Moro, mafia, P2… L’Italia repubblicana è un “Paese senza verità” da settantacinque anni

Da quando l’Italia repubblicana cominciò a essere un “Paese senza verità”? Il Paese, insomma, delle stragi e dei delitti politico-mafiosi, della loggia P2 e dei servizi segreti “deviati”, dal massacro di Portella della Ginestra all’assassinio di Enrico Mattei, dalla bomba di piazza Fontana alle uccisioni di Aldo Moro, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino? Leonardo Sciascia non aveva dubbi. Come scrisse in La palma va a nord, fu nel 1950, dal “momento in cui il bandito Giuliano viene scoperto assassinato in un cortile di Castelvetrano. Da quel momento, non c’è episodio criminale che, avendo qualche rapporto con la politica, abbia avuto una spiegazione razionale e una giusta punizione”.

A settantacinque anni dalla nascita della Repubblica, tra le non poche conquiste democratiche frutto quasi sempre dell’iniziativa popolare e della sinistra e spesso minacciate di cancellazione, resta però la persistenza verminosa del “fondo oscuro”, quello ricordato da Sciascia. Un “fondo oscuro” che, soprattutto in questi ultimi decenni, ha intensificato l’attacco a tutto campo contro chi ha cercato di portarlo alla luce: magistrati, carabinieri, poliziotti, giornalisti liberi.

Il libro Indagare l’Italia repubblicana. Menti di una storia lunga 75 anni. 1946/2021 (Aras Edizioni), appena uscito, riflette su alcuni di quei temi, proponendo una rilettura della “storia attraverso gli occhiali del diritto e della giustizia”, ma pure con l’analisi di un film emblematico come Il Caimano di Nanni Moretti.

Curato dal magistrato Silvia Cecchi e dello storico Cesare Panizza – con contributi di Marco Labbate, Vincenzo Macrì, Roberto Lasagna, Cesare Panizza, Lidia Pupilli, Gianluca Scroccu, Armando Spataro –, il volume prende le mosse dall’amnistia Togliatti e dalla mancata epurazione dei fascisti, per arrivare ai giorni dell’ascesa al potere di Silvio Berlusconi e del caso Abu Omar (riletto minuziosamente dal magistrato Spataro). Scorrono nel libro gli intrecci tra politica, mafia e poteri più o meno occulti, le vicende di Tangentopoli, il ruolo degli intellettuali, il caso di Rosa Oliva (sulla parità nella carriera delle donne), l’avventura di don Lorenzo Milani, le battaglie per l’obiezione di coscienza. Ne emerge purtroppo la solita la doppia Italia, quella civile e quella nera. Con la paura che Sciascia avesse ragione: “In base a questa esperienza che si dilunga per anni, gli italiani vedono in ogni episodio nuovo una ripetizione: sanno che non verranno mai a conoscere la verità”.

Al “Proietti Globe Theatre”. Shakespeare sempre in love

È noto che il Globe Theatre di Roma ha le stagioni invertite: comincia quando le altre finiscono. È uno degli effetti dell’architettura elisabettiana, un unicum che contraddistingue questo teatro. La stagione 2021 prenderà così il via il 30 giugno e andrà avanti fino al 10 ottobre. È la prima senza Gigi Proietti, che del Globe è stato l’ideatore, nel 2003, e direttore artistico fino alla morte, il 2 novembre 2020.

Ora il teatro è dedicato anche a lui (si chiama dalla scorsa settimana “Gigi Proietti Globe Theatre Silvano Toti”). “Credo che ci stiamo ancora tutti abituando”, racconta Carlotta Proietti. “Però ci dà forza il poter contare sulla squadra e sul lavoro fatto da mio padre”. Con la sorella Susanna, Carlotta, attrice e regista, ha preso le redini della direzione artistica del Globe proseguendo l’ultimo progetto triennale avviato da Proietti l’anno scorso.

La stagione non poteva non aprirsi con un omaggio al Maestro. Fino al 25 luglio andrà in scena la versione di Proietti di Romeo e Giulietta. “Abbiamo scelto di rappresentarla nell’ultima versione messa in scena, con la stessa squadra di attori e tecnici che lui aveva diretto e la regia affidata a Loredana Scaramella, sua storica collaboratrice”.

Scaramella firmerà anche la regia della Dodicesima notte, che compone un cartellone di commedie shakespeariane che va dall’immancabile Sogno di una notte di mezza estate (regia di Riccardo Cavallo, dal 10 al 15 agosto) a Misura per misura (di Giacomo Bisordi, 19-29 agosto), Pene d’amor perdute (di Danilo Capezzani a ottobre), Falstaff e le allegre comari di Windsor (dal 17 settembre al 3 ottobre, di Marco Carniti), oltre all’adattamento del poema Venere e Adone (a settembre, per la regia di Daniele Salvo). Tre grandi tragedie (Riccardo III, Amleto e Re Lear) saranno invece proposte in una versione per bambini, per una rassegna infrasettimanale dedicata alle famiglie.

Quest’anno, il teatro elisabettiano di Villa borghese fa l’esperimento di aprirsi a rappresentazioni che non appartengono della tradizione shakespeariana. Il 7 e 8 settembre andrà in scena un Faust funambolico, mentre da agosto si vedrà Intestamè, commedia nella Napoli Anni 40 diretta. Il Globe ospiterà anche la rassegna Tutta scena – Il teatro in camera di Loft produzioni, con la direzione di Duccio Forzano e la cura di Giorgia Salari. Dopo il successo della prima edizione su tvloft.it nei mesi di chiusura dei teatri causa pandemia, Tutta scena porterà sul palco, questa volta dal vivo, sei spettacoli, ogni lunedì e martedì delle prime tre settimane di luglio.

Quattro risate con Dio. Da Abramo a Woody Allen

Anticipiamo stralci della prefazione di Moni Ovadia al saggio di Marc-Alain Ouaknin “E Dio rise” (Pienogiorno).

L’umorismo ebraico è, a mio parere, una delle più alte manifestazioni della mente umana che si erge contro le derive della violenza, della stupidità, del pregiudizio. Per essere esercitata nella pienezza delle proprie prerogative, questa capacità richiede all’umorista di saperlo usare anche nei confronti di se stessi, anzi, soprattutto nei confronti di se stessi! Sorta di filosofia del paradosso, il witz ebraico è eminentemente autodelatorio, prende di mira soprattutto gli ebrei, i loro vizi, gli aspetti assurdi e un po’ deliranti della loro fede e in generale gli spasimi di un popolo braccato alla ricerca della propria identità da quattro millenni. In questo quadro, l’assillo umoristico degli ebrei cerca di disarmare l’antisemita, rivelandogli i tratti ridicoli del proprio odio e suggerendogli di guardarsi allo specchio per beneficiare anch’egli della propria goffaggine. L’umorismo non è solo una risorsa preziosissima e delicata, ma è garanzia di una spiritualità pacifica, refrattaria ai manicheismi, aperta ad accogliere contraddizioni e paradossi. Per questo il Talmud ha accolto nella sua letteratura midrashica, dove l’ermeneutica incontra il sublime poetico, un midrash conosciuto con il titolo Dio ride.

Quella umoristica è un’autentica Weltanschauung che ha permesso al monoteismo ebraico di dare l’avvio a un progetto di liberazione dell’essere umano contro l’antagonista più tenace della libertà: l’idolatria. Essa chiede all’uomo di sottomettersi alla materia e, per mezzo di tale sottomissione, arrendersi al potere che pretende di dominare i processi materiali e di ridurre anche l’umanità a tali processi.

Oggi più che mai abbiamo bisogno di quell’umorismo perché l’idolatria, nella sua forma apparentemente razionale del mercato e del denaro, è divenuta più forte e seduttiva e, al contempo, insensata e perversa: mercifica e rende depravate le relazioni fra uomo e uomo, fra uomo e donna, fra padri e figli, fra cittadini e Stato, fra individuo e collettività, fra maggioranze e minoranze, fra ricchi e poveri, fra appartenenza e alterità. La nostra società è ormai priva dello strumento umoristico che le permetta di cogliere il tratto ridicolo del modello di vita che propone. Molti sono i critici di questa miopia che dà luogo a un’indegna deriva del senso, ma non sembra esservi all’orizzonte un nuovo Abramo che spezzi il giogo dell’idolatria in cui siamo ricaduti.

La spasmodica attenzione nei confronti dell’umorismo ebraico è, verosimilmente, dovuta in gran parte allo choc provocato dall’Olocausto, ma anche all’imprescindibile influenza della cultura ebraica su quelle nordamericana ed europea…

Lo stereotipo che ha accompagnato l’ebreo nell’Occidente civilizzato lo voleva eccellere in tutto ciò che atteneva alla sfera del danaro – il luogo comune resiste ancora – ma la vera eccellenza ebraica, appena le è stato consentito di esprimersi, si è manifestata in tutte le forme della cultura e del sapere. Negli Stati Uniti l’intera temperie culturale del Novecento è stata fortemente influenzata dalla minoranza ebraica in generale, ma per ciò che attiene al mondo dello spettacolo – e ancor di più a tutte le forme del comico e dell’umoristico – la vastità della presenza ebraica ha dell’inverosimile e persino del miracoloso. La popolazione ebraica statunitense non ha mai superato la percentuale del 3 per cento, i comici professionisti sono ebrei all’80 per cento. Non è un caso che i più straordinari artisti comici dello show business americano siano stati – e sono tuttora – in massima parte degli ebrei: dai Fratelli Marx a Danny Kaye, Jerry Lewis, Lenny Bruce, Mel Brooks, Gene Wilder, Woody Allen, Billy Cristal, solo per citarne alcuni. Il comico ebreo viene da una tradizione radicata nella cultura ebraica orientale, quella del badkhen, il buffone delle corti rabbiniche, grande sbeffeggiatore e dissacratore molto ambìto nelle feste rituali e ai matrimoni, dove lanciava i suoi strali comici contro sposi, amici, parenti, rabbini, profeti e patriarchi, non si fermava nemmeno davanti all’Onnipotente… Molti intellettuali, scrittori e pensatori hanno mostrato grande interesse nelle forme dell’umorismo e del comico, per esempio il prodigioso Umberto Eco… Ho trascorso con lui serate memorabili in cui ci scambiavamo fiumi di witz yiddish e barzellette di ogni sorta. Lui era un vulcano in eruzione, ne conosceva migliaia.

In questo volume, il lettore troverà un repertorio composito e ricco della storiella yiddish ed ebraica declinato in tutte le sue varianti… Marc-Alain Ouaknin è un rabbino, un commentatore delle scritture, un brillante divulgatore ed ermeneuta di vaglia, che mette in relazione umorismo e pensiero ebraico mostrandone una reciproca attrazione fatale. L’opera proviene da una scelta tratta da due ponderosi volumi che non a caso si intitolano nell’originale La Bible de l’humour juif, senz’altro una delle più ricche raccolte mai pubblicate. Nel corso degli ultimi quarant’anni ho indagato a lungo il tema, ricevendo in cambio vita e ammaestramento filosofico e identitario, e personalmente credo di conoscere la maggior parte dei repertori dell’umorismo ebraico e yiddish e dei saggi al riguardo, ma ciò non mi impedisce di invidiare chi si affaccia su questo mondo così irresistibilmente umano.

Le mandibole del potere, tra filetto, cafonal e favori

Quando era di buon umore un mio amico produttore cinematografico diceva che con i politici non c’è mai da preoccuparsi troppo: “Basta agitare un pezzo di filetto e arrivano tutti di corsa”. Sembra antipolitica e invece è scienza della nutrizione. Ne fa fede l’ultimo vivandiere del potere romano, Fabrizio Centofanti imprenditore, che ai magistrati di Perugia ha appena confessato: “Credo di avere corrisposto tra i 7 e gli 8 mila euro l’anno in cene a favore di Palamara, dal 2014 al 2018, cioè fino al mio arresto”. Quarantamila euro, mal contati, in sughi, braciole, gamberoni. Luca Palamara è il notevole magistrato radiato dalla magistratura che oggi fa la morale ai magistrati e alla magistratura dopo anni in cui da presidente dell’Associazione nazionale magistrati, non faceva il magistrato, ma il politico, distribuendo incarichi e promozioni tra le correnti. E cioè coltivando il malanno che sta uccidendo politica e magistratura: il cancro della raccomandazione con menu pagato.

Palamara, ennesimo eroe della forchetta. Con mandibola proporzionata a un potere che fino a ieri appariva minacciosamente pervasivo e oggi solo patetico. Bastava guardarlo a occhio nudo, diranno gli specialisti del poi. In realtà se ne accorse (inascoltato) il solo Francesco Cossiga, che nell’anno 2008 lo insolentì in una imperdibile e profetica diretta televisiva, davanti a una esterrefatta Maria Latella: “Lei non ha la faccia intelligente. Lei non capisce nulla di diritto. Lei ha un nome che ricorda l’ottimo tonno che si chiama Palmera. Lei ha la faccia da tonno. È offensivo? Mi quereli!”

Palamara non lo querelò. Masticò amaro. Deglutì le offese. E accontentandosi della fortuna di chiamarsi Palamara e non Palmera, si premiò con una cena. Racconta Centofanti: “Ero lo sponsor della sua attività politica correntizia”. D’estate gli pagava gli alberghi alle Baleari, a Madonna di Campiglio, a San Casciano. Nelle altre stagioni i ristoranti romani: dagli antipasti caldi all’ammazzacaffè. Pagava le cene anche quando lui che le offriva non c’era. In almeno tre ristoranti – il San Lorenzo, da Tullio, il Majestic – i titolari erano istruiti da Centofanti: “Sapevano che ogni qual volta si presentava Palamara, il conto doveva essere a mio carico”. Fatturava le cene a fine mese, come si fa coi fornitori, anche se era lui a fornire. E Palamara a portare il tovagliolo. Sembra di riascoltare quell’altro imprenditore Pierluigi Daccò (stavolta di conio lombardo) che per anni ha avuto sul groppone lo stomaco e le vacanze di Roberto Formigoni, all’epoca governatore celeste della Regione Lombardia. Oggi eroe del vitalizio compassionevole. Gli pagava pranzi e cene “vuoi da Sadler, vuoi da Cracco, da Santini, da Aimo e Nadia”, tutti chef stellati milanesi. “Eravamo così amici – dirà Dacò ai magistrati – che Formigoni veniva a pranzare da me a ogni Natale”. Come i re magi.

Veder mangiare il Formigoni “era una gioia per gli occhi”, scrisse Carla Vites, la moglie di un altro campione di Comunione e liberazione, l’ex assessore alla Sanità lombarda Antonio Simone, all’epoca carcerato, in una lettera pubblicata dal Corriere, aprile 2012. “Robertino si divertiva tanto”. E lei se lo ricordava “mentre in Costa Smeralda seguiva Daccò come un cagnolino al guinzaglio”. Per andare dove? Alla tavola delle aragoste gratis, naturalmente.

Il sapiente Filippo Ceccarelli ha pubblicato un mirabile compendio di questa eterna fame del potere, Lo stomaco della Repubblica, che narra le molte peripezie del cibo coniugato alla politica, il suo valore di risorsa primordiale, merce di scambio, omaggio devozionale, premio, tangente simbolica come un inchino e insieme risorsa calorica gradevole come una pernice al forno. Dall’autentico “Partito della Forchetta”, anno 1953, che prometteva la felicità “di una bistecca al giorno” per gli italiani ancora affamati, con slogan adeguato: “La vita è una vitella”. Passando per le mozzarelle di Mastella, la crostata di Gianni Letta, le salse francesi della compianta Maria Angiolillo. Fino alla sinistra che sventatamente transitò da Marx a Vissani, il cuoco, credendosi moderna. E il povero D’Alema in piena trance da capotavola che in tv versava il vino rosso nel risotto, credendosi uno chef.

Ancora un attimo e siamo alle cene di Silvio Berlusconi ad Arcore. Che ai tempi d’oro riempiva il piatto del suo Bettino in cambio della reciproca, disinteressata amicizia, scambiandosi regali da nulla, orologini, conti esteri, leggi sulle frequenze, mentre il cuoco Michele portava il suo micidiale risotto tricolore. E che nei tempi cupi del declino (anche) sentimentale dell’arcoriano, diventeranno le cene eleganti dell’anziano miliardario che offre insalate dietetiche e barzellette a batterie di ragazzine per addentare un po’ della loro giovinezza.

Evolve il millennio con le cene fiorentine di Matteo Renzi indagate dalla Corte dei Conti. Le cene con massaggio offerte da Diego Anemone a Guido Bertolaso. Le spese taroccate delle assemblee regionali, le mille grigliate travestite da convegni. Le mascelle spalancate nei Cafonal di Dagospia e negli scatti iperrealisti del grande Umberto Pizzi. “Siamo carne da cannellone”, diceva Francesco Storace, vecchio professionista del banchetto politico, dove si addensa la calca. Tutti sospettando, tra una gomitata e l’altra, che a forza di mangiare, finiranno mangiati. Ma non ora, non qui, non sino al prossimo filetto.

Suu Kyi in tribunale per i walkie-talkie

S i è aperto ieri in Birmania il primo processo contro Aung San Suu Kyi, arrestata il 1° febbraio scorso in seguito a un golpe dei militari. “È in buona salute nonostante il mal di denti”, hanno fatto sapere gli avvocati della leader democratica, denunciando un processo “spettacolo motivato solo da ragioni politiche”.

In questo primo procedimento infatti, la Nobel per la pace, sulla cui testa pendono diversi capi d’imputazione, deve rispondere di importazione illegale di walkie-talkie, violazione delle restrizioni sul coronavirus e violazione di una legge sulle telecomunicazioni. Ieri il giudice ha ascoltato diversi testimoni dell’accusa e il processo, e sempre domani dovrebbe iniziare un altro processo per sedizione. La 75enne Suu Kyi, capo del governo de facto fino al golpe, è anche accusata di violazione di una legge sui segreti di stato dell’era coloniale e di corruzione.

L’ex leader birmana non ha ancora potuto difendersi in tribunale, ma “sembra determinata a far valere i suoi diritti, quali che siano i risultati”, ha spiegato uno dei suoi avvocati, Khin Maung Zaw, denunciando accuse “assurde” e annunciando di “prepararsi al peggio.” L’unico scopo del capo della giunta militare “Min Aung Hlaing è determinato a rinchiuderla per il resto della sua vita”, ha detto Zaw. Dal suo arresto, oltretutto, le è stato permesso di incontrare i propri avvocati solo tre volte, e per poco tempo.

Intanto ieri è arrivata anche la notizia del rilascio del giornalista statunitense Nathan Maung, detenuto in Birmania. Maung dovrebbe poter lasciare il Paese oggi stesso, secondo quanto riporta Reuters. Un tribunale, infatti, ha respinto il caso contro l’editore di Kamayut Media dopo che il querelante ha ritirato la causa, ha fatto sapere il legale del cronista. Gli Stati Uniti avevano espresso preoccupazione per la detenzione di Nathan Maung e di un altro cittadino statunitense, Daniel Fenster, da parte delle autorità militari nel Paese del sud-est asiatico. A rimanere in prigione sono anche un collega di Nathan Maung, il cittadino birmano Hanthar Nyein e David Fenster. Quest’ultimo è caporedattore di Frontier Myanmar, che pubblica sia in inglese che in birmano e anche online. È stato detenuto all’aeroporto di Yangon il 24 giugno mentre si preparava a imbarcarsi su un volo per la Malesia in rotta verso di Detroit per far visita alla sua famiglia. Di lui da allora non si hanno più notizie. Secondo l’Associazione di assistenza ai prigionieri politici del Myanmar, sono circa 90 i giornalisti arrestati dall’occupazione dell’esercito, con più della metà ancora in detenzione e 33 in clandestinità. Mentre tra i civili scesi in strada contro la giunta militare gli arresti sono stati più di 5.000 dal 1° febbraio.

Nato, Biden salda gli alleati per la nuova guerra fredda

Dal G7 sulle spiagge della Cornovaglia al vertice della Nato alla periferia di Bruxelles, Joe Biden porta a partner e alleati lo stesso messaggio: “Abbiamo nuove sfide, la Russia e la Cina”, che poi sono – a ben vedere – le sfide di sempre. “La Nato è importantissima: se non ci fosse, la si dovrebbe inventare”, dice al segretario generale Jens Stoltenberg e ribadisce in plenaria. Come al G7, anche qui altra musica rispetto alle sfuriate di Donald Trump contro il multilateralismo e contro gli alleati che non pagano abbastanza per la loro difesa. Quel guastafeste del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, che si lamenta di non avere ricevuto adeguato appoggio nella lotta ai terroristi, come lui chiama i suoi oppositori, rovina un po’ il clima. E a disturbare Biden ci sono pure le notizie non positive da Washington: i repubblicani bloccano i i piani di rilancio dell’economia e gli investimenti per le infrastrutture.

Ma, nel complesso, la tappa di avvicinamento al Vertice di domani a Ginevra con il presidente russo Vladimir Putin è di tutto riposo. Al tavolo della Nato si parla di Russia, di Cina, di cyber-sicurezza, di cambiamento climatico. Temi analoghi, con in più le questioni commerciali, oggi, al tavolo dell’Ue.

Nel suo intervento, il presidente del Consiglio italiano Mario Draghi sottolinea il ruolo centrale dell’Alleanza atlantica – la più forte della storia – nella difesa e nella sicurezza europea, prospettandone “un rapporto complementare” con l’Unione europea: Nato e Ue – afferma Draghi – si rafforzano a vicenda, la coesione della Nato è una garanzia collettiva, lo spettro d’azione dell’Alleanza deve essere ampio e uno dei focus deve esserne il Mediterraneo. Il premier ricorda l’impegno dell’Italia in termini di spese per la difesa e il contributo alle missioni militari all’estero.

Biden incassa gli attestati d’atlantismo di Draghi e di molti altri leader. E cerca di arginare la fretta di Polonia e Paesi baltici per l’adesione alla Nato dell’Ucraina – presidente Volodymyr Zelensky assicura che “Kiev dimostra ogni giorno di essere pronta” –: parlarne sarebbe pessimo viatico all’incontro con Putin, con il quale il presidente Usa vuole mostrare fermezza, ma con il quale non vuole rompere. La speranza, anzi, è quella di coinvolgerlo in un cordone di sicurezza anti-cinese, perché l’espansionismo di Pechino, economico e commerciale, diplomatico e militare, può rendere marginale l’influenza della Russia in Africa, in Medio Oriente, persino nell’Asia centrale.

In un’intervista alla Nbc, Putin provoca, ironizza, fa aperture e, soprattutto, fa spallucce a chi gli ricorda che Biden l’ha definito “assassino” – “Me ne hanno dette di tutti i colori” –: per lui serve “prevedibilità e stabilità” nei rapporti russo-americani. Segnala mine per rovinare quelli tra Russia e Cina. Respinge le accuse di interferenze su Usa 2020 e di cyber-attacchi e sfodera sarcasmo: “Sono sorpreso che non ci abbiano accusati di avere provocato il movimento Black Lives Matter”.

Su un tono più serio, Putin, però, non esclude l’ipotesi di uno scambio di prigionieri tra Washington e Mosca: la liberazione di due americani detenuti in Russia, Paul Whelan e Trevor Reed, e di alcuni russi in carcere negli Usa. La Casa Bianca si mostra più cauta, anche se i media sono zeppi di indiscrezioni in merito.

La stampa Usa commenta in modo positivo l’esordio europeo del presidente Biden. Per la Cnn, gesti di cortesia banali, come gli incontri di Bruxelles ieri e oggi e il clima disteso al G7, possono bastare a ripristinare e rafforzare la qualità delle relazioni tra Usa e alleati europei “dopo anni di comportamenti corrosivi” di Trump, che al suo esordio atlantico spintonò via il premier del Montenegro Dusko Markovic per piazzarsi in prima fila nella foto ricordo.

Governo Frankenstein. Da Bennett a Gantz: il nuovo corso d’Israele

Che giornate. Ore davanti alla tivù, minuto per minuto, e poi finalmente a godersi la satira “erez neederet” (un paese meraviglioso) con i nuovi personaggi entrati nelle vite degli israeliani: ci sono in primis i due premier a rotazione, Naftali Bennett 49 anni, e Yair Lapid, 57. Relativamente giovani (Netanyahu ne ha 73). E poi ci sono i personaggi di un’opposizione furiosa e urlante. Nel caos del giorno del voto il discorso di Naftali Bennett è stato interrotto innumerevoli volte mentre dalle tribune i figli si sbracciavano mandandogli segnali di affetto.

Religioso, di famiglia di origine americana, prima di essere stato capo di gabinetto di Netanyahu, che lo licenziò perché aveva litigato con la moglie, la first Lady Sara, era stato il fondatore di una start up che lo rese più che benestante e libero di occuparsi di politica. È il fondatore del partito Yemina, che vuol dire “a destra”. Il premier in rotazione Yair Lapid, uomo di centro, è invece figlio di un giornalista e politico di origine ungherese, Tommy, superstite della Shoa, e della scrittrice Shulamit.

In passato è stato giornalista e pugile dilettante. Ha lavorato a lungo e con pazienza per creare questo strano governo ed è stato molto generoso nei confronti di Bennett, lasciando lui per primo a dirigere il paese malgrado il neo-premier si fosse portato come dote solo sei seggi.

I due hanno un rapporto di istintiva amicizia, malgrado le differenze. E sono stati immortalati mentre chiacchieravano cheek to cheek al tavolo del governo, accanto al ministro della Difesa Benny Gantz, che sembrava pensieroso e un po’ triste, e forse ripensava alla sua pessima esperienza con il governo Netanyahu. Poco lontano Merav Michaeli, partito laburista e femminista convinta, sempre vestita di nero, che parla preferibilmente al femminile, per esempio, “care elettrici e cari elettori” e fa impazzire gli ultra religiosi, chiacchierava con Avigodor Lieberman, di origine russa, che sarà il ministro del Tesoro ed è noto per essere l’arci nemico di Netanyahu e degli ultra religiosi. E che dire del discorso di Mansour Abbas, anche lui parte della coalizione, che per la prima volta ha parlato 10 minuti in arabo e cinque in ebraico? Poi è venuto il momento in cui Lapid è salito sul podio, si è girato verso il pubblico e ha detto che non avrebbe letto il suo discorso. “Parlerò invece alla mia mamma, che ha 87 anni e avevo invitato a venire al mio giuramento”. “Mamma, scusa, volevo che tu fossi fiera di questo paese e della sua democrazia invece mi vergogno di quello che hai visto qui”, ha detto. “È per mettere fine a tutto questo che sto lavorando” ha aggiunto.

Poche ore dopo a Balfour il ministro (ex) della Sicurezza interna Meir Ohana già incitava i “bibisti”, munito di megafono, a dimostrare in favore dell’ex premier. A Tel Aviv nessuno aveva bisogno di essere incitato per festeggiare in piazza Rabin, o per tuffarsi nella fontana di Dizengof. La città sembrava impazzita. Ma Ohana aveva sbagliato indirizzo. Doveva portare i bibisti alla villa di Cesarea dei Netanyahu, non a Balfour. Dicono che da domani la famiglia più amata e più odiata in Israele dovrà pagare per tutto quello di cui si serviranno nella residenza ufficiale che non è più la loro: cibo, bucato, pulizie. Non credo che la prenderanno molto bene.

Netanyahu tra l’altro ha dimostrato di non aver preso la sconfitta con eleganza risolvendo il cambio della guardia con Bennett in solo mezz’ora, senza nessuna cerimonia ufficiale e neanche una foto. Passare le consegne della dirigenza di un paese come Israele in mezz’ora sembrerebbe ai più quasi un insulto, ma lui è certo che tornerà immediatamente. Che sarebbe una perdita di tempo. E come ha affermato nel suo primo discorso all’opposizione, spera solo di non trovare troppi danni al suo ritorno. Il paese dovrà abituarsi a una realtà diversa da quella vissuta negli ultimi dodici anni. Molti di noi non ci saremmo mai immaginati di essere felici di avere un Bennett come primo ministro, ma nella vita ci sono sorprese. E mentre il neo-premier usciva dalla Knesset circondato da un anello fittissimo di uomini della sicurezza tanto che gli si vedeva appena la cima della testa faceva un po’ pena. Non avrà la vita facile. La moglie e i figli erano già a casa. Domani, ha detto la moglie, i ragazzi devono tornare a scuola. La moglie di Lapid invece, a fine serata ha stampato al marito un gran bacio sulla bocca. A Gerusalemme il giorno dopo il governo si è riunito per la prima volta.

Vaccini: il rischio e la candela

Ancora un’emergenza mediatica. Che può diventare un serio problema di sanità pubblica. Mi sono sempre dichiarata contraria a rendere obbligatori i vaccini, perché preferisco puntare sulla consapevolezza, dando per scontato, però, che ci sia una corretta informazione. Purtroppo non sta accadendo. Non riusciamo a comprendere quale sia la voce della scienza. È quella del
Cts? Quella del ministro della Salute? Quella di qualche virologo da schermo? Quella di un presidente di regione? Vaccino per tutti, vaccino per una fascia d’età e poi il contrario. Protocolli diversi nelle diverse regioni. Cosa comporta tutto questo? Dov’è l’errore? Sin dallo scorso anno, animati dal sacro fuoco della “vaccinazione di massa”, per paura che la gente potesse nutrire titubanze si è preferito spargere una nebbia che da un lato ha cercato di nascondere alcuni aspetti di fisiologica debolezza dei vaccini disponibili, ma che dall’altro ha finito per offuscare la vera necessità che è quella di correre un piccolo rischio rispetto a un’emergenza devastante.

L’americana Fda (Food and Drug Administration) ha pubblicato come titolo della sua autorizzazione Emergency Use Authorization for Vaccines to Prevent COVID-19 (Autorizzazione in stato di emergenza dei vaccini per prevenire Covid-19). Questa frase è la base per prevenire una serie di disinformazione e reazioni che minano la corretta prosecuzione della (necessaria!) vaccinazione. Le autorità sanitarie, anziché screditarsi sbandierando assolutismi, in realtà infondati, avrebbero dovuto far comprendere che a fronte di un pur doloroso ma limitato rischio di effetti collaterali gravi, ogni giorno di vaccinazione ci fa risparmiare migliaia di vittime. Ma attenti, il rischio deve sempre valere la candela. Tenerlo in considerazione è il compito delle autorità sanitarie preposte alle dovute indicazioni e di nessun altro.

 

Code di gatto, chiocciole, punti e cancelletti

Hugo. Victor Hugo voleva sapere quanto stessero vendendo I miserabili (1862) e mandò all’editore un telegramma di un solo carattere: “?”. Il libro aveva già venduto seimila copie, così l’editore poté rispondere: “!”.

? Sull’origine del punto interrogativo, parecchie teorie, nessuna sostenuta da fonti testuali. Prima teoria: viene dall’antico Egitto, la sua forma è quella della coda di gatto. Seconda teoria: è il latino quaestio, abbreviato in qo, con la “q” che, passando il tempo, viene alla fine sovrapposta alla “o”.

! I monaci, alla fine di certe frasi, scrivevano “io”, cioè “gioia” in latino, con la “I” maiuscola e la “o” minuscola. Anche in questo caso, a un certo punto, la “I” finì sopra la “o”. Il punto esclamativo era detto “punto di ammirazione”.

Leonard. Secondo Elmore Leonard, si dovrebbe adoperare il punto esclamativo non più di una volta ogni centomila parole. Esaminati i suoi scritti, risultò però che Leonard, ogni centomila parole, metteva 49 punti interrogativi.

Latini. I latini scrivevano in maiuscolo e senza interporre spazi tra una parola e l’altra.

Twain. “Il mio lavoro consiste nell’abbattere la punteggiatura con cui i tipografi correggono la mia punteggiatura, e nel restaurare la mia” (Mark Twain).

Denham. Henry Denham, nel 1580, propose il punto interrogativo capovolto, con cui si sarebbero segnalate le domande retoriche. Non ebbe alcun seguito.

@ Il primo utilizzo della chiocciola si trova in una lettera del 1536 di Francesco Lapi, mercante fiorentino. La @ era adoperata nel senso di “amphorae”, unità di misura relativa alle anfore di terracotta in cui venivano trasportati vino, grano e spezie. In seguito i commercianti la utilizzarono come simbolo di “prezzo”: “15 mele @ 15 centesimi”.

# Il cancelletto (o hashtag) origina dall’abbreviazione medievale “lb” per “libra pondo”, un’unità di peso. Senonché “lb” si leggeva troppo spesso “16” e di conseguenza, nel XIV secolo, si ricorse a una linea che attraversava le due lettere, e questo segno, nel tempo, si trasformò nel moderno #. Il simbolo divenne popolare negli Anni 60 quando venne utilizzato dalla Bell Laboratories per agire da tasto di funzione nelle tastiere dei telefoni. A quei tempi il cancelletto non aveva un significato specifico, ma venne selezionato perché era un simbolo familiare e già incorporato nelle tastiere delle macchine da scrivere.

Per risolvere il problema di capire come separare idee o demarcare la fine di un pensiero, alcuni monaci, per indicare la fine di una frase, iniziarono ad utilizzare tre punti (due sotto e uno sopra). Fu Isidoro di Siviglia (560-636) a popolarizzare il punto unico, anche noto come distinctio finalis.

, La virgola fu inizialmente utilizzata per aiutare la lettura ad alta voce di testi religiosi. Gli scribi piazzavano un punto sopra la parola per indicare dove il lettore avrebbe dovuto respirare. Nel XII secolo Boncompagno da Signa ricorse, per questo stesso scopo, a una barra obliqua. Con la nascita della stampa parecchi simboli concorsero alla gara per rappresentare la virgola. William Caxton, creatore della prima stampa in Inghilterra, inclinò leggermente la barra obliqua di Boncompagno. Ma Aldo Manuzio, il grande veneziano, ebbe l’idea definitiva: una piccola onda verticale. Vittoria completa, la virgola come noi la conosciamo apparve sulle stampe inglesi già nel 1520.

Notizie tratte da Claire Cock-Starkey, “Hyphens & Hashtags”, Bodleian Library, 192 pagine, £22.50

Afghanistan, addio senza gloria

Nell’“Addio alle armi” degli eserciti occidentali in Afghanistan, i media italiani, ma anche i nostri Comandi militari, hanno dato il meglio di sé.

Ma mentre i Comandi avevano almeno l’attenuante di dover in qualche modo giustificare un’operazione sciagurata, devastante e in definitiva criminale, finita nella più disonorevole delle sconfitte, quest’obbligo la libera stampa non l’aveva.

È stata fatta un’incredibile confusione fra Talebani, al Qaeda, Isis. I Talebani con al Qaeda, Bin Laden e gli attentati alle Torri Gemelle non avevano nulla a che fare. Bin Laden i Talebani se lo sono trovati in casa quando il Mullah Omar, nel 1996, prese il potere. Ce lo aveva portato, dal Sudan, Massud, perché lo aiutasse a combattere un altro “signore della guerra”, Hekmatyar. Il Mullah Omar non aveva nessuna considerazione di Bin Laden, lo definiva un “piccolo uomo”, ma doveva tener conto che il Califfo saudita, con le sue ricchezze, aveva contribuito a costruire strade, ponti, case e godeva di un certo prestigio fra la popolazione. Ma quando Clinton gli propose di far fuori Bin Laden, Omar si disse favorevole e mandò il suo ministro degli Esteri, Muttawakil, a Washington per trattare la cosa, che gli interessava perché gli americani nel tentativo di colpire Bin Laden stavano bombardando a tappeto la regione di Khost uccidendo centinaia di civili afghani. Ci furono due incontri a Washington nell’inverno del 1998. Muttawakil fece due proposte: o sarebbero stati i Talebani a dare al Pentagono la posizione esatta in cui si trovava Bin Laden o gli americani avrebbero fornito i missili necessari ai Talebani per sbrigare la faccenda. Ma pose una condizione: in un caso o nell’altro, l’omicidio di Osama dovevano attribuirselo gli americani senza coinvolgere il governo talebano. Alla fine Clinton si tirò indietro. Questi sono documenti del Dipartimento di Stato Usa dell’agosto 2005. Ora, i colleghi hanno tutto il diritto di ignorare quello che scrivo io, però documenti ufficiali di questa importanza avrebbero almeno il dovere di leggerli. Comunque è stato chiarito in modo definitivo che la dirigenza talebana dell’epoca era del tutto all’oscuro degli attentati dell’11 settembre. E il Washington Post e il New York Times, meno servili verso il governo americano dei media italiani, hanno denunciato che l’attacco all’Afghanistan era stato progettato sei mesi prima dell’11 settembre.

Ancora più grottesca è la confusione fra Talebani e Isis. C’è una ‘lettera aperta’ del 2015 del Mullah Omar ad Al Baghdadi in cui gli intima di non tentare di penetrare in Afghanistan perché, dice, la nostra è una guerra di indipendenza che non ha nulla a che fare con i tuoi deliri geopolitici. Comunque sia, gli unici a combattere l’Isis in Afghanistan sono stati proprio i Talebani. E se finora non sono riusciti a sconfiggerlo del tutto è perché contemporaneamente dovevano tener testa agli occupanti e all’esercito “regolare” di Ashraf Ghani. Sbarazzatisi dei primi e fra non molto anche del secondo si sbarazzeranno anche dell’Isis.

Non è del tutto vero che nell’Afghanistan talebano le donne non avessero il diritto di studiare, tasto su cui si batte ossessivamente in Occidente. Le cose stanno in modo un po’ diverso. In un decreto talebano è scritto: “Nel caso sia necessario che le donne escano di casa per scopi di istruzione, esigenze sociali o servizi sociali (…)”. Il fatto è che i Talebani, nella loro indubbia sessuofobia, non volevano solo che fossero divise le aule fra ragazzi e ragazze, ma che gli edifici che ospitavano gli uni e le altre fossero separati e ben lontani. Ma, impegnati da Massud che non accettava la sconfitta, non ebbero il tempo di costruirli. Avevano altre priorità. Si può anche capirli.

È ancora più falso che i Talebani fossero appoggiati militarmente dal Pakistan o quantomeno dai suoi servizi segreti, l’ISI. Il Pakistan si limitò a un aiuto diplomatico riconoscendo l’Emirato islamico d’Afghanistan. Peraltro il più devastante attacco militare alle popolazioni tribali, afghane e pachistane, che vivono nella valle di Swat, fu condotto dall’esercito pakistano, teleguidato dal generale Petraeus. Due milioni di profughi in due giorni. Se i Talebani avessero avuto l’appoggio dell’ISI sarebbero stati in possesso di missili terra-aria Stinger che convinsero i sovietici ad abbandonare il campo (“Quando vedemmo che cominciavano a cadere gli elicotteri e gli aerei decidemmo di lasciare l’Afghanistan”).

Parlando a Radio3, Gianni Riotta ha definito positiva l’operazione occidentale in Afghanistan. L’occupazione occidentale dell’Afghanistan è stata ancor più devastante di quella sovietica. I sovietici hanno fatto grandi danni materiali, ma non si erano messi in testa, a differenza di quanto abbiamo fatto noi, di corrompere gli afghani a suon di dollari per portarli dalla nostra parte. Quando non era ancora presidente dell’Afghanistan Ashraf Ghani, che non può essere sospettato di simpatie talebane, disse: “Nel 2001 eravamo poveri ma avevamo la nostra moralità. I miliardi di dollari che hanno inondato il Paese ci hanno tolto l’integrità, la fiducia l’uno nell’altro”. Riotta ha anche affermato che la nostra occupazione è stata determinante per la ricostruzione dell’Afghanistan. Se proprio non vuol leggersi l’ultimo capitolo del mio libro Il Mullah Omar (Come si distrugge un Paese), si vada a leggere perlomeno Caos Asia (2008) dello scrittore pachistano Ahmed Rashid. Riotta punta il dito sul fatto che l’Afghanistan è oggi il maggior esportatore mondiale di stupefacenti. Ma si dimentica di ricordare che fu proprio il Mullah Omar a proibire nel 2000/01 la coltivazione del papavero e a stroncare così il commercio dell’oppio, che cadde quasi a zero.

In Afghanistan noi italiani ci siamo comportati da alleati fedeli come cani degli Stati Uniti, seguendoli sino alla fine, ma allo stesso tempo, come sempre, sleali. Fin dall’inizio abbiamo fatto questo accordo con i comandanti talebani: loro non ci avrebbero attaccato e noi avremmo solo fatto finta di controllare il territorio. Il nostro ministro della Difesa Guerini ha affermato che era nostro dovere di alleati Nato stare con gli americani fino alla fine. Anche questo è un falso. Gli olandesi hanno lasciato l’Afghanistan nel 2010. L’accordo con i Talebani si fece quasi da subito: “Quando nell’aprile del 2003 il primo gruppo di alpini della Taurinense si installa nella base di Khost, dando il cambio agli americani, il brigadiere generale Giorgio Battisti, che ne è capo, capisce subito che aria tira. E, attraverso un intermediario italiano di una Ong, chiede un incontro con il comandante talebano del luogo, Pacha Khan (…) l’accordo viene trovato: gli alpini faranno solo finta di controllare la zona e i Talebani li lasceranno tranquilli” (Il Mullah Omar). Tanti furono gli accordi felloni di questo tipo. Il più clamoroso viene a galla nel 2008 a Sorobi. I militari francesi sostituiscono quelli italiani che però non li avvertono dell’accordo sotterraneo. Poiché la zona è stata fino allora tranquilla, i francesi non adottano precauzioni e, attaccati di sorpresa, subiranno la peggiore sconfitta dei cugini d’Oltralpe in Afghanistan. Il colonnello dei marines Tim Grattan dirà: “Stringere patti con i comandanti talebani è perdente. I nemici si combattono e basta”.

Nel 2002, quando Hamid Karzai diventa presidente dell’Afghanistan, sotto il diretto controllo Usa, la rivista Time mette la sua fotografia in copertina eleggendolo come “uomo più chic del mondo”. È con questa superficialità da stilisti che siamo andati in Afghanistan. Ed è per questa superficialità che abbiamo giustamente, molto giustamente, perso la guerra.