“L’Italia ha pagato l’India, ma per cosa? Nessun risarcimento era dovuto, perché Latorre è innocente. E vuole essere processato dalla magistratura italiana in modo che lo si attesti”. L’avvocato Fabio Anselmo annuncia “dichiarazioni inedite” pronte per essere consegnate sulla scrivania del pm romano Erminio Amelio, da parte dei due marò. La Procura capitolina, infatti, riprenderà entro l’estate l’inchiesta “congelata” sul presunto omicidio volontario di cui sono accusati i due marò italiani, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, in relazione ai noti fatti del 15 febbraio 2012 al largo della costa del Kerala, quando due pescatori indiani persero la vita in circostanze mai chiarite del tutto. Di ieri la notizia che la magistratura indiana ha definitivamente chiuso il caso, anche in virtù del pagamento – spiegano i media indiani – da parte del governo italiano, di circa 1,1 milioni di euro “come indennizzo a vantaggio delle famiglie dei pescatori uccisi”. Circostanza in realtà mai confermata – ma neanche smentita – da Roma. Fonti della Farnesina ieri hanno spiegato al Fatto che non risulta il pagamento con soldi usciti dalle casse del ministero. In ogni modo, ora può entrare in azione la magistratura italiana. “Ringraziamo le istituzioni italiane per lo sforzo, anche economico – sottolinea Anselmo – ma se quella somma rappresenta un risarcimento, diciamo che nessun indennizzo era dovuto, perché Latorre non è colpevole di nulla”. Nelle prossime settimane il pm Amelio convocherà Latorre e Girone per interrogarli. I verbali andranno a rimpinguare le oltre 100 pagine del fascicolo acquisito dal Tribunale Internazionale dell’Aja. Entro l’anno potrebbe arrivare anche l’avviso di conclusione indagini.
Fuga di notizie Eni-Nigeria, ecco gli ispettori. Il pm Storari: “Non volevano toccare Amara”
Si muove anche il ministero della Giustizia, attorno al caso Eni-Procura di Milano. Il ministero di via Arenula ha avviato un’inchiesta amministrativa sul processo Eni-Nigeria: ha chiesto ai suoi ispettori di svolgere accertamenti preliminari e di acquisire i documenti necessari a ricostruire i fatti. Il caso, com’è ormai noto, è scoppiato con l’uscita dalla Procura milanese di alcuni verbali segreti in cui un testimone, l’ex avvocato esterno dell’Eni, Piero Amara, raccontava dell’esistenza di una fantomatica loggia segreta denominata “Ungheria”.
Indagato per la fuga di documenti è il pm di Milano, Paolo Storari, che ha consegnato copie informali dei verbali a Piercamillo Davigo, allora componente del Csm. Per questo Storari è sotto indagine davanti alla Procura di Brescia. Ai magistrati bresciani, Storari ha spiegato di aver chiesto a Davigo aiuto, in opposizione ai colleghi della Procura che a suo dire erano stati inerti nelle indagini sulla loggia e troppo propensi a credere ad Amara e a Vincenzo Armanna, ex manager Eni e testimone nel processo Eni-Nigeria.
Nei due interrogatori di maggio davanti ai pm bresciani, Storari afferma di aver chiesto – invano – al procuratore Francesco Greco e all’aggiunto Laura Pedio di poter effettuare, su Amara e la misteriosa loggia di cui parlava, le prime iscrizioni nel registro degli indagati e la raccolta di tabulati telefonici a riscontro delle sue parole. Intanto Greco e Pedio a gennaio 2020 portavano alla Procura di Brescia lo stralcio di un interrogatorio di Amara in cui si sosteneva (de relato) che gli avvocati di Eni erano in grado di “avvicinare” Marco Tremolada, il presidente del collegio che stava giudicando Eni e i suoi manager per il mega-affare petrolifero Opl 245 in Nigeria. Sul caso, a Brescia, è stato aperto un fascicolo, poi chiuso. Oggi quella Procura indaga su Storari per fuga di notizie, ma anche sui pm del processo Eni-Nigeria, Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, accusati da Storari di non aver fatto entrare nel processo documenti che minavano la credibilità di Armanna e di Amara e che potevano favorire la difesa. Secondo Storari, la Procura non voleva “toccare” con le indagini Piero Amara, perché doveva essere convocato al processo Eni-Nigeria e gli accertamenti sui profili di calunnia per le sue dichiarazioni sulla loggia Ungheria dovevano rimanere fermi per non comprometterlo come teste.
Piano Stellantis: Melfi a rischio ridimensionamento
All’incontro di ieri con i vertici di Stellantis, sindacati e governo sono riusciti a tirare fuori giusto qualche anticipazione sul futuro dello stabilimento lucano di Melfi. E queste lasciano presagire luci e ombre. Ma, come al solito, l’incontro non è sceso nei particolari a tal punto da poter già rassicurare i lavoratori su quello che succederà. Quindi toccherà aspettare, specialmente per i dipendenti sparsi negli altri siti italiani. Per il momento si sa che quella in Basilicata sarà la prima fabbrica a ricevere nuovi modelli nell’ambito del prossimo piano industriale, quello previsto per dopo il 2022, il primo post fusione tra Fiat Chrysler e Psa. Per l’esecutivo c’erano i ministri del Lavoro Andrea Orlando e dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti; per Stellantis Davide Mele, deputy della regione Enlarged Europe, e Pietro De Biasi, responsabile delle relazioni industriali.
A Melfi, quindi, nel 2024 arriveranno quattro vetture elettriche di segmento medio e la produzione resterà la stessa attuale, ovvero 400 mila macchine all’anno, ma a cambiare radicalmente sarà l’organizzazione: non più due linee, ma solo una potenziata. Come ha spiegato la Uilm, “la concentrazione su una sola linea porta, a parità di produzione, un minor utilizzo di personale per circa 700 persone”. Gli effetti sull’occupazione, insomma, non sono ancora stati affrontati. Anche la segretaria Fiom Francesca Re David ha posto l’accento sulla questione: “Positivo che l’azienda dica che anticipa su Melfi un pezzo di piano industriale – ha detto all’uscita – ma bisogna valutare che significa fare di due linee una più complessa perché per quanto ci riguarda non può avere effetti sull’occupazione”. Oggi a Melfi – dove si producono Renegade, Compass e 500X – c’è molta cassa integrazione, mista con le ferie lunghe. Nessuna indicazione è venuta sulla possibilità di portare la gigafactory di batterie a Torino.
L’emendamento (bloccato) del M5S che smonta il Rdc
Stavolta a ingolosire ristoratori e albergatori era stato lo stesso Movimento 5 Stelle. Un emendamento al decreto Sostegni bis – proposto dalla deputata Valentina D’Orso (e in formulazioni simili dalla collega grillina Marialuisa Faro e da Manuela Gagliardi di Cambiamo) – avrebbe obbligato chi percepisce il Reddito di cittadinanza ad accettare lavori stagionali entro 100 km dalla residenza, pena la decadenza, anche a fronte di offerte di retribuzione inferiori al sussidio. In questo caso, l’Inps avrebbe pagato la differenza, mentre l’assegno pieno sarebbe stato ripristinato a fine contratto. Le imprese avevano ovviamente gradito, come testimonia la grande eco ottenuta dall’emendamento sulla grande stampa: purtroppo per loro, è stato però dichiarato inammissibile.
Se approvato, la norma D’Orso avrebbe cambiato alla radice la legge sul Reddito di cittadinanza. Oggi i percettori devono infatti accettare offerte se il contratto è di minimo tre mesi e la paga di almeno il 20% superiore all’importo massimo (quindi l’inaudita cifra di 858 euro al mese). La proposta della 5Stelle, “ferma restando la valutazione circa le esperienze maturate”, avrebbe imposto di accettare lavoretti anche per periodi più brevi e stipendi più bassi persino del Rdc, che in quel caso sarebbero stati integrati dallo Stato: in sostanza, un trasferimento diretto alle imprese. La deputata ha precisato che paghe molto basse possono trovarsi quando il “numero di ore lavorate è troppo esiguo”. Nel turismo e nella ristorazione però, tipici lavori stagionali, spesso il basso numero di ore dichiarate nasconde in realtà turni full time.
Peraltro la narrazione per cui chi percepisce il Reddito di cittadinanza non accetta lavori stagionali è basata su un falso mito: tra aprile 2019 e ottobre 2020, oltre 48 mila percettori hanno lavorato nelle attività di alloggio e ristorazione, altri 44 mila hanno avuto contratti nell’agricoltura. Solo non a stipendi da fame.
“Torzi ricattò il Vaticano davanti al Papa” Il broker vide Bergoglio dopo la “truffa”
Nemmeno i due incontri ravvicinati alla presenza “solenne” di Papa Francesco fecero desistere Gianluigi Torzi dalle sue “modalità ricattatorie” nei confronti della Santa Sede. Ne sono convinti i giudici del Tribunale di Roma, che hanno bocciato il ricorso al Riesame del broker molisano. L’imprenditore, accusato dalla Gendarmeria vaticana di “truffa” e “ricatto” per la complessa vicenda dell’acquisto di un edificio di Sloane Square, a Londra, secondo le testimonianze incontrò il Pontefice il 22 e il 26 dicembre 2018. Ma anche in quel caso, secondo i giudici, “rifiutava di sottoscrivere la dichiarazione di impegno” per ritirare le sue pretese derivanti dal contratto totalmente svantaggioso per il Vaticano, frutto di “truffa” per gli inquirenti d’Oltretevere. Torzi, che inizialmente pretendeva 5 milioni dalla Santa Sede, arrivò a chiedere 20 milioni dopo l’incontro col Papa, fino ad attestarsi ai 15 milioni che, secondo la Procura di Roma, avrebbe poi “riciclato” investendo sul mercato italiano.
Protezione civile, Lady Gabrielli viene promossa a vice di Curcio
Nel 2017 se n’era andata senza troppi rimpianti scegliendo l’esilio volontario all’ufficio del Servizio civile dopo anni passati a sgobbare nell’ombra appresso alle emergenze. Ma adesso Titti Postiglione tornerà a casa e dal portone principale: come vice di Fabrizio Curcio, diventato comandante in capo della Protezione civile a febbraio dopo la defenestrazione di Angelo Borrelli. Decisa senza troppi complimenti dal presidente del Consiglio Mario Draghi su suggerimento di Franco Gabrielli che stravede per Curcio e a maggior ragione per Postiglione. Che dell’attuale sottosegretario con delega ai Servizi già capo della Polizia è stata collaboratrice di assoluta fiducia quando era al vertice Dipartimento di via Ulpiano. Da giugno 2017 è diventata anche sua moglie.
Il 2017 è stato un anno di svolta non solo per i coniugi Gabrielli e in particolare per Titti Postiglione, che nel giro di poche settimane aveva impalmato il suo ex capo e se ne era andata dal Dipartimento. Ma anche per Fabrizio Curcio che ad agosto di quell’anno aveva dovuto improvvisamente lasciare per motivi familiari la Protezione civile. Ora sono di nuovo in squadra grazie all’interpello che ha premiato la Signora delle emergenze che nella corsa per il posto di vicecapo dipartimento ha stracciato la concorrenza, a leggere le carte: nessuno tra i dirigenti di prima fascia della presidenza del Consiglio (da cui in prima battuta si doveva pescare per l’attribuzione dell’incarico) è risultato avere il curriculum o le attitudini giuste. E così il dipartimento ha potuto vagliare anche le manifestazioni di interesse presentate dai dirigenti di seconda fascia come Titti (Immacolata) Postiglione che si è proposta per l’incarico e, detta in burocratese stretto, “è stata positivamente individuata per il suddetto incarico”.
Bari, muore un 54enne dopo Johnson&Johnson
Aveva ricevuto il vaccino Johnson&Johnson il 26 maggio Alessandro Cocco, 54enne di Roma morto nella serata di ieri al Policlinico di Bari. Per giorni i medici del Reparto di Rianimazione guidati dal professor Salvatore Grasso hanno tentato di salvarlo, ma le sue condizioni erano apparse critiche fin dal momento in cui era stato ricoverato. Tutto era cominciato il 10 giugno, 11 giorni dopo l’inoculazione del vaccino a vettore virale come Astrazeneca che alcune regioni come Piemonte e Campania hanno scelto di non offrire agli under 60. In Puglia, però, la decisione di limitare l’uso di alcuni vaccini è stata adottata, alla luce delle nuove raccomandazioni del Cts, solo il 12 giugno. Cocco, residente a Rutigliano in provincia di Bari, aveva ricevuto la sua monodose in un hub di Alberobello, la capitale dei trulli. Giovedì scorso aveva accusato i primi malori e si era recato all’ospedale “Miulli” di Acquaviva: gli esami avevano evidenziato una trombosi venosa periferica e alcuni valori alterati delle piastrine nel sangue.
L’esito di quegli esami era lo stesso evidenziato in altri casi analoghi verificati dopo l’iniezione di vaccini a vettore virale. I medici gli avevano somministrato l’eparina, ma stando alle prime notizie, non avrebbero disposto il ricovero per il 54enne. Cocco, quindi, è tornato a casa, ma il giorno successivo le sue condizioni sono peggiorate e così si è recato al Policlinico di Bari, dove il personale sanitario ha immediatamente preso coscienza della gravità della situazione. Le condizioni dell’uomo, infatti, sono apparse fin da subito particolarmente gravi a causa di una trombosi cerebrale. Il quadro clinico con il passare delle ore è poi precipitato: Cocco è stato così trasferito nel reparto di Terapia intensiva.
Alla Gazzetta del Mezzogiorno, il professor Grasso aveva spiegato che “il paziente è giunto con una situazione trombotica poi degenerata in un danno importante a livello cerebrale. Non risultano patologie pregresse, anche se purtroppo spesso i deficit della coagulazione non si manifestano clinicamente, ma magari si evidenziano solo quando c’è un fattore di rischio. A volte – ha spiegato il primario – se ne viene a conoscenza solo quando ci si i sottopone a interventi chirurgici e comunque dopo l’esecuzione di esami specifici”.
Poco dopo l’uomo è stato colto da un’ischemia e lo staff del Policlinico ha segnalato all’Agenzia italiana del farmaco il “sospetto evento avverso di tipo ischemico, verificatosi in periodo successivo a vaccinazione”. Alle 13.30 di ieri i medici hanno accertato l’assenza di segnali di vita all’encefalogramma, dichiarando la morte celebrale e dando il via alla procedura prevista dai protocolli che si è conclusa solo in serata quando è stata definitivamente accertata la morte del 54enne.
Il 18 giugno Cocco avrebbe sposato Milena Palumbo, 35 anni di Rutigliano e direttore editoriale della casa editrice “NeP” di cui Cocco era fondatore ed edita libri di poesia, narrativa, opere scientifiche, testi didattici, scritti di saggistica, biografie e testi storici.
Figliuolo: “A giugno 1 mln di dosi”. Altro annuncio a vanvera
Nonostante le incognite che pesano sulla campagna vaccinale – dopo la decisione del ministero alla Salute e dell’agenzia nazionale del farmaco di ricorrere al mix vaccinale per gli under 60 che hanno ricevuto la prima dose del siero Vaxzevria di AstraZeneca – il commissario all’emergenza Francesco Paolo Figliuolo decisamente non sembra perdere la fiducia. “Questo è il momento di stare uniti, di stringerci a coorte”, dice. Invito rivolto ieri agli “italiani, che non devono farsi frastornare ma devono continuare a vaccinarsi”. Si, perché con le Regioni, assicura il generale, è in corso la riprogrammazione delle somministrazioni, “dando supporto nelle riprenotazioni e andando a bilanciare con riserve strategiche” dei vaccini Pfizer e Moderna, i due sieri basati sull’Rna messaggero attualmente disponibili. Tanto che il piano – vale a dire coprire l’80% della platea dei vaccinabili entro settembre, come promesso – a sentire Figliuolo è ancora fattibile, anche se non dovessero arrivare quantitativi aggiuntivi di vaccini rispetto alle 54,5 milioni di dosi attese da qui all’inizio dell’autunno. A dire il vero, negli ultimi giorni la campagna vaccinale sembra aver perso un po’ il ritmo. Rallentamento anche inevitabile, dopo l’ennesima giravolta sul vaccino anglo-svedese.
Sta di fatto che la “spallata” pronosticata per il mese di giugno ancora non c’è stata: 614.812 somministrazioni giovedì scorso, poi via via a scendere progressivamente, fino ad arrivare alle 512.399 dell’altro ieri. L’11 maggio, intervistato da La Stampa, Figliuolo aveva detto: “Il mio obiettivo è superare le 500 mila somministrazioni al giorno entro giugno”. Obiettivo raggiunto. Il quotidiano però titolò: “Vaccini, giugno il mese clou, con medici di base e farmacie un milione di dosi al giorno”, titolo ripreso da agenzie di stampa e altre testate senza mai essere smentito. Anzi. Lo stesso Figliuolo aveva poi calcolato che con “circa 43 mila medici di famiglia”, se ognuno avesse fatto dieci vaccinazioni al giorno se ne sarebbero ottenute quotidianamente 430 mila in più. Stesso ragionamento per i farmacisti: altre 100 mila, che si sommavano alle somministrazioni assicurate dalle aziende sanitarie.
Ma poco o nulla sta procedendo come Figliuolo aveva pronosticato. E non solo perché non tutta la platea dei medici di famiglia ha aderito al protocollo nazionale siglato con il governo e poi seguito a cascata dagli accordi regionali. “È evidente che la potenzialità di fare otto o dieci vaccinazioni al giorno c’è – spiega Silvestro Scotti, segretario nazionale della federazione dei medici di medicina generale –, ma nella realtà tutto procede ancora sulla base dell’occasionalità: ogni settimana ci dicono che ci riforniscono di vaccini ma poi vengono aperti nuovi hub che assorbono le scorte a disposizione”.
Il problema, dunque, resta quello della distribuzione. “Per ora – prosegue Scotti –, non siamo nelle condizioni di programmare una campagna vaccinale seria. È così in tutte le regioni, tranne che nel Lazio, dove adesso è operativa una piattaforma sulla quale è possibile fare la prenotazione della vaccinazione dal proprio medico di famiglia: ovvio che in quel caso le dosi vengono messe a disposizione”.
Passiamo ai farmacisti. Anche in questo caso che le cose non stiano andando come auspicava Figliuolo è confermato dal fatto che solo dodici Regioni hanno già recepito il protocollo nazionale siglato nel marzo scorso con le associazioni di categoria. Dall’Emilia-Romagna al Friuli-Venezia Giulia per arrivare alla Sicilia, gli accordi sono ancora in via di definizione. Dei 18 mila farmacisti associati a Federfarma, hanno aderito in 11 mila. Altri 1.500 circa sono quelli di Assofarm, a cui fanno capo le farmacie comunali. Ancora una volta la macchina si inceppa con la distribuzione. “Potremmo fare 20-25 vaccinazioni al giorno e, solo per fare un esempio, nel Lazio siamo fermi a 25 alla settimana”, dice il segretario nazionale di Federfarma, Roberto Tobia. “Noi siamo pronti – aggiunge Tobia –. Ma è chiaro che dobbiamo aspettare che ci mettano nelle condizioni di poter contribuire. Il problema è l’approvvigionamento”.
I medici contro Aifa e governo: “Mix vaccini, troppa incertezza”
L’affondo è durissimo. Il potente capo della Fimmg, Silvestro Scotti, che rappresenta la maggior parte dei 45 mila medici di famiglia, chiede di mandare a casa la Commissione tecnico scientifica dell’Aifa, l’Agenzia del farmaco. “Il caso AstraZeneca – dice – mostra tutta l’inefficienza di questa Commissione”. Per Scotti “è inaccettabile la vaghezza con cui l’Aifa si esprime in merito al mix vaccinale” anti-Covid, cioè il richiamo con Pfizer/Biontech o Moderna per gli under 60 che hanno avuto la prima dose di AstraZeneca, ordinato l’11 giugno dal ministero della Salute dopo il parere del Comitato tecnico scientifico, che ovviamente ha solo lo stesso acronimo della Cts dell’Aifa.
È la vaccinazione “eterologa” contestata da Vincenzo De Luca, presidente della Campania, che però ieri ha fatto dietrofront dopo le spiegazioni del ministero della Salute. Resta aperto il tema di Janssen (Johnson & Johnson), altro vaccino a vettore virale, monodose, che è stato somministrato meno ma negli Usa ha avuto un discreto numero di effetti avversi gravi. C’è solo una “raccomandazione” a limitarlo agli over 60: alcune Regioni la seguono (Piemonte, Puglia, la stessa Campania e non solo), altre come il Lazio no. Federfarma, che continua a somministrarlo anche ai giovani nelle farmacie, ha chiesto chiarimenti al ministero. Arriveranno. La questione è delicata anche per gli interessi di Massimo Scaccabarozzi, numero uno di Janssen Italia e di Farmindustria.
L’altroieri il “mix” di vaccini, già praticato in Germania, Spagna e altrove e validato dai primi studi condotti anche nel Regno Unito, ma ritenuti “quantitativamente insufficienti” da molti esperti, è stato sdoganato dall’Aifa. “Chi si prende la responsabilità? – chiede Scotti –. Il medico? Il cittadino? La Regione? Da un ente regolatorio mi aspetto una regola definita. In un Paese normale sarebbero state chieste le dimissioni”. Gli dà manforte, con toni più pacati, Filippo Anelli, presidente della Federazione degli Ordini dei medici: “Sulla seconda dose deve decidere il medico. Ogni camice bianco si assume la responsabilità di quello che fa”. Eppure la regola, per quanto tardiva, c’è. E i medici, eroi dell’emergenza, ora si sentono messi da parte. E quelli di famiglia un po’ minacciati dalle riforme sanitarie in discussione.
Scotti ce l’ha con l’Aifa, con il ministro della Salute Roberto Speranza, il governo e il Cts che hanno stretto su Az dopo l’aumento delle trombosi con carenza di piastrine tra gli under 50, specie donne. Il “pasticcio” è cominciato quando alcune Regioni – Lazio, Liguria, Alto Adige e non solo – per accelerare e “smaltire” Az hanno lanciato gli Open day dai 18 anni in su, sebbene il vaccino a vettore virale fosse – come Jansen – autorizzato per tutti ma “raccomandato” solo dai 60. Dal 12 maggio c’era anche l’ok del Cts (al maschile, Aifa non c’entra).
I tempi delle vaccinazioni si allungheranno. Ieri Giorgio Palù, virologo e presidente Aifa, ha detto che ci sarà un “ricalcolo” e si arriverà al 60% di vaccinati a settembre. Si rischia di arrivare all’autunno con una copertura limitata, in particolare degli over 60: oltre 3 milioni non hanno avuto neanche una dose. I dati vanno bene ma il rischio di una ripresa autunnale del virus c’è, anche al di là della variante indiana, detta Delta, che in Italia resta sotto l’1% almeno in base al nostro sequenziamento un po’ zoppicante. Rispetto all’inglese (Alfa) oggi prevalente, ha il 60% di trasmissibilità in più. Uno studio condotto in Scozia dice che un infetto su tre va in ospedale, però la Delta non sembra resistere troppo a due dosi di vaccino. “Per rafforzare la rete dei laboratori impegnati nel sequenziamento, metterà 10 milioni di euro l’ufficio del Commissario straordinario”, fa sapere il sottosegretario Pierpaolo Sileri, che a gennaio aveva annunciato il progetto di un consorzio mai decollato per mancanza di fondi. “Ne servirebbero – dice – altri 15”. Alla Salute si ipotizza di ripristinare la quarantena per chi arriva dal Regno Unito, dove la Delta corre di più. A Palazzo Chigi frenano, sarebbe un pessimo segnale nell’Italia che si avvia, lunedì prossimo, a diventare quasi tutta bianca.
Moderati un corno
Ridotta all’osso, la situazione politica è questa. 1) Il governo Draghi fa politiche di centrodestra con una maggioranza di centrosinistra: infatti il centrodestra avanza e il centrosinistra arretra. 2) Nel centrodestra tutti lavorano per vincere le Politiche, unendo chi ama il governo Draghi (Lega e FI) e chi lo contesta (FdI); nel centrosinistra tutti lavorano per perdere le Politiche, lasciando per strada sia chi ama il governo Draghi (e vota centrodestra) sia chi contesta il governo Draghi (e non vota centrosinistra perché il centrosinistra vota tutte le norme di centrodestra del governo Draghi). 3) Nel centrodestra tutti lavorano per vincere le Amministrative, presentandosi uniti; nel centrosinistra tutti lavorano per perdere le Amministrative, presentandosi divisi (fuorché a Napoli). Letta, come già Zinga, non controlla il Pd, che resta in mano ai renziani, ieri impegnati a rovesciare Conte e ora a combattere non la destra, ma i 5Stelle, con l’ideona di una “federazione” con l’Innominabile, Calenda, Bonino e altri noti frequentatori di se stessi. Risultato: nell’ultimo sondaggio gli elettori del Pd dicono di fidarsi più della Meloni che dell’Innominabile. I 5Stelle hanno finalmente un nuovo leader, Conte, che però inspiegabilmente parla poco di contenuti e molto di formule: i “moderati”, tanto cari anche a Di Maio; i due mandati; il nuovo linguaggio da circolo Pickwick (“onorevoli” o “portavoce”, “giustizialisti” o “garantisti”?); i confini dell’alleanza col Pd. Tutti temi che non fregano niente a nessuno.
Tantopiù che di “moderati”, in giro, non se ne vede l’ombra: qualunque partito votino, sono tutti incazzati, o confusi, o terrorizzati. Figurarsi quanto può importare se il nuovo M5S sarà di centro, di destra o di sinistra, se i suoi eletti faranno due o tre mandati, se si chiameranno “onorevoli” o “portavoce”, se chiederanno scusa a tal Uggetti per aver chiesto le sue dimissioni dopo l’arresto per un bando di gara fatto scrivere alla ditta che doveva vincerla. La Meloni, l’unica che avanza, dice ogni giorno quel che vuol fare. E poco importa se non riuscirà a farlo. Tutti gli altri si guardano l’ombelico. Eppure gli elettori non perdono occasione per urlare ciò che vogliono. Le primarie parentali del Pd a Torino hanno riunito 11mila votanti, 5mila in meno delle firme raccolte dai candidati. Che altro deve accadere perché Conte voli a Torino e convinca l’ottima sindaca Appendino a ricandidarsi? È vero, è stata condannata in primo grado. Ma non per aver truccato una gara: per una disgrazia causata da una gang di rapinatori. Mai come oggi i cittadini hanno bisogno di figure oneste, collaudate e rassicuranti, non di fumisterie. Lo capiranno i nostri eroi, prima che la Meloni arrivi al 50 per cento?