Scadenza Imu. Al via il solito caos tra nuove aliquote e esenzioni Covid

Entro mercoledì 16 giugno va versato l’acconto Imu per il 2021 tramite F24, PagoPA o bollettino postale. Si tratta, insomma, della solita scadenza che coinvolge milioni di proprietari di casa che ogni anno sono costretti a rincorrere le novità dell’ultimo minuto che arrivano dai Comuni e stare dietro alle varie modifiche che ormai caratterizzano questa imposta, nonostante da anni venga promessa la semplificazione della giungla delle aliquote a beneficio dei contribuenti. Così, se lo scorso anno è stata cancellata per tutti la Tasi, inglobata proprio nell’Imu per semplificare la gestione dei tributi locali, quest’anno bisogna fare molta attenzione alle aliquote comunali e alle tante esenzioni inserite per l’emergenza Covid. Facciamo chiarezza. La nuova formulazione dell’Imu dello scorso anno ha causato una riduzione di entrate per gli enti locali, così il governo ha dato facoltà ai Comuni di aumentare le aliquote Imu per recuperare in parte ciò che si è perso con l’abrogazione della Tasi. Ma lo scorso anno sono stati pochissimi i Comuni che avevano già deliberato prima del saldo del 16 dicembre le aliquote definitive. Così per molti contribuenti ci potrebbe essere quest’anno un un conguaglio da versare e nuove aliquote con cui calcolare l’imposta. In linea generale, l’aliquota base è dell’8,6 per mille, ma i sindaci possono aumentarla fino al 10,6 per mille.

Sul fronte delle esenzioni, invece, oltre a tutti i proprietari delle abitazione principale (eccetto le dimore di lusso), a non pagare la prima rata è anche chi detiene gli immobili delle attività dei settori dello spettacolo, del turismo, alberghiero e fieristico, ad esempio villaggi turistici, case vacanze, bed and breakfast, agriturismo, campeggi, stabilimenti balneari, discoteche. Ma il dl Sostegni ha stabilito l’esonero dalla prima rata anche per i titolari di partita Iva (attiva al 23 marzo 2021) in possesso dei requisiti di accesso ai contributi a fondo perduto, solo per gli immobili dove svolgono l’attività lavorativa e a condizione che i redditi 2020 si siano ridotti di almeno il 30% rispetto all’anno precedente. Tra tutti gli altri proprietari che devono pagare l’Imu ci sono anche quelli che non hanno la disponibilità degli immobili a causa del blocco degli sfratti prorogato fino al 30 settembre 2021 per i provvedimenti di rilascio adottati dal 28 febbraio al 30 settembre 2020, mentre lo stop proseguirà fino a fine anno per quelli adottati da ottobre e fino al 30 giugno 2021.

 

Fuga dalla Borsa: il “gioco dell’Opa” frega i pesci piccoli

Il gioco dell’Opa a Piazza Affari è cambiato. Quando furono introdotte nel ’98, le “Offerte pubbliche di acquisto” sulle azioni che compongono il capitale erano mirate a rendere contendibili le società quotate. Ma da anni ormai hanno invece quasi sempre lo scopo di raccogliere tutte le azioni e cancellare le aziende dalla Borsa, il cosiddetto “delisting”. Tutte le 10 operazioni lanciate da inizio anno a Milano puntano a levare dal mercato le società destinatarie, mentre l’anno scorso questa è stata la ragione di 10 delle 14 Opa. Il trend riguarda tutti i settori e società di ogni dimensione e si gioca spesso sulla pelle degli azionisti di minoranza. Da inizio 2020 tra le operazioni svettano quelle di Generali su Cattolica, Asterion su Retelit, Intesa Sanpaolo su Ubi Banca e Crédit Agricole Italia su Creval, Romulus and Remus Investments su As Roma (fallita, però, e il magnate Friedkin ora controlla l’86,8% della squadra), Giano Holding su Gedi, società editrice di Repubblica e L’Espresso.

Secondo uno studio della Consob sulle Opa lanciate in Italia dal 2007 al 2019, su 174 offerte azionarie 109 (il 60,6%) prevedevano il delisting della società target come finalità dell’azionista di controllo o come obiettivo “associato” dei nuovi soci di riferimento. Dal 2015 al 2019 l’incidenza dei delisting è cresciuta dal 50 al 90% delle offerte totali, è aumentata la dimensione media delle società revocate e le cancellazioni sono scattate anche con i listini stabili o al rialzo. Ma perché il delisting è diventato la regola? Tra le cause ci sono la volontà degli azionisti di maggioranza di riprendersi le società quotate pagandole meno dei fondi raccolti con la quotazione – evitando gli obblighi di trasparenza e comunicazione -, la perdita di rappresentatività di Borsa italiana rispetto a quelle estere e la diffusione dei fondi di private equity, strumenti di investimento che raggruppano pochi soggetti con grandi capitali. Quando prestiti e obbligazioni costano poco e le azioni sono in calo, per i fondi di private equity è facile comprare società quotate a debito (i cosiddetti leveraged buy out, Lbo) e toglierle dalla Borsa. C’è anche un fattore tipicamente italiano, la concentrazione del controllo: minore il numero di chi possiede partecipazioni elevate in una società quotata, maggiore è l’impulso a levarla dal listino.

Salvatore Bragantini, manager ed ex commissario Consob, spiega che “il fenomeno dei delisting attraverso le Opa ha cause diverse. Innanzitutto tutte le Borse europee soffrono della mancanza di un vero mercato integrato per le differenze sul diritto societario e fallimentare. In secondo luogo, i prezzi pagati fuori Borsa dal private equity per le quote di maggioranza sono superiori a quelli pagati a Piazza Affari e ciò crea un incentivo a delistare le imprese alleandosi ai loro azionisti di controllo, perché la gestione libera dalle norme e dai condizionamenti previsti sul mercato borsistico consente al capitale investito di ottenere rendimenti superiori. Sono tendenze mondiali che coinvolgono anche Usa e Regno Unito. C’è poi una questione di fondo: le medie imprese italiane interessanti per gli investitori istituzionali non sono abbastanza numerose, le altre non hanno un incentivo reale alla quotazione perché non riscuotono abbastanza interesse. Tra i fattori regolamentari, la fine della concentrazione degli scambi in Borsa decisa dalla direttiva Mifid non è stata determinante. mentre ha avuto effetti maggiori la norma per evitare conflitti di interesse tra la ricerca sui titoli azionari e l’attività di consulenza di investimento che ha colpito maggiormente le azioni a minore capitalizzazione”, conclude Bragantini.

Anche se non sempre i delisting vanno a segno, non sempre gli azionisti interessati a togliere dalla Borsa una società rinunciano ai loro progetti. Lo dimostra l’Opa da 3,5 milioni lanciata su Poligrafica San Faustino per delistarla dalla Campi Srl della famiglia Frigoli, che detiene il 48,1% (ma grazie al voto maggiorato conta per il 64,9% del capitale votante) di Psf. L’offerta di gennaio, che pagava 7,03 euro per azione (all’ingresso in Borsa nell’ottobre 1999 i titoli costavano 37 euro, nel 2000 avevano raggiunto i 200) con un premio del 15% sul listino, è fallita perché ha raccolto appena 4.962 azioni, lo 0,4%. L’operazione si pagava da sé grazie ai fondi propri di Psf: a fine marzo la posizione finanziaria netta consolidata era positiva per 5,4 milioni, gli utili non distribuiti erano 3 milioni. Nessun problema: i Frigoli hanno indetto per il 16 luglio un’assemblea di Psf per decretarne la fusione inversa con Campi. Offrono ancora meno, 6,96 euro per azione, mentre gli azionisti di minoranza calcolano il valore in 34 euro. I risparmiatori promettono battaglia, ma lo scontro è impari. Se l’Opa è cambiata, la morale resta la stessa: il pesce grosso mangia i piccoli.

Tanti investimenti sull’idrogeno, ma in realtà è gas

La transizione ecologica, come forse alcuni hanno capito, è nella pratica una transizione energetica: in buona sostanza non il ripensamento del rapporto tra attività umana e ambiente circostante, ma una ristrutturazione del sistema industriale che – se andrà bene – dovrebbe riuscire a diminuire (di quanto si vedrà) le emissioni climalteranti.

Il Piano di ripresa predisposto dal ministro Roberto Cingolani – scienziato che ha sempre un occhio di riguardo per lo sviluppo economico, a volte declinato come interesse d’impresa – è pienamente in questo solco, solo leggermente più arretrato della media. Anche su indicazione dell’Ue, ad esempio, la partita “idrogeno” ha un certo peso sia diretto che indiretto nel Pnrr italiano: il capitolo 3 della missione 2 del Piano prevede un investimento di 3,19 miliardi su questo capitolo, a molti investimenti indiretti arriveranno grazie a scelte in parte esterne al Pnrr come l’uscita (phase out) dal carbone in Sardegna, che sarà realizzata – per la felicità del colosso Snam, partecipato al 30% da Cassa depositi e prestiti – attraverso due mega gasdotti, infrastrutture che hanno un orizzonte di vita di circa 50 anni, e non puntando su solare ed eolico come pure era possibile visto che sole e vento non mancano di certo nell’isola. Sia detto en passant, ma l’Autorità per l’energia (Arera) ha bocciato il piano di metanizzazione della Sardegna di Enura (cioè Snam e Società Gasdotti Italia)

Altri due miliardi, in ogni caso, il Pnrr li investe sul biometano – in particolare nel settore agricolo – altro gas che andrà trasportato per essere utilizzato come fonte energetica. Il gasdotto, insomma, è il vero centro della strategia italiana: “Più in là li useremo per l’idrogeno”, si dice. E il piano industriale di Snam s’è portato avanti destinando la metà dei 7,5 miliardi di euro di investimenti previsti tra 2020 e 2024 “alla sostituzione e sviluppo degli asset secondo standard compatibili anche con l’idrogeno. A oggi la società stima che oltre il 70% dei tubi dei propri metanodotti siano pronti a trasportare idrogeno”, si legge sul sito della società dei tubi.

Il pasticcio sta nel fatto che l’idrogeno è una tecnologia in larga parte acerba e/o costosa e/o inquinante: a breve sarà forse possibile utilizzarlo come fonte di energia solo per grandi complessi industriali (peraltro in miscela con biometano o gas naturale), il che rende poco meno di una boutade i 530 milioni stanziati per la ricerca sul suo utilizzo nel trasporto stradale e ferroviario.

La strategia di Cingolani sembra arrivare direttamente dagli anni Ottanta e Novanta, quando il gas era il gemello buono del petrolio, ed è finita sbeffeggiata sul Corriere della Sera non da Greta Thunberg, ma da John Kerry, inviato speciale del presidente Usa per l’emergenza climatica, lo scorso 21 maggio: “Il ministro Cingolani mi ha mostrato le mappe dei gasdotti, esistenti e in discussione. Ma attenzione: il gas naturale è comunque un combustibile fossile composto all’87% circa di metano, quando lo bruci crei CO2, e quando lo sposti possono esserci perdite molto pericolose”.

Proprio parlando di gasdotti, Francesco La Camera – alto funzionario del ministero dell’Ambiente che dirige Irena, cioè l’International Renewable Energy Agency – ha sostenuto che “il rischio dei grandi investimenti infrastrutturali in combustibili fossili è quello dell’insostenibilità economica nel medio lungo periodo”. Tradotto: il peso dei fossili nel mimix energetico andrà scemando, compreso il gas, che avrà il suo picco di utilizzo nel 2025; investire ingenti fondi pubblici in nuove infrastrutture non ha senso, basta riconvertire quelle esistenti ai nuovi usi e concentrare i fondi sulle rinnovabili vere e le reti intelligenti, in grado di gestire la discontinuità che è ad oggi la vera pecca dell’energia “green”.

Le rinnovabili ferme al palo: aste deserte e obiettivi lontani

Sono considerate dagli ambientalisti le grandi assenti nella programmazione energetica del ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani, ma soprattutto da qualche anno sono le grandi assenti nel mercato energetico italiano. Tra progetti per il gas, idrogeno e aperture al mini-nucleare, delle fonti di energia rinnovabile e delle sue infrastrutture ci si ricorda quasi esclusivamente quando diventano il centro di contestazioni tra istituzioni locali, aziende e governo.

Nel 2020, infatti, l’Italia ha costruito appena 0,78 gigawatt di impianti eolici e solari; nel 2019 erano stati 1,2; l’anno prima si era arrivati a 1,1 gigawatt. Tuttavia, per raggiungere gli obiettivi previsti al 2030 sia dal Pniec (il Piano nazionale integrato Energia e Clima che sarà a breve aggiornato), sia da Bruxelles, si dovrebbero realizzare impianti per almeno 6mila gigawatt l’anno. Nulla, ad oggi, di più difficile.

L’ultimo bando del Gse per assegnare gli incentivi a progetti di centrali per le rinnovabili, che era tarato su un totale di 2.461 megawatt, ne ha attribuiti per appena 297. È stato “piazzato”, quindi, solo il 12% dell’offerta. E se in Italia le aste vanno quasi deserte, in Spagna e in Portogallo vengono richiesti incentivi per una potenza pure superiore a quella messa all’asta. Abbiamo provato a capire perché.

L’inizio della storia delle rinnovabili in Italia coincide grosso modo col combinato disposto della liberalizzazione del settore dell’energia e la spinta dell’Ue a produrla da fonti rinnovabili, dunque per lo più idroelettrico (che è minimamente utilizzato), eolico e solare. Negli ultimi quindici anni c’è stata una campagna di incentivazione progressiva: si è passati dagli iniziali sostegni a fondo perduto, magari per i privati, a quelli per salvare i vecchi impianti. Fino a meccanismi di incentivazione generici e sistematici. In generale, l’Italia è all’avanguardia dal punto di vista della tecnologia. Le fonti idroelettriche sono ben sfruttate e coprono circa il 18% della produzione da rinnovabili; ad esse si aggiunge il “nucleo” duro di biomasse, eolico e fotovoltaico, spinti dagli incentivi arrivati tra il 2005 e il 2012 (potenze installate per 8, 8 e 9%)

A quel tempo le aste andavano benissimo, arrivavano operatori dall’estero, gli impianti si moltiplicavano e pian piano anche i costi iniziavano ad abbassarsi. Poi, i problemi. “Fra il terzo e il quarto Conto Energia, l’Italia non ha saputo abbassare gradualmente gli incentivi al fotovoltaico – spiega l’avvocato Francesco Arecco, che da anni si occupa di questi temi -. Meccanismi di accesso entro termini strettissimi a incentivi molto alti hanno richiamato gli speculatori. La reazione di politica e amministrazione è stata lenta ma molto forte: si è deciso di verificare tutti gli impianti già ammessi agli incentivi, anche a distanza di anni. E si sono revocati incentivi anche sulla base di criteri meramente formali, colpendo spesso gli operatori in perfetta buonafede. Questo ha reso l’Italia un Paese considerato ad alto rischio di investimento”. In pratica, nell’ultimo decennio c’è stato chi ha investito davvero e fondi che hanno speculato, con gli incentivi costruito magari impianti enormi dichiarandone invece tanti microscopici. Il paradosso: l’imprenditore serio, che magari aveva pianificato un rientro dell’investiemento nel giro di 5-8 anni si è trovato a dover ricominciare tutto da zero, lo speculatore ha invece guadagnato, ha fatto una srl veicolo, l’ha fatta fallire, ha lasciato l’impianto in un campo e se n’è andato coi guadagni.

Ovviamente il Gse ha poca responsabilità su questa gestione. Gli indirizzi arrivano sempre da governo e politica che, spesso e volentieri, chiede al gestore di “stringere” la cinghia. Nel 2014, per dire, arriva lo “spalma incentivi fotovoltaico” che imponeva la scelta fra una riduzione o una estensione del periodo incentivale con l’obiettivo di un risparmio in bolletta. Una prassi che anche la Cassazione ha ritenuto legale, ma che di fatto – secondo chi è nel settore – oggi spaventa gli investitori. “È imperdonabile – continua Arecco – che il Paese le cui Università hanno sviluppato i migliori meccanismi incentivali cada in contraddizione così, con un conseguente altissimo danno reputazionale. Quali investitori può richiamare un sistema Paese così?”.

Autorizzare un impianto, poi, pare abbia bisogno di tempi infiniti. “Oggi – ci spiega un grosso operatore – un impianto solare di ampia scala richiede un iter di almeno un anno e mezzo. Per l’eolico si arriva anche a 5 anni con punte di 7 e 9. Questo spesso implica che quando e se il procedimento arriva a buon fine, lo fa con un layout tecnologico che è già ampiamente superato dal mercato”. Le turbine dell’eolico, ad esempio diventano sempre più efficienti. Solo che adeguare o variare i progetti richiede altri permessi altrettanto lunghi. Le proiezioni di settore mostrano che con questi ritmi gli obiettivi di produzione da rinnovabili fissati al 2030 si raggiungeranno in quasi cento anni. Ammesso che si inizi davvero a crescere.

Anche perché a luglio del 2019 è stato pubblicato il dl Fer con un ciclo di sette aste in due anni per complessivi 8 giga, il 90% circa per progetti di larga scala. L’offerta si è saturata però solo il primo anno, per poi ridursi progressivamente. Secondo un Rapporto del Politecnico di Milano, solo l’eolico è crollato del 79%. Nelle ultime aste sono stati offerti solo 70 megawatt a fronte di 1.500 disponibili. “Mentre in Italia registriamo questi risultati – spiega un altro operatore – in Spagna a inizio anno accadeva un fenomeno opposto: a fronte di 3 gigawatt messi a gara, l’offerta è stata di 9 gigawatt con partecipanti a prezzi super competitivi. Qualcuno dice che questo accade perché lì i permessi si possono prendere dopo. Ma l’inefficienza italiana non dipende dall’inefficienza delle aste. Anche se cambiasse l’accesso alle aste, difficilmente gli operatori si prenderebbero il rischio di non avere poi i permessi”.

Sia gli ambientalisti che gli operatori indicano, come principale causa, la difficoltà dei procedimenti autorizzativi: ogni tecnologia ha un diverso ente di riferimento, ma in generale ad avere l’ultima parola sono quasi sempre le Regioni (previo coinvolgimento di altri enti, come ad esempio le Soprintendenze). La sindrome Nimby, ovvero “non nel mio giardino”, spesso non riguarda i cittadini, ma gli enti locali, a partire dai Comuni, a volte attratti dalla prospettiva di ottenere vantaggi economici da un impianto. Secondo le stime del settore, infatti, raggiungere gli obiettivi sulle rinnovabili significherebbe occupare circa lo 0,5% del territorio nazionale. Non proprio pannelli e pali in ogni dove, quindi.

Eppure, anche i terreni rappresentano un grosso ostacolo visto che ad oggi tutti, anche se inadatti alle coltivazioni, tendono a essere considerati agricoli se non sono edificabili o industriali e che non sono previsti incentivi per l’agrivoltaico: quasi nessun Comune, però, è disposto a cambiare la destinazione d’uso. Anche per questo si sta pensando di provare a far convivere terreni coltivati e fotovoltaico (incentivi nel Dl Semplifcazioni), con moduli verticali magari adatti a un agricoltura non estensiva.

Nelle scorse settimane, comunque, le preoccupazioni di chi teme che le rinnovabili possano deturpare il paesaggio sono state rappresentate da Italia Nostra (nonché dalle associazioni degli agricoltori), anche in relazione al progetto della Soprintendenza centrale che potrà assumere decisioni su temi strategici legati al Pnrr e alla transizione ecologica.

Dopo lo stop di decine di progetti per le rinnovabili in tutta Italia da parte dei sindaci, anche con ricorsi al Tar, oggi Italia Nostra chiede che sia identificato prima di tutto un piano delle aree idonee “ad accogliere gli impianti di energia rinnovabile secondo standard di piena sostenibilità”. Una richiesta sensata, sulla quale diventa necessario trovare una sintesi.

“Io sono Giorgia” Dagli Hobbit alle Termopoli: la “good looking” della politica racconta se stessa

Giorgia Meloni, la giovane donna good looking della politica italiana che ogni settimana guadagna punti nella pagina dei sondaggi, con buona educazione e buona scrittura dice cose e rivela sentimenti ben più urtanti della goffa rissosità di Salvini, nel suo primo libro ( “Io sono Giorgia. Le mie radici, le mie idee”, Rizzoli). È un libro che lascerà segni vistosi per le seguenti ragioni. Tenete conto che sono le ragioni di una persona che ha il progetto di governare. La prima: lo sguardo è attento e fermo su una parte della vita (sapete prima di leggere che è la destra) e se ci fosse una lente per interpretare meglio quello sguardo, vi accorgere che Giorgia vede uno spazio nitido e desiderabile, un mondo a colori affollato di gente avventurosa, giovane, buona, (per forza amici, pattuglie di amici disposti sulle colline intorno a lei) che, con fervore e a fatica, trattiene lo slancio per quello che deve venire. È uno spazio magico dove ognuno è dotato di un dono (chi parla, chi anima, chi organizza, chi si offre, chi realizza, adesso, subito), tanto che tutti coloro che nelle prime pagine incontriamo ragazzini simpatici e imbranati, che sono l’ambiente formativo della Meloni, sappiano che, dopo poche pagine, e dopo che i ragazzi si sono spesi disinteressatamente per il bene del mondo, li ritrovano dirigenti, ministri o presidenti di regione. Benchè ci venga assicurato che “fare politica giovanile (a destra) è svantaggioso e richiede una notevole dose d’audacia”.

Questa parte a colori del mondo e della vita ha un suo Libro di culto citato con reverenza e affetto, e i suoi apostoli (Gli Hobbit del “Signore degli anelli”) e un suo spazio d’onore che è il racconto della battaglia delle Termopili, 300 spartani contro tutti, che muoiono ma vincono perchè tramandano il valore del coraggio. Poichè il racconto della Meloni procede con un suo piglio giovane che a momenti sfiora il buon umore, fra ricordi di scuola e ricordi di partito generoso e accogliente, l’autrice ti svela il pericolo che ci circonda con un ritmo da film. Un pò per volta ti accorgi che tutto il resto del mondo (persone, eventi, controllo e potere) è dominato dalla palude della sinistra. Qui comincia un cambio (o almeno un alternarsi) di linguaggio che spinge in scena Victor Orban (noto nel mondo per avere liquidato, nel suo Paese, i giornalisti, pensionato i magistrati , chiuso le maggiori università, e indotto alla fuga i maggiori intellettuali del suo Paese) in cui l’allegra ragazza si fa trovare col peggiore fascista dell’Europa di oggi, a vigilare sui sacri confini. Non si tratta dei confini della patria ma quelli della politica italiana ed europea che bisogna liberare dai rifiuti lasciati indietro dalla sinistra tenuta ferma e zitta dal governo di tutti. Perchè non piazzarci una bella offesa alla Shoah (non è nel libro ma è la politica nel mondo della Meloni e dei suoi compagni di giochi in questi giorni) progetto di strage eseguito fino a sei milioni di morti, facendola uguale a una vicenda disumana e locale di comunisti e fascisti, in un luogo già liberato per tempo, a cura del generale fascista Roatta, di ogni ebreo, adulto o bambino, per morire nelle camere a gas di Auschwitz? Ha ragione Meloni: ci vuole coraggio.

 

Io sono Giorgia. Le mie radici le mie idee, Giorgia Meloni, Pagine: 336, Prezzo: 18, Editore: Rizzoli

Elettrico. Stellantis e l’hub delle batterie in Italia. Il governo ha 23 giorni per dare un futuro all’auto

Poco più di tre settimane: con più esattezza, 23 giorni. È il tempo che resta all’Italia per sapere che ne sarà della sua industria automobilistica. E insieme, per comprendere se il nostro Paese, ai tempi del Recovery Plan, può davvero intercettare l’innovazione ambientale del motore elettrico. Una lasso di tempo breve e decisivo: si comincia domani, quando al Mise i ministri dello Sviluppo Economico, Giancarlo Giorgetti, il suo vice Gilberto Pichetto Fratin e quello del Lavoro, Andrea Orlando, incontreranno le parti sociali: sindacati e vertici di Stellantis (in Italia conta ancora almeno 55 mila dipendenti).

Un incontro che, per prima cosa, affronterà il tema dei costi di produzione in Italia. Non tanto per il costo del lavoro, come ha spiegato di recente l’ad Carlos Tavares, quanto per i sistemi industriali e organizzativi ereditati da Fca. È probabile che i vertici del gruppo pongano sul terreno la questione di Melfi, dove oggi si allestiscono su due linee Jeep e 500 X: Tavares vuole un’unica linea, con tre turni di lavoro.

A tutto ciò si aggiungeranno i temi della cassa integrazione e delle garanzie sugli investimenti per oltre 5,2 miliardi in Italia, ventilati dai tempi di Marchionne e oggi, però, già quasi tutti compiuti. Ed è proprio in questo contesto che il governo chiederà chiarezza sulla questione della gigafactory per la produzione delle batterie per auto elettriche. Stellantis ne ha già avviate due in Germania e Francia: entro l’Electrification Day del prossimo 8 luglio (l’altra data fondamentale di quei 23 giorni), scioglierà l’enigma sul terzo. Attribuendolo a noi o a alla Spagna, che offre un mercato più positivo e 12 miliardi di euro, nel suo Pnrr, per la svolta elettrica.

Dopo un breve incontro di due settimane fa tra Tavares, il presidente John Elkann e Giorgetti e almeno cinque confronti con il ministro della Transizione Ecologica, Roberto Cingolani, il tempo stringe. Le indiscrezioni dicono che Stellantis è ancora molto indecisa, mentre per ora si limita a parlare per l’Italia solo di tre hub per l’assemblaggio di batterie prodotte altrove, per complessivi 500 posti di lavoro e investimenti pubblici-privati di un miliardo. La gigafactory invece, vera garanzia del mantenimento della produzione di vetture in Italia, vale oltre mille dipendenti e investimenti per tre miliardi di euro: resta da decidere se collocata a Torino e a Mirafiori, per sfruttare la collocazione nei programmi Ue per l’elettrico del Politecnico subalpino, o se al Sud, come vorrebbe Cingolani.

Su questo terreno della trattativa, conterà soprattutto la garanzia pubblica Sace concessa nella primavera 2020 per il prestito da 6,3 miliardi di euro erogato da Intesa SanPaolo a Fca che consentì agli azionisti di incassare un concambio favorevole e miliardario per la nascita di Stellantis. Condizioni per quella garanzia erano il pagamento dei fornitori e gli investimenti in Italia (i famosi 5,2 miliardi). La gigafactory in Italia o in Spagna farà la differenza rispetto a questo argomento, soprattutto dopo le voci, riportate dal Sole 24 Ore, che Stellantis vorrebbe rinegoziare quel prestito, prima che a marzo 2022 scatti la prima delle cinque rate per la restituzione.

 

L’odio per il rdc racconta bene il capitalismo all’italiana

Siamo grati a Guido Barilla, figlio di Pietro, diventato dirigente a 28 anni nell’azienda di famiglia, e al suo accorato appello – via La Stampa – ai giovani: “Non sedetevi su facili situazioni, abbiate la forza di rinunciare ai sussidi facili e mettetevi in gioco” anche “cercando lavori poco remunerati”. Illumina meglio di qualsiasi trattato l’avvenire dell’economia italiana che hanno in mente i nostri capitalisti.

C’è un filo che unisce le campagne estive della grande stampa sulla “carenza” di lavoratori della ristorazione, l’ossessione dei politici per il concetto di divano e le lezioni di vita degli industriali per ius sanguinis: è il Reddito di cittadinanza. Nell’odio per la misura voluta dai 5Stelle si specchia il nostro capitalismo, che consuma pagine a spiegare che il sussidio è sempre brutto se non va all’impresa, cuore del processo produttivo e custode unica delle ricette che servono al Paese. Non è un caso che il Piano di ripresa nazionale (Pnrr) destini quasi 50 miliardi sotto forma di sussidi alle imprese nei prossimi anni.

Viene da chiedersi cosa sarebbe successo se invece di un reddito assai condizionato e perfettibile, come ne esistono in tutta Europa, si fosse approvato un vero reddito di base universale. Lo sanno, lorsignori, che il 32% dei dipendenti privati (agricoltura esclusa) ha un salario medio inferiore ai 10 mila euro lordi mensili? Che nelle qualifiche più basse è occupato il 34% dei lavoratori (contro il 27% della media Ue)? Produciamo ormai occupazione da Paese emergente.

Queste reazioni isteriche hanno almeno il pregio di esaltare una misura di civiltà, forse la più rilevante dell’ultimo ventennio. Temono che un sussidio in media da 450 euro al mese a beneficiario (550 per una famiglia) inverta la tendenza trentennale di calo dei salari? Bene. Dopo aver messo nel congelatore i paletti al lavoro precario del dl Dignità, è ora il bersaglio grosso, il vero peccato originale dei barbari della politica.

“Si era rotta una diga”, ha detto un imprenditore al Washington Post commentando il mare di curricula ricevuti quando ha alzato da 7 a 15 dollari l’ora il salario offerto. Sia mai accada anche qui, dove andremo a finire.

Non serve dimagrire per “migliorare” Davvero la Regina sapeva?

Il peso delle parole. Mentre anche la stagione televisiva 2020-2021 volge al termine, con importanti addii come Giancarlo Magalli e Terence Hill (subentra in “Don Matteo” Raoul Bova), si è chiusa anche “L’Isola dei famosi”. Col botto, visto che l’ultima puntata di questa 15esima edizione condotta da Ilary Blasi su Canale 5 ha catturato 3.317.000 telespettatori e il 22,97 per cento di share. Ha vinto lo youtuber napoletano Simone Paciello, classe 1996 e in arte Awed, ma forse l’Isola sarà ricordata di più per le sue polemiche. L’ultima (ennesima) riguarda il corpo. Dopo una stagione di stenti come gioco vuole, tutti i concorrenti sono dimagriti di una quindicina di chili, alcuni anche 20. Fariba Teherani è arrivata a pesare 46 kg. “Iva, hai visto? Sono dimagriti tutti. Secondo te chi è migliorato?”, ha chiesto a un certo punto Ilary Blasi a Iva Zanicchi, in studio come commentatrice. Risposta: “Non stanno male. Più magri si è, meglio si sta. Io non so, non ho più l’età, ma il prossimo anno l’unico modo per dimagrire è andare all’Isola. Ci sto facendo un pensiero”. Apriti web. E giustamente, visto che è dietro l’angolo il rischio di avallare un’immagine fuorviante della magrezza. “Vallo a dire a chi soffre di disturbi alimentari”, ha scritto un utente su Twitter. Lo scambio Blasi-Zanicchi sembra venire da un’era geologica precedente a quella odierna, in cui quotidianamente attrici, attori e “famosi” di ogni tipo (più di quelli dell’Isola) esprimono forti critiche ai canoni estetici imposti allo star system finora. L’ultima, solo qualche giorno fa, è stata Shannen Doherty, ex Brenda di “Beverly Hills”, che ha polemizzato contro la cultura del lifting femminile: “Guardando film stasera ho notato che c’erano pochi personaggi femminili con cui potevo relazionarmi, donne senza filler, senza Botox, senza lifting”. Tornando al magro, il problema non sembra essere tanto l’esternazione di Zanicchi quanto la domanda che le è stata rivolta. Perché in tv si parla del corpo (non fa differenza, in questo caso, se maschile o femminile) ancora in questi termini?

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Il Boss arriva prima. Negli Stati Uniti, anche la mitica Broadway si prepara a ripartire dopo lo stop imposto dalla pandemia, con spettacoli aperti a vaccinati, guariti e tamponati. Il grosso della programmazione è prevista per settembre, ma Bruce Springsteen non aspetta l’autunno e già a giugno ha in cartellone al St. James Theatre il suo one-man show tratto dall’autobiografia “Born to Run. Springsteen on Broadway”, così si intitola il recital, racconta 40 anni di vita da Boss e reinterpreta in acustico i brani più famosi. la seconda volta che il cantautore calca le scene di Broadway: era già stato al Walker Theatre nel 2018, con quasi 240 repliche e 100 milioni di dollari di botteghino. “Sono molto felice che mi abbiano chiesto di inserire lo spettacolo nel cartellone delle riaperture di Broadway”, ha detto Springsteen. Non si scoraggino i fan sull’altro lato dell’Atlantico: c’è un adattamento su Netflix.

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In nome della Regina? Elisabetta è stata la prima della famiglia a saperlo, avevano dichiarato alla stampa annunciando la nascita della loro secondogenita. Invece fonti di Buckingham Palace, anonime come si conviene, smentiscono alla Bbc che Harry e Meghan abbiano mai interpellato la sovrana britannica riguardo la scelta del nome di battesimo di Lilibet Diana. Se la seconda parte del nome è un dovuto omaggio a Lady D, defunta madre di Harry e del fratello aspirante al trono William, della prima parte, riferita a Elisabetta II, la “ditta” non apprezza la forma, che rende plateale un costume privato e confidenziale. Il soprannome di Lilibet pare sia stato coniato per la Regina dal nonno Giorgio V, quando era piccola e non riusciva a pronunciare correttamente il suo nome e le è rimasto attaccato in famiglia per tutta la vita. Lo usava anche il principe Filippo.

N.C.

 

Il viaggio di sola andata di de Vito: dal M5S a Forza Italia

Naturale dove?Marcello De Vito, ex presidente dell’Assemblea capitolina per il M5S fino all’arresto con l’accusa di corruzione nel 2019, ha deciso di entrare in Forza Italia. Nonostante il rapporto tra lui e il Movimento si sia incrinato proprio a causa della vicenda giudiziaria che lo vede ancora oggi imputato, De Vito ci ha tenuto a precisare come “la mia vicenda giudiziaria ha influito zero” e come gli sia apparso assolutamente fisiologico spostarsi tra gli azzurri: “In maniera naturale mi sono rivolto all’area politica che aveva sempre rappresentato le mie idee e la mia cultura prima di entrare nel M5S”. In maniera naturale??? Da Forza Italia ai Cinque stelle e poi dai Cinque Stelle a Forza Italia?

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InsindacabileSe la tornata di elezioni amministrative che si avvicina ha avuto una funzione su tutte, è stata quella di mostrarci come quasi nessuno sia più disposto a fare un mestiere che un tempo veniva vissuto come un onore: il sindaco. E non è per via degli oneri che notoriamente affiancano gli onori che buona parte di coloro che vengono sollecitati a scendere in campo declinano cordialmente. Il perché lo spiega alla perfezione Antonio De Caro, sindaco di Bari e presidente dell’Anci, in un’appassionata lettera a tutti i ‘non candidati’ che hanno preferito sottrarsi alla croce: “Non volete farlo perché qualsiasi cosa accada nel vostro Comune sarà vostra responsabilità… Non volete candidarvi perché vi hanno detto che ogni firma che metterete in calce a un provvedimento è un potenziale avviso di garanzia per il reato di abuso… Non volete candidarvi perché vi hanno detto che per i cittadini se un ospedale non funziona, se aumentano gli scippi, se la gente getta i rifiuti per strada, se piove, se fa troppo caldo, se la squadra cittadina retrocede è sempre e solo colpa del sindaco. Bene, tutto quello che vi hanno detto è vero”.
È dopo questa premessa, però, che il sindaco che, durante la pandemia, abbiamo visto prima commuoversi nel vedere la sua Bari deserta e poi persuadere i ragazzi uno ad uno a indossare la mascherina, ribalta gli umori del momento e racconta cosa significhi nel profondo essere ‘primi cittadini’: “Ma io che faccio il sindaco della mia città da sette anni posso dirvi che a questo racconto a senso unico, manca qualcosa. Qualcosa che non è scritto nel testo unico sugli enti locali, né nei i trattati di politica o di pubblica amministrazione. Manca quello che si prova indossando la fascia tricolore. Quello che si prova quando un bambino, durante la recita di Natale, si avvicinerà per chiedervi di parlare con Babbo Natale per avere una giostrina nel parco sotto casa sua, quando una ragazza si rifugerà nell’ufficio del sindaco per chiedergli di intercedere con i suoi genitori che l’hanno allontanata perché lei ama una donna. È quello che si prova quando si fa la cosa più bella del mondo: cambiare in meglio la vita dei cittadini. Nessuno più del sindaco può farlo. Non c’è nulla che dia più soddisfazione”. Di fronte ad un encomio così di cuore, ciascun ‘non candidato’ avrà un forte momento d’incertezza.

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Per Zielinski niente Bugatti: gioca con i bimbi dei suoi orfanatrofi

Alzi la mano chi, anche inavvertitamente, sfogliando i giornali o navigando nel web non è incappato almeno una volta nel racconto del “favoloso garage” di Cristiano Ronaldo, un parco auto del valore di 20 milioni di euro, uno dei garage più invidiati al mondo potendo contare su diversi modelli di Ferrari, Porsche e Maserati e soprattutto sulla preziosissima Bugatti Centodieci da 8 milioni di euro prodotta in soli dieci esemplari; o nel racconto delle sue cene da mille e una notte con Georgina, come quella del 15 novembre 2018 allo “Scott’s” di Londra che la Gazzetta ci raccontò in un memorabile pezzo intitolato “Ronaldo, cena da superstar: ordina due vini da 30 mila euro” in cui venimmo a sapere che la scelta di CR7 era caduta su un “Richebourg Grand Cru, rarissimo Pinot Nero, prodotto da Henry Jayer, vignaiolo della Borgogna nato nel 1922” (extra carta-vini, costo 20 mila euro) e su un “Pomerol Petrus del 1982, un Merlot della zona di Bordeaux che è il più caro tra i vini del locale” (costo 10 mila euro). E alzi la mano chi, magari sfogliando una rivista dal parrucchiere o in sala d’aspetto dal dentista non è mai incappato almeno una volta nel racconto delle gesta di Mauro Icardi e Wanda Nara: come la cena a lume di candela in un ristorante di lusso milanese con consumazione di risotto alla milanese con foglio d’oro da 24 carati, naturalmente fotografato e postato sui social con il commento: “Risotto con zafferano e oro 24K… Cibo costoso @wanda_icardi”; o nella visione dei fantasmagorici tatuaggi dei nostri due eroi, come quello sul busto di Maurito che ritrae un leone con al fianco due piccole leonesse (in omaggio alle sue bambine Francesca e Isabella), un tatoo, ci è stato raccontato, che ha richiesto tre sessioni per cinque mesi di lavoro, fotografato e mostrato sui social in tutto il suo splendore assieme ad alcuni dei più riusciti “lati B” di Wanda.

E insomma: se nemmeno volendo riusciamo a scampare al racconto di simili prelibatezze, visto che i nostri media ne sono ghiotti come gli scoiattoli di nocciole, è stato con un senso di stupore misto a sollievo che nei giorni scorsi siamo venuti a conoscenza, grazie al quotidiano inglese Guardian, di un particolare di vita riguardante uno dei giocatori più silenziosi e trascurati (a dispetto del suo straordinario valore) della Serie A, Piotr Zielinski del Napoli, il 27enne centrocampista polacco nato a Ząbkowice. Che ha fatto di tanto strano Zielinski, a detta di tutti uno dei quattro migliori giocatori dell’ultimo campionato assieme a Lukaku, Kessie e Barella? A fari spenti, in silenzio, nel novembre del 2015 Piotr, che ancora giocava nell’Empoli, ha acquistato a Zabkowice due edifici che i suoi genitori hanno ristrutturato e trasformato in orfanotrofi fondando l’associazione “Piotrus Pan” (Peter Pan) dal nome del figlio. Qui la famiglia Zielinski si prende cura ogni giorno di bambini orfani e bambini con problemi familiari legati a genitori alcolisti, violenti o con gravi problemi economici. “Piotr – racconta il padre Boguslaw – torna qui ogni volta che può, va a trovare i ragazzi, gioca a calcio con loro e gli regala apparecchiature elettroniche che non usa: laptop, console di gioco, tablet. Recentemente un ragazzino che doveva ricevere la prima comunione non aveva nessuno che lo accompagnasse: Piotr è venuto dall’Italia apposta e gli ha fatto da padre e da padrino lui. Lui è così”.

Grazie di esistere Piotr.