Sono considerate dagli ambientalisti le grandi assenti nella programmazione energetica del ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani, ma soprattutto da qualche anno sono le grandi assenti nel mercato energetico italiano. Tra progetti per il gas, idrogeno e aperture al mini-nucleare, delle fonti di energia rinnovabile e delle sue infrastrutture ci si ricorda quasi esclusivamente quando diventano il centro di contestazioni tra istituzioni locali, aziende e governo.
Nel 2020, infatti, l’Italia ha costruito appena 0,78 gigawatt di impianti eolici e solari; nel 2019 erano stati 1,2; l’anno prima si era arrivati a 1,1 gigawatt. Tuttavia, per raggiungere gli obiettivi previsti al 2030 sia dal Pniec (il Piano nazionale integrato Energia e Clima che sarà a breve aggiornato), sia da Bruxelles, si dovrebbero realizzare impianti per almeno 6mila gigawatt l’anno. Nulla, ad oggi, di più difficile.
L’ultimo bando del Gse per assegnare gli incentivi a progetti di centrali per le rinnovabili, che era tarato su un totale di 2.461 megawatt, ne ha attribuiti per appena 297. È stato “piazzato”, quindi, solo il 12% dell’offerta. E se in Italia le aste vanno quasi deserte, in Spagna e in Portogallo vengono richiesti incentivi per una potenza pure superiore a quella messa all’asta. Abbiamo provato a capire perché.
L’inizio della storia delle rinnovabili in Italia coincide grosso modo col combinato disposto della liberalizzazione del settore dell’energia e la spinta dell’Ue a produrla da fonti rinnovabili, dunque per lo più idroelettrico (che è minimamente utilizzato), eolico e solare. Negli ultimi quindici anni c’è stata una campagna di incentivazione progressiva: si è passati dagli iniziali sostegni a fondo perduto, magari per i privati, a quelli per salvare i vecchi impianti. Fino a meccanismi di incentivazione generici e sistematici. In generale, l’Italia è all’avanguardia dal punto di vista della tecnologia. Le fonti idroelettriche sono ben sfruttate e coprono circa il 18% della produzione da rinnovabili; ad esse si aggiunge il “nucleo” duro di biomasse, eolico e fotovoltaico, spinti dagli incentivi arrivati tra il 2005 e il 2012 (potenze installate per 8, 8 e 9%)
A quel tempo le aste andavano benissimo, arrivavano operatori dall’estero, gli impianti si moltiplicavano e pian piano anche i costi iniziavano ad abbassarsi. Poi, i problemi. “Fra il terzo e il quarto Conto Energia, l’Italia non ha saputo abbassare gradualmente gli incentivi al fotovoltaico – spiega l’avvocato Francesco Arecco, che da anni si occupa di questi temi -. Meccanismi di accesso entro termini strettissimi a incentivi molto alti hanno richiamato gli speculatori. La reazione di politica e amministrazione è stata lenta ma molto forte: si è deciso di verificare tutti gli impianti già ammessi agli incentivi, anche a distanza di anni. E si sono revocati incentivi anche sulla base di criteri meramente formali, colpendo spesso gli operatori in perfetta buonafede. Questo ha reso l’Italia un Paese considerato ad alto rischio di investimento”. In pratica, nell’ultimo decennio c’è stato chi ha investito davvero e fondi che hanno speculato, con gli incentivi costruito magari impianti enormi dichiarandone invece tanti microscopici. Il paradosso: l’imprenditore serio, che magari aveva pianificato un rientro dell’investiemento nel giro di 5-8 anni si è trovato a dover ricominciare tutto da zero, lo speculatore ha invece guadagnato, ha fatto una srl veicolo, l’ha fatta fallire, ha lasciato l’impianto in un campo e se n’è andato coi guadagni.
Ovviamente il Gse ha poca responsabilità su questa gestione. Gli indirizzi arrivano sempre da governo e politica che, spesso e volentieri, chiede al gestore di “stringere” la cinghia. Nel 2014, per dire, arriva lo “spalma incentivi fotovoltaico” che imponeva la scelta fra una riduzione o una estensione del periodo incentivale con l’obiettivo di un risparmio in bolletta. Una prassi che anche la Cassazione ha ritenuto legale, ma che di fatto – secondo chi è nel settore – oggi spaventa gli investitori. “È imperdonabile – continua Arecco – che il Paese le cui Università hanno sviluppato i migliori meccanismi incentivali cada in contraddizione così, con un conseguente altissimo danno reputazionale. Quali investitori può richiamare un sistema Paese così?”.
Autorizzare un impianto, poi, pare abbia bisogno di tempi infiniti. “Oggi – ci spiega un grosso operatore – un impianto solare di ampia scala richiede un iter di almeno un anno e mezzo. Per l’eolico si arriva anche a 5 anni con punte di 7 e 9. Questo spesso implica che quando e se il procedimento arriva a buon fine, lo fa con un layout tecnologico che è già ampiamente superato dal mercato”. Le turbine dell’eolico, ad esempio diventano sempre più efficienti. Solo che adeguare o variare i progetti richiede altri permessi altrettanto lunghi. Le proiezioni di settore mostrano che con questi ritmi gli obiettivi di produzione da rinnovabili fissati al 2030 si raggiungeranno in quasi cento anni. Ammesso che si inizi davvero a crescere.
Anche perché a luglio del 2019 è stato pubblicato il dl Fer con un ciclo di sette aste in due anni per complessivi 8 giga, il 90% circa per progetti di larga scala. L’offerta si è saturata però solo il primo anno, per poi ridursi progressivamente. Secondo un Rapporto del Politecnico di Milano, solo l’eolico è crollato del 79%. Nelle ultime aste sono stati offerti solo 70 megawatt a fronte di 1.500 disponibili. “Mentre in Italia registriamo questi risultati – spiega un altro operatore – in Spagna a inizio anno accadeva un fenomeno opposto: a fronte di 3 gigawatt messi a gara, l’offerta è stata di 9 gigawatt con partecipanti a prezzi super competitivi. Qualcuno dice che questo accade perché lì i permessi si possono prendere dopo. Ma l’inefficienza italiana non dipende dall’inefficienza delle aste. Anche se cambiasse l’accesso alle aste, difficilmente gli operatori si prenderebbero il rischio di non avere poi i permessi”.
Sia gli ambientalisti che gli operatori indicano, come principale causa, la difficoltà dei procedimenti autorizzativi: ogni tecnologia ha un diverso ente di riferimento, ma in generale ad avere l’ultima parola sono quasi sempre le Regioni (previo coinvolgimento di altri enti, come ad esempio le Soprintendenze). La sindrome Nimby, ovvero “non nel mio giardino”, spesso non riguarda i cittadini, ma gli enti locali, a partire dai Comuni, a volte attratti dalla prospettiva di ottenere vantaggi economici da un impianto. Secondo le stime del settore, infatti, raggiungere gli obiettivi sulle rinnovabili significherebbe occupare circa lo 0,5% del territorio nazionale. Non proprio pannelli e pali in ogni dove, quindi.
Eppure, anche i terreni rappresentano un grosso ostacolo visto che ad oggi tutti, anche se inadatti alle coltivazioni, tendono a essere considerati agricoli se non sono edificabili o industriali e che non sono previsti incentivi per l’agrivoltaico: quasi nessun Comune, però, è disposto a cambiare la destinazione d’uso. Anche per questo si sta pensando di provare a far convivere terreni coltivati e fotovoltaico (incentivi nel Dl Semplifcazioni), con moduli verticali magari adatti a un agricoltura non estensiva.
Nelle scorse settimane, comunque, le preoccupazioni di chi teme che le rinnovabili possano deturpare il paesaggio sono state rappresentate da Italia Nostra (nonché dalle associazioni degli agricoltori), anche in relazione al progetto della Soprintendenza centrale che potrà assumere decisioni su temi strategici legati al Pnrr e alla transizione ecologica.
Dopo lo stop di decine di progetti per le rinnovabili in tutta Italia da parte dei sindaci, anche con ricorsi al Tar, oggi Italia Nostra chiede che sia identificato prima di tutto un piano delle aree idonee “ad accogliere gli impianti di energia rinnovabile secondo standard di piena sostenibilità”. Una richiesta sensata, sulla quale diventa necessario trovare una sintesi.