Come da copione, riprende il tormentone delle correnti Pd e, segnatamente, la sorda fronda degli ex renziani. Non me ne vogliano, ma è difficile chiamarli diversamente. Tutto secondo copione, prevedibile e previsto. Ho ragione di pensare che lo stesso Letta non si sorprenda. È il prezzo puntualmente pagato alla sua investitura emergenziale e unanimistica, anziché vagliata da un passaggio chiarificatore di natura congressuale. Zingaretti aveva avvertito.
Spero tuttavia che il buon Enrico non si faccia intimidire. Egli può far leva su buone ragioni. Per quel poco valgono, stante la loro aleatorietà, le rilevazioni più recenti danno il Pd primo partito, seppur di qualche decimale. L’annunciata federazione Lega-FI, a dispetto delle sue rappresentazioni sublimate e delle esili resistenze dell’ala governista di FI, è a tutti gli effetti un’annessione che semmai ci consegna uno schiacciamento a destra dello schieramento capeggiato dalla coppia Salvini-Meloni tra loro in competizione, ma entrambi attestati su un asse sovranista. Che si porta dietro tre problemi: un deficit di affidabilità in Europa suffragata dai referenti a Bruxelles di Lega e FdI, una vistosa insufficienza di classe dirigente e una competizione per la leadership della coalizione. Problemi dei quali si è avuta conferma nel tormentone circa le candidature alla guida delle grandi città. Con una soluzione spartitoria che sembra non abbia sortito candidature di alto profilo. A cominciare da Milano e Roma.
Vero è che i sondaggi che misurano il consenso alle sigle di partito danno la destra largamente favorita e tuttavia le stesse rilevazioni (vedi Ipsos), se mirate sulle plausibili coppie in corsa per la premiership – rispettivamente Meloni-Salvini e gli ex premier Letta-Conte –, danno un risultato diverso e comunque largamente aperto. Il discorso dunque si sposta sulla offerta politica e sulla comunicazione di essa.
Conte è alle prese con una impegnativa opera rifondativa del M5S. Mi limito a un cenno sul versante di Letta. Lo conosciamo: egli è, per indole, moderato, certo non un estremista di sinistra. Perché, merita chiedersi, gli si attribuisce una svolta gauchiste? Per titoli: come ha osservato Prodi, è cambiata la fase (Biden con le sue politiche, il nuovo corso Ue, il dopo pandemia, la domanda di protezione sociale che, nel recente passato, ha gonfiato le vele dei populisti e alienato alle sinistra il consenso dei ceti popolari); difficilmente si riuscirà a cambiare la legge elettorale che quasi costringe a una scelta di campo duale (di qua o di là); la conclamata vocazione maggioritaria che si risolverebbe nel suo contrario se il Pd rinunciasse a stringere alleanze (non è bastata la lezione del 2018?!); chiamati a schierarsi, i cespugli centristi prenderanno le loro decisioni, ma non sarà facile coniugare la retorica liberale e moderata con il sostegno alla coppia sovranista. Se lo crederanno, convergeranno con le loro gambe.
In ogni caso, non si capisce perché, come invocano i critici interni di Letta, egli dovrebbe correre appresso a quei cespugli dal consenso esile e dagli orientamenti incerti (quando non programmaticamente divisivi) e non coltivare invece con Conte, che tuttora gode di ampio consenso, un rapporto stabile e sì strategico dichiaratamente e reciprocamente ricercato. Seguendo uno schema che, pur dentro le nuove coordinate, richiama un po’ l’Ulivo: il Pd come major party posto al centro di un centrosinistra largo, plurale, inclusivo. Un cantiere cui imprimere un segno di novità e di apertura. Un solo esempio: ripensare le primarie, onde evitare flop tipo Torino e, temo, Roma. Le primarie devono essere vere, libere, competitive, mirate a rafforzare e allargare la coalizione. Senza previe investiture di candidati con casacche di partito che mobilitano solo i rispettivi, limitati iscritti a esso.
Ai nostalgici di Renzi si dovrebbe chiedere: davvero volete rovesciare il vostro mantra per ripiegare su un neocentrismo a “vocazione minoritaria”? Che interesse avete a indebolire la leadership di Letta che magari avete subìto ma che, sola, allo stato, se associata a un Conte auspicabilmente in sella del nuovo M5S, può competere con la coppia sovranista? Sì, investendo su una certa personalizzazione politica e comunicativa della partita.
Dunque, il buon Enrico non si faccia intimidire. I suoi critici interni non dispongono di alternative politiche. Possono solo fare interdizione (lo stigma del renzismo) con l’illusione di ritagliarsi una quota di un potere svanito.