle sindacali, al progetto estivo aderirà solo il 20 per cento degli insegnanti italiani, complice forse anche un guadagno non troppo allettante: 35 euro lordi all’ora per un docente, 14,50 per un assistente amministrativo e 12,50 per un collaboratore scolastico (circa 7 euro netti all’ora). “Gli esperti esterni selezionati – ci spiega una preside – prenderebbero invece circa 80 euro l’ora”. I contratti per chi partecipa, poi, sono di collaborazione: il “ponte formativo” non viene calcolato come attività scolastica. E questo vuol dire che le ore non saranno spendibili al fine delle graduatorie. Un riconoscimento che gli insegnanti precari avrebbero apprezzato.

C’è infine il nodo che riguarda i presidi: non solo hanno dovuto ricorrere a esperti esterni e hanno dovuto spesso insegnare agli amministrativi come muoversi per partecipare ai bandi e presentare i progetti, ma su di loro resterà la responsabilità dei ragazzi nel corso di tutto il periodo di attività. Di conseguenza, tantissimi hanno preferito evitare. Altri, invece, non hanno potuto farli.

Per i fondi Pon, al ministero sono arrivate 5.888 candidature: 5.162 da scuole statali (8.054 totali in Italia). Alla fine, il ministero ne ha autorizzate 3.675 tra le statali, meno dunque della metà, mentre quasi il 60 per cento delle risorse sono state destinate alle regioni del Sud, quindi Sicilia, Campania, Puglia, Basilicata e Calabria, dove sono stati approvati tutti i progetti (anche perché i fondi Pon traggono parte della loro quota dai Fesr, che sono i Fondi per lo sviluppo regionale basati proprio sul Sud). I 150 milioni specifici, invece, sono stati distribuiti agli istituti in base al numero di alunni, per una media di circa 18 mila euro a scuola. Altri 40 milioni sono in arrivo, ma bisognerà vedere che cosa avranno intenzione di farne.

Destra B. lancia il “partito unico”, no di fdi e salvini

La sorpresa c’è solo per chi è lontano dalle questioni venete. Perché da quelle parti l’adesione del sindaco di Verona, Federico Sboarina, a FdI era nell’aria. Ciò non toglie che per Matteo Salvini e soprattutto Luca Zaia, sia un colpo durissimo, perché era stata la Lega a dare l’imprimatur alla sua candidatura, nel 2017. Ma il passaggio fa male, anche perché s’inserisce in una campagna acquisti che FdI sta portando avanti da tempo in Veneto, regione in cui i meloniani aumentano anche nei sondaggi.

Sul fronte del centrodestra, ieri si è registrato un altro appello di Silvio Berlusconi proprio a Meloni e Salvini. “Mi rivolgo a tutti gli alleati, da Lega a FdI: serve un partito unico”, ha detto il leader forzista. Invito respinto al mittente dagli alleati. In serata Salvini in tv dice “no al partito unico” che “non interessa a nessuno”. Freddi anche in FdI: “Sì a una collaborazione più stretta, ma per noi il partito unico non ha senso”, dice il responsabile dell’organizzazione, Giovanni Donzelli, uno dei fedelissimi di “Giorgia”.

Renzi il più detestato dagli elettori del Pd

Dall’essere il leader più amato – il segretario che doveva “rottamare” la vecchia nomenklatura dem e che nel 2014 portò il partito al 41% alle elezioni europee – all’essere il più odiato. In soli sette anni. Nel mezzo una scissione che ha portato via al Pd ben 50 parlamentari e soprattutto la decisione di aprire una crisi di governo e far cadere il Conte-2, appoggiato da Pd e M5S e ancora oggi molto popolare tra gli elettori dem. Secondo un sondaggio di YouTrend/Quorum commissionato dal gruppo dei senatori Pd e discusso mercoledì scorso in una accesa riunione, Matteo Renzi oggi è il leader più detestato dagli elettori dem. Viene apprezzato solo dal 10,4%, meglio soltanto dell’acerrimo nemico Matteo Salvini al 4,4%. Nella base del Pd il leader di Italia Viva invece non piace a 9 elettori su 10 (l’89,6%): a Renzi non viene perdonata la crisi del Conte-2 e la decisione di provare a rompere l’asse giallorosa alle amministrative, Roma e Bologna su tutti, tant’è che rispetto ad aprile il leader di Italia Viva perde quasi dieci punti dal 18,7 al 10,4% di oggi.

Nonostante sia stato il segretario del Pd dal 2013 al 2018 e presidente del Consiglio per quasi tre anni, gli elettori dem a Renzi preferiscono addirittura una leader che culturalmente non potrebbe essere più lontana, cioè Giorgia Meloni. La presidente di Fratelli d’Italia viene apprezzata dal 12,8% degli elettori Pd, due punti in più di Renzi. Che una parte della classe dirigente del Pd, soprattutto i senatori ex renziani di “Base Riformista” guidati da Andrea Marcucci che vorrebbero una federazione con Renzi, siano completamente sconnessi rispetto alla base del partito lo dimostrano anche le percentuali di fiducia nei confronti di Giuseppe Conte ed Enrico Letta: il primo, ex premier, viene apprezzato dal 73,3% degli elettori Pd in crescita da quando è diventato leader del M5S (+5,6%) mentre il segretario piace all’80,7% della base. Eppure, dato sorprendente, il leader più ammirato dalla base dem è un altro: il presidente del Consiglio Mario Draghi che riscuote la percentuale bulgara del 91,9%, in crescita di otto punti percentuali. Secondo la rilevazione di YouTrend, il partito più fedele all’attuale premier è proprio il Pd: il governo piace al 90,8% degli elettori dem, poco sopra l’87,2% di quelli di Forza Italia con più staccati i pentastellati al 78%. L’esecutivo invece piace al 70% della base leghista.

Il sondaggio, che ha fatto molto discutere il Pd spaccato tra gli ex renziani che vorrebbero tornare alla fantomatica “vocazione maggioritaria” e le altre correnti che invece appoggiano l’alleanza con il M5S, fornisce al partito altre indicazioni demografiche sull’elettorato dem: il Pd viene votato più da uomini che da donne (20,1 contro 17,9%), soprattutto over 55 (22,6%), in maggioranza disoccupati (26,8%) e pensionati (24,1%). Il Pd, invece, nonostante il tentativo di Letta, viene snobbato dai giovani tra 18 e 34 anni: solo il 14,9% dei ragazzi oggi voterebbe il partito.

Il muro di Gualtieri fa insorgere i grillini: “Favorisce la destra”

Ritrovarsi tra giallorosa dentro il Campidoglio sembrava difficile già prima, figurarsi adesso. Figurarsi ora, ringhiano i Cinque Stelle, dopo che ieri a Rainews il candidato del Pd Roberto Gualtieri ha sprangato la porta a eventuali patti con il M5S al secondo turno. Perché alla domanda se prevedesse apparentamenti al ballottaggio o l’ingresso di grillini in giunta, l’ex ministro ha replicato così: “No, non vedo spazi per apparentamenti. Noi andremo al ballottaggio e ci rivolgeremo anche agli elettori della Raggi”. E se è vero che Gualtieri non ha risposto esplicitamente sulla giunta, come fanno notare fonti dem, è altrettanto chiaro come non abbia lasciato varchi per future intese. Nessuno spazio, per spiragli che magari ora è prematuro annunciare ma che non era obbligatorio sigillare. E basta per irritare parecchi grillini. Perché è vero, parlare di eventuali accordi al secondo turno non piace neanche alla sindaca, Virginia Raggi. Ma nei 5Stelle anche a Roma c’è chi lavora da settimane per smussare gli angoli più evidenti, ben sapendo che la rotta del nuovo Movimento di Giuseppe Conte porta lì, nel centrosinistra.

Per questo i possibili sminatori non hanno gradito. “Gualtieri ha parlato così perché ha paura che Calenda gli tolga voti tra i moderati” è la lettura stizzita. Sufficiente per rappresentare il capo di Azione come la pietra d’inciampo tra i giallorosa, visto che a Torino il vincitore – a fatica – delle primarie dem Stefano Lo Russo lo ha subito evocato come l’alleato da recuperare assieme a Matteo Renzi, mentre i due candidati sconfitti Pd Tresso e Lavolta hanno un’altra idea, ricucire in qualche modo i 5Stelle. Ergo, ora sulla linea i dem torinesi rischiano di esplodere. Rischio che a Roma non si coglie.

Casomai a suscitare ansia è la partecipazione alle primarie di domenica, dove Gualtieri sarà il vincitore ampiamente annunciato. Perché dopo gli 11.651 votanti di Torino la paura del flop anche in riva al Tevere si è fatta solida. “Ma Roberto non è affatto preoccupato da Calenda, ci mancherebbe” assicurano voci del Pd. Però il disappunto per il suo no ai 5Stelle è evidente, nel Movimento. E a raccontarlo è il deputato romano Francesco Silvestri, cinghia di trasmissione tra il M5S nazionale e il Campidoglio: “Le parole di Gualtieri, peraltro nel giorno in cui Conte è andato a sostenere il candidato del Movimento e del Pd a Napoli, non hanno fatto certamente piacere. L’ex ministro pare risentire di un complesso nei confronti di Calenda, ma con questa preclusione nei confronti del Movimento insegue la propaganda contro la Raggi e così favorisce il ritorno al potere della destra, che sarebbe un disastro”. Sarà, ma neppure il M5S parla apertamente di accordi futuri, no? E poi Gualtieri domenica ha le primarie… Obiezioni cui Silvestri risponde così: “Il Movimento e la sindaca hanno rimandato ogni discorso alla conclusione del primo turno, perché ora i romani vogliono conoscere i programmi, ossia cosa si vuole fare per loro, e non chi ci si vuole accordare. In questa fase non mostrare preclusioni ideologiche è una manifestazione di intelligenza e di attaccamento verso la città. Eppure è un atteggiamento che il Pd non sta tenendo”. Il M5S, insomma, vorrebbe rimandare ogni discussione sul secondo turno. “Noi – conclude il deputato – siamo concentrati sulla riqualificazione di interi quartieri, come San Basilio”. E in mezzo c’è una campagna elettorale in cui si vorrebbe evitare lo spargimento di sangue tra giallorosa, ammesso che sia possibile.

In questo scenario, i 5Stelle hanno ormai pronta la nuova piattaforma. Come anticipato dal Fatto, i voti degli iscritti saranno gestiti con Sky Vote, sistema elaborato dalla società Multicast. Mentre i dati degli iscritti saranno gestiti con il software Odoo, dell’azienda viterbese Isa. Ed è la messa in pratica dell’obiettivo spiegato dal reggente Vito Crimi: scorporare servizi e funzioni che prima erano accentrati in Rousseau, la piattaforma di Davide Casaleggio.

Conte fa il capo e a Napoli i 5S si “annettono” il dem Manfredi

L’ultima di Giuseppe Conte a Napoli era stata il 27 febbraio 2020, con Macron. Da premier, poco prima di chiudere l’Italia invasa dal coronavirus. È tornato ieri da rifondatore e pacificatore dei Cinque Stelle, per aprire nuovi orizzonti all’alleanza col Pd: oggi sulle amministrative di Napoli e sul nome dell’ex rettore della Federico II Gaetano Manfredi, un domani da estendere forse alla Regione Campania del sanguigno, e finora ostile, Vincenzo De Luca. “Si vedrà”, ha tagliato corto Conte sul punto. Non è un no. Se Manfredi dovesse vincere, si potrebbe fare. E sei anni di guerre feroci al deluchismo andranno in archivio come gli insulti pentastellati ai dem di Bibbiano.

Conte a Napoli ha calato il tris – con lui, muti in conferenza stampa, il presidente della Camera Roberto Fico e il ministro degli Esteri Luigi Di Maio – inseguendo un doppio obiettivo: intestare a sé e al nuovo Movimento la candidatura a sindaco di Manfredi, e provare a ricucire coi ribelli napoletani che di alleanze col Pd non ne vogliono nemmeno sentire parlar, così da mostrarsi capo. Anche ai territori, con cui vuole cementare il rapporto anche tramite la nuova struttura, con appositi referenti per macro-aree territoriali.

Ma ieri il cuore della giornata è stato ovviamente Manfredi, del quale un giorno si scrive che è il candidato civico e un altro giorno che è il candidato dem (non si ha un fratello ex parlamentare Pd per caso), per la verità da politico è principalmente un ex ministro del Conte 2. Scelto personalmente dall’allora premier senza passare dalle segreterie dei partiti. Il cappello dei Cinque Stelle non stonerebbe sulla sua fronte.

L’altro fronte è complicato. Si è visto un cartello “no alleanze” con il logo dei Cinque stelle a pochi metri dall’ingresso dell’hotel della conferenza stampa di Conte e Manfredi. Non si sono visti i leader della protesta e della volontà di disconoscere questo accordo, l’ex candidato sindaco e consigliere Matteo Brambilla e la consigliera regionale Maria Muscarà. Si è vista l’altra ribelle, la terza leader, la consigliera Marta Matano, nei paraggi di piazza Bellini. Si è lamentata della mancata condivisione delle scelte sulle comunali. Ha incrociato Conte per pochi secondi e l’agenzia Vista ha colto l’attimo fuggente. “Quindi siccome non l’hai scelto tu non lo sostieni? Amica cara – le ha detto Conte – la vita funziona anche così, bisogna essere pratici. Cosa dovevamo fare, bloccare tutto? È ragionevolezza”. Poco prima in conferenza era stato tranchant: “Il Movimento è unito, se qualcuno parla a titolo personale è perché ha una personale opinione fuori dal progetto Napoli”. Precisando: “Le voci dissenzienti? Ci può stare, ci mancherebbe, non siamo una forza politica bolscevica. Ma è chiaro che il Movimento sposa questo progetto politico. Su Manfredi c’è la più ampia condivisione. Quando si è atterrati sul nome di Manfredi abbiamo pensato che fosse l’interprete giusto in termini di competenza”. Se vittoria sarà, è pronta l’inversione a U dei rapporti tra Napoli e le istituzioni. Conte e Manfredi, senza nominarlo, ce l’hanno con il sindaco Luigi de Magistris quando dicono “che negli ultimi anni la più grande malattia di Napoli è stata l’isolamento”.

Ora è la stagione dei rapporti. Con la Regione di De Luca, con il governo. È la stagione della ragionevolezza, per l’appunto, che dovrebbe caratterizzare il nuovo M5S targato Conte: alleanze solide di centrosinistra dove ci sono le condizioni – Napoli è l’unica grande città dove si è realizzata – e riflessioni su argomenti che una volta erano tabù. Come le intese con il Pd e De Luca, o come il divieto di terzo mandato, che ormai ha i giorni contati.