Sito archeologico, “Servono volontari a 4 euro l’ora”

“Considerata la propria grave carenza di organico” il Parco Archeologico di Catania ha pubblicato una manifestazione d’interesse per trovare un’associazione di volontariato che affianchi il personale. Ma a leggere il bando si fatica a vedere l’aspetto volontaristico: si specifica infatti che i volontari, in un numero “di unità lavorative per giornata” non inferiore a 3, dovranno essere disponibili anche nei festivi, ed “eventualmente, serali” per un tempo medio di 5 ore al giorno e “comunque secondo le esigenze di servizio”. La modalità di pagamento? Rimborsi spese per “un costo lordo non superiore ai 4€euro l’ora per ciascun volontario”. Il bando specifica il monte ore richiesto, le esperienze specifiche dell’associazione e gli obblighi a cui è tenuta la stessa. Si tratta di un format sempre più diffuso, utilizzato anche dalla Biblioteca Nazionale di Roma, reso legale da una serie di leggi, a partire dalla Legge Ronchey (4/1993) che permettono di impiegare volontari in maniera indiscriminata nei siti culturali.

Todi, Festival del libro in chiave neofascista. Comune e Regione concedono il patrocinio

Doveva essere un festival letterario dedicato soprattutto alle “piccole realtà indipendenti”. Invece “Todi città del libro”, che si terrà nella cittadina in provincia di Perugia, da giovedì a domenica, è diventata la kermesse del sovranismo italiano che vedrà in prima fila la casa editrice Altaforte, vicina a CasaPound ed espulsa nel 2019 dal Salone del Libro di Torino. Con tanto di patrocinio del Comune di Todi guidato dal sindaco di destra Antonino Ruggiano (appoggiato nel 2017 da Lega e CasaPound) ma soprattutto della Regione Umbria della giunta leghista di Donatella Tesei. Una decisione contraria a quella del Comune e del Prefetto di Milano che venerdì scorso avevano annullato un convegno nel Municipio 2 a guida leghista organizzato proprio da Altaforte.

Oltre a intellettuali, giornalisti e scrittori “sovranisti” – da Alessandro Meluzzi a Francesco Borgonovo fino a Marco Gervasoni (indagato per vilipendio al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella) – infatti ci sarà anche il giornalista sportivo Paolo Bargiggia, vicino a CasaPound, che nel 2018 si definiva un “fascista”. Inoltre un posto di primo piano sarà dedicato proprio alla casa editrice di Francesco Polacchi che ha idee neofasciste e stampa libri come Mussolini e la filosofia o Una nazione scritto dal leader di CasaPound Simone Di Stefano.

Tant’è che il festival nei giorni scorsi è stato presentato con grande enfasi da Primato Nazionale, la rivista vicina ai fascisti del Terzo millennio. A gettare altra benzina sul fuoco ci ha pensato nei giorni scorsi l’organizzatore del festival Adolfo Spezzaferro, vicino al mondo dell’estrema destra, spiegando che l’idea che la Costituzione sia basata sull’antifascismo sarebbe “fantomatica” e che esiste “solo nelle menti degli antifascisti”.

Così Anpi, Cgil, Libertà e Giustizia, la Rete degli Studenti e altre 25 associazioni prima hanno raccolto oltre 2mila firme per chiedere al Comune e alla Regione di ritirare il patrocinio e poi, di fronte al loro diniego, hanno organizzato una manifestazione (“Todi città dell’antifascismo”) proprio in piazza del Popolo dove sarà organizzato il festival letterario. Un’iniziativa che secondo Spezzaferro “punta a creare problemi di ordine pubblico” facendo presagire scontri. Il caso è finito anche in Parlamento con un’interrogazione del deputato di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni.

Riforma Giustizia, la bozza è sparita: “Non c’è urgenza”

Fine maggio, poi inizio giugno, infine tutto rinviato a data da destinarsi. Gli emendamenti sulla riforma del processo penale che la ministra della Giustizia Marta Cartabia dovrebbe presentare, tra cui anche la tanto divisiva modifica della legge Bonafede sulla prescrizione, ormai sono un vero giallo. L’ultima volta che i responsabili giustizia dei partiti hanno incontrato la Guardasigilli è stato dieci giorni fa, il 4 giugno, quando Cartabia ha presentato la riforma del Csm. Da lì a pochi giorni tutti si aspettavano anche le norme per il ddl Penale, annunciate per la fine di maggio, e invece più niente. Chi conosce il dossier spiega che “si sta ancora lavorando” per “trovare una sintesi”. Ma c’è un problema di tabella di marcia: la riforma sarebbe dovuta arrivare in aula alla Camera il 28 giugno, ma ormai i partiti danno per scontato che così non sarà. Infatti gli emendamenti governativi dovranno prima passare attraverso le forche caudine della commissione Giustizia, dove ogni partito proverà a rivendicare le proprie bandiere con i subemendamenti, prima di arrivare in aula. Risultato: il primo voto sulla riforma con ogni probabilità sarà rinviato a dopo l’estate, visto che il Parlamento è intasato dalle riforme legate al Recovery. Insomma, non c’è nessuna fretta di fare la riforma del processo penale e di modificare la prescrizione. Confermando il sospetto di molti secondo cui, forse per provare a prenotare un posto al Quirinale, la ministra della Giustizia non voglia scontentare nessuno: né le forze iper garantiste (Lega, Forza Italia e Italia Viva), né la coalizione giallorosa spesso accusata di “giustizialismo”. Di certo c’è che i tempi stabiliti non saranno rispettati. “Cartabia aveva annunciato che ci avrebbe presentato gli emendamenti in una riunione di maggioranza, ma a oggi non c’è una data – spiega il capogruppo del M5S in Commissione Giustizia Eugenio Saitta – a questo punto è impossibile che la riforma arrivi in aula nei tempi stabiliti”.

La ministra Cartabia ha l’ardito compito di tradurre le indicazioni della relazione stilata il 25 maggio dalla commissione presieduta dal professor Giorgio Lattanzi in emendamenti che non spacchino la maggioranza sulla prescrizione e sui tempi del processo. Inoltre, fanno sapere fonti della maggioranza, ogni singola norma va studiata col bilancino per evitare che venga bocciata in commissione, con annessa figuraccia della ministra e possibili spaccature nel governo. Sulla prescrizione, per esempio, nonostante la commissione ritenga “non urgente anticipare la riforma”, sono state avanzate due proposte: sospensione dei termini per due anni in primo grado e un anno in Appello e in Cassazione oppure l’interruzione della prescrizione “con l’esercizio dell’azione penale” ma la “non procedibilità” se non vengono rispettati i tempi stabiliti del processo (4 anni in primo grado, 3 in Appello e 2 in Cassazione). In particolare Cartabia dovrà cercare di non rompere con il M5S che le ha espresso perplessità sulla modifica della legge Bonafede proprio in un incontro in via Arenula il 23 maggio. Dall’altra parte i ritardi di Cartabia stanno facendo innervosire il fronte garantista: “Il ritardo dipende dalle resistenze del M5S ma così i tempi non saranno rispettati”, dice Enrico Costa di Azione.

Lettera di Graviano a Cartabia. Ora si muovono i pm di Firenze

La lettera che Giuseppe Graviano ha scritto a Marta Cartabia ha acceso l’interesse della Procura di Firenze. L’ufficio inquirente che indaga sulle bombe del 1993 chiederà al ministero della Giustizia di acquisire copia della missiva, inviata da Graviano dal carcere di Terni una decina di giorni dopo il giuramento del governo Draghi. Su questa storia, rivelata dal Fatto, Cartabia non ha voluto rilasciare dichiarazioni, mentre dal suo dicastero fanno sapere che “all’attenzione del ministero e del Dipartimento amministrazione penitenziaria arrivano centinaia di lettere dei detenuti di ogni circuito e ogni caso viene esaminato e inoltrato agli uffici competenti per le opportune verifiche”. È andata così pure per la missiva del boss delle stragi? “Anche questa lettera è stata trasmessa al Dap”, dicono da via Arenula, assicurando che “da parte della ministra, non c’è stata e non ci sarà alcuna risposta”. Al Fatto risulta che il Dap non ha poi dato seguito alla lettera di Graviano.

Questa volta, dunque, all’uomo che custodisce i segreti delle stragi lo Stato non ha risposto. Sembra sia andata diversamente, invece, nell’agosto del 2013 quando il boss di Brancaccio aveva preso carta e penna per scrivere a Beatrice Lorenzin, all’epoca ministra della Salute in quota Pdl: tra le altre cose il mafioso faceva riferimento alla “provenienza dei capitali per formare il patrimonio della famiglia Berlusconi”, auspicando il coraggio di qualche politico per “abolire la pena dell’ergastolo”. Di quella corrispondenza ha parlato lo stesso Graviano quando al processo ’ndrangheta stragista ha sostenuto: “Il ministero mi ha risposto che stava portando avanti tutto quello che avevo chiesto. Io avevo quella lettera ma è scomparsa quando mi hanno trasferito ad Ascoli nel 2014”.

Questa vicenda è stata ricostruita dalla Procura di Firenze, che a novembre scorso ha interrogato la Lorenzin come persona informata sui fatti. Tra le anomalie riscontrate dagli investigatori, anche il fatto che in quella lettera Graviano si rivolgeva all’allora ministro, ma la busta era stata poi inviata alla Presidenza del Consiglio: solo dopo fu “girata” al ministero. Otto anni dopo Forza Italia è tornata al governo per la prima volta e Graviano ha scritto subito a un’esponente dell’esecutivo. Lo ha fatto alla vigilia della sentenza della Consulta che nell’aprile scorso ha decretato l’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo: se il Parlamento non approva una nuova legge entro un anno, anche i boss che non collaborano con la giustizia potranno sperare di ottenere la libertà dopo 26 anni di carcere. “Emerge una tempistica meritevole di approfondimento, sia per quanto riguarda la prima lettera che quest’ultima. Anche perché nel frattempo si è interposta l’udienza del processo ’ndrangheta stragista in cui Graviano ha, secondo molti, detto e non detto volutamente perché doveva inviare messaggi”, dice Nicola Morra. Il presidente della commissione Antimafia si riferisce allo show del boss di Brancaccio davanti alla Corte d’assise di Reggio Calabria: uno spettacolo fatto di messaggi trasversali dal velato sapore ricattatorio e accuse tutte da dimostrare. Ha parlato di “imprenditori del nord che non volevano fermare le stragi”, ha sostenuto di aver incontrato Berlusconi “almeno tre volte” a Milano, di averlo conosciuto tramite suo nonno, che negli anni 70 avrebbe finanziato l’uomo di Arcore con 20 miliardi di lire.

In aula Graviano ha pure annunciato l’uscita di un libro sulla storia della sua famiglia: di quella pubblicazione, però, non si è poi più avuta alcuna notizia. Per il momento, evidentemente, invece di un libro Graviano ha preferito scrivere una lettera alla ministra della Giustizia. Il contenuto di quella missiva non è noto: l’ordinamento penitenziario, infatti, non prevede il controllo della corrispondenza dei detenuti quando questi si rivolgono ad autorità come il capo dello Stato o il guardasigilli. Mario Perantoni, presidente della commissione Giustizia della Camera, è uno dei pochi politici a commentare la vicenda: “Anche se non ne conosciamo i contenuti questa missiva preoccupa e inquieta per il solo fatto che sia stata scritta”.

Di nuovo in volo il Falcon di Stato: Roma-Milano andata e ritorno

Si è fermata per un po’, ma ora sembra proprio decisa a ridarci sotto: tutto è perdonato. E così ieri Sua Presidenza Maria Elisabetta Alberti Casellati, passata la bufera che l’ha investita per via dell’uso che ha fatto durante la pandemia dei voli di Stato per fare la spola tra il Senato e casa sua a Padova, si è rimessa in moto: andata e ritorno in giornata sulla rotta Milano-Roma a bordo dell’amato Falcon per far da madrina al Prix Italia, l’Oscar delle produzioni televisive, radiofoniche e digitali organizzato dalla Rai alla Scala. Cinquanta minuti di volo per arrivare al meglio nel tempio della cultura ambrosiana in mattinata e altrettanti per tornare nella Capitale per l’aperitivo, altro che andare in treno o in macchina.

E sì che in settimana la senatrice del M5S Emma Pavanelli ha presentato una proposta di legge per rendere trasparenti i voli di Stato delle più alte cariche dello Stato. Oggi la normativa prevede la “pubblicità” dei voli solo per i ministri mentre secondo il disegno di legge del M5S sarebbe estesa anche ai presidenti di Camera, Senato, presidente del Consiglio e della Corte Costituzionale. “È giusto che le alte cariche istituzionali si muovano con voli di Stato ma non devono abusarne – spiega Pavanelli – per questo vanno resi pubblici così i cittadini possono farsi un’idea. I voli di stato della Casellati nell’ultimo anno sono stati troppi e in un momento di grossa difficoltà per cittadini e imprese, avrebbe dovuto fare scelte diverse dando l’esempio”. Inoltre, conclude Pavanelli, la sua legge servirà come deterrente: “Se fosse stata in vigore, Casellati avrebbe preso più voli di linea”.

E il figliuolo Alvise plana nella Spoleto degli amici leghisti

Cuore di mamma batte sempre più forte. Quest’anno il maestro d’orchestra Alvise Casellati approda al Festival dei Due Mondi di Spoleto, eccellenza assoluta nel panorama artistico italiano. Proprio lui: l’ex avvocato d’affari con la passione per la musica classica che in pochi anni ha bruciato molte tappe, sotto l’occhio solerte e materno della presidente del Senato. Già in passato il Fatto aveva riferito le singolari coincidenze tra i palcoscenici calcati dal figlio e le attività della mamma (come a Cartagena e a Baku: viaggi e omaggi istituzionali che seguivano di pochi giorni i concerti del rampollo).

In questo caso il legame tra Casellati e Spoleto è macroscopico e non va cercato tanto lontano: nella direzione artistica del Festival dei Due Mondi ha trovato uno strapuntino Ada Urbani, nuova “consigliera per lo sviluppo”.

Brevi cenni biografici. Ada Spadoni in Urbani condivide con la Casellati diverse affinità. La prima è il fatto di presentarsi in pubblico con il cognome del coniuge, Bruno Urbani, proprietario dell’omonima azienda di tartufi (presso la quale Ada ha lavorato per quasi un quarto di secolo, fino al 2005). Urbani e Casellati, fraterne amiche, hanno avuto un percorso comune nel partito di Silvio Berlusconi, che le ha condotte fianco a fianco nel gruppo di Forza Italia al Senato nella passata legislatura. Con l’elezione alla presidenza di Palazzo Madama, Casellati ha chiamato Urbani nel suo numeroso staff riconoscendole il ruolo di consigliere politico (poi con la nascita del governo Draghi, Urbani è passata alle dipendenze del ministero della Pubblica amministrazione di Renato Brunetta).

Insomma, riassumendo: c’è un’altra felice coincidenza nella bruciante carriera del maestro Alvise Casellati. Proprio nell’anno in cui potrà esibirsi al Festival dei Due Mondi – giovedì 8 luglio, ore 20 e 30 – una carissima amica di mamma approda alla direzione artistica della manifestazione.

Ancora più singolari, ma altrettanto deliziose sono le circostanze politiche spoletine in cui è maturata la nomina di Ada Urbani in seno alla direzione artistica del festival. L’ex senatrice infatti era già assessore alla cultura del comune di Spoleto, sotto il sindaco Umberto De Agostinis. Un’esperienza di governo della città non indimenticabile e cessata prematuramente: l’11 marzo una parte dei consiglieri di maggioranza di Lega e Forza Italia ha votato la sfiducia e fatto cadere la giunta. Malgrado lo scioglimento del consiglio decretato dal presidente della Repubblica, il sindaco-magistrato De Agostinis ha presentato ben due ricorsi al Tar chiedendone la sospensiva: entrambi persi rovinosamente (con condanna alle spese legali). Dunque la giunta di cui Urbani era assessore alla cultura (con delega al festival) è caduta con disonore a marzo, ma tre mesi dopo la nostra è rientrata (dalla finestra) nella direzione artistica come “consigliera allo sviluppo”. Per completare il bel quadro, bisogna segnalare che l’assessore al Bilancio della Regione Umbria – una delle istituzioni che finanziano il Festival di Spoleto – è Paola Agabiti, la nuora di Ada Urbani (è sposata con il figlio Gianmarco): il Festival dei Due Mondi è quindi anche una grande festa delle famiglie.

Per decenni il maestro Gian Carlo Menotti, che fondò la kermesse di Spoleto nel 1958, ha lottato per tenere lontana la sua creatura dagli appetiti della politica. Ancora nel 2016 le condizioni per far suonare il talentuoso Alvise Casellati su quel palco non esistevano: mamma Elisabetta provò a fare il suo nome attraverso il compianto sindaco Fabrizio Cardarelli, ma il direttore di allora, Giorgio Ferrara, lo rifiutò seccamente. Nel 2020 Ferrara è stato sostituito da Monique Veaute. Una pregevole carriera in diverse fondazioni artistiche, è moglie dell’ex deputato del Pd, Marco Causi.

Cene e Nomine: Casellati e gli intrighi di Palamara

Avolte non ricorda. Altre non commenta. Altre smentisce. Ma il nome di Maria Elisabetta Alberti Casellati, presidentessa del Senato, emerge spesso negli atti d’indagine dal caso Palamara in poi. Non perché sia stata direttamente coinvolta nelle inchieste ma per il semplice motivo che, dal 2014 al 2018, è stata un esponente del Csm in quota Forza Italia e così, per esempio, il suo nome spunta nelle chat di Luca Palamara con il collega Marco Mancinetti: s’interessò alla nomina di Caterina Chiaravalloti (figlia dell’ex governatore forzista Giuseppe Chiaravalloti, indagato e poi assolto in Why Not) al tribunale di Latina. Nessun reato, il solito “sistema” delle correnti, ma Casellati ha smentito spiegando che non era più al Csm. A proposito: ne Il Sistema, il libro firmato da Palamara con Alessandro Sallusti, il nome di Casellati – che con Palamara ha in comune la stretta conoscenza di Nitto Palma, suo capo di gabinetto al Senato e testimone di nozze dell’ormai ex magistrato – non appare mai. Di tanto in tanto, però, il nome compare in qualche verbale d’interrogatorio. E certo non è reato appartenere a una stretta cerchia di potere. Ma, tra chat e verbali, il suo reticolo di relazioni risulta piuttosto interessante. Sin da quando, nel 2014, fece ingresso al Csm dopo che – durante un vertice notturno – Pd e Forza Italia, con la benedizione di Luca Lotti, Denis Verdini e Gianni Letta, trovarono l’intesa sul suo nome. E così Casellati, in asse con parte di M.I., divenne l’unica capace di contrastare Palamara (Unicost) in alleanza con Area.

Il ticket staccato in Consiglio grazie a Gianni Letta porta a Casellati, in eredità, un personaggio sempre più presente nelle cronache giudiziarie: Filippo Paradiso, arrestato, con l’accusa di corruzione, dalla procura di Potenza nell’inchiesta che vede coinvolti anche l’ex legale esterno dell’Eni Piero Amara e l’ex procuratore di Trani e Taranto, Carlo Maria Capristo. “Conosco Paradiso – dice Casellati ai pm, sentita come persona informata sui fatti – non ho ricordi precisi, ma posso dire che il primo incontro con lui risale (…) all’autunno del 2015, a una cena presso l’associazione Giovanni XXIII (…). Paradiso è un funzionario di polizia del quale il sottosegretario Gianni Letta mi parlava assai bene, per averlo conosciuto nel periodo del governo Berlusconi…”. Paradiso tenta l’avventura politica ma la sua candidatura non viene accettata. Così Letta le chiese “se potevo accoglierlo nel mio staff, nel frattempo, nel marzo 2018 sono stata eletta presidente del Senato. Lo accolsi nel mio staff a titolo gratuito nella qualità di consigliere per l’organizzazione di convegni (…) avrò incontrato Paradiso 7 o 8 volte, sia nel periodo in cui ero membro del Csm (…) sia nel periodo successivo (…) Non ho memoria di interlocuzioni su specifìche questioni o specifìche nomine. Nel periodo successivo, mi interfacciai con lui per delle partecipazioni al Salone della Giustizia del quale era uno degli organizzatori”.

E dunque, Salone della Giustizia: lo storico organizzatore dei convegni era Fabrizio Centofanti, lobbista accusato di corruzione a Perugia per aver pagato viaggi e cene a Palamara del quale, negli ultimi due interrogatori dei primi di giugno, ha detto d’essere stato lo “sponsor” della sua “politica giudiziaria”, nel senso che ne finanziava incontri al ristorante – per 8mila euro l’anno – in cui si discuteva di nomine. Centofanti è anche socio di Amara, sedicente membro della presunta Loggia Ungheria, che Casellati ha chiarito di non aver mai conosciuto né incontrato. Ha però incontrato il pm Giancarlo Longo il quale – ma Casellati non poteva saperlo – per conto di Amara aveva istruito un fascicolo farlocco ipotizzando un inesistente complotto contro l’ad di Eni Claudio Descalzi. Fascicolo mirato a interferire sull’inchiesta milanese sulla presunta corruzione (poi giudicata inesistente) di Eni per l’acquisto del giacimento nigeriano Opl 245: Longo ha già patteggiato una condanna per corruzione in atti giudiziari mentre Amara è indagato per il depistaggio dalla procura di Milano. Ed è proprio Longo a dichiarare d’aver incontrato la consigliera Casellati, attraverso l’intermediazione di Paradiso, per caldeggiare la propria nomina a Gela. Casellati dice ai pm: “…non ho memoria di tale incontro… non sono in grado di escluderne o affermarne l’esistenza”. Ma ricorda con certezza che al Csm, per Gela, il nome “non venne mai fuori”. Paradiso le parlò della nomina di Capristo? Casellati spiega che fu relatrice per la nomina di Capristo alla Procura generale di Bari, che però non andò in porto, mentre su Taranto “Capristo venne nominato all’unanimità” ma “non ero il relatore. Paradiso (…) non ha mai interloquito con me in ordine alle domande presentate da Capristo…”. Interrogato a Perugia, Centofanti racconta: “Prima del luglio del 2016” ho “pagato un pranzo organizzato da Paradiso a cui ha partecipato Capristo, all’epoca Procuratore di Trani (…)”. Persa Bari, Capristo aveva “deciso di virare su Taranto. A tale cena ha partecipato anche il dott. Massimo Forciniti (all’epoca membro del Csm, ndr), molto amico di Paradiso, la presidente Casellati, che ha avuto un rapporto molto stretto con Paradiso e forse Paola Balducci (altro membro laico del Csm, in quota centrosinistra alla quale, proprio in merito alla nomina di Capristo a Taranto, aveva chiesto informazioni il parlamentare Pd Francesco Boccia).

Non è l’unica cena, secondo Centofanti, che aggiunge quella legata alla nomina di Francesco Monastero come presidente del tribunale di Roma. Dice che fu organizzata su input di Palamara – che però ritiene di poter smentire la sua presenza sulla base di alcuni messaggi telefonici e della sua agenda – e gli costò 850 euro. “Quell’evento – dice Centofanti – servì a suggellare l’accordo tra Unicost e i laici di centrodestra per la nomina del presidente del Tribunale di Roma”. L’ufficio stampa precisa: “La presidente Casellati non ricorda di aver mai incontrato Centofanti”.

In Europa è no ad AZ per under 40 da tempo. Il mix vaccinale è già realtà

Vaccinazione eterologa, immunizzazione dei minorenni e lotta alle varianti. Sono i tre punti sull’agenda di tutti i governi europei.

Uk La variante Delta rimanda il “liberi tutti”

Ieri in Uk i contagi hanno superato i 7 mila (90% variante Delta). Downing Street ha rimandato di un mese la fine di ogni restrizione prevista per il 21 giugno. Hanno completato il ciclo vaccinale 29,8 milioni di persone (44.7% della popolazione), ma almeno 12 vittime della variante Delta avevano ricevuto entrambe le dosi. Dal 7 maggio il Comitato che verifica efficacia e sicurezza dei vaccini, raccomanda di offrire agli under 40, ove possibile, un’alternativa ad AstraZeneca. Il 4 giugno è stato approvato Pfizer/Biontech per la fascia 12-15, ma la decisione ultima spetta alla politica. Quanto alla vaccinazione eterologa, una delle ipotesi è l’impiego di un siero diverso dai primi due per un terzo richiamo in autunno.

Francia Via alla campagna per la fascia 12-15 anni

In Francia la vaccinazione è aperta ai maggiori di 18 anni dal 31 maggio e da oggi viene estesa alla fascia 12-17 (solo con l’autorizzazione dei due genitori). Resta aperto il dibattito sull’utilità di immunizzare i bambini, meno dell’1% dei ricoveri e dei decessi. AstraZeneca resta vietato agli under 55. Chi l’ha ricevuto come prima dose può fare il richiamo con Pfizer o Moderna. L’epidemia cala e si ipotizza la fine dell’obbligo di mascherina all’aperto, ma ogni settimana si individuano nuovi cluster di variante “indiana”. Per frenarne la diffusione, Parigi ha introdotto dal 26 maggio l’obbligo di quarantena per chi arriva dal Regno Unito.

Spagna Pfizer per under 60 che hanno avuto AZ

Seconda dose di Pfizer per tutti gli under 60 che abbiano ricevuto AstraZeneca prima dello stop Ema. In Spagna il ministero della Salute ha bloccato a livello nazionale i richiami con AstraZeneca e preferito la vaccinazione eterologa. Questo anche grazie allo studio dell’Istituto Carlos III sul mix, i cui risultati, il 18 maggio, hanno confermato l’efficacia del combinato Az e Pfizer. Chiunque voglia ricevere la seconda dose dello stesso vaccino può farlo, previa domanda e consenso informato specifico. Johnson&Johnson non è bloccato. Anzi, la Nazionale di calcio è stata vaccinata proprio con Janssen prima degli Europei. Quanto ai minorenni, la Spagna, dove fino a sabato erano state vaccinate con doppia dose 12 milioni e 250 mila persone, pari al 25,8% della popolazione e il 44,2% con una dose, sta valutando la possibilità di un anticipo anche su questa fascia d’età, prevista per settembre e per questo ha avviato il secondo studio del vaccino sui minori di 12 anni.

Germania Il mix funziona meglio della doppia dose

In Germania AstraZeneca è stato somministrato alla popolazione adulta finché, ad aprile scorso, un documento della Commissione vaccinazione, ne ha limitato l’uso agli over 60, salvo previa e dettagliata consultazione medica. Secondo un studio dell’università Saarland, chi ha avuto il mix AstraZeneca e Pfizer mostra un’immunità superiore a chi ha ricevuto due dosi dello stesso vaccino. L’approvazione dei vaccini sui minori è ancora oggetto di discussione: gli esperti hanno riferito di non possedere abbastanza dati a disposizione per raccomandare di vaccinare i bambini oltre i 12 anni. “Il virus non è scomparso” ha detto Merkel, il cui governo ha deciso di allentare le restrizioni dal prossimo primo luglio per i viaggi all’estero. Rimarranno in vigore le limitazioni di spostamento verso Stati dove si diffondono varianti: seppur rara, anche in Germania è presente la variante delta.

AstraZeneca, ancora ignoti i veri numeri. E le Regioni litigano

Nel report vaccini del governo i numeri esatti su quanti under 60 hanno ricevuto il siero Vaxzevria di AstraZeneca ancora non ci sono. Non si sa quanti di questi hanno completato il ciclo vaccinale. Né quindi, tantomeno, quanti hanno avuto solo la prima dose (e quando) e ora dovranno chiudere il ciclo con Pfizer o Moderna, fare cioè la vaccinazione eterologa. Di certo, anche se ieri sera Aifa (Agenzia italiana del farmaco) ha chiarito che in base “al mutato scenario epidemiologico di ridotta circolazione virale” è favorevole alla vaccinazione eterologa per gli under 60 “a distanza di 8-12 settimane dalla somministrazione di Vaxzevria” (la determina attuativa andrà a breve in Gazzetta Ufficiale), per ora c’è solo un caos di opinioni e pareri anche tra gli esperti. Se per il farmacologo Silvio Garattini sarebbe bene lasciare ai cittadini la scelta della dose, per il presidente dei medici Filippo Anelli sarebbe invece un errore, perché “i vaccini non sono giocattoli, come i farmaci hanno effetti collaterali e prevedono una prescrizione medica, quindi una responsabilità per cui il medico risponde in sede civile e penale”.

Per il virologo dell’Università di Milano Fabrizio Pregliasco, ancora, sul mix è ancora necessaria cautela (“Vanno fatti degli approfondimenti”), mentre per l’immunologo Sergio Abrignani, componente del Cts, “la vaccinazione eterologa non è una sperimentazione. Da tutti i lavori pubblicati all’estero sappiamo che è sicura e che anzi migliora la risposta immunitaria”. Sull’efficacia del mix una conferma è arrivata da uno studio clinico condotto in Spagna dall’istituto sanitario Carlos III, prima ricerca al mondo che fornisce dati sulla reazione del sistema immunitario all’uso combinato di due vaccini diversi. Lo studio ha analizzato la somministrazione del vaccino Pfizer-BionTech in persone sotto i 60 anni che avevano già ricevuto una prima dose di Vaxzevria. I partecipanti (oltre 670 persone suddivise in due gruppi) dovevano essere almeno nell’ottava settimana dopo la prima somministrazione. La ricerca ha evidenziato il potenziamento della risposta immunitaria. Mentre per quanto riguarda gli effetti collaterali, comunque modesti, quelli più comuni sono stati mal di testa, un senso di malessere, brividi, nausea e in pochi casi febbre.

Lo studio spagnolo è stato preso ad esempio ieri anche da Francesco Vaia, direttore dell’istituto Spallanzani di Roma. “Siamo convinti che l’incrocio si possa fare e possa andare bene – ha detto Vaia a Rai Radio 1 –. E ci sono due studi, uno inglese e uno spagnolo, che dicono che funziona”. Ricerche sono state fatte anche in Francia e in Germania, ha rammentato a sua volta Giorgio Palù, presidente dell’Aifa, che ha espresso un “parere sulla vaccinazione eterologa sulla base degli studi che stanno emergendo. Due vaccini diversi stimolano meglio il sistema immunitario”. Ma è evidente che a sparigliare le carte in tavola ha contribuito anche il presidente della Campania Vincenzo De Luca, che ha vietato il mix e la somministrazione, da ora in avanti, di sieri a vettore virale in qualsiasi fascia di età.

Oltre a quello anglo-svedese anche il Johnson&Johnson, quindi. Ieri De Luca ha anche spiegato di aver inviato una nota tecnica dell’Unità di crisi al ministero della Salute, “perché ci dia chiarimenti motivati: a giudizio dei nostri virologi la platea di cittadini che in Europa hanno sperimentato la somministrazione di vaccini diversi non è molto ampia”. Per il governatore campano, poi, dovrebbe esserci una voce sola, quella del “ministero che fa le consultazioni con Aifa”. E il ministero dovrebbe anche eliminare “espressioni che non hanno senso, come: è raccomandato, è consigliato, si suggerisce. In campo medico una cosa o è autorizzata o è vietata”.

È evidente, in ogni caso, che la nuova indicazione nazionale su Vaxzevria (da non somministrare sotto i 60 anni) ha un forte impatto sulla campagna vaccinale. Non a caso De Luca, avrebbe già calcolato tutto: “Avremo ogni settimana 300 mila dosi di Pfizer e 40 mila dosi di Moderna, ma è chiaro che chiederemo un’aggiunta di vaccini. Se riusciremo a farli tutti sarà un successo, dopo gli eventi avversi una parte dei cittadini non si sta presentando agli hub”. E gli altri governatori che fanno? Di una cosa è certo il coordinatore della commissione Salute della Conferenza delle Regioni, Raffaele Donini, assessore alla Sanità in Emilia-Romagna: “Ho il massimo rispetto per De Luca, che ha posto questioni indirizzate al governo – dice – ma siamo di fronte a un pronunciamento del ministero suffragato dal parere del Comitato tecnico-scientifico e da quello dell’Aifa. E le Regioni non hanno gli strumenti per contraddire queste indicazioni”.

L’accordo ancora non c’è: in Calabria alleati incartati

“Che viene a fare Letta se non c’è un risultato, se ancora non c’è nemmeno un candidato a governatore?”. Quello che sta succedendo in Calabria è tutto nella domanda che si pone un esponente calabrese del Pd, ormai rassegnato allo stallo della coalizione di centrosinistra in vista delle regionali.

Dopo l’uscita di scena del giovane consigliere Nicola Irto, che per quattro mesi è stato il candidato ufficiale del Pd, osannato da Nicola Zingaretti e applaudito da Enrico Letta, sul piatto restano solo le parole di fuoco con cui l’ormai ex aspirante governatore ha messo in un angolo il suo stesso partito diviso in “piccoli feudi” e affetto da un “trasversalismo” che guarda al centrodestra.

A distanza di giorni la musica non è cambiata. Nessuno dei ras del Pd, a partire dal commissario regionale Stefano Graziano, ha spiegato le accuse di Irto facendo addirittura credere pure che il consigliere regionale sarebbe stato disponibile a ritornare in sella. Il Pd sembra un’ameba che non si scompone nemmeno davanti alle accuse di aver bruciato il suo candidato.

Le cose però sono andate diversamente e bisogna tornare indietro di almeno 6 mesi. Quando si è fatto il nome di Irto, infatti, il M5S e qualche altro partecipante alle riunioni interpartitiche hanno nicchiato ponendo una sorta di veto. Il tutto senza motivarlo e senza dirlo a Irto. Per non rompere con i grillini, il Pd ha incassato e non ha preteso nemmeno di sapere le ragioni di quel no. Così, mentre una buona parte del centrosinistra ha iniziato a guardare dalle parti del sindaco di Napoli Luigi de Magistris, l’attendismo dei democrat ha logorato Irto che a un certo punto qualcuno voleva arenare in trattative romane. Pur essendo invitato, però, la “punta di diamante” del Pd calabrese (per dirla alla Letta) non ha partecipato all’incontro con il M5S finalizzato a individuare il nuovo candidato.

Sono queste le basi da cui devono partire Letta e Giuseppe Conte se vogliono superare l’impasse. Domenica durante la trasmissione Mezz’ora in più, l’ex premier ha affermato: “Stiamo facendo un gran lavoro, insieme al Pd abbiamo costruito le premesse per avere un candidato comune, espressione della società civile”.

A Roma evidentemente le premesse sono più chiare che in Calabria dove il toto-nomi non sta risparmiando nessuno. I nomi si bruciano come i fiammiferi sul fuoco: dall’editore Florindo Rubbettino, che ha già detto di non essere interessato alla candidatura, al “re delle cravatte” Maurizio Talarico passando per lo scrittore Enzo Ciconte, prima adulato e poi tenuto a bagnomaria, e per il filosofo Nuccio Ordine che ha ringraziato Conte, ma gli ha anche spiegato che il suo desiderio è quello di “continuare la missione di professore”.

Tra i papabili spunta, infine, il giudice della Corte d’appello di Catanzaro Gabriella Reillo e quello di un’imprenditrice di Cosenza. Entrambi i nomi soddisferebbero il profilo di candidato “donna” cercato da Letta e Conte. In attesa che qualcuno, prima o poi, si ricordi che oltre all’aspirante governatore serviranno le liste che lo dovranno sostenere.