Torino e Bologna. Il Pd “renziano” bombarda Conte

Raccontano che ieri Giuseppe Conte non sia rimasto sorpreso leggendo commenti e post di certi dem. Tutti contro di lui, l’avvocato, accusato di voler comandare in casa del Pd. Quel Conte che da qui a fine mese diventerà capo politico del M5S. E che nell’attesa è già altro: uno specchio, o una cartina di tornasole dei nodi dentro il Pd e quindi dentro i giallorosa, alleanza che è ancora soprattutto un’ipotesi. È bastato che l’ex premier domenica dicesse con chi sta (o con chi vorrebbe stare) a Bologna e in Calabria, per far sbottare quella porzione di Pd ancora renziana. Ma ci sono anche nomi e anime sparse a picchiare su Conte con l’idea di colpire innanzitutto il segretario Enrico Letta, come lui fautore della coalizione con il M5S. Lo mostrano le reazioni al post con cui domenica Conte ha benedetto la candidatura dell’assessore uscente Matteo Lepore, alle primarie di Bologna. O a quanto ha detto sempre domenica sulla Calabria, a Mezz’ora in Più: “Ci sono le premesse per individuare un candidato alla guida della Regione insieme al Pd, che sia espressione della società civile”.

Ma al Conte entrato nella partita emiliana (anche su spinta del bolognese Max Bugani) hanno reagito voci sparse del Pd. E ovviamente la candidata alle primarie Isabella Conti, sindaca iscritta a Italia Viva che si arrabbia se viene definita renziana. “Per Conte la nostra città è solo un banco di prova per equilibri nazionali. Ma i bolognesi non sono cavie” ha detto a Libero. Ancora più dritti sono andati vari dem calabresi, dai deputati Enza Bruno Bossio e Antonio Viscomi al presidente della Provincia di Cosenza Franco Iacucci: “In Calabria il M5S non ha mai risposto alla richiesta di partecipazione alle primarie. Noi non riconosciamo a Conte il potere di decidere per conto della coalizione di centrosinistra e del Pd”. Un monito, all’avvocato che ha come prima carta lo scrittore e docente Enzo Ciconte. Ma il problema nel Pd è molto più largo. Lo ricorda l’ex capogruppo dem in Senato Andrea Marcucci, ufficialmente ex renziano: “A Letta dico no a alleanze strutturali e ad abbracci soffocanti, soprattutto in vista delle amministrative”. Mentre Alessandro Alfieri, coordinatore dell’area Base riformista, predica “prudenza”. Però Conte accelera, e dove serve è pronto a tagliare i ponti. Per esempio a Torino, dove la vittoria nelle primarie di Stefano Lo Russo sembrerebbe aver cancellato la possibilità di un accordo con i grillini, anche al ballottaggio. Ieri Lo Russo, avversario storico della sindaca grillina Chiara Appendino, ha subito detto di “voler aprire a Renzi e Calenda”. E dal M5S hanno ribadito il no a intese. In serata però Francesco Tresso, secondo per un pugno di voti nei gazebo, ha chiesto un tavolo sulla linea politica: “Io e Enzo Lavolta ( terzo, ndr) abbiamo preso più del 60 dei voti, la linea va condivisa”. Ergo, vuole ridiscutere con Lo Russo del rapporto con i 5Stelle.

Nell’attesa il M5S lavora a un candidato autonomo, con Appendino che preferirebbe il consigliere comunale Andrea Russi rispetto alla capogruppo Valentina Sganga. In una riunione, venerdì, Conte e il reggente Vito Crimi hanno sollecitato al M5S locale “una soluzione unitaria”, cioè senza voto sul web. Intanto oggi l’ex premier sarà a Napoli, per sostenere l’ex ministro dell’Università, Gaetano Manfredi. Ma Conte pensa soprattutto alla rifondazione del Movimento. L’annuncio di una segreteria in parte nominata da lui e in parte votata dagli iscritti sta facendo scaldare i motori a molti big e ha placato diversi malumori. Utile, in vista della presentazione dello Statuto, evento online previsto per l’inizio della prossima settimana. Mentre si discute di un cambio di simbolo. E si lavora all’assetto. Conte sarà il capo (o segretario) con tre vice di sua fiducia: una donna e altri due big, tra cui probabilmente Luigi Di Maio. Attese in segreteria Lucia Azzolina, Chiara Appendino e Alessandra Todde. Previsti referenti territoriali per macro-aree, dal Nord-Est alle Isole.

Flop primarie: adesso è panico tra i dem per il voto su Gualtieri

Arriva prima Enrico Letta, giacchetta blu, immancabile sorriso cortese, si infila nel teatro. Poi, lo raggiunge Roberto Gualtieri. Stesso copione. Hanno scelto di fare una visita al Teatro di Tor Bella Monaca il segretario del Pd e il candidato sindaco in pectore dei dem, il giorno dopo il flop dei gazebo a Torino e nella settimana che porta alla competizione di Roma. Eppure la scena ha del surreale. Sono le 18 e 30 e sotto alle travi rosse, piuttosto sgarrupate, ci sono poche decine di persone. Per trovare qualche rappresentante del quartiere tra giornalisti e ceto politico, bisogna sforzarsi. Ma qualcuno c’è. Tenacia da premiare. In due, età sopra la sessantina, si sono sedute. “Sono due ore che sto qui, qualcosa ci potevano pure dire”, argomenta Rossella. “Non è più il Pci. Una volta qui ci venne Luigi Petroselli e disse: ‘In venti giorni facciamo una scuola e così fu’”, ricorda Fiorella. E però il suo ragionamento rimanda talmente tanto a un mondo che non c’è, che non ha più neanche il sapore del lutto: paragonare il Pd al Pci pare proprio un grande equivoco. Ma poi, parafrasando un modo di dire che va per la maggiore, la verità è che non esistono più i partiti di una volta.

Tutta l’iniziativa sembra costruita a tavolino. Con lo stesso stile, era già venuto Maurizio Martina a fare una segreteria nel Teatro, così come Matteo Orfini, da Commissario di Roma. Enfasi della serie “andiamo nelle periferie”. “Questa è una prima iniziativa simbolica. Non era previsto il bagno di folla. Poi ce ne saranno altre di ascolto”, spiega Enzo Foschi, vice segretario del Pd del Lazio. Insomma, la gente non è stata neanche convocata. Questione di scelte, evidentemente. Eppure, a votare in teoria domenica ci dovrebbe andare. Mentre Letta e Gualtieri continuano a parlare con i responsabili del Teatro, qualcuno soppesa gli avversari: “Michetti (il candidato del centrodestra, ndr) non ce la fa a tollerare una campagna elettorale. Per lui parlano Meloni e Tajani”. E Gualtieri ce la fa? “Sì, sì, ci pensiamo noi”. Dopo circa una mezz’ora, i due big escono. Letta si fa immortalare con qualche vecchio “compagno”, Gualtieri si dà all’ascolto dei giovani. Più che altro, entrambi si rivolgono alle telecamere. “Guardate, che senza il VI Municipio non si vince”, si leva una voce che pare dal sen fuggita, dalla piccola folla. La realtà – ogni tanto – si impone. Se a Torino hanno votato in 12 mila, a Roma il rischio è che il numero non sia molto più alto. Quando fu scelto Ignazio Marino, ai gazebo ci andarono in oltre 100 mila, alle primarie vinte da Giachetti votarono in 42.500. Si parlò di flop, ma oggi sarebbe un sogno. “La speranza? 30 mila. L’aspettativa realistica? Tra i 10 e i 20 mila”, pronostica Svetlana Celli, consigliera capitolina, che è di Tor Bella Monaca. Una certa verve ce la mette per dire una verità inconfessabile: “Se la gente non viene a votare perché dà la vittoria di Roberto sicura è un problema: così rischia”.

Anche se praticamente sono stati fatti ritirare tutti i candidati vagamente competitivi, tipo Monica Cirinnà. E dunque domenica l’ex ministro dell’Economia corre contro Imma Battaglia, attivista Lgbt, Cristina Grancio, consigliera comunale ex grillina, Giovanni Caudo, ex assessore di Ignazio Marino, il consigliere centrista Paolo Ciani, il civico Tobia Zevi e l’ex viceministro Stefano Fassina. A parte quest’ultimo, nessuno ha una caratura nazionale. “Noi ci stiamo tutti i giorni sul territorio. Ma per i big è diverso”, dice Fabrizio Compagnone, candidato per il VI Municipio. “Però, è sempre stato così per il Pd”. Ecco, appunto. Il suo slancio suona sincero: “Ma non dobbiamo consegnare la città a una destra becera e approssimativa”. “Roma è la madre di tutte le battaglie”, scandisce (alle telecamere) il segretario. Nelle stesse ore il suo nome rimbalza come ipotetico segretario della Nato al posto di Stoltenberg. Suggestione che aumenta lo straniamento. Intanto, però, l’ora della periferia è passata. Sono le 19 e 30, prima Letta, poi Gualtieri, corrono via.

In fondo a destra

Accade ciclicamente di dimenticarsi cos’è la “destra” italiana. Poi per fortuna provvede essa stessa a ricordarcelo. Per solennizzare il ventennale dalla morte di Indro Montanelli, la famiglia Berlusconi ha nominato il nuovo direttore del Giornale. Dal 1994 all’altroieri aveva cercato quanto di più lontano dal fondatore, in un crescendo rossiniano all’incontrario partito da Feltri e giunto fino a Sallusti. Di peggio, si pensava, era difficile scovare. Ma, da quelle parti, mai disperare: infatti il nuovo direttore è Augusto Minzolini, che al Tg1 nascondeva le notizie e, quando proprio non poteva farne a meno, le taroccava (memorabile la prescrizione dell’avvocato Mills spacciata per assoluzione). Poi concluse in bellezza la sua carriera in Rai con una condanna per peculato perché rubava sulle note spese. Il che gli valse la promozione a senatore di FI, salvo poi dover lasciare il Senato per la legge Severino. Ora, non potendo più mettere piede in Parlamento, l’hanno piazzato al Giornale.

A Napoli, il candidato sindaco del centrodestra Catello Maresca, pm in aspettativa nella stessa città, dichiara: “Il Paese ha ancora bisogno di Berlusconi. Servono persone come lui in prima linea a Napoli. Io sono un costituzionalista convinto (sic, ndr) e la Costituzione ci impone il principio di non colpevolezza fino a sentenza passata in giudicato. Credo che il presidente Berlusconi abbia una sola condanna passata in giudicato” (segue supercazzola sulla Corte europea). Il sillogismo non fa una grinza: tutti sono innocenti fino a condanna definitiva; B. ha una condanna definitiva; dunque è innocente. E questo – è bene ripeterlo – è un pm che faceva le indagini fino all’altroieri e tornerà a farle da ottobre se sarà trombato. Il che pone ai napoletani un bel dilemma etico: votarlo perché faccia danni a Napoli ma smetta di farne alla giustizia, o non votarlo perché torni a far danni alla giustizia ma non cominci a farne a Napoli? Fino a un anno fa, a parte gli addetti ai lavori, nessuno sapeva chi fosse. Poi Massimo Giletti, che sta al giornalismo come Maresca alla toga, cominciò a invitarlo a “Non è l’Arena, è Salvini” per sostenere che le centinaia di boss usciti per il Covid (che poi erano tre) non li avevano scarcerati i giudici, ma il ministro Bonafede (che non ha mai scarcerato né incarcerato nessuno). Maresca non parlava ancora da “costituzionalista”, ma – diceva lui – da “tecnico”. Ora si candida col partito rappresentato a Napoli da Giggino ’a Purpetta, indagato per camorra con tre fratelli arrestati. Ma, da tecnico, da costituzionalista e da pm anticamorra in aspettativa, assicura che con Giggino sul palco non ci sale. Ha la moralità delle demi-vierges, convinte che la verginità sia questione di millimetri.

Uomini “gettati” e pidocchi: tradurre cambia la Storia

Racconta Milan Kundera nell’Arte del romanzo che verso la fine degli anni Sessanta il suo libro Lo scherzo iniziava a esser tradotto nelle maggiori lingue occidentali. Un giorno incontrò uno dei suoi traduttori e, dopo aver tentato di parlare nella sua lingua madre, si rese conto che costui si barcamenava a fatica tra pochissime parole di ceco. “Ma come ha fatto a tradurmi?” gli chiese lo scrittore. E lui, tirando fuori una sua foto dal portafoglio, gli rispose: “Col cuore!”

Che sia una pratica fatale in cui sono impastati tutti i sentimenti – coraggio, odio, amore, paura – ne è convinta anche la giornalista, traduttrice e interprete forense anglo-russa Anna Aslanyan che nel suo I funamboli della parola. Le traduzioni che hanno cambiato la Storia (in libreria dal 17 giugno con Bollati Boringhieri) racconta gustosi episodi sulla centralità di tale ruolo. La sua visione del tradurre è pratica: “È a tutti gli effetti come camminare sulla corda con le gambe legate”. Definizione molto calzante, soprattutto se si pensa al sangue freddo richiesto agli interpreti di uomini politici. In visita ufficiale negli Stati Uniti nel 1960, coadiuvato dal fido interprete Oleg Trojanovsky, Nikita Krushev insieme con John Kennedy parla di Spazio. Un giornalista americano chiede se i sovietici abbiano in programma di mandare l’uomo sulla Luna. L’americano dice “send” (mandare), ma Trojanovsky traduce con “zabrosit” (gettare). Ed ecco che Krushev, noto per la sua intemperanza, inizia a urlare che nessun russo verrà mai buttato via e tronca l’intervista. Riguardo al legame tra traduzione e politica, “se è vero che la politica è l’arte del possibile e dell’alternativa migliore – spiega al Fatto Aslanyan – lo stesso si può dire della traduzione che deve tenere insieme ritmo, registro, tono, parlata, neologismi, espressioni idiomatiche, poiché l’incidente diplomatico in questi casi è dietro l’angolo”. In effetti, se pensiamo a Hiroshima, tutto nasce da un misunderstanding, ops, un’incomprensione: il 26 luglio 1945, l’Office of War Information di Washington diffonde un ultimatum che intima la resa al Giappone. Il mattino successivo il primo ministro Kantaro Suzuki indice una conferenza stampa durante la quale afferma: “Dobbiamo mokusatu la dichiarazione”. Letteralmente, mokusatu in giapponese significa “uccidere con il silenzio” (in seguito il primo ministro disse di voler intendere “no comment”, che non ha in effetti un corrispettivo nipponico). Gli interpreti americani tradussero il termine con “ignoreremo” e “disprezzeremo in silenzio”: il destino di Hiroshima è segnato.

Ma si può cadere nell’errore anche se le intenzioni sono le più felici, come fare un complimento: lo sa bene Emmanuel Macron. In visita in Australia nel 2018, mentre ringraziava il primo ministro Malcolm Turnbull e consorte, il presidente francese definì la signora “delicious wife”, un calco dal francese “delicieuse” (affascinante). “Peccato che l’espressione in inglese, applicata a una donna – nota Aslanyan – significhi essere appetitosa, un bel bocconcino”. “Una delle cose più difficili – prosegue l’autrice – è far ridere. Bisogna saper improvvisare”. Ed è a proposito del far ridere in traduzione, che nel saggio di Aslanyan ci troviamo Berlusconi e la sua vis comica. Racconta Ivan Melkumjan (suo interprete verso il russo) che spesso doveva modificare le sue barzellette: una volta, sul finale di una freddura che finisce con il marito che scopre l’amante della moglie nel guardaroba ed esclama “Abbiamo i pidocchi qui?”, i pidocchi che non sono molto amati in Russia diventano tarme, e il pubblico ride lo stesso.

E funamboli coraggiosi sono anche i traduttori editoriali: pensiamo solo all’editoria italiana, quanto coraggio è servito, qualche anno fa, a Renata Colorni per cambiare titolo alla montagna di Thomas Mann da “incantata” a “magica” (per la parola composta Zauberberg)? O a Nadia Fusini per eliminare “Gita” dal romanzo di Virginia Woolf, intitolato solo Al faro (l’originale è To the lighthouse)? O ancora per smettere di usare il napoletano per la parlata dei malviventi di Marsiglia nei romanzi di Simenon? A questo fine (in Italia come all’estero) è sempre vivo e vivace il fenomeno delle ritraduzioni dei classici: perché “bisogna restituire ai nomi il loro significato” è netta Aslanyan, e per fare ciò va compreso che “tradurre è insieme un’arte, un mestiere, una passione, una necessità”. Non è un argomento così anodino, se pensiamo alle proteste dei Black Lives Matter, non più tardi di qualche mese fa, sui traduttori bianchi in Europa della poetessa afroamericana Amanda Gorman. “Faccio mie le parole di Octavio Paz – ci dice l’autrice – che accomuna le nature universali della poesia e della traduzione. E di Eliot Weinberger quando sostiene che non c’è testo che non possa essere tradotto. Se davvero, per poter tradurre una voce, occorre aver condiviso le sue esperienze, dovrei smettere di fare da interprete in tribunale ad assassini, stupratori e ladri”.

Arabia Saudita MbS con Reign spia i “nemici” del suo regno

Non c’è un prodotto destinato al controllo della popolazione che non finisca nella bacheca speciale di Mohamed Bin Salman, principe ereditario e re di fatto dell’Arabia Saudita. L’ultimo acquisto in tema di spionaggio degli oppositori e controllo interno, di chiama Reign ed è stato venduto da una società informatica israeliana: è uno spyware che compromette gli smartphone presi di mira e li trasforma in dispositivi di spionaggio, secondo quanto riportato dal quotidiano israeliano Haaretz. Quadream, una società con sede a Tel Aviv, ha venduto Reign alle autorità saudite per una cifra oltre i 100 milioni di dollari. Diversamente da altri sistemi-spia Reign non richiede al proprietario del telefono di destinazione di fare clic su un collegamento dannoso per poter hackerare il dispositivo. Quadream è stata fondata nel 2016 da tre ex esperti militari di sicurezza informatica, al momento l’azienda non ha una presenza online, né mostra un logo sulla porta dell’ufficio nell’elegante distretto di Ramat Gan a Tel Aviv. Secondo Haaretz, Reign è stato venduto da InReach Technologies, la consociata di Quadream con sede a Cipro, che potrebbe essere utilizzata per volare sotto il radar del controllore israeliano delle esportazioni della difesa. La capacità di Reign di penetrare nei telefoni utilizzando la tecnologia zero-click è simile allo spyware Pegasus, sviluppato dalla più grande società di sorveglianza israeliana – la NSO Group – e venduto anche questo all’Arabia Saudita. Reign sarebbe un malware più a buon mercato di Pegasus ma ha una tecnologia meno avanzata, poiché un aggiornamento del telefono può fermare la sua capacità di hackerare. Inoltre, non può essere spento da remoto nel caso in cui la missione di spionaggio sia compromessa. È noto che Riad avrebbe usato Pegasus per rintracciare e spiare il giornalista saudita Jamal Khashoggi prima della suo assassinio nel consolato saudita a Istanbul nell’ottobre 2018. Lo scorso dicembre, 36 giornalisti, producer, conduttori e dirigenti del network del Qatar Al Jazeera hanno denunciato che i loro telefoni erano stati hackerati con Pegasus dai governi dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti.

 

In Marocco chi si oppone al re diventa uno stupratore

In un anno tutte le richieste di libertà provvisoria per Soulaimane Raissouni sono state respinte. Il 3 giugno il giornalista è comparso in tribunale, sul banco degli accusati, irriconoscibile, dopo 57 giorni di sciopero della fame, prostrato su una sedia, incapace di tenersi in piedi, il corpo ridotto pelle e ossa, il viso scarno, trattato come un criminale. Soulaimane Raissouni, editorialista di acuta eloquenza, è l’ultimo in Marocco a osare ancora criticare a testa alta la monarchia, la sua corruzione, la tirannia, l’ingiustizia sociale che alimenta.

Il caporedattore del quotidiano Akhbar al Yaoum è in isolamento da più di un anno nel carcere di Oukacha a Casablanca. Ha perso quasi 40 chili. La sua giovane moglie, Kholoud, in un gesto disperato, ha postato sui social la scorsa settimana l’immagine del sudario bianco che ha preparato per lui. Souleimane Raissouni non ha visto crescere il figlio di 18 mesi. È stato arrestato all’alba del 22 maggio 2020 da poliziotti in borghese nella sua casa di Casablanca, sotto l’occhio delle telecamere delle tv, avvisate per l’occasione.

Solo diversi giorni dopo gli sono stati comunicati i capi d’accusa: “attentato al pudore” e “sequestro”. Alcuni giorni prima, la giustizia aveva aperto un’inchiesta dopo le accuse lanciate il 14 maggio 2020 su Facebook da un attivista per i diritti delle persone Lgbt. Quest’ultimo, con lo pseudonimo di Adam Muhammed, ha scritto di aver subito un “tentativo di stupro nel 2018” a casa del giornalista, ma senza nominarlo. Originario di Marrakech, il giovane ha detto che era stato invitato a casa sua da Kholoud, che all’epoca lavorava a un documentario sulla condizione delle persone Lgbt in Marocco, dove l’omosessualità è punita da sei mesi a tre anni di carcere. L’attivista Lgbt ha sporto denuncia solo dopo il mediatico arresto del giornalista, che nega in blocco tutte le accuse. Da mesi i siti pro-regime attaccano e minacciano Souleimane Raissouni.

All’origine di tanto odio, innanzitutto i suoi editoriali al vetriolo che non risparmiano né il re né i suoi collaboratori più stretti, né il potente capo dei servizi di sicurezza, Abdellatif Hammouchi, su cui pesano in Francia denunce per tortura. Ma Raissouni ha anche preso le difese di Omar Radi, anche lui giornalista, incriminato per “spionaggio” e “attentato alla sicurezza dello Stato” dopo lo scandalo sollevato da Amnesty International che aveva rivelato che le autorità marocchine sorvegliavano il giornalista tramite lo spyware israeliano Pegasus. Radi è poi stato accusato a sua volta di stupro. Infine Souleimane Raissouni non ha mai smesso di sostenere neanche sua nipote, Hajar Raissouni, 29 anni, anche lei giornalista di talento al quotidiano Akhbar al Yaoum, che si è fatta le ossa seguendo la rivolta popolare nel Rif del 2016, repressa nella violenza.

Il 30 settembre 2019, la giovane donna è stata condannata, sulla base di falsi referti medici, a un anno di carcere per “aborto illegale e rapporti sessuali illegali”, dopo essere stata arrestata all’uscita di una visita ginecologica. Data l’indignazione internazionale sollevata dal suo arresto, Hajar ha ottenuto la grazia del re ed è stata liberata il 16 ottobre. Ora è rifugiata in Sudan. La “strategia sessuale” utilizzata per demolire gli oppositori e mettere a tacere le voci critiche ha già fatto cadere un’altra figura del giornale Akhbar al Yaoum: il suo direttore, Taoufik Bouachrine, condannato nel 2018 a dodici anni di prigione per “tratta di esseri umani”, “abuso di potere a fini sessuali”, “stupro e tentativo di stupro”, al termine di un processo definito “iniquo” dal Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla detenzione arbitraria. In appello la sentenza è stata portata a quindici anni.

Nel caso Bouachrine, delle quindici donne che avevano sporto denuncia contro di lui, otto hanno alla fine rifiutato di testimoniare o hanno ritratto la loro testimonianza. Una di loro, Afaf Bernani, è stata persino condannata per “falso in atto pubblico” a sei mesi di reclusione. Dal suo esilio, implora ora il regime marocchino di “smettere di usare le accuse di aggressione sessuale per far tacere gli oppositori”. Durante il processo a porte chiuse, durato diversi mesi, altri testimoni che avevano deciso di ritrattarsi sono finiti dietro le sbarre. Una donna presentata come “vittima” di Bouachrine, ma che rifiutava di comparire in tribunale, è stata ritrovata, terrorizzata, chiusa dentro l’auto di un testimone. Nel caso Raissouni, gli inquirenti si sono dati da fare per raccogliere varie denunce in modo tale da trasformare l’editorialista in un predatore sessuale. Invano.

Di fronte al calvario che sta vivendo, persino il giovane che lo ha denunciato si schiera ora in difesa del “diritto alla vita” e i suoi legali non si oppongono alla liberazione di Raissouni. Durante l’udienza del 3 giugno, il giudice ha però ignorato questi appelli: ha anzi ritenuto che la detenzione di Raissouni, secondo lui “in buona salute”, poteva essere prolungata. La perizia medica richiesta dalla difesa è stata respinta.

Molte voci si sono levate in questi giorni in Marocco per scongiurare Soulaimane Raissouni di smettere lo sciopero della fame, unico strumento ancora a sua disposizione per denunciare il rullo compressore di una giustizia ridotta a una macchina di repressione. Kholoud conosce bene suo marito: per lei, non si fermerà. “Libertà, giustizia o morte”, ripete Raissouni. Secondo un osservatore, dopo l’accordo siglato con l‘ex presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che ha riconosciuto la sovranità del Marocco sul Sahara occidentale in cambio della normalizzazione dei rapporti con Israele, il regime marocchino ritiene di godere in questo momento di una sorta di “onnipotenza diplomatica”. Lo testimonia il braccio di ferro in corso con la Germania e la Spagna per ottenere da parte dell’Unione Europea lo stesso riconoscimento concesso dagli Stati Uniti. Il 17 maggio, il Marocco ha cinicamente spinto migliaia di migranti, tra cui molti minorenni, nell’enclave spagnola di Ceuta. Ma i ricatti questa volta non funzionano, neanche con gli alleati più accomodanti, come la Francia. Il 10 giugno, il Parlamento europeo ha adottato una risoluzione che condanna il Marocco per la crisi umanitaria a Ceuta. Non accadeva da anni. “La virilizzazione del regime marocchino in campo diplomatico, il suo disprezzo per i diritti umani, non sono un segno di forza, ma di debolezza. L’Unione europea e gli Stati Uniti devono reagire”, sostiene Aboubakr Jamai, giornalista d’inchiesta e fondatore del Journal, ora rifugiato in Francia.

A Parigi, dove la monarchia marocchina ha tessuto una solida rete diplomatica parallela nelle élite politiche, mediatiche, economiche e culturali, il silenzio è assordante. L’arresto di Soulaimane Raissouni è stato persino applaudito da alcuni giornali francesi. Il 29 maggio 2020, una giornalista di Marianne gli aveva dato dell’”islamista” accostandolo al fratello, l’ultra conservatore Ahmed Raissouni, vicino ai Fratelli Musulmani e nemico dichiarato dei diritti delle persone Lgbt e delle libertà individuali. La famiglia Raissouni, che contò anche in passato eruditi e oppositori del potere monarchico, comprende oggi islamisti, attivisti di sinistra, difensori dei diritti umani, femministe coraggiose come Hajar Raissouni. Eppure le tecniche scandalose utilizzate per coprire di fango i membri della famiglia impegnati nel dibattito pubblico e la sorte di Soulaimane Raissouni sembrano lasciare indifferenti i responsabili politici. Solo l’eurodeputato Raphaël Glucksmann si è rivolto su Twitter ai “carcerieri” del giornalista: “57 giorni di sciopero della fame e la morte in prospettiva se il suo grido incontra il nostro silenzio. Facciamo invece da eco a Soulaimane Raissouni, a Omar Radi. Due giornalisti e attivisti marocchini in prigione”. Nel carcere di Oukacha, Omar Radi, anche lui molto indebolito, continua a chiedere di poter far visita al collega. Ma le sue domande sono sempre respinte, settimana dopo settimana.

 

“A Genova c’era un piano per reprimere i no global”

Vent’anni dopo un poliziotto in pensione racconta in un libro il G8 di Genova e il suo disgusto per la feroce repressione del movimento no global: “C’era un disegno per fermarlo”, dice Gianluca Prestigiacomo, autore di G8. Genova 2001. Storia di un disastro annunciato (Chiarelettere). Simpatizzante della sinistra, era entrato in polizia negli anni 80. Lavorava alla Digos di Venezia, trattava con Luca Casarini e i Centri sociali del Nord-est e a Genova era nel piccolo gruppo di poliziotti in borghese che accompagnava il corteo delle Tute bianche appena trasformate in Disobbedienti, quello con gli scudi di plexiglass che voleva “violare la zona rossa”. Il 20 luglio 2001 il corteo doveva arrivare in piazza delle Americhe, al limite della zona rossa, e invece fu fermato 300 metri prima, all’angolo tra via Tolemaide e Corso Torino, da una carica dei carabinieri di cui nessuno si assunse mai la responsabilità, iniziata dopo un lancio di oggetti da parte di un gruppo di black bloc. Da lì si scatenò l’inferno. Tre ore dopo un carabiniere sparò a Carlo Giuliani, 23 anni e lo uccise. Era una carica illegittima secondo il tribunale di Genova, lo stesso che condannò a pene fino a 11 anni (poi si arrivò a 15) alcuni manifestanti accusati di devastazione e saccheggio.

Lei racconta che prima della carica arrivò un gruppo di persone e vi mandò via, c’era uno con i Ray-ban, un altro disse che erano “del servizio d’ordine dei centri sociali di Roma”. Chi erano?

Eravamo davanti al corteo, a 300 metri da Brignole dove c’era il reparto di polizia schierato. Ci siamo allontanati, altrimenti le avremmo prese da quelli lì. Quando partì la carica un funzionario tirò un bestemmione, diceva “falli tornare indietro”, c’è un filmato su youtube. Quelli erano 5-6, forse una decina. Uno ci filmava con una telecamera. Neanche un bambino avrebbe creduto che fossero dei centri sociali…

I Servizi?

O provocatori, non lo so.

Un funzionario che era nel suo gruppo conferma: “Siamo stati espulsi dal corteo”. Però ritiene che quelli fossero davvero dei centri sociali romani. Poco dopo partì la carica, prima i carabinieri e poi anche la polizia. Se era un errore non bastava fermarsi?

Nessuno capì cosa sarebbe successo, davanti al corteo non c’erano poliziotti in divisa perché così era stato concordato. Il piano era questo: sarebbero arrivati alla zona rossa, avremmo fatto un po’ di teatro, quattro fumogeni, le cose che si facevano allora… E Luca (Casarini, ndr) sarebbe entrato nella zona rossa a fare una conferenza stampa. Ma invece bisognava fermarli, è stato tutto preordinato.

Sì ma era dalla mattina che i dirigenti della polizia non rispondevano al telefono ai responsabili del corteo. Chi ha preordinato? L’uomo con i Ray-ban?

Non è mai stata fatta chiarezza. Bisognerebbe riaprire l’inchiesta, o fare una commissione parlamentare.

Come tanti altri, specie delle Digos di Roma e Milano che conoscevano i no global, lei non andò alla scuola Diaz la sera del 21 luglio. Finì con 87 feriti e 93 arrestati con prove false. Perché non andaste? Cosa avevate percepito?

Non pensi che ci siamo accordati per non andare. Io ero con il mio collega Mirko, era partito l’ordine di arrestare tutti quelli che avevano a che fare con le proteste contro il G8.

Lo riferì al processo, senza che riuscissero a smentirlo, Ansoino Andreassi, l’allora vicecapo della polizia recentemente scomparso. Ma a lei chi lo disse?

Un collega di Genova, non ricordo il nome. Gli diedi il mio numero e gli dissi “se vuoi ci chiami”. Poi ho spento il telefono. Mi sono poi ritrovato, l’ho scritto nel libro, con Pietro Troiani, il funzionario che la sera portò le due bottiglie molotov alla Diaz. Ci ordinò di arrestare due poveretti che non avevano fatto niente. Rifiutai. Non era quello il modo di operare. L’allora capo della polizia Gianni De Gennaro ha partorito quel meccanismo, un sistema repressivo anziché preventivo. Dovevano lasciar fare ad Andreassi.

E invece arrivò Arnaldo La Barbera, deceduto nel 2002. Ma secondo lei può succedere ancora quello che è successo a Genova?

No. Gli attuali vertici li conosco. Conosco l’attuale direttore della prevenzione, il vicecapo della polizia Vittorio Rizzi, lo stesso Lamberto Giannini (il capo, ndr) e Franco Gabrielli, che ha detto cose importanti su Genova. Non potrebbe più succedere anche a prescindere da loro. Potrà scivolare la mano, una manganellata, ma non quello. Non avrebbe mai fatto quelle cose neanche Francesco Gratteri (condannato per falso nel processo Diaz nel 2012, interdetto per cinque anni quando di lui si parlava come di un possibile futuro capo della polizia e da allora in pensione, ndr). Passati vent’anni, dovrebbe dire chi gli ha dato l’ordine.

L’ordine di fare cosa? Non credo di massacrare tutti alla Diaz. Di arrestarli con prove false?

Servirebbe una commissione parlamentare per fare domande a tutti, ci sono persone ancora viventi che possono parlare.

Ultima questione. Si è discusso della riammissione in servizio di alcuni dei condannati per la Diaz e per Bolzaneto dopo il periodo di interdizione. La legge italiana lo prevede, la Corte europea dei diritti umani raccomanda invece la rimozione per fatti di tortura o collegati. In entrambi i casi l’Italia è stata condannata a Strasburgo per tortura. Lei come la vede?

Sono stati fatti rientrare solo per farli arrivare alla pensione.

Gilberto Caldarozzi, allora vice di Gratteri e anch’egli condannato per i falsi verbali della Diaz, dal 2017 per due anni è stato numero due della Divisione investigativa antimafia. Per qualcuno era troppo.

Caldarozzi e Gratteri hanno obbedito a qualcuno. Se tu sei il mio dirigente e mi dici “fai questo” io mi fido, anche perché sei quello che mi nomina. Se fosse arrivato un ordine di De Gennaro avrebbero dovuto obbedire. C’era un disegno generale, un contesto, c’era anche Gianfranco Fini (allora vicepremier, ndr) nella centrale operativa dei carabinieri. Ma del resto a Napoli, sotto il governo di centrosinistra di Giuliano Amato, era andata allo stesso modo. Bisognava fermare il movimento. E ci riuscirono. Da lì in poi tutti hanno avuto paura.

Per rifondare l’università stacchiamo i ritratti dai muri

Al Magdalen College di Oxford gli studenti che gestiscono uno spazio comune (la Middle Common Room) hanno deciso (votando) di rimuovere dalla parete il ritratto della regina Elisabetta che essi stessi avevano appeso lì nel 2013. Gli studenti hanno scritto che volevano creare un “luogo accogliente per tutti”, e che per alcuni di loro “le immagini del monarca, e della monarchia inglese, rappresentano la storia coloniale recente”. La reazione della politica e dei media inglesi è stata violenta, tanto da sollevare un’onda di messaggi d’odio e di insulti contro gli studenti, il College, l’università di Oxford e l’università in quanto tale.

Il ministro per l’Educazione ha definito “assurda” la decisione degli studenti, schierandosi nell’ovvia difesa della regina, che per tutta la vita avrebbe”«promosso in tutto il mondo i valori britannici di inclusione, tolleranza e rispetto” (lo ha scritto sul serio). Con riflesso pavloviano, i giornali di destra di tutto il mondo (in Italia dal Corriere della sera al Primato Nazionale) hanno immediatamente gridato allo scandalo della “cancel culture”, in certi casi paventando (così il foglio di CasaPound) la sostituzione del ritratto di Elisabetta con opere di “qualche sedicente artista di origine allogena” (intendendo dire: ‘negro’, ‘giallo’ o magari ‘frocio’). Invece, la posizione di Dinah Rose, presidente del Magdalen College, è stata esemplare. In una serie di tweet, ha affermato che “Magdalen sostiene fortemente la libertà di parola e il dibattito politico e il diritto all’autonomia della Middle Common Room”, difendendo “le tradizioni del libero dibattito e del processo decisionale democratico che manteniamo vive a Magdalen”, e ricordando che “essere uno studente è più che studiare. Si tratta di esplorare e discutere le idee. A volte si tratta di provocare la vecchia generazione: il che non sembra così difficile in questo tempo”.

Come il dibattito surreale sul politically correct, anche quello sulla cosiddetta cancel culture dimentica sistematicamente il dato di realtà che sta all’origine di tutto: la società occidentale non è una società giusta ed egualitaria, ma si regge ancora su un esteso schiavismo; nascere neri è ancora un decisivo svantaggio, in alcuni casi fatale; la nostra economia continua a depredare e desertificare paesi che abbiamo prima sottomesso come colonie; i nostri governi e capi di Stato tradiscono continuamente i valori delle loro stesse costituzioni. Potremmo continuare a lungo. La società inglese, a causa dell’estensione enorme del colonialismo britannico e del suo multiculturalismo attuale, vede avviarsi un dibattito molto più eclatante che in casa nostra. Ma se – immaginiamo un esempio – un gruppo di studenti italiani avesse rimosso da uno spazio autogestito un ritratto di Sergio Mattarella dopo che questi aveva nominato cavaliere del lavoro John Elkann, cosa sarebbe successo?

Da professore universitario, credo che il problema sia che episodi come questi siano pochissimi. La vera cancel culture è quella contro il pensiero critico, e dunque contro l’università. L’Italia è l’ultimo Paese dell’Unione Europea per spesa in università (0,3 % del pil, contro una media europea di 0,8), Harvard da sola ha la metà di tutti soldi che lo Stato italiano dà ogni anno alle sue 96 università. Ma non è solo questione di soldi. Dall’università ci si aspetta ormai solo formazione professionale (‘produzione’ di pezzi di ricambio per il mercato del lavoro: ‘capitale umano’ profilato a dovere): non l’unica cosa a cui serve davvero, e cioè un pensiero critico capace di guidare il cambiamento della società nella direzione del progetto costituzionale – cioè verso l’eguaglianza sostanziale, la giustizia sociale, l’inclusione, il rispetto e anzi la valorizzazione delle differenze.

Ma l’università non deve mettersi al servizio dello stato delle cose, introiettandolo e addirittura replicandolo nella sua struttura interna: perché serve a pensare un modo diverso di esistere. Proprio riflettendo amaramente sui tradimenti del dorato mondo universitario maschile di ‘Oxbridge’, Virginia Woolf immaginava un’università in cui non fosse insegnata “l’arte di dominare sugli altri; non l’arte di governare, di uccidere, di accumulare terra e capitale. … Ma l’arte dei rapporti umani, l’arte di comprendere la vita e la mente degli altri … lo scopo dovrebbe essere non di segregare e di specializzare, ma di integrare … scoprire da quali nuove combinazioni possono nascere unità che rendono buona la vita umana”. Quegli studenti del Magdalen College hanno capito cos’è davvero un’università: meglio di ministri, rettori, senati accademici e consigli di amministrazione che sono quasi riusciti a trasformare la fucina del pensiero critico in un museo del conformismo, dominato da una corporazione di consulenti dello stato delle cose. Riprendersi l’università è urgente: e perfino segnali minuscoli come questo infondono una qualche speranza.

“I giovani sono frutta da spremere. Traditi con gli open day”

Una società con la bocca piena della parola “giovani”, che intesta il programma europeo di ripresa alla “next generation”, che quotidianamente lacrima sui debiti che addosseremo “a chi viene dopo di noi”, e poi li arruola come target e un po’ se ne frega della loro vita. Professor Sarantis Thanopulos è successo con gli Open day di Astrazeneca.

La nostra è una società quantitativa. La sua fede è nei numeri, nella tecnologia, nella performance. Con la pandemia la nostra religione assoluta è divenuta la scienza, incuranti che la scienza non può essere esatta, onnipotente, definitiva. Ha risposte provvisorie, precarie, incomplete.

È assai tartufesco mandare i ragazzi a vaccinarsi con un siero che può creare problemi e far finta di accorgersene solo quando il problema accade.

Non è il siero che dobbiamo incolpare. Ogni medicina produce effetti collaterali. Ma noi aboliamo il rischio dal nostro orizzonte perché il potere pubblico della verità non si fida.

La verità produce conflitto.

Infatti il nostro tempo rifiuta il conflitto, siamo genitori che hanno l’ansia di appianare, ridurre, banalizzare il confronto. Abbiamo l’idea che la vita dei figli debba essere una estensione della nostra.

Si parla dei giovani solo quando c’è di mezzo l’apericena, la movida, le scazzottate notturne oppure, nei casi più gravi, la morte. La gioventù come elemento trainante della cronaca nera. Un po’ poco per la “next generation”.

Tacito diceva: hanno fatto un cimitero e l’hanno chiamato pace. Siamo così persuasi che ogni discussione debba essere silenziata, nella convinzione che meno conflitto c’è e più si cammina spediti, che stiamo cadendo in tante trappole che mistificano la realtà. Quante bugie ci siamo raccontati sull’era digitale nella quale galoppavano festose le nuove generazioni?

Lo smartphone è testimone fedele della vita dei nostri figli.

Un ragazzo maneggia meglio di me il computer, ma un ragazzo soffre più di me la società digitale, la virtualizzazione. Si è accorto che durante questi lunghi mesi di pandemia le strade – quando era concesso – erano riempite solo da giovani? Sono loro che hanno bisogno di vedersi, riconoscersi, capirsi, confrontarsi. Molti di noi adulti sono invece divenuti felici prigionieri dello smart working. La solitudine come astensione attiva dalla vita.

I giovani nascono già rassegnati, non si ribellano.

Ogni gesto di ribellione è appianato dalla nostra voglia di reprimerlo nell’accomodamento. Perché questi ragazzi devono essere pronti e idonei alla nostra idea di società performante. È un imbuto nel quale li caliamo, come se fossero frutta da spremere. Ma una società così votata all’agire meccanico, votata all’efficientismo, alla produttività fine a se stessa, è senza anima.

Il numero dei vaccinati e non più la loro età sono divenuti l’ossessione di queste giornate.

La terribile fine di Saman (la ragazza di origine pakistana che ha rifiutato il matrimonio organizzato e ora è scomparsa) è l’epilogo dell’idea dei suoi genitori che lei fosse solo una estensione della loro vita. L’omicidio è terribile e ancora più terribile è che sia concepito come l’amputazione di una parte di sé, di una loro gamba.

E la vicenda di Matteo, il ragazzo che si è ucciso in chat, prendendo parte al forum dei suicidi, illustrando la sua morte ai propri compagni?

Vede lo stupore, l’assoluta distanza che separa quel mondo dal nostro? La verità è che rifiutiamo di conoscerli, e dunque non li riconosciamo. Chi era Matteo? Lo sa il papà, lo sanno i suoi amici?

Lei era giovane al tempo della Grecia dei colonnelli. Ha conosciuto la forza e la vitalità della rivolta. Ma da un ventennio e più in Europa non c’è alito di ribellione.

Quella di Greta, della sua generazione, non è una ribellione? Diversamente dai nostri padri non sappiamo affrontare i ragazzi, fuggiamo dalla sfida, dalla durezza del confronto. Sopire, questo il verbo. Perché in fondo la nostra idea è portarli dove abbiamo deciso noi.

Sud preso in giro: l’alta velocità aiuta i costruttori e i più ricchi

Nell’attuale Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) nessun criterio è presentato al pubblico per le nuove linee ferroviarie ad Alta velocità al Sud: non certo analisi costi-benefici, definite “odiosissime” dal viceministro Giancarlo Cancellieri (se fossero soldi suoi probabilmente cambierebbe idea: chissà se prima di fare un acquisto si informa sul prezzo), ma nemmeno previsioni di traffico, o analisi ambientali o finanziarie. Nulla. Il ministro Enrico Giovannini un criterio altamente scientifico lo ha espresso in Tb: “L’Av il Sud se la merita”. Sembrerebbe un criterio distributivo (“dare a chi non ha avuto”). Ma, come vedremo, è vero il contrario. Esistono tuttavia tre parametri importanti, non misurati probabilmente per paura dei numeri che potrebbero uscirne.

Il primo è la crescita economica: dopo 20 anni di stasi ne abbiamo bisogno. La crisi Covid ha reso drammatico e urgente questo obiettivo. È l’unico vagamente misurato nel Pnrr, ma in modo grottesco: si usa un buon modello macroeconomico europeo, ma si assume a priori che tutti i progetti siano efficientissimi, senza entrare nel merito nemmeno dei maggiori. Una linea ferroviaria deserta avrebbe effetti di crescita identica ad una affollatissima: entra nel modello solo come costo. Anzi, più costa e meglio è.

Ora, i modelli che stimano gli effetti di crescita (sono noti come “input-output”) sono in generale favorevoli al settore “costruzioni” nella fase di cantiere, ma non distinguono tra grandi e piccole opere. E le grandi opere hanno impatti occupazionali nettamente inferiori. Le piccole opere hanno effetti rapidi (e oggi ci serve occupazione rapida) a differenza delle grandi che necessitano di tempi molto lunghi per essere realizzate. Tempi che faranno anche cadere gran parte delle grandi opere fuori dai limiti del Recovery Fund, e quindi le dovremo pagare a tassi di interesse di mercato, che rischiano di essere alti.

Rischiano poi di essere drammatici gli effetti di crescita “a valle” cioè nella fase di esercizio, nella quale è fondamentale il traffico servito. Nulla di questo traffico ci è dato sapere. Abbiamo un caso davvero molto simile: la metà della rete AV meno utilizzata spagnola a dieci anni dalla costruzione è rimasta semi-deserta. Date le densità insediative in gioco nel Mezzogiorno, e le tendenze demografiche, i rischi di un esito analogo sono più che verosimili.

Si tratta poi di tecnologie con modesti impatti di innovazione e ad occupazione temporanea. Il traffico ferroviario merci infine in nessun paese al mondo è interessato all’AV. Le previsioni di traffico hanno forti relazioni con la scelta dell’AV, che presenta capacità e costi elevatissimi: 300 treni al giorno e 60 milioni al km.

Il secondo criterio riguarda gli effetti che sono misurati dalle analisi costi-benefici, delle quali, come si è detto, non c’è minima traccia (e forse è una fortuna, visto che le ferrovie applicano una metodologia molto “personale”, che rende fattibile praticamente qualsiasi opera). Quali sono questi effetti? Quello che pesa di più in un progetto AV è il risparmio di tempo di viaggio dei passeggeri, seguito dai benefici ambientali dell’eventuale cambio di modo dalla strada o dall’aereo alla ferrovia, e alla sicurezza. Dipendono in modo critico, come è ovvio, dal traffico, per il quale non esistono previsioni ufficiali (le farà ufficiosamente, con modelli sofisticati BRT- onlus, che da adesso dovrà servirsi dell’infelice acronimo “runts”).

Dei rischi molto concreti di una ripetizione del caso spagnolo abbiamo già accennato (linee deserte nelle aree periferiche anche dopo 10 anni). Ma sempre sul caso spagnolo esiste una recente ricerca davvero allarmante: per quasi metà della rete, i risparmi di emissioni ottenuti dalle linee Av sono stati così modesti da non compensare nemmeno quelle generate dal cantiere. Cioè le nuove linee hanno generato un danno netto all’ambiente. Altro che rivoluzione verde.

E veniamo al terzo obiettivo, quello ridistributivo. L’unica forma ammissibile è tra ricchi e poveri, e le linee Av favoriscono, a costi enormi pagati da tutti, una piccola minoranza di persone che viaggia, dell’ordine del 5 per 1.000. E sono viaggiatori che hanno molta fretta, non certo i cittadini a più basso reddito del Sud. A cui servono buoni servizi ordinari di trasporto, per i loro spostamenti quotidiani per studio e lavoro. Siamo evidentemente in presenza di una “ridistribuzione perversa”, come dicono gli economisti.

Per crescere il Sud ha bisogno di cose totalmente diverse: più occupazione stabile, in tempi brevi, e in settori avanzati.