Pioggia, alluvioni e trombe d’aria: ogni anno la stessa storia

In Italia – Correnti da Nord-Est hanno mantenuto instabilità e temporali quotidiani. Alluvioni urbane martedì 8 giugno a Roma e nel Varesotto, innescate dalla solita combinazione tra rapido ruscellamento dell’acqua sui suoli cementificati e reti di drenaggio inadeguate: sui quartieri Nord-Ovest della capitale sono caduti fino a un’ottantina di millimetri di pioggia in un’ora e mezza, strade come fiumi e traffico nel caos, scenario che tuttavia si vede quasi ogni anno, forse anche con il contributo di un’atmosfera più calda e ricca di energia e vapore acqueo. Nelle stesse ore una tromba d’aria danneggiava il cimitero di Tarquinia e a Busto Arsizio i Vigili del Fuoco salvavano i passeggeri di un autobus intrappolato in un sottopasso allagato. Inoltre, forte grandinata venerdì a Peschiera del Garda, ma ora l’alta pressione nord-africana determina tempo stabile e molto caldo. Il Cnr-Isac conferma che la primavera 2021 è stata fresca specie al Nord, pressoché normale invece al Meridione, e con anomalia nazionale di 0,4 °C sotto media. Finito l’inverno, in alta quota l’innevamento è molto abbondante sulle Alpi orientali (oltre 6 metri di spessore a 2200 m sulle Alpi Giulie), mediocre invece su quelle occidentali: al Ghiacciaio Ciardoney, a 3000 m sul Gran Paradiso, il manto nevoso varia tra 2,2 e 3,7 metri ed equivale a 1180 mm d’acqua, il valore più modesto degli ultimi nove anni (www.nimbus.it).

Nel mondo – Con mezzo grado sotto media, la primavera 2021 in Europa è risultata la più fredda dal 2013 secondo il programma EU-Copernicus, situazione tuttavia di ricorrenza quasi annuale prima del Duemila. A scala planetaria invece, maggio ha visto prevalere il caldo (anomalia +0,26 °C) con il contributo dei precoci calori in Russia. Nell’emisfero Sud è inverno e un marcato episodio freddo ha interessato l’Australia: temperatura massima di soli 10,3 °C a Sydney il 10 giugno, la più bassa dal caso del 3 luglio 1984 (9,6 °C), e neve nell’entroterra. Come ogni anno in questa stagione, la fotosintesi delle foreste boreali torna a catturare CO2 dall’aria e ne fa calare temporaneamente le concentrazioni dopo il massimo che si raggiunge in maggio, quest’anno pari a un nuovo record di 419,1 parti per milione (ppm) all’osservatorio del Mauna Loa, Hawaii; l’incremento annuo di +1,8 ppm rispetto al maggio 2020 è stato leggermente inferiore al consueto, non tanto per effetto dei lockdown Covid, quanto per “La Niña” che grazie a piogge abbondanti favorisce le foreste tropicali e la loro cattura di carbonio. Si sono concluse a 4500 metri sul Monte Rosa le perforazioni glaciali nel quadro del progetto “Ice Memory”, che hanno permesso di estrarre ghiaccio vecchio forse di diecimila anni: obiettivo è salvare le informazioni sul clima antico contenute nei ghiacciai di varie regioni del mondo prima che la deglaciazione le comprometta per sempre, realizzando nel gelo dell’Antartide un archivio climatico fatto di campioni di ghiaccio a disposizione degli scienziati del futuro. Cambiamenti climatici e perdita di biodiversità sono causati dalle attività umane, si amplificano a vicenda e vanno affrontati insieme, proteggendo ambienti terrestri e marini ricchi di specie e che immagazzinano grandi quantità di carbonio, puntando a pratiche agricole e forestali sostenibili e limitando soluzioni di mitigazione e adattamento in conflitto con l’ambiente come coltivazioni per biocarburanti o troppe dighe fluviali e costiere. Lo dice “Biodiversity and Climate Change”, primo report congiunto dell’Ipcc e dell’Ipbes, massime autorità mondiali nei settori clima e biodiversità. Occorrono sforzi lungimiranti e senza precedenti come l’abbandono della crescita del Pil a favore di indicatori che considerino anche i valori e i limiti della natura.

 

Dio e il seme. La sua azione è libera, incontenibile, irrefrenabile. È energia

Quanti semi abbiamo buttato dopo aver mangiato una mela, un cocomero, una ciliegia? Non siamo più abituati alle immagini del mondo contadino perché la frutta la compriamo al supermercato o online. Ma forse percepiamo ancora il mistero del seme, magari dopo averne buttato uno in un po’ di terra, dopo aver mangiato un frutto.

Che cosa fa il seme sul terreno? È la domanda implicita che l’evangelista Marco si pone nel brano che stiamo leggendo (Mc 4,26-34). La risposta è: non si sa. Chi semina non sa che cosa accade a questa piccola bomba di vita quando tocca terra. Che il seminatore dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa, dice Gesù, che sta parlando del regno di Dio, cioè del potere di Dio su tutte le cose.

Il seminatore sa solo che il seme è fuori controllo: il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga. Il soggetto, nel brano che stiamo leggendo, improvvisamente cambia. Era il seme, adesso è il terreno. È come se il seme si dissolvesse e il terreno assimilasse la sua carica di vita dando frutto: lo stelo, poi la spiga, poi il chicco.

Ma non è vero. Non è così. Qui si dimentica che bisogna arare, sarchiare, innaffiare, proteggere… Ma a Gesù qui tutto questo non interessa. Importa soltanto ciò che avviene spontaneamente. Ed è perché sta parlando del rapporto tra la storia e il potere di Dio che agisce in essa. L’azione di Dio è libera, incontenibile, irrefrenabile, indisciplinata, creativa. È energia. Non si riduce mai né a una rivoluzione politica né a una ubbidienza clericale o legalista né a calcoli apocalittici.

C’è una apertura radicale al futuro in questa parabola, che lascia spazio solamente alla sorpresa e mette da parte il calcolo funzionalista, la pianificazione. Davanti a Dio e al suo rapporto con il mondo e la storia – universale o mia personale – il “pensiero calcolante” di cui parlava Heidegger frana, e così pure l’illuminismo delle spiegazioni. Ma chi ha più tempo per le sorprese oggi? E per la contemplazione? In un mondo in cui il risultato, l’efficacia, il controllo sono valori, la parabola del seme ci dice che la fecondità vera non ha nulla a che fare con tutto questo. Ogni forzatura moralistica, politica o funzionalista è manomissione della grazia. La potenza di Dio è indisponibile alla manipolazione. Marco prosegue e riferisce altre parole di Gesù che legano il regno di Dio al seme. Scrive che è come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno. Se prima l’attenzione era tutta legata al mistero nascosto del seme, adesso il focus è sulla sua piccolezza. Il seme è piccolo. E tuttavia è come l’atomo: dentro è tutta potenza. La parabola ci dice che ormai parlare in termini binari di piccolo/grande non ha senso. Ciò che conta è il potenziale esplosivo: il regno di Dio viene con potenza (Mc 9,1). La potenza di Dio è nucleare. Nell’istante della semina – scrive Marco dando un’accelerata fulminante –, il seme cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra. C’è una piccolezza che, sepolta in terra, sparisce, ma sparendo diventa capace di esplodere in vita grande e ospitale pure per gli uccelli del cielo. Il regno di Dio è un potenziale invisibile capace di cambiare il senso degli eventi, di invertire la direzione della storia, di connettere sottosuolo e cielo, quello in cui affondano i rami di un grande albero. È questo lo spettacolo maestoso che la fede sa vedere.

 

Quella destra (fascista) che è decisa a tornare

Sono frequenti i segnali di vitalità della destra che intende invadere spazi vuoti, senza avversari e senza memoria. Per affrontare la serie di eventi che dimostra, con intensità crescente, questa vitalità, bisogna sgombrare il tavolo da un equivoco: che vi sia una destra economica (quella che lotta contro la tassa patrimoniale, per esempio) e una destra politica, che cerca l’uomo forte o lo rimpiange. La destra economica conta poco, nella vita pubblica italiana, perché non vuole partecipare al dibattito o alla con-divisione di progetti. Ha le sue sedi appartate e non ha bisogno di popolo, come ai tempi si cercava di far nascere grandi movimenti conservatori. La parola si usa ancora (come dimostra la presidenza del gruppo dei “conservatori europei “appena affidata a Giorgia Meloni) ma adesso “conservatore” significa forum riservati che usano, se necessario, fanterie sovraniste, che sono gran parte delle forze in marcia verso la destra politica di cui stiamo parlando. La definizione della destra politica richiede attenzione. Scivolare subito sulla parola “fascista” fa parte del nuovo gioco. Serve a ridicolizzare ma sopratutto a far circolare la domanda: e il comunismo? Come potete essere antifascisti se non siete anche anticomunisti? La domanda contraddice la storia. I fascisti hanno costruito Auschwitz e lo hanno stipato di esseri umani destinati a morire, non perché accusati o colpevoli, ma perché dichiarati dai regimi fascisti “diversi e pericolosi”. I comunisti hanno aperto quella immensa prigione e liberando i pochi sopravvissuti. I comunisti sono stati parte dell’antifascismo. Hanno combattuto e vinto la battaglia di Stalingrado dando inizio alla fine del fascismo. Qui però si colloca un equivoco che per fortuna è stato cancellato nell’aula del Parlamento italiano nell’anno 2000, quando si è trattato di votare “sì” alla legge sul Giorno della Memoria per la Shoah. La richiesta che avrebbe dovuto impedire quel voto dedicato a sei milioni di morti ebrei di tutta Europa erano le stragi jugoslave delle Foibe, con un atroce ed esaltato invito a mettere a concorso sofferenze e morti, ma anche a congiungere le mani dei carnefici. C’era un rafforzativo a questa visione stravolta e insultante anche per le vittime delle Foibe, trasformate in protagoniste da concorso. Era di fronteggiare l’osteggiato ricordo della Shoah, dunque dell’autore fascista dell’impresa, chiamando in causa anche i gulag sovietici. Perché solo il male nazista e fascista – ti dicevano in aula – se i sovietici si erano messi in vista per una loro barbarie? La risposta, che era incancellabile allora, ed è incancellabile adesso, è che la Shoah è stato un delitto italiano, il più grande e indelebile della sua storia. Dunque gli italiani, un popolo reso responsabile dalle spaventose leggi razziali che hanno mandato a morte i loro concittadini ne devono parlare. Ogni altro argomento è un modo di cambiare discorso e di dimenticare Auschwitz. Senza le leggi italiane, proclamate da Mussolini, acclamate dai fascisti e firmate dal re, il governo nazista avrebbe avuto la forza di imporre ed eseguire, solo nel mondo, quelle leggi imponendole a tutti i Paesi d’Europa e anche alla Chiesa cattolica? Qualcuno può portare ragioni e motivi per quelle leggi e quelle esecuzioni che in Italia hanno avuto i loro scienziati, i loro giornali (tutti i giornali, sopratutto quelli in cui erano al lavoro Almirante e Interlandi) i loro generali. È difficile dire se alcuni leader della destra di cui stiamo parlando inventino in malafede o credano davvero, per mancanza di minima informazione, che gli italiani di Mussolini insieme ai tedeschi di Hitler abbiano per tre anni occupato e sottomesso un’area vastissima e ostile (la ex Jugoslavia), loro, i creatori dei lager di morte, senza violazioni anche tremende dei principi di civiltà che hanno dato ferocia e creato ferocia. Non sappiamo quanti morti colpevoli, ma certo molti morti innocenti. Il ricordo per le vittime della ferocia in un punto del mondo, come avviene ogni anno alle Foibe, è umano ed è inevitabile. Ma fingere che ci sia una somiglianza o affinità con la Shoah, specialmente da parte di chi non ha mai voluto sapere della Shoah, è una squallida finzione giocata a carico di coloro che sono stati portati a morire in quel modo da Hitler e Mussolini.

Attenzione: Il fascismo non è il contrario dell’antifascismo. È un cadavere che si ostina a girare per il mondo, dopo essere stato escluso dalla storia, in cerca di seguaci disposti a ripetere gli atti di distruzione, offesa, disprezzo e morte, perché vuole tornare con i suoi campi di sterminio e i servizi di un popolo che conosce solo “fake news”. Giustamente Madeleine Albright, già ambasciatrice americana alle Nazioni Unite, già Segretario di Stato, ha intitolato il suo ultimo libro Fascismo: un avvertimento.

 

Il perché si viaggia, i facchini da sgombero e consigli a un amico

Dalle novelle apocrife di Nino Salvaneschi. Nulla è più delizioso dei viaggi determinati da una necessità improvvisa e da uno scopo sproporzionato. Gli scrittori di romanzi di viaggio o di avventure, i Verne, i Salgari, i Fleming, conoscono questo segreto: il protagonista, che alle 11 sta prendendo tranquillamente l’aperitivo al club con una donna affascinante, è spinto da un’emergenza a imbarcarsi per Honolulu, naufraga all’altezza del tropico, è in procinto di essere cucinato in salmì dagli antropofagi, è salvato da pirati generosi, addomestica una tigre, rapisce e sposa la figlia incantevole di un re della Papuasia, e dopo l’incendio in una foresta, il salvataggio su un sampan abbandonato alla corrente, e l’intervento di un fachiro, riesce finalmente a recuperare il calice prezioso, trafugato dai nazisti. Lo ritroviamo quindi al club con la donna affascinante, cui racconta la storia. A riprova che non si viaggia per viaggiare, ma per aver viaggiato.

Dai racconti apocrifi di Leonida Repaci. Per un facchino da sgombero, esistono solo due categorie di oggetti: i pezzi grossi e gli impiccetti. Con un cassettone (“pezzo grosso”) sulle spalle, cercano ancora di utilizzare la mano libera: “Ahò, damme ‘n po’ n’impiccetto. Un quadro: quello là co’ la coccia pelata e er barbone.” “Tiè: me pare er ritratto de l’orzarolo a Ripetta.” (È il ritratto di un antenato del ‘700, gloria familiare.). E quando esce dalla casa così bardato, sul capo ha pure un paralume a colori vivaci. Qual è il segreto muscolare dei facchini da sgombero? Il loro buon umore: con 150 kg sulle spalle, trovano comunque il modo di fare dello spirito. I libri dovrebbero essere il loro terrore, per il peso formidabile. Invece: “A ‘n vedi si quanta robba hanno scritta pe’ non faccela legge?”

Dai racconti apocrifi di Ludovic Halévy. Al bistrot, il dottor Marchand e l’avvocato Dufour, amici d’infanzia, stavano avvicendando piccole tazze di caffè e bicchierini di liquore. Il notaio Legrand entrò nel locale come di fretta e sedette di fronte loro. Marchand gli puntò contro la sua barba da sacerdote assiro: “Cosa c’è?” “Amici, ho bisogno di voi. Un consiglio.” Dufour: “Ahi ahi ahi, quando chiediamo un consiglio, la nostra decisione è già presa. I presidenti di tribunale danno la parola all’avvocato quando hanno già redatta la sentenza.” Legrand proseguì: “Ho conosciuto una donna, la signorina Bonnet. È bella, giovane, elegante, sensuale. Dice di amarmi alla follia. Credete che mi renderà felice?” Dufour: “Senza dubbio”. Marchand: “Preferisco non parlare. È arrischiato dare consigli su queste cose.” Quella reticenza parve strana a Legrand: “Dimmi la verità. Qualunque sia.” Dapprima, Marchand tacque; ma, anche quando si è decisi a tacere, di solito non si attende che la prima occasione per aprire le valvole del nostro silenzio compresso. “Amico mio, non t’avrei detto niente, ma poiché insisti…” “Dimmi.” “L’hai voluto tu.” “Avanti.” “Quella ragazza, quella Bonnet, ha lasciato in ogni stazione climatica ricordi generosi del suo fascino e della sua bellezza. Cambiava amante come tu cambi cravatta. Ha fatto le cose in modo pulito perché non è stupida, e ha usato l’intelligenza per nasconderle bene. Credo non faccia per te. Ha già fatto per troppi.” Legrand sbiancò: “C-c-che prove hai?” “Che è stata la mia amante, due anni fa. Quello che le sto facendo è ignobile, ma sto aiutando un amico.” “Non ci credo. Non ci crederei neppure se la vedessi a letto con voi due assieme.” E Dufour, con la naturalezza dello sfacciato: “Ma anche noi prendiamo le nostre precauzioni.” Fra un amico che presenta prove inconfutabili, e una donna che neghi con un bel sorriso e un gran pompino, si è sempre disposti a dare del bugiardo all’amico.

 

Mario è Grande e traccia il solco: per la stampa è sempre capolavoro

A leggere le cronache della stampa italiana, sempre attenta e generosa con l’immenso Super Mario, doveva essere un vertice bilaterale che per poco non riscriveva i confini degli equilibri geopolitici nell’area Nato. L’incontro col presidente americano Joe Biden era stato anticipato e infiocchettato con grandi titoloni gonfi d’enfasi e ammirazione: “Draghi fa asse con Biden”, “Draghi apre il vertice dei Grandi”, “Draghi indica la strada”, “Draghi con l’Occidente”. Insomma Mario mostra la via dell’uscita dalla crisi al resto del pianeta; e poi Mario e Joe s’intendono alla grande, Mario e Joe sfidano Pechino, Mario e Joe giocano a canasta e bevono amaro del capo mentre decidono le sorti del mondo.

La cronaca del giorno dopo ovviamente è molto più modesta e meno affascinante: i giornali – è noto – invecchiano male e in fretta. Ma almeno stavolta i generosi titoli di 24 ore prima regalano grandi sorrisi.

Repubblica, pagina 8: “‘Avanti sulla crescita’. Draghi guida il G7 sul rilancio post Covid”. Densissimo il retroscena degli inviati di Molinari, che con voluminose pennellate di giornalismo raccontano l’investitura di Super Mario da parte del “padrone di casa” Boris Johnson: “Mario, qualche anno fa ti ascoltai in un seminario. Con una frase hai salvato l’euro. Ora dacci la tua prospettiva”. Il lettore, per magia, inizia a salivare come il cane di Pavlov: si apre un orizzonte di benessere e floridità. S’intravede la medicina di Draghi per l’Occidente ferito. Per fortuna “l’ex banchiere non si risparmia. E illustra la sua ricetta per dimenticare la crisi”. Sempre Repubblica nella stessa pagina anticipa le magnifiche sorti del vertice Draghi-Biden, con un menu ricco e ambizioso: “L’incontro bilaterale di oggi (ieri, ndr) tra il premier e il presidente americano. Nell’agenda di Italia e Usa un’alleanza su Libia e Nato”. Il Corriere della Sera è sulla stessa falsariga. Pagina 10, grande foto dei big mondiali, titolo enfatico: “Draghi apre il vertice dei Grandi: ‘Investimenti e coesione sociale’”. Lo spin è lo stesso pubblicato dai cronisti di Repubblica, Johnson, uno dei Grandi, ferma il premier italiano e gli chiede “la prospettiva”. E pure qui c’è un ulteriore succoso retroscena su Boris che scherza affettuosamente con Mario, paragonando le scogliere della Cornovaglia alla Costiera amalfitana (insomma…).

È un trionfo a giornali unificati. La Stampa: “Draghi indica la strada al G7, più investimenti meno sussidi”. Sempre grande è la sintonia con Biden: “Futuro della Nato, Libia e dazi nell’incontro tra Joe e Mario”. Menu ricco, perché l’Italia sogna la segreteria dell’alleanza atlantica e nello staff draghiano “nessuno se la sente di escludere che tra le tante cose che Biden e Draghi hanno da dirsi ci sarà anche la futura guida della Nato”. Da sinistra a destra, l’encomio è collettivo. Anche Il Giornale si spella le mani sulla sintonia tra Mario e Joe: “Draghi fa asse con Biden su Libia e stop ai dazi. E punta a guidare la Nato”. “Il premier, non è certo una novita, ha infatti un rapporto molto stretto con il nuovo inquilino della Casa Bianca”. Forse non quanto Matteo Renzi, ma quasi.

Poi c’è il filone del terrore cinese: mentre Mario faceva il filo a Biden, gli stolti Cinque Stelle rovinavano tutto con l’occhiolino alla Cina. Il Foglio e Libero hanno praticamente lo stesso titolo. Il quotidiano diretto da Claudio Cerasa, più ermetico: “Draghi con Biden, M5s con Xi”. Libero lo traduce in italiano e ci mette entusiasmo: “Draghi con l’Occidente, Grillo dai cinesi”. Super Mario difende i valori occidentali, mentre i grillini giocano col Dragone cattivo. È irresponsabilità, mica diplomazia: “Può il capo del primo partito della maggioranza (Giuseppe Conte, ndr) andare in pellegrinaggio politico dall’ambasciatore cinese mentre il presidente del consiglio s’incontra con Joe Biden?”. Conte alla fine non è andato, forse proprio per timore di Sallusti.

Acciaio, l’Ue ora asseconda i produttori

“Affrontare il tema della carenza di materia prima come Europa è la risposta migliore che si può realizzare”. Le parole pronunciate ieri dal ministro del Lavoro Andrea Orlando non potevano arrivare in un momento peggiore. Poche ore prima di quelle dichiarazioni era circolata la notifica inviata dalla Commissione Ue alla Wto sull’estensione per altri tre anni delle quote alle importazioni di acciaio da Paesi extra Ue in scadenza a fine mese. A leggere con attenzione il documento, emerge il totale scollamento di Bruxelles dalla realtà del mondo delle imprese attanagliato oramai da mesi dall’impennata dei prezzi mai vista e dalla penuria di materiale che rischia di minare i piani produttivi previsti e di aggravarsi se la proposta della Commissione venisse approvata.

La tesi che ha portato al provvedimento ruota attorno al calo della marginalità registrata dai produttori siderurgici passata dal 5,7% del 2018 al -3,7% del 2020. Peccato però che l’analisi della Commissione si fermi alla prima metà del 2020 e non consideri il cambiamento strutturale che ha caratterizzato il mercato investito dal connubio dei maxi-stimoli fiscali implementati da Usa e Cina e dal calo dell’offerta derivante dalle politiche di lockdown che ha spinto il prezzo del laminato a caldo in soli 14 mesi da 350 a 1.200 euro la tonnellata. “Le nostre industrie associate sono allo stremo tra prezzi triplicati e carenza di materiale – spiega al Fatto Marco Mariotti, imprenditore siderurgico e membro della giunta di presidenza di Confapi – non si vede alcun cambiamento e questo metterà la manifattura di trasformazione in grave crisi”. Ma sbaglia chi pensa che il problema della carenza della materia prima sia appannaggio solo delle piccole e medie imprese.

Sulla vicenda è intervenuto anche l’ad di Fincantieri, Giuseppe Bono. “La sospensione dei dazi sull’importazione in un momento in cui c’è penuria di acciaio è importante”, ha dichiarato recentemente il top manager. Bruxelles però sembra non volersi curare delle problematiche che stanno mettendo in difficoltà migliaia di imprese: anziché lavorare a una mediazione, preferisce assecondare le richieste di una minoranza di player di mercato che riceve già legittima protezione contro azioni di dumping. Sulla questione pesa anche il silenzio del governo italiano. Al di là di sparute dichiarazioni di circostanza, non emerge alcun serio tentativo di comprendere il problema e far valere in sede europea una posizione che tuteli anche il comparto manifatturiero. Probabile che palazzo Chigi consideri il problema della carenza delle materie prime una conseguenza di dinamiche globali su cui la politica non può far molto. Peccato che lo scenario mondiale in questi ultimi mesi sia mutato drasticamente e che siano sempre più numerosi i Paesi che hanno adottato misure autarchiche nella gestione della materia prima incentrate sull’aumento dell’offerta all’interno dei rispettivi mercati nazionali. In primis la Cina che a fine mese annuncerà un dazio all’export di acciaio. Tanto che già oggi il prezzo dell’acciaio in Europa è più alto di 400 euro la tonnellata rispetto a quello prodotto in Cina. Non tutto è perduto: malgrado la Commissione Ue abbia già inviato alla Wto la notifica di estensione delle quote all’import, la misura deve essere votata dalla rappresentanza dei Paesi il 17 giugno.

Come voterà l’Italia?

Altri 1.500 nuovi esodati: un’epopea lunga 10 anni

Non sono bastati quasi dieci anni e ben nove salvaguardie per chiudere definitivamente il pasticcio degli esodati, combinato nel 2012 dalla riforma delle pensioni targata Elsa Fornero e Mario Monti. Anche l’ultimo intervento, quello contenuto nella legge di bilancio 2021, ha lasciato fuori una parte, seppur limitata, di quelli che furono colpiti dalla manovra del governo tecnico. Il cosiddetto “decreto Salva Italia” riservò un brusco risveglio a decine e decine di migliaia di persone senza lavoro ma sicure, fino a quel momento, di essere vicine alla pensione. Il paradosso è che anche ora che la platea si è ristretta di molto – gli interessati sono ormai poche migliaia secondo i sindacati – non si riesce a scrivere la parola fine sulla vicenda: probabilmente servirà la decima salvaguardia, ammesso che il governo Draghi voglia occuparsene.

I numeri sull’ultima misura di protezione degli esodati li ha diffusi ieri la Cgil: su 2.821 domande, solo 1.050 sono state accettate, altre 517 sono in lavorazione e 1.264 hanno ottenuto risposta negativa. A fine 2020, il barcollante governo Conte 2 aveva approvato una nuova zattera di salvataggio che potenzialmente poteva ospitare 2.400 naufraghi pensionistici. Ancora troppo pochi secondo il sindacato di Maurizio Landini, e il numero di domande superiore alla platea autorizzata fa ora pensare che fosse necessaria una misura un po’ più generosa. Problematico anche il dato del tasso di accoglimento, appena il 45%, per cui Roberto Ghiselli (Cgil) ha parlato di “vincoli troppo rigidi”.

Ma chi è “l’esodato”? Si tratta di persone, soprattutto donne che operavano nel settore privato, che a fine 2011 avevano da poco perso il posto di lavoro ma contavano di poter andare in pensione nel giro di poco tempo, salvo poi subire la mazzata della riforma Fornero che ha aumentato a dismisura l’età pensionabile: in sostanza lavoratori e lavoratrici che si sono trovati improvvisamente senza reddito e senza la prospettiva di andare presto in pensione.

Buona parte degli esodati, per aggiungere beffa al danno, aveva firmato accordi di uscita dalle aziende proprio perché vicini alla pensione, ma in questo esercito non mancano i licenziati o quelli con contratto a tempo determinato scaduto. Insomma, disoccupati in età avanzata, ormai fuori dal mercato ma senza protezione.

L’allora ministra Elsa Fornero, pur arrivata al governo con i gradi di massima esperta in materia previdenziale, ignorò il problema sia in fase di scrittura delle norme, sia durante il passaggio parlamentare, quando pure la commissione sollevò la questione. La riforma passò dentro al decreto coi voti di un’ampia maggioranza della quale facevano parte il Pd di Bersani e il Pdl di Berlusconi.

La questione deflagrò nel giro di poco tempo, finendo al centro di una guerra di numeri talvolta agitati strumentalmente dagli stessi partiti che avevano detto sì in Parlamento. E così quasi dieci anni fa è partita la lunga stagione, non ancora finita, delle cosiddette “salvaguardie”. Ognuna di queste ha messo una toppa, grande o piccola, ma creando volta per volta una nuova categoria: gli esodati della salvaguardia. La prima è toccata allo stesso governo Monti e ne ha protetti circa 65 mila. Pochi mesi dopo, la seconda ne ha imbarcati altri 17.500 e quella contenuta a fine anno – nella legge di stabilità 2013 – ne ha aggiunti poco più di 7 mila. Nella primavera del 2013 il Professore lasciò Palazzo Chigi dopo l’infelice esperimento elettorale di Scelta Civica. Al suo posto arrivò l’allora vice e oggi segretario del Pd Enrico Letta: il suo governo in un anno ha approvato due ulteriori “paracadute” per un totale di circa 10 mila esodati. Platea più ricca, invece, quella delle due salvaguardie di Matteo Renzi, che hanno risolto il problema ad altre 32 mila persone. E ancora: nel 2017 Paolo Gentiloni, dopo il tracollo renziano al referendum costituzionale, ha approvato l’ottavo salvataggio per 14 mila esodati.

All’ingrosso 150 mila persone pescate un po’ a singhiozzo: una telenovela alla quale nessun governo si è potuto sottrarre, ma che nessuno può dire di aver risolto definitivamente. Quest’ultima norma – introdotta a fine 2020 – era rivolta a chi, con le vecchie regole, avrebbe maturato la pensione entro il 6 gennaio 2022, ma finirà per farne entrare poco più di un migliaio, ecco perché la Cgil vuole che si utilizzino le risorse avanzate per aprire una nuova finestra.

Conte, evento per lo Statuto entro 10 giorni: poi una piazza

L’evento per presentare il nuovo Statuto e il nuovo assetto, con segreteria e dipartimenti, si terrà alla fine della prossima settimana, al massimo tra dieci giorni. Una riunione online ma anche con ospiti in carne e ossa, forse con base negli studi romani di Cinecittà, per presentare a tutti il nuovo Movimento di Giuseppe Conte. Poi arriveranno due votazioni sulla nuova piattaforma, e subito dopo il Conte eletto capo riunirà i 5Stelle: verosimilmente in una piazza o comunque in un luogo pubblico, a Roma. È questo il programma a stretto giro dell’ex premier. Ormai pronto a girare l’Italia per presentarsi come la nuova guida del M5S. Iniziando da Napoli, dove martedì andrà a sostenere il candidato dei giallorosa al Comune, l’ex ministro dell’Università Gaetano Manfredi: tecnico di area dem ma anche contiano di ferro, insomma la sintesi perfetta per l’avvocato. “Da Napoli, e dagli altri Comuni al voto, il Movimento ripartirà con forza per dare risposte ai cittadini” giura Conte, che però l’unico candidato comune lo ritroverà solo nel capoluogo partenopeo. Altrove non è cosa. Compresa Torino, dove ieri e oggi sono previste le primarie del Pd. La viceministra grillina al Mef, Laura Castelli, ieri ha provato a smuovere le acque: “Il candidato che rappresenta soprattutto il percorso che stiamo facendo con Conte è Enzo Lavolta. Con lui avremmo sicuramente più cose da dirci e da costruire, spero anche al primo turno”. Ma Lavolta, favorevole all’accordo con il M5S, è dato in svantaggio.

Se dovesse prevalere Stefano Lorusso l’intesa con il Movimento sarebbe impossibile, probabilmente anche al ballottaggio. “Torino è un’occasione mancata” ha ripetuto in queste ore nei colloqui privati Conte, che ha già annunciato un candidato autonomo del M5S. Ora però l’ex premier è concentrato soprattutto sui preparativi per il lancio del nuovo Movimento. Di cui sarà il vertice, ovviamente, ma forse non con la dizione ufficiale di capo, sussurrano. Fonti a lui vicine invece negano contrasti con Beppe Grillo sui due mandati (“Tutto falso”). Perché il tema resta una mina, ma Conte non vuole occuparsene ora.

 

“Al Nord abbiamo problemi: apriamo la Casa dei civici”

Vuole un nuovo Movimento con una struttura forte, e in fretta, “perché abbiamo sbagliato a non darcela prima” ammette il ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico D’Incà. Ma bisogna sbrigarsi soprattutto per un altro motivo, riconosce: “La riorganizzazione deve essere uno strumento, presto dovremo tornare a parlare solo dei nostri temi in agenda”.

Intanto però tutti voi 5Stelle discutete della segreteria prossima ventura. Lei come la vorrebbe?

La preoccupazione non deve essere quella di rappresentare tutte le anime, perché ciò potrebbe fare pensare a un Movimento diviso in correnti. Piuttosto, vanno dati ruoli in base alle competenze e ai rapporti con i territori. Penso a una struttura funzionale, anche in base ai vari livelli di governo a cui partecipa il M5S. E con un forte raccordo tra il livello nazionale e i territori.

Dove troverete i soldi? Non è il caso di adoperare il 2 per mille, indicazione emersa anche dai vostri Stati generali?

È una discussione che si può certamente fare, assieme agli iscritti. Dopodiché io credo che spetti innanzitutto a noi eletti contribuire, magari anticipando anche i fondi per dare delle basi solide alla rifondazione. Io ho già anticipato i versamenti al Movimento previsti da qui a dicembre.

Diversi eletti invece non pagano, come confermato al Fatto da Vito Crimi. “Dovete prima dirci cosa farete sui due mandati” dicono.

Tutto questo rispecchia le difficoltà vissute negli ultimi mesi. Ma ora tutti devono credere nel cambiamento in atto nel Movimento.

Anche al Nord? Lei è veneto, e dalle sue parti, ma anche nelle altre regioni, il M5S sprofonda nei sondaggi.

Dobbiamo ammetterlo, abbiamo delle difficoltà. E dire che il primo consigliere comunale del M5S è stato eletto a Treviso e il primo sindaco lo abbiamo avuto a Sarego, vicino Vicenza.

Alle scorse Regionali avete eletto solo una consigliera.

Come Movimento stiamo lavorando per essere il punto di riferimento delle tante associazioni civiche sparse sul territorio, con cui abbiamo tanto in comune. Vogliamo essere la casa del civismo. E assieme al Pd stiamo lavorando su questa linea anche in vista delle Comunali: per esempio a Chioggia (Venezia) dove sosterremo un sindaco civico, o in altri centri come Montebelluna e Conegliano.

Quando propose l’alleanza con il Pd per le Regionali la base si ribellò. Ora cosa le dicono?

Tanti stanno iniziando a capire che bisogna lavorare con il Pd e con le associazioni civiche, per allargare.

Però al Nord restate quelli del reddito di cittadinanza, gli assistenzialisti…

Con la pandemia, in tanti hanno compreso l’utilità di uno strumento che ha aiutato oltre 3 milioni di persone. Dopodiché noi 5Stelle parliamo con le imprese e le associazioni di categoria. Siamo quelli degli aiuti alle imprese e del rinvio delle cartelle esattoriali. E grazie al M5S i cittadini danneggiati dal crac delle banche popolari venete finora hanno riavuto indennizzi per 353 milioni. Tutto il Nord deve essere centrale attraverso la transizione ecologica grazie a sviluppo e sostenibilità, i nostri temi.

Lei parla di M5S nel centrosinistra. Ma in diversi dal Pd fanno muro all’intesa.

Mi pare un normale dibattito all’interno di un partito. È successo anche al nostro interno. Ma la strada ormai è quella, verso il centrosinistra.

Non ha trovato decisamente inopportuno organizzare un incontro di Conte e Beppe Grillo con l’ambasciatore cinese, proprio mentre il presidente americano Biden al G7 esortava Mario Draghi e gli altri alleati “a fare fronte contro la Cina?”.

Conte non è andato e ha già chiarito ieri. Il M5S con Conte avrà un respiro internazionale, costruirà relazioni e si confronterà con tutti, in un quadro europeo e atlantico che non è in dubbio.

Pd: la federazione-fuffa per rompere col M5S

Si scrive “Federazione di centrosinistra”, si legge “No all’alleanza privilegiata con i Cinque Stelle”. Il dibattito dentro il nuovo Pd di Enrico Letta (o piuttosto presunto tale) in questi ultimi giorni si è concentrato sulla formula, vagamente creata a tavolino. Tra le difficoltà della nuova segreteria e la tattica scelta dalle correnti (ovvero, logorare, non affrontare), non si attacca frontalmente la linea del Nazareno, ma si lavora a indebolirla. Anche perché, poi, la linea non è diritta: l’alleanza privilegiata con il Movimento guidato da Giuseppe Conte finora si è scontrata con le difficoltà sia del M5S che del suo appena ufficializzato leader. E le Amministrative raccontano di accordi che si fanno e si disfano in 24 ore. Ma in tutto questo ieri il Pd in un sondaggio Ipsos risulta il primo partito. Una posizione che da un certo punto di vista consentirebbe di trattare tutti i compagni di strada da una posizione di forza.

Dunque, la “federazione”. Che significa unire le forze da Renzi e Calenda a Bersani. A lanciarla sono stati il sindaco di Pesaro, Matteo Ricci, ma soprattutto il senatore Luigi Zanda. Uno di quelli che quando parla fa raddrizzare le antenne: fu il primo a esprimersi chiaramente contro la linea “Conte o voto” allora strenuamente raccontata dalla segreteria dem targata Nicola Zingaretti. Quindi, sa tanto di slavina. La ridotta, poi, sta tutta in Senato. Andrea Marcucci a Letta gliel’ha giurata e non perde occasione per dirlo. Ma non è il solo. A Palazzo Madama è andata in scena giovedì una riunione del gruppo in cui a scagliarsi contro il segretario sono stati Gianni Pittella, Salvatore Margiotta, Stefano Collina. “Il nostro destino è il matrimonio con Conte o la maggioranza Ursula?”, ha chiesto Pittella, con un tono molto polemico.

Dopodiché è tutta Base Riformista, la corrente di Luca Lotti e Lorenzo Guerini, che inizia a contestare la strategia di Letta. Mercoledì sera c’è stata una riunione dei parlamentari nella quale è stato presentato un documento per ribadire la “vocazione maggioritaria” dei dem, intesa come approccio verso il centro e verso i Cinque stelle: il “contributo” ha l’obiettivo di riequilibrare, e al tempo stesso di proporsi come alternativa alla linea gauchiste di Enrico Letta. “Noi freniamo? No, non c’è alcuna contrarietà ma prudenza. I 5Stelle sono in evoluzione, vediamo dove arrivano”, per sintetizzarla con il coordinatore, Alessandro Alfieri. Nella riunione ha fatto capolino Graziano Delrio insieme a Debora Serracchiani (in teoria franceschiniana). Lui nega sia di essere entrato dentro Br, sia di essere contro l’alleanza con M5S. Di certo, però, i rapporti con Letta non sono dei migliori, dopo la sostituzione alla guida del gruppo dem alla Camera.

Va detto che quattro mesi dopo la fine del governo giallorosa, coloro che fecero da sponda nel Pd a Renzi per defenestrare Conte sono gli stessi che oggi iniziano a venire allo scoperto contro Letta. Ma non è questo l’unico tema.

A tre mesi dal ritorno da Parigi dell’ex premier, si è assistito a un proliferare di correnti.

L’ultima in ordine di tempo è “Prossima”, e praticamente riunisce gli zingarettiani senza Zingaretti: Nicola Oddati, ex responsabile Enti Locali, l’ex responsabile comunicazione Marco Furfaro, l’ex responsabile lavoro Marco Miccoli, Stefano Vaccari (ancora responsabile dell’organizzazione). Poi ci sono le “Agorà” di Goffredo Bettini e “Rigenerazione democratica” di Paola De Micheli. Anche qui, il gioco delle correnti si incrocia con quello delle alleanze. Gli zingarettiani, per dire, sono per un’alleanza con i Cinque Stelle, ma senza sudditanza. Lo stesso Bettini – il fautore dell’amalgama giallorosa – si va raffreddando, come si evince dall’uscita sulla giustizia della settimana scorsa, in cui più che a Conte si riferiva a Matteo Salvini. Perché il rocchetto si è ampiamente complicato.

Letta e Francesco Boccia hanno cercato in tutti i modi di chiudere accordi su candidati di coalizione con il Movimento, ma si sono trovati di fronte spesso e volentieri le resistenze dei grillini e le difficoltà dello stesso Conte a interpretare la sua leadership. O almeno così se la raccontano al Nazareno. A Roma, dopo aver cercato di chiudere su Nicola Zingaretti, hanno dovuto virare su Roberto Gualtieri, visto che il primo non aveva ottenuto la garanzia che i Cinque Stelle non avrebbero fatto cadere la sua giunta alla Regione Lazio. A Napoli, dopo aver puntato su Roberto Fico, hanno ripiegato su Gaetano Manfredi. A Torino, anche se in silenzio, sperano nella vittoria del civico Enzo Lavolta, con conseguente accordo con il M5S. Speranze, entrambe, piuttosto peregrine.

E poi c’è il caso Calabria: con il candidato dem, Nicola Irto che si è ritirato una volta, è tornato in corsa, è stato poi di nuovo indotto a ritirarsi in nome dell’accordo con il Movimento. Un pasticcio tutto ancora da risolvere e che la dice lunga sulle difficoltà dell’alleanza. Anche qui, l’alfiere dell’accordo con il Movimento è stato Peppe Provenzano. A proposito di sfumature.

Nel frattempo, Letta conduce la sua battaglia piuttosto complessa. Ha scelto i temi di sinistra, come identitari, dal ddl Zan allo Ius soli. Criticatissimo. Nella partita dei licenziamenti, si è visto scavalcare dal ministro del Lavoro, Andrea Orlando, che poi però ha dovuto cambiare posizione e dare spiegazioni più volte. Per inciso, mentre Letta lanciava la dote sui 18enni da finanziare con la tassa di successione, Orlando era al tavolo per la conferenza stampa con Mario Draghi e non ne sapeva niente. In generale, i rapporti del segretario del Pd con il premier sono più difficili di quanto ci si potesse aspettare. Ma questa è un’altra storia. Nel capitolo “relazioni difficili con M5s” va aggiunta la storia della candidatura alle suppletive. Per Letta è pronto il seggio di Siena, ma lui tentenna. Tra i motivi, il fatto che Conte non vuole candidarsi a sua volta a Pietralata, a Roma. E questo, non aiuta l’immagine. In mezzo a questo mare di incertezze, però, ieri al Nazareno si consolavano con il sondaggio Ipsos, che dava il Pd al 20,8%.