Minuto 43, la grande paura: Eriksen rianimato in campo

Sull’Europeo si abbatte, come un aereo in picchiata, il dramma di Christian Eriksen. Allo stadio Parken di Copenaghen si stava disputando Danimarca-Finlandia, prima partita del gruppo B. Era il 43’ del primo tempo, il risultato ancora sullo 0-0. D’improvviso, Eriksen si è accasciato vicino alla linea laterale, in attesa di raccogliere la rimessa di un compagno. Un movimento goffo, le gambe che si piegano, Christian che crolla con la faccia in avanti. Senza contatti o contrasti di gioco capaci di giustificarne lo svenimento. Da qui il terrore, da qui l’incubo. In campo e sugli spalti si capisce subito che è qualcosa di grave, di molto grave. Arresto cardiaco: si pensa e si teme. Sarà proprio così. Piangono tutti, compagni e avversari: e chi non piange, scuote la testa, se la copre con le mani. Angoscia, disperazione. Piombano i medici, gli infermieri, la barella. Eriksen ha 29 anni, e si era appena laureato campione d’Italia con l’Inter. È il simbolo della sua nazione e della sua Nazionale. Sono attimi di panico, non uno che lasci l’arena, tutti ad aspettare, a implorare, chi crede in qualcosa, chi non crede in nessuno: tutti. Dalla tribuna giunge la moglie, Sabrina Kvist Jensen, la felpa con su scritto il nome del marito, sorretta e confortata da Simon Kjaer, il capitano, e Kasper Schmeichel, il portiere. È in lacrime. La squadra, intanto, ha scortato Eriksen verso lo spogliatoio, proteggendolo dalla tensione tragica del quadro e dalla morbosità della cornice. Fra gli applausi. Nell’uscire, gli occhi di Christian sembrano aperti, lo ricoverano in un ospedale vicino, il Rigshospitalet.

Corre, la memoria, al cuore di Renato Curi, che cedette durante Perugia-Juventus del 30 ottobre 1977, e allo spagnolo Antonio Puerta, centrocampista del Siviglia, scomparso il 28 agosto 2007, tre giorni dopo la partita con il Getafe. Anche nel suo caso, era stato il cuore a cedere.

Dall’ospedale filtrano notizie confortanti. Eriksen “è cosciente e stabile” dopo essere stato sottoposto a tutti gli accertamenti che un’emergenza così repente imponeva. Il padre del giocatore, Thomas, comunica che il figlio avrebbe addirittura parlato. Sul tabellone dello stadio, nel frattempo, gli organizzatori fanno girare le parole che la gente, in trepida attesa, si aspettava: sta meglio, sta meglio. Tutto il mondo è corso, virtualmente, al suo capezzale. Fra i più solleciti, Fabrice Muamba, ex calciatore inglese di origini congolesi. Pensate: nel 2012, mentre con il Bolton stava affrontando il Tottenham, il suo cuore si fermò per 1 ora e 18 minuti. E anche Iker Casillas: ex portiere del Real Madrid, del Porto e della Nazionale spagnola, seppe recuperare da un infarto accusato in allenamento.

Interviene la Federazione danese. A poco a poco, il pathos si attenua: le immagini strazianti di quei minuti, con Eriksen steso e sperduto (ma non perduto, per fortuna), tutti loro e tutti noi sul bordo di una tragedia. Arrivano i messaggi di Cristiano Ronaldo e Romelu Lukaku, dalla Cina si fa vivo Steven Zhang. Forza Christian. Da Milano, Piero Volpi, medico dell’Inter, racconta all’Associated Press che Eriksen non ha mai avuto il Covid e ha sempre superato, “senza problemi”, tutti gli esami clinici ai quali è stato sottoposto dal suo arrivo dal Tottenham nel gennaio del 2020.

Il filo di speranza diventa qualcosa di più solido, tanto che sono gli stessi giocatori (della Danimarca, della Finlandia) a suggerire agli organizzatori che la partita riprenda alle 20.30. Non lo ha voluto l’Uefa, assicurano. Lo ha voluto lui, Eriksen: “Giocate”. “Respira e riesce a parlare: è fuori pericolo”, ha confermato il suo agente, Martin Schoots, a una radio danese. Non è ancora l’epilogo, ma siamo lontano da quelle pupille sbarrate, da quel tuffo al cuore.

“Manfredi contro i tedeschi. Sordi e le notti da vitellone. E l’incontro con Chaplin”

Chaplin gli ha tracciato la strada professionale: “Guarda ciò che ti circonda e immagina le vite degli altri”.

Gli orrori della guerra hanno segnato la sua esistenza: “A dieci anni un soldato tedesco mi ha sparato: sono vivo perché la pistola si è inceppata”.

Con Luigi Zampa ha scoperto la magia del set: “Qualcosa di austero, le dinamiche erano molto rigide, si entrava in un’altra dimensione”.

Paolo Bianchini ha 88 anni, quando parla racconta per immagini, per suggestioni, spesso dà riferimenti sul luogo, sugli oggetti, sulle peculiarità fisiche e psicologiche delle persone, proprio come fossero tante piccole sceneggiature.

Lui ha il cinema dentro, tratta la sua vita come una via di mezzo tra il neorealismo del Rossellini di Germania anno zero e una commedia all’italiana magari diretta da Dino Risi. Senza boria, l’io messo da parte, consapevole che la Storia è più grande di noi, eppure registi come Tarantino e Cronenberg lo hanno elevato al ruolo di grande maestro per le sue pellicole western e horror degli anni Sessanta, “e ancora non ne capisco il motivo”.

Eppure è così…

Nasco da una famiglia dove il concetto di pacifismo era fondamentale, quindi era vietato giocare alla guerra: il sabato ero l’unico bambino senza divisa; allora non c’era il termine “bullizzato”, ma io lo ero. E mi vergognavo. Gli altri avevano le bombe a mano, il fucile, io no; (ci pensa) i western sono il mio contrappasso, la risoluzione di una frustrazione.

Come scopre il cinema?

Non ero ancora maggiorenne e Zampa venne a girare sotto casa mia Signori in carrozza: per tutto il tempo sono rimasto in finestra, magnetizzato da quei riti, quei meccanismi, quel racconto. Abitavo vicino a piazza San Giovanni

In quella zona c’era la famigerata via Tasso.

La grande quercia è ispirato alla storia di mio zio, Mariano Buratti, torturato proprio a via Tasso; allora non sapevamo cosa accadesse lì dentro, fino a quando un ragazzino che abitava nel mio palazzo e frequentava il Santa Maria (scuola privata che confinava con il carcere), tornò a casa sconvolto: “Un signore ha scavalcato il muretto e si teneva le budella con le mani”. Ci sembrava incredibile. Così siamo partiti, tutti insieme, abbiamo superato le transenne, e all’improvviso siamo stati accolti da urla atroci provenienti dalla palazzina: “Basta, bastaaaaa”. E davanti al portone due tedeschi che scherzavano. Questo contrasto è sempre nitido davanti a me.

E voi?

Dopo l’arresto di zio abbiamo cambiato casa di continuo, i miei temevano parlasse, perché papà era medico ospedaliero e membro della Resistenza; (ritorna allo zio) una sera accendo la radio e ascolto l’annuncio della fucilazione di dieci “banditi”, così li definivano; l’ultimo nome era “Baratti Mariano”. Mio padre uscì di corsa, con addosso la fascia di medico che gli permetteva di stare fuori nonostante il coprifuoco; poi di notte mi sono svegliato per i singhiozzi di mamma e ho sentito papà che le spiegava: “L’ho visto, massacrato, senza unghie, bruciato con la fiamma ossidrica”; (cambia tono) torniamo al cinema.

Dopo Zampa…

Ho iniziato a frequentare Cinecittà, ma ero minorenne, per questo scavalcavo il muretto grazie al ramo di un fico, e mi infilavo nei vari teatri di posa.

Non strappava mai una parte?

Anni dopo ne Il ferroviere di Germi: interpretavo il fidanzato della Koscina, ma al montaggio hanno tagliato quasi tutto.

Nel frattempo…

Mio padre era partito come medico nei deserti persiani.

Irrefrenabile.

Povere le donne che ha incrociato: oltre ai miei due fratelli ufficiali, ho due sorelle persiane, una francese, un’altra inglese, due italiane, poi è andato in Africa e chissà cosa ha combinato lì. È vissuto fino a 98 anni, e a 96, come ginnastica, restava a testa in giù per un quarto d’ora; la sua partenza, per noi, si è tramutata nella povertà totale: mi piazzavo fuori da un panificio e solo per sentire il profumo del pane e della porchetta.

Nessuno vi aiutava?

Ogni tanto Don Sturzo (fondatore della Dc), nostro vicino di casa; quando ho compiuto 18 anni scrisse una lettera ad Andreotti e per farmi entrare come uditore al Centro Sperimentale. Ero il più giovane di tutti. Lì ho conosciuto Domenico Modugno, Folco Quilici e uno dei professori era proprio Zampa.

Si sentiva in difficoltà?

No, ero una mascotte; un giorno viene Chaplin per presentare Luci della ribalta, aula magna gremita, giornalisti ovunque, e mentre parla guarda dalla mia parte; dopo aver finito inizia un giro di saluti, e quando arriva da me allunga un braccio, mi prende, e mi porta con sé. Tremavo.

E invece…

Dopo un po’ Chaplin si ferma e mi domanda in francese, lingua che conoscevo: “Come vieni qui?” “In tram” “Il tuo primo libro di cinema è quel finestrino là”, e indica proprio un tram. “Guarda sempre fuori, la vita che passa è il cinema; guarda quel vecchietto che cammina e libera il cane”. E inizia a imitare il gesto del guinzaglio; poi finge di aprire un giornale, e aggiunge “magari vive da solo, e quel cane è la sua vita. Chi è quel vecchietto? E quelle due donne che bisticciano dal fornaio, perché? Sono amiche? Una forse ha scoperto che il marito ha una storia con l’altra?”.

Perché proprio lei?

Forse perché ero il più piccolo, e dimostravo meno della mia età; Modugno sapeva della mia situazione economica, e da uditore non avevo diritto alla mensa gratuita, così lui, amico del cuoco, il giovedì di nascosto mi portava la pentola per farmi mangiare un po’ di risotto.

Il suo primo film.

Durante una lezione, Zampa ci parla del suo prossimo progetto: “Questa estate giro a Ostia”. Finito l’anno di lezioni decido di tentare, così parto da casa e a piedi raggiungo il mare.

A piedi?

Non avevo i soldi per il treno, quindi m’incammino dopo cena e arrivo alle tre del mattino; all’alba percorro tutta la spiaggia in cerca del set, ma niente. Per quattro giorni e quattro notti ripeto il percorso, fino a quando trovo Zampa con passo svelto sulla battigia. Lo seguo. Aspetto. E al momento giusto mi avvicino. “Buongiorno maestro”. “Bianchini, che fa qui?” “Sono ospite dello stabilimento accanto”. Parliamo del film. “Come torna a Roma?”. “In treno”. “Se vuole le do un passaggio”. In macchina mi domanda: “Le va di seguire i lavori come assistente?”.

I set di quegli anni.

Durissimi, con regole insindacabili: era obbligatoria la giacca e la cravatta, tutto formale, gli attori trattati da divi, i registi considerati una categoria a parte e noi prede della gerarchia; allora lavorare nel cinema equivaleva a entrare nell’Olimpo.

Ha conosciuto Monicelli: com’era da giovane?

Non rideva mai, parlava poco, era essenziale, tagliente con tutti e aveva già una cultura sterminata. Incuteva soggezione, ma quando girava aveva chiaro ogni aspetto.

E Sergio Leone?

Era aiuto regista di Mario Bonnard in Frine cortigiana d’Oriente, un film in costume girato all’Eur (quartiere di Roma): c’erano le comparse che andavano dal panettiere vestite da antichi romani, o si muovevano in Vespa con in testa gli elmi e sulle spalle il mantello; per controllare che tutto fosse in regola dovevo stare sul set alle sei del mattino, non ci riuscivo, e Sergio capì la situazione: “Dormi da me, ma porta un materasso”.

E…

(Ride) Andai a casa, presi il mio, e salii sul tram, con il bigliettaio che urlava: “Ma ‘ndo vai in giro così?”; la sera mangiavamo il cibo dei cestini rimediati sul set.

Sordi e Manfredi erano dei cultori del cestino.

Con Alberto ho girato sette film, in uno di questi abbiamo convissuto a Viterbo: era in crisi sentimentale, per questo la sera mi coinvolgeva nelle sue nottate da vitellone. Non dormiva mai; (ci pensa) era preoccupato che le donne lo frequentassero per i soldi e la fama.

Per Manfredi, Sordi approfondiva poco i ruoli…

Non sono totalmente d’accordo; per preparare Il vigile siamo stati un mese intero seduti in un bar di piazza Venezia: doveva studiare il pizzardone in ogni suo movimento, da come fischiava alla lentezza nel togliersi i guanti.

Ne Il vigile c’era Vittorio De Sica.

Era sempre se stesso, pacato, elegante: il suo personaggio d’attore rispecchiava la realtà; poi era molto superstizioso, giocava sempre alle corse dei cavalli, e ci dava del lei. Io lo chiamavo “maestro”; era interessante vederlo trattare con gli attori quando era il regista: lavorava battuta per battuta, recitava tutte le parti, e dava indicazioni precise. In quel periodo mi occupavo di cast.

Sceglieva gli attori.

Li consigliavo, e magari li trovavo per strada, come con Giuliano Gemma: scovato dentro la caserma dei Vigili del Fuoco; per portarlo ne Il vigile ho bluffato, ho raccontato che proveniva da una scuola di recitazione e che l’avevo conosciuto in teatro.

Torniamo a Leone.

Al cinema era uscito I sette samurai di Akira Kurosawa, e se ne parlava tanto; una sera andiamo all’ultimo spettacolo, seduti in galleria. Alla fine ci alziamo, Sergio immobile, lo chiamiamo, ma niente. Dopo poco si gira e con aria sognante ci dà la sua visione: “È un grande western”. “Ma che hai visto?”. “È un grande western!”. Proprio in quel momento è nato Per un pugno di dollari (Kurosawa poi lo ha accusato di plagio).

Ci ha lavorato?

No, in quel periodo affiancavo i registi al loro debutto, come Tessari, Patroni Griffi e Manfredi; Nino lo avevo conosciuto da ragazzo, abitavamo uno di fronte all’altro, poi il fratello si era iscritto a Medicina, così studiava con mio padre; un giorno, sotto le nostre finestre, venne a sbattere un carro armato, mio padre aprì la finestra, e i tedeschi per paura di una rappresaglia, spararono verso di noi; poco dopo ho visto Nino e il fratello uscire dal palazzo con il fucile in mano, senza paura.

Come è diventato regista?

Dopo anni un produttore mi offre un copione, lo leggo e rispondo: “Da spettatore non andrei mai a vederlo”. “Che te frega, poi ti farò girare quello che vuoi tu”. Accetto. Era Il gioco delle spie, pellicola che mi ha marchiato: da me volevano solo quel genere.

Ancora non le piace?

Per carità! Però sul set mi sono divertito; poi mi hanno offerto Hypnos, Follia di un massacro, definito da Cronenberg fonte di ispirazione.

Questo lo apprezza?

È una cagata, neanche sapevo di Cronenberg, me lo hanno rivelato in una proiezione all’Università di Siena; quel pomeriggio l’ho visto per la prima volta.

Mai in cinquant’anni?

Esatto; non sono neanche film di serie B, piuttosto di serie Z, girati con gli spezzoni di altre pellicole, poverissimi, che uscivano nei circuiti secondari; eppure ci sono fan che mi scrivono e che cercano in giro manifesti da collezionare.

Il suo Quel caldo maledetto giorno di fuoco è citato da Tarantino.

Un western da spionaggio e con pochi morti: nei miei film non ho mai utilizzato il sangue, mi ricordava la guerra; (cambia tono) quando avevo dieci anni, un giorno stavo vicino all’Idroscalo di Ostia, e un tedesco, dopo avermi picchiato, mi ha sparato di spalle mentre scappavo: quel proiettile mi ha sfiorato l’orecchio, bruciandomi, poi la pistola si è inceppata. Ho impiegato anni per superare lo choc, la notte chiudevo gli occhi e sentivo l’alito di quel militare.

Insomma, Tarantino…

Mi ha chiamato per poter proiettare un mio film a un Festival e a casa ha i manifesti originali; non so perché gli piacciono, non l’ho mai capito.

C’è una sua pellicola che ama?

Il sole dentro (è la storia di Yaguine e Fodè, due adolescenti guineani e il loro viaggio della speranza); (cambia tono) è stato un disastro economico, mi sono impegnato casa, pago 800 euro al mese di mutuo, ma ancora oggi viene proiettato in tutte le scuole d’Italia, e per me è una soddisfazione enorme.

Lei chi è?

Una persona qualunque che conosce il senso della vita.

(Ieri lo abbiamo ricontattato: non si trovano sue foto. “Ne ha qualcuna da mandarci?”. “(Ride) Credo di no, metta una sua immagine”. “Non si può”. “Provo a vedere”)

Ritmo & spazio, anche l’occhio vuole la sua parte

“Come mai siete così lontani?”. “Non siamo lontani, siamo solo molto piccoli”.

Conoscere le leggi nascoste della comunicazione aumenta l’arsenale di cui un comico può disporre per i suoi atti di sabotaggio dell’immaginario (Qc #15). Dopo il codice linguistico, diamo un’occhiata al codice visivo e alle sue metabole.

ELEMENTI DI SEMIOTICA DELL’ARTE VISIVA

IL CODICE VISIVO

La semiotica (teoria generale dei sistemi di segni, verbali e non verbali) attribuisce la ricchezza e la potenza espressiva di un sistema di comunicazione alle sue proprietà formali, innanzitutto all’articolazione di unità minime in unità più grandi. Nell’analizzare il linguaggio, Hjelmslev distingueva due piani: quello dell’espressione (il significante di Saussure) e quello del contenuto (il significato). Entrambi possiedono una forma e una sostanza. Con le categorie di Hjelmslev possiamo catalogare la materia del codice visivo in questo modo:

forma del significante: la diversità dei pigmenti (tinta, stesura, texture), dei supporti, dei materiali (legno, plastica, marmo, &c.), la presenza o meno di inclusi (per esempio, una vera carta da gioco o un vero ritaglio di giornale in un dipinto a olio), la superficie, la cornice, l’organizzazione spaziale, le dimensioni, gli spessori delle linee, &c.;

sostanza del significante: pigmenti, stesura, texture, supporti, materiali, inclusi;

forma del significato: lo schema astratto, la sezione aurea, le norme della Gestalt, le categorie dei formanti plastici, le caratteristiche dell’enunciazione, i tipi di omologazione, gli elementi del racconto visivo, il dipinto e la scultura in sé, il genere, lo stile, &c.;

sostanza del significato: i recettori retinici che scompongono i colori (coni) e il movimento (bastoncelli), le aree visive della corteccia cerebrale, il risultato dell’interpretazione (integrazione cognitiva, cfr. Qc #14).

Come ogni codice, anche quello visivo è condizionato dalla sociocultura.

PERCEZIONE E SEMIOSI

La percezione visiva, come ogni percezione, è una attività integratrice (Gestaltpsychologie, Qc #47). L’integrazione dei dati avviene non solo a livello corticale, ma in parte già a livello periferico. Per esempio, gli stimoli sensoriali retinici sono elaborati in modo selettivo: ci sono estrattori di contrasti, di direzione, di linee, di bordi, &c.; la percezione visiva viene strutturata secondo tre dimensioni: spaziale, cromatica, texturale; un segnale colorato viene strutturato secondo tre dimensioni: dominante cromatica, saturazione, luminosità; l’inibizione laterale fra le cellule retiniche e gli estrattori di motivi producono contrasti e accentuano somiglianze.

I sistemi percettivi sono particolarmente sensibili al contrasto, sia in successione (per esempio, iposensibilità a colore ripetuto + ipersensibilità a quello complementare); sia simultaneo (per esempio, attorno a una zona colorata c’è un alone di colore complementare, dovuto al meccanismo dell’inibizione laterale fra le cellule retiniche); e sono programmati per cogliere somiglianze e differenze (per esempio, l’inibizione laterale accentua i contrasti, creando così il limite, che divide il campo visivo in regioni). Certi effetti semiotici sono già predisposti nel sistema sensoriale: per esempio, la fovea oculare, che è la zona centrale della retina con la massima acutezza visiva, crea centro, attrazione verso il centro, periferia. Alcune qualità delle forme sono effetto del canale di ricezione e delle sue costrizioni: l’occhio ha costrizioni qualitative (la retina è sensibile solo a frequenze da 390 a 820 nm; e ogni cono retinico è sensibile solo a un pigmento: blu, verde o rosso); e quantitative: l’intensità sensoriale (soglia minima e massima di eccitabilità visiva) e la durata minima necessaria dello stimolo.

“Quando si parla di razzismo, c’è chi dice: ‘Non mi importa se uno è nero, bianco, viola o verde’. No, aspetta un attimo: viola o verde?! Bisogna darsi un limite. Al diavolo i viola! A meno che non stiano soffocando, nel qual caso aiutateli”. (Mitch Hedberg)

Linearità e spazialità sono semplificazioni dell’apparato recettore. In altri termini, la percezione è semiotizzante: impone una forma a una materia indistinta. Una figura si manifesta grazie al contorno, ma anche per contrasto cromatico, oppure di texture; la forma origina dal confronto mnemonico fra occorrenze successive di una figura. Questa forma, una volta acquisita, elaborata e trasmessa, è un sapere, cioè una struttura cognitiva.

Per i princìpi di elaborazione della figura e della forma, cfr. Qc #47.

La funzione percettiva si salda a quella semiotica nel segno, che è una configurazione stabile, il cui ruolo pragmatico consiste nel permettere anticipazioni, richiami o sostituzioni.

UNITA FORMALI

Le unità formali sono il prodotto di tre formemi: posizione, orientazione, dimensione. L’asse semantico che corrisponde alla posizione è la repulsione (cioè la tensione fra i limiti dello sfondo e la forma: il centro è stabile perché le forze sulla forma, simmetriche, si annullano a vicenda). All’orientazione corrisponde l’equilibrio. Alla dimensione, la dominanza.

Posizione, dimensione e orientazione agiscono anche nel rapporto fra le forme. L’orientazione, per esempio, può manifestarsi come punto di fuga, concentricità, intersezione, tangenza, ritmo.

Il ritmo è la ripetizione di almeno tre elementi comparabili: di solito formali, a volte cromatici o texturali. Ci sono tre tipi di ritmi formali: di posizione, di orientamento, di dimensione. I motivi decorativi concatenano i tre ritmi (regole della disposizione: aumenti/diminuzioni progressive, alternanze, concentricità, &c.). Il ritmo è un ordine, quindi crea isotopia.

“Sempre. No, aspetta. Mai”. (Steve Martin)

(59. Continua)

 

Bennett-Lapid: i patti incrociati degli 8 alleati

Il blocco anti Netanyahu che oggi il leader dell’opposizione, Yair Lapid, deve sottoporre al voto di fiducia della Knesset è formato da otto partiti. Va da sé che una coalizione così ampia presenti al proprio interno elementi discordanti, ma in questo caso il leader del partito centrista laico Yesh Atid (C’è futuro), è riuscito a mettere assieme per la prima volta “il diavolo con l’acqua santa” per descrivere la portata cruciale di quanto sta avvenendo in Israele. Il diavolo finora sono stati i partiti islamici, come Ra’am, il meno moderato tra quelli che rappresentano gli arabi palestinesi che godono della nazionalità israeliana. Le promesse di Lapid hanno spinto però il suo leader Mansur Abbas ad accettare di lavorare assieme a partiti nazionalisti di destra ed estrema destra come Ysrael Beytenu di Avigdor Liberman e Yamina di Naftali Bennett.

Yamina, il cui leader guiderà il governo per due anni, è formato anche da una componente religiosa che potrebbe riservare sorprese negative oggi. L’ala ultranazionalista e religiosa è infatti la protettrice dei coloni ebrei in Cisgiordania che aspirano a vederla annessa da Israele. Mansour non ha badato alle accuse di tradimento – specialmente dei palestinesi che vivono nei Territori occupati ma che non contano in termini di voti in quanto non cittadini israeliani – allo scopo di ottenere il via libera allo sblocco delle concessioni edilizie nelle città israeliane a maggioranza araba e al riconoscimento degli insediamenti beduini e drusi. Le contraddizioni di questa grosse koalition si trovano anche tra “Nuova speranza”, il partito conservatore di centrodestra recentemente costituito dall’ex ministro del Likud, Gideon Sa’ar; Blu e Bianco del ministro della Difesa, Benny Gantz, anche questo di centrodestra e i vecchi e classici partiti di centrosinistra e sinistra: Labur e Meretz. Soprattutto Meretz si batte da sempre per rendere Israele un paese laico, egualitario e per “due popoli e due stati”. Sia Meretz sia Labur sono contro l’espansione delle colonie ebraiche in Cisgiordania, Meretz vorrebbe che queste venissero chiuse anche se è irrealistico credere che ciò possa avvenire, pur essendo considerate illegali dall’Onu.

In questo frangente storico ogni partito ha tentato di trovare punti in comune con gli altri per cercare di realizzare almeno una parte del proprio programma e pur di uscire dalla crisi politica generatasi due anni fa a causa del premier uscente Netanyahu. Per questa ragione Yair Lapid, che nel 2015 aveva debuttato in politica mettendo tra gli obiettivi principali l’abolizione dei privilegi di cui si avvantaggiano i cittadini israeliani ultraortodossi, per esempio l’esenzione dal servizio militare e i sussidi per concedergli di trascorrere il tempo studiando la Torah senza dover lavorare, ha accettato di dare a Bennett addirittura la premiership nonostante il leader di Yamina continui a sostenere questa diseguaglianza tra cittadini laici e religiosi.

Anp, il patriarca Abu Mazen è in crisi. Il futuro è nel voto

È evidente lo sforzo di Israele in queste settimane di riprendere una vita politica normale, con l’elezione di Yair Lapid alla presidenza, con l’accordo di governo Lapid-Bennett che sta mettendo fine ai 12 anni dell’era di Bibi Netanyahu. Dall’altra parte del Muro, la situazione di stallo è drammatica specie dopo l’annullamento – l’ennesimo – delle elezioni. Il crollo della leadership politica della Anp è significativo e il presidente Abu Mazen in particolare sta tentando di soffocare in ogni modo un’ondata di contestazione a tutti i livelli dentro Fatah, il suo partito. Ma la rabbia cresce per le strade di Ramallah e per evitare la cella, la maggior parte delle critiche al presidente circola su gruppi WhatsApp.

Abu Mazen ha di fatto svuotato Fatah di qualsiasi significato, scopo, lotta per la libertà o la liberazione, cancellato ogni dibattito interno ed estromesso in ogni modo gli oppositori. Gli arresti in Cisgiordania si moltiplicano e anche le denunce per i pestaggi e le violenze della Security dell’Anp sui detenuti. In molti hanno cercato rifugio nei Paesi del Golfo. L’autunno del patriarca palestinese è livoroso e vendicativo.

La maggior parte di questa frustrazione è sotto la superficie, ma parte è invece pubblica. Nasser al-Qidwa, ex membro del comitato centrale di Fatah, ex rappresentante palestinese presso le Nazioni Unite ed ex ministro degli Esteri, è stato espulso da Fatah per essersi rifiutato di candidarsi in una lista guidata dal presidente Abu Mazen, ma si considera ancora di “Fatah nel sangue”. È il nipote del defunto leader palestinese Yasser Arafat, che fondò il movimento del 1959.

Gli ho chiesto se l’85enne Abu Mazen fosse ancora in grado di guidare il suo popolo dopo aver rinviato le prime elezioni palestinesi in 14 anni. “Beh, non vorrei personalizzare le cose, ma penso che la situazione attuale sia insostenibile”, dice al-Qidwa, “Abbiamo bisogno di cambiare, e cambiare nella mia mente significa cambiare persone, personalità; cambiare le politiche, così come cambiare le posizioni. La continuazione di ciò che abbiamo ora porterà solo a più problemi e più catastrofi per il popolo palestinese”. Va dritta al problema Hanan Ashrawi, professore universitario e unica donna membro del Ceolp ed ex ministro di Arafat: “Dove ha visto un movimento rivoluzionario guidato da un ultra-ottantenne?”.

Un altro segno del prosciugamento dell’autorità di Abu Mazen è stata una recente lettera che gli chiedeva di dimettersi, firmata da importanti accademici palestinesi. Da allora ha raccolto più di 3.000 firme. Era, ovviamente, più di una semplice lettera ma l’inizio di una campagna per ricostruire l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp). Non risparmia critiche a Abu Mazen che è stato l’assente più significativo durante i recenti eventi, tra cui la rivolta a Gerusalemme per gli sfratti a Sheikh Jarrah e le incursioni di coloni armati nella moschea di al-Aqsa. Una nuova generazione di palestinesi sta alimentando questo cambiamento, sono nati dopo gli accordi di Oslo (1993) e sono completamente disconnessi dall’attuale leadership. Anche Ramallah, la capitale “de facto” della Cisgiordania occupata, ha visto le manifestazioni di migliaia di palestinesi in una chiara sfida al loro presidente silenzioso e assente.

Abu Mazen non ha nulla da dire o da offrire a questi palestinesi perché non ha ottenuto nulla per loro. Tre decenni di colloqui dopo il riconoscimento palestinese di Israele non hanno ottenuto altro che condizioni peggiori delle precedenti. Adesso vorrebbero scegliersi una leadership diversa, ma Abu Mazen non sembra aver compreso bene il messaggio.

La fine di “Re Bibi”: ora trama per restare aggrappato al trono

Oggi il nuovo governo israeliano dovrebbe arrivare al giuramento ed è uno dei governi di coalizione più eterogenei e strani che si possano immaginare, con a capo un ebreo religioso con la Kippah (la papalina) in testa e all’interno un antireligioso di prima linea. E perfino un arabo. Chi è riuscito a compiere il miracolo? Benjamin Netanyahu naturalmente, l’uomo che non si arrende. Da quando Naftali Bennett ha annunciato di essere in grado di formare il nuovo governo del cambiamento, il premier non gli ha dato pace, organizzando feroci dimostrazioni contro il nuovo governo, dandosi, da raffinato prestigiatore esperto nel gioco delle tre carte, a sempre più esoterici trucchi mai usati prima, per poi finire a urlare che il “governo del cambiamento” è la più grande truffa del secolo. E se questa definizione suona familiare è perché è stata usata da un altro capo di Stato di un altro paese democratico, amico di Netanyahu, Donald Trump.

Lo “shin bet” dichiara che stanno ricomparendo le voci e le immagini che potrebbero preludere a un altro assassinio politico, ma il premier è sordo agli avvertimenti. Fermamente deciso a non finire dietro le sbarre per il processo per corruzione in atto, continua imperterrito nella lotta contro l’evidenza, usando a volte per i suoi scopi le due mine vaganti di estrema destra Smotrich e Ben Gvir. Crede sinceramente che solo con un’esperienza come la sua si possa essere primo ministro e che tutti gli altri siano dei dilettanti incapaci. Alcuni anni fa la sua terza e attuale moglie, Sara, disse in un’intervista che se suo marito fosse rimasto negli Stati Uniti avrebbe potuto guadagnare molto di più e diventare presidente… altro che primo ministro di uno staterello come Israele. Durante una visita in Portogallo due anni fa, affermò invece di saper bene cos’è l’inquisizione subendola lei stessa in Israele da parte dei nemici di suo marito. Ma il problema non è lo stato psicologico della moglie del premier, quanto la sua grandissima influenza nella scelta dei ministri e nella politica.

È rimasta famosa la sua abitudine di portare da casa gran sacchi di biancheria sporca quando era ospite del presidente a Washington perché le piace molto il profumo dell’ammorbidente della Casa Bianca. E stirano tanto bene le camicie, oltretutto. Quando nel 1999 il premier perse le elezioni contro Ehud Barak, ci mise due mesi a lasciare la residenza ufficiale in via Balfour, racconta Barak. E durante un incontro con un gruppo di coloni che si trovarono a lasciare la loro casa quando Israele se ne andò da Gaza, lui rispose che li capiva benissimo perché come loro si era trovato ad essere sfrattato (da Balfour). Adesso si rifiuta di dire quando farà il trasloco e passerà le chiavi del governo e il telefono rosso a Bennett. Cosa si inventerà ancora? In questi giorni di transizione e di pericoli in agguato, non ci rimane che consolarci con una delle tante barzellette. Un signore chiama al telefono la residenza ufficiale del primo ministro e chiede di poter parlare con Benjamin Netanyahu. “Ma insomma” risponde al telefono il capo della sicurezza, “è la decima volta che chiama ed è la decima volta che le rispondo ‘il signor Netanyahu non abita più qui’”. “Eh lo so bene”, risponde l’altro. “Ma mi piace tanto sentirlo dire…”

Netanyahu invece crede che quella sia ancora casa sua. E malgrado si lamenti che è tenuta molto male, non la lascerebbe mai. È convinto, che, nella peggiore delle ipotesi, riuscirà a far cadere il nuovo governo in pochi giorni o mesi. Che si creda un re, l’inizio di una dinastia? Un uomo davvero indispensabile? A volte il potere durato troppo a lungo, il sentirsi parte integrante del club esclusivo degli uomini più potenti del mondo, e conoscerne i più ricchi, fanno davvero dei bruttissimi scherzi. Il cinismo degli ultimi anni del “regno” di Bibi non sarà presto dimenticato. Ai nuovi leader chiediamo solo che si comportino da persone normali. Che siano persone normali.

La sanità che va cambiata

La pandemia è stato uno stress-test per il nostro sistema sanitario, che ha tenuto a denti stretti ma ha mostrato anche tante crepe. Come sarà la sanità del futuro? Forse è più logico dire come dovrebbe essere, perché la realizzazione di una nuova assistenza sanitaria passa da tanti ostacoli, non per ultimi quelli ideologici e politici e l’obiettivo non è cosi facile da raggiungere. Molti politici attribuiscono al Recovery Fund ogni soluzione dei problemi. Sarà un aiuto rilevante, ma non basterà un piano economico per riformare la sanità, sarà necessaria una rivoluzione culturale.

Da più di un anno, in nome della pandemia Covid-19, quasi ogni spesa è stata consentita. Non sarà così per molto tempo. Quale sanità potremo permetterci? Quale sarà il livello minimo di assistenza sanitaria accettabile in una popolazione che invecchia? Dovrà realizzarsi una rivoluzione copernicana da sanità ospedalo-centrica ad una territoriale. Non dimentichiamo che il Covid, che è, in realtà , una patologia ambulatoriale che solo in una percentuale minima (3-4 %) ha bisogno dell’ospedalizzazione, ci ha colpiti per l’intasamento degli ospedali, dovuto alla mancanza di assistenza domiciliare adeguata. La popolazione e noi medici dobbiamo, insieme, operare questo cambiamento. Il primo interlocutore dovrà essere sempre il medico di base, no l’ospedale. E forse sarà necessario che la categoria possa avere un rapporto di lavoro diverso con il SSN. Non tutto sarà gratuito per tutti o con ticket molto bassi. Sarà necessario che la popolazione, caratterizzata da fasce di popolazione sempre più bisognose di prestazioni sanitarie (anziani, cronici) contribuisca, in maniera consistente, alla spesa crescente, in base al proprio reddito. Ma ciò che, a mio parere, è inderogabile, è rivedere la sanità regionale ed i suoi rapporti con il governo centrale. Il Covid ci ha dato spettacolo di troppi dissensi tra Regioni e governo, fondati solamente sui colori politici. La sanità non ha colore ma un obbiettivo, la salute del cittadino. Dovremmo sempre tenerlo presente.

 

La vita post-Covid in dieci lezioni

Qualsiasi grande choc può avere effetti diversi a seconda dello stato del pianeta in quel momento e in base a come reagiscono gli esseri umani, se con terrore o negandolo oppure adattandosi.

Nel caso di questo nuovo coronavirus, l’impatto è influenzato dalla realtà della profonda interconnessione del mondo, dal fatto che quasi tutti i Paesi non erano preparati alla pandemia e che al suo arrivo molti di essi, tra cui le nazioni più ricche del pianeta, hanno mandato in lockdown l’economia e la società a livelli mai visti prima nella storia dell’umanità.

Parlo del “mondo del post-pandemia” non perché il coronavirus sia ormai un ricordo del passato, ma perché abbiamo varcato una soglia cruciale. (…) Adesso sappiamo che faccia ha una pandemia. Abbiamo visto quali sono i problemi e i costi di una reazione al morbo. (…) Ma quali sono esattamente le conseguenze di questa pandemia? Alcuni hanno ipotizzato che si dimostrerà l’evento cardine della storia moderna, un momento che ne altererà per sempre il corso. Altri credono che dopo il vaccino torneremo presto al solito trantran. Altri ancora sostengono che la pandemia non rimodellerà la storia bensì la accelererà. Quest’ultima ipotesi sembra l’esito più probabile. Pare che Lenin abbia detto: “Ci sono decenni in cui non succede niente, poi ci sono settimane che valgono decenni”. Il mondo post-pandemico sarà sotto tanti aspetti una versione accelerata del mondo che conoscevamo. Ma quando metti la tua esistenza in modalità “avanti veloce”, i fatti non procedono più in maniera naturale e le conseguenze possono essere devastanti, addirittura letali. (…)

La vita post-pandemica sarà diversa per Paesi, aziende e soprattutto individui diversi. Anche se l’economia e la politica torneranno alla normalità, gli esseri umani non lo faranno. Avranno superato una prova insolita e difficile e avranno l’impressione che si aprano loro davanti nuove opportunità conquistate a fatica. Un personaggio del romanzo del 1937 di William Maxwell Come un volo di rondini, sopravvissuto alla Spagnola, prova una sensazione di “meraviglia che gli rimaneva appiccicata”. Passato il peggio, sbuchiamo nella “gelida luce morta del domani”, come la definì la scrittrice Katherine Anne Porter nel suo semiautobiografico racconto lungo Bianco cavallo, bianco cavaliere, che parla della sopravvivenza alla medesima pandemia. L’ultima riga recita: “Ora ci sarebbe stato tempo per tutto”.

Il coronavirus sarà anche una novità ma le pestilenze non lo sono affatto. La letteratura occidentale comincia proprio con una pestilenza. Nei primi versi dell’Iliade, l’esercito acheo è falcidiato dalla peste, che si scopre essere la punizione divina contro il suo comandante, il vanesio, avaro e litigioso re Agamennone. Il primo vero testo di storia scritto in Occidente ruota attorno a una pestilenza. La guerra del Peloponneso di Tucidide narra infatti il lungo conflitto tra le superpotenze dell’epoca, Atene e Sparta. Verso l’inizio della guerra, scrive Tucidide, Atene fu flagellata da una terribile epidemia che uccise un gran numero di cittadini abili al combattimento e, ancor peggio, costò la vita all’impareggiabile capo della città-stato, Pericle. Le due parti avevano un sistema politico diversissimo: Atene era democratica, Sparta era una società guerriera governata in maniera molto più rigida. Alla fine vinse Sparta, ma oggi non è azzardato dire che se non ci fosse stata la peste avrebbe vinto Atene, e il corso della storia occidentale sarebbe stato diverso. (…) Negli ultimi decenni i focolai di sars, mers, aviaria, peste suina ed ebola si sono diffusi velocemente e ampiamente, spingendo molti esperti ad avvertire che rischiavamo entro breve di trovarci ad affrontare un’epidemia realmente globale. Anche la gente ha preso nota. Nel 1994, il bestseller di Richard Preston Area di contagio narrò nel dettaglio le origini del virus Ebola. Il film Contagion del 2011, ispirato dall’epidemia di sars nel 2002-2003 e dalla pandemia di peste suina del 2009, immaginò un virus che falciava 26 milioni di vite nel mondo. Nel 2015, Bill Gates tenne una Ted Talk per ammonire che “se qualcosa ucciderà oltre 10 milioni di persone nei prossimi decenni, sarà molto probabilmente un virus altamente contagioso”. (…)

Gli attentati dell’11 settembre hanno scosso il pianeta, concentrando l’attenzione su una specifica reazione a questo nuovo mondo che tanti in Occidente avevano fino a quel momento ignorato. Hanno portato alla ribalta la ferocia dell’Islam radicale, le tensioni in Medio Oriente e il rapporto complicato dell’Occidente con entrambi i fenomeni. Quindi hanno innescato la risposta implacabile degli Stati Uniti, che hanno gonfiato gradualmente un immenso apparato per la sicurezza interna, ma anche scatenato guerre in Afghanistan e in Iraq, più altre operazioni mirate in altre nazioni, spendendo, secondo una stima, 5400 miliardi di dollari nella “Guerra al terrore”. Questa campagna ha portato spargimenti di sangue, rivoluzioni, repressioni e profughi, con milioni di vittime e ricadute che sentiamo tuttora. Il secondo choc è stato totalmente diverso, una crisi finanziaria di un genere ben noto nella storia. Le vacche grasse hanno portato a una crescita dei prezzi degli asset che ha favorito le speculazioni, poi le bolle e per finire, inevitabilmente, il crollo. Anche se la crisi è cominciata negli Stati Uniti, s’è diffusa alla svelta in tutto il pianeta, facendo sprofondare il mondo nel peggiore ribasso dell’economia dopo la Grande depressione. (…) Le angosce economiche hanno generato angosce culturali, l’ostilità all’immigrazione e la nostalgia di un passato familiare. In tutto l’Occidente è cresciuto il populismo di destra. Il terzo choc è quello che stiamo vivendo attualmente. Forse è il più grande di tutti, e sicuramente è il più globale. Ciò che è cominciato come un problema sanitario in Cina è diventato presto una pandemia mondiale. Ma è solo l’inizio. La crisi sanitaria ha portato a un simultaneo lockdown di tutte le attività del globo, causando una Grande paralisi, la messa in pausa dell’economia stessa. (…) Le conseguenze politiche si svilupperanno nei prossimi anni in modi diversi nei diversi Paesi. Le conseguenze sociali e psicologiche – paura, isolamento, incertezza– potrebbero durare ben più a lungo. (…)

Eppure ciascuna di queste tre immani crisi globali ruota attorno a una cosa piccolina, apparentemente banale. Basti pensare agli attentati dell’11 settembre, realizzati da 19 giovanotti armati della più semplice e rozza delle armi, un coltellino ben poco diverso da quelli usati nell’Età del bronzo quattro millenni or sono. (…). Oppure pensate alle origini della crisi finanziaria globale, un oscuro prodotto finanziario, il credit default swap, una specie di polizza d’assicurazione specialmente su mutui e ipoteche, piena di tutto, divisa e suddivisa, venduta e rivenduta fino a diventare un mercato da 45.000 miliardi, tre volte l’economia Usa e tre quarti dell’economia dell’intero pianeta. (…) Nel caso di questa pandemia, oggi tutti quanti sappiamo che una minuscola particella virale presente nel sangue di un pipistrello nella provincia cinese dell’Hubei ha messo in ginocchio il mondo, un esempio in corpore vivi dell’effetto farfalla, di come il battito delle ali di una farfalla può influenzare i fenomeni meteorologici dall’altra parte del pianeta.

Piccoli cambiamenti possono avere enormi conseguenze. Nelle reti elettriche come in quelle informatiche, se si guasta una piccola componente che poi trasferisce il suo carico a un’altra, che si rompe a sua volta, può partire una reazione a catena che si allarga sempre di più, come una piccola onda che diventa un maroso. Si chiama cascading failure, guasto a cascata. Un singolo baco in un programma o un trasformatore guasto può mandare in tilt un intero sistema. (…) Perciò dobbiamo capire questo sistema, in parole povere il mondo in cui viviamo, per poter vedere il mondo che nascerà dalla pandemia.

© Giangiacomo Feltrinelli Editore © 2020 by Fareed Zakaria

 

Mail box

 

Vaccini, serve ritornare al “consenso informato”

In merito ai vaccini, io penso che sarebbe rispettoso e onesto oltre che etico rispolverare il “Consenso informato” nella pratica medica. Non generiche raccomandazioni e opinioni dell’esperto di turno a cui si è assistito sino ad ora. La Nota informativa allegata al modulo di consenso alla vaccinazione dovrebbe essere esaustiva oltre che completa. Il tema dell’autodeterminazione del titolare di consenso informato è frutto di un lungo percorso culturale e di tutela in contrapposizione ad una autoreferenzialità in sanità. Ora assistiamo alla rincorsa per trovare il colpevole di turno, direi basta essere trattati da ignoranti. Il cittadino chiede di più e di meglio.

Carla Boffelli

 

Cybersicurezza, adesso è tutta un’altra bellezza

Sto leggendo Il Conticidio (tragicamente bellissimo) e vi chiedo di inviare i miei complimenti e ringraziamenti al direttore Marco Travaglio, non solo per come scrive, ma perché leggendo il suo libro finalmente inizio a capire cosa è successo. Io infatti sono uno di quelli che non aveva capito perché Conte era stato sostituito con Draghi, che fa più o meno le stesse cose. Per la stampa (destra e sinistra, senza fare distinzioni), però, Conte era “sporco, brutto, stupido e cattivo” e Draghi “bravissimo”… bah. Ora, però, purtroppo inizio a capire i retroscena. C’è un’altra cosa che volevo segnalarvi. Il governo sta per istituire, tramite decreto, l’Agenzia per la Cybersicurezza nazionale. Ciò che mi colpisce è che quando Conte aveva proposto la costituzione di una agenzia analoga (peraltro una vecchia buona idea del governo Gentiloni), si era beccato gli attacchi rabbiosi, da bava alla bocca, di Salvini e Renzi; ora che l’ha proposta Draghi, è passata senza nessun commento, né dei due Mattei, né di altri… tutti zitti. Viviamo in uno strano Paese.

Fabrizio Manca

 

AZ &C., nella campagna c’è un po’ di superficialità

Anche io mi sono trovata in difficoltà nei confronti del vaccino AstraZeneca, che ho rifiutato ben 2 volte per paura, anche se di anni ne ho 60! In una di queste occasioni, al medico di un Hub vaccinale della mia città, Bologna, ho posto una serie di domande riguardo la questione piastrine, visto che l’informativa sui vaccini ricevuta al momento della prenotazione descriveva una relazione tra questi valori e i rischi di “coaguli di sangue in vari organi: cervello, fegato, milza, polmoni”. Al medico ho chiesto perché non si richiedesse un referto del sangue prima di procedere con la vaccinazione, dato il rischio per certe categorie, donne e giovani. Le risposte sono state evasive, o meglio non ci sono state. Deduco, anche alla luce di quanto è successo alla povera ragazza diciottenne, che ci sia parecchia superficialità nella gestione della campagna vaccinale.

Cristina

 

La Costituzione deve essere compresa da tutti

Sapendo che la Costituzione è stata scritta per il popolo, in modo chiaro e preciso perché tutti potessero capire il senso delle parole. Perché quando vogliono modificare un articolo parlano un linguaggio quasi incomprensibile? Le norme, oltre che chiare, sono autorevoli, fondamentali e incatenate una all’altra perché ne venga protetta la struttura. Può un governo provvisorio alterare la Costituzione a proprio vantaggio e la magistratura legiferare con leggi incostituzionali?

Omero

 

Calcio, a volte le società pensano solo ai soldi

Direttore, l’ho seguita nell’intervista a “Belve” e mi son ritrovato nel suo non amore per la Juve ormai da anni nonostante anche per me forse lo sia stato in passato; ma crescendo purtroppo ho capito che d’amore non si trattava, visto che non era corrisposto: infatti le grandi società professionistiche perseguono solo interessi economici a discapito di qualsiasi altra cosa, anche a discapito del bene della Juve stessa!

Orlando Murray

 

“Prima pagina” a Radio3 e i commenti sul “Fatto”

Sento abbastanza spesso la rassegna stampa mattutina della Rai su Radio 3 Prima pagina. Quasi puntualmente, quando il giornalista di turno commenta la prima pagina del “nostro” Fatto non si limita a leggerla, magari con un commento neutro, ma ci aggiunge delle sue considerazioni negative o piene di “ironia”, che il “Fatto è alleato di Conte e contro Draghi”. Secondo il mio punto di vista, l’invidia è una brutta cosa… Continuate così, grazie.

Maurizio Usai

 

È il famoso “servizio pubblico”.

M. Trav.

 

I NOSTRI ERRORI

Per un refuso del quale ci scusiamo, ieri nell’articolo sui tempi del processo d’appello a Tiziano Renzi abbiamo fatto riferimento all’articolo 159 del Codice di procedura penale. L’articolo che regola la sospensione del corso della prescrizione è effettivamente il numero 159, ma del Codice penale.

Vin. Iur.

Palamara e la loggia “scroccona”

“Gli osti sapevano che ogni qualvolta si presentava Palamara il conto doveva essere a mio carico”

Fabrizio Centofanti

Sere fa, a “Piazzapulita”, l’avvocato Piero Amara (secondo alcuni un “avvelenatore di pozzi”, per altri l’uomo dei “misteri inconfessabili”, o forse entrambe le cose) pressato dalla curiosità dei giornalisti presenti, alla domanda su cosa si esplicasse l’influenza della cosiddetta Loggia Ungheria, e in che modo gli iscritti se ne giovassero, faceva scena muta avvalorando i peggiori sospetti. L’esistenza, cioè, di una piovra dai mille tentacoli in grado di sovvertire la democrazia e le istituzioni repubblicane. Poi Amara sputò il rospo e rivelò che sì, qualche confratello grazie ai comuni ideali aveva avuto in anticipo le tracce di non so quale concorso in magistratura. Come nel “Borghese piccolo piccolo” di Mario Monicelli, quando il protagonista Giovanni Vivaldi (Alberto Sordi), pur di sistemare il figlio al Ministero, si iscrive alla massoneria e umiliandosi ottiene in anticipo dal capufficio massone il testo della prova scritta del concorso di ammissione. Le indagini avviate da varie Procure suggeriscono prudenza nel liquidare come una specie di barzelletta l’associazione Ungheria, e i fatti ci diranno se e in quale misura magistrati, alti funzionari e forze dell’ordine si relazionavano per scambiarsi favori. Anche se fermandoci a una visione minimalista delle varie P3 o P4 che periodicamente vengono alla luce – spesso concatenate dalla presenza dei medesimi personaggi e interpreti – non si può fare a meno di notare la sproporzione tra le grandi ambizioni complottarde e certe miserabili pitoccherie che emergono dalle indagini. In genere questi comportamenti piccoli piccoli hanno avuto come location preferenziali le salette riservate di evocativi hotel Champagne. E ristoranti dove gli “osti” presentavano conti piuttosto impegnativi. Cene definite di “politica giudiziaria”, e dai risultati indubbiamente concreti visto come è stato ridotto il Csm. Infatti a organizzarle era l’onnipotente Luca Palamara, mentre a pagare era sempre il povero, si fa per dire, Fabrizio Centofanti. Un imprenditore che per questa sua attività di “sponsor dell’attività politico- correntizia di Palamara” sostiene di avere “investito” 32mila euro. Del resto, il pirla a cui spillare quattrini, e cene, è una presenza costante della commedia (e tragedia) all’italiana. Che adesso ha un nuovo filone: la Loggia scroccona.

Antonio Padellaro